lunedì 28 novembre 2022

IL CORAGGIO, DIFFICILE CRINALE FRA VILTA' E TEMERARIETA'

 


LA ROCCIOSITA' DEL CORAGGIO E LE SUE CARICATURE


Tra le qualità-cardine di una vita etica riuscita (almeno nei limiti di noi mortali) la tradizione occidentale elenca la “fortezza”. Anche questo termine risuona obsoleto, se non addirittura equivoco: poiché nel linguaggio contemporaneo designa più una costruzione militare che una dimensione psichica, andrebbe meglio tradotto con 'forza', 'energia', 'fermezza di carattere', 'coraggio'. Di che si tratta, in buona sostanza?

La saggezza-in-pratica funziona quando ci indica la direzione migliore negli aggrovigliati sentieri della storia, soprattutto nel discernere l'equo dall'iniquo. Ma intravedere un percorso non è ancora percorrerlo: bisogna intraprenderlo effettivamente, nonostante pigrizie e viltà, paure e stanchezze. 'Forte', in senso proprio, è la persona che – allenandosi con costanza – acquisisce, e coltiva, la capacità di vincere tali resistenze. 

Poiché gli ostacoli non sono solo prodotti dalla fantasia, ma spesso s'impongono con una tenace consistenza oggettiva, il coraggioso autentico ne deve tener conto realisticamente: evitando – per non cedere alla vigliaccheria – di precipitare nella temerarietà. Nel linguaggio abituale usiamo affermare che qualcuno si è ferito o è morto per “eccesso” di coraggio, ma spesso è un modo inesatto di esprimersi. Il coraggio, come ogni virtù morale, non è mai 'troppo': una volta lanciato come un missile dalla rampa di partenza, può elevarsi sino al cielo staccandosi nettamente dai vizi opposti di chi si sottostima e di chi si sopravvaluta. Si può essere alpinisti più o meno energici, più o meno rapidi, più o meno vicini alla meta, ma se si è nel sentiero che porta in cima si è comunque alpinisti (più o meno valorosi): nulla da spartire con chi resta a valle per astenia né con chi scivola nel precipizio per aver presunto di possedere competenze e attrezzature indispensabili all'impresa. Dovremmo correggere i modi abituali di esprimersi perché finiscono con il corrompere prima le idee e infine le relazioni sociali: imparare a dire che difetta di coraggio chi non affronta prove per le quali sarebbe attrezzato, ma altrettanto chi affronta prove per le quali sa di non essere attrezzato. Che manca di coraggio tanto il disertore della vita quanto il fanfarone che spaccia come prove di forza i fallimenti subiti per spacconaggine. 

Un difficile equilibrio, dunque? Senz'altro. Ma non è impossibile avvicinarvisi. Basta osservare ciò che accade dietro le quinte e non solo nei prosceni della cronaca. Infatti nell'immaginario collettivo il coraggio sarebbe la nota distintiva di chi compie imprese straordinarie, al di sopra delle prestazioni medie dell'umanità. Non va negato agli eroi il riconoscimento del coraggio. Ma ad essi non ne va neppure riservato il monopolio esclusivo. C'è un coraggio dell'ordinarietà talora minore, talaltra maggiore, rispetto a chi realizza azioni eccezionali. Ci vuole più potenza, più energia, più ardimento per gettarsi dentro una casa in fiamme per trarne fuori un disabile grave o piuttosto per vivere al suo fianco, decennio dopo decennio, senza cedere alla tentazione dell'omicidio-suicidio? Domanda vana come tutte le domande alle quali non è possibile rispondere. Serve solo come artificio retorico per decostruire il senso comune che, identificando il coraggio con l'eroismo plateale, finisce con deresponsabilizzarci rispetto alle tante occasioni di praticare il coraggio feriale, quasi sempre celato alle luci delle telecamere, sul quale si regge la storia dell'umanità. 

Senza considerare, poi, che difficilmente si diventa protagonisti di gesti clamorosamente coraggiosi se, sino a quel momento, si è vissuti nel grigiore della viltà. Quando ero giovane lessi di un motociclista – rimasto anonimo, almeno per quanto ne abbia mai saputo – che, durante un incendio in una galleria alpina, fece più volte il tragitto avanti e indietro per salvare automobilisti intrappolati. Più volte: sino a quando gli vennero meno le ultime forze e restò egli stesso prigioniero dei fumi e del fuoco. Quando penso a un modello di coraggio, da allora è quel motociclista che mi torna alla mente. E mi viene assai difficile supporre che, sino a quella circostanza imprevista, egli fosse vissuto con un atteggiamento di fondo ego-centrato e cautamente opportunista. 


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venerdì 25 novembre 2022

I TRAVAGLI DELLA RICERCA DELL'EQUITA'

 


L'ARDUO DISCERNIMENTO DEL GIUSTO E DELL'INGIUSTO

Alla saggezza-nel-deliberare (come si potrebbe ribattezzare la prudentia della tradizione classica occidentale) spetta distinguere il vero dal falso, l'apparente dal reale, l'opportuno dall'inopportuno. Ma, soprattutto, il giusto dall'ingiusto. Si tratta di un compito tanto necessario quanto arduo. Sin da Platone – i cui dialoghi 'socratici' non per caso sono stati definiti 'aporetici' – una questione più è grave, meno è agevole da dirimere. Solo gli animi grezzi avanzano di certezza in certezza, senza esitare. Le menti più fini procedono, con Abelardo, fra un sic e un non  o, con un Tommaso d'Aquino, fra un videtur quod e un sed contra

Alcune delle più clamorose tragedie mondiali degli ultimi anni (delle più clamorose, non necessariamente delle più terribili) hanno provocato la drastica contrapposizione di schieramenti intellettuali sul modo di reagire alla pandemia del Covid-19 o di posizionarsi rispetto al conflitto fra Russia e Ucraina. In alcuni casi il dogmatismo è stato frutto d'ignoranza dei dati o di interessi ideologico-politici inconfessati; ma in altri ha agito, più o meno consapevolmente, l'angoscia davanti all'incertezza oggettiva.

Quando sono in gioco questioni strettamente individuali (ma esistono davvero questioni strettamente individuali?) la precipitazione nell'assumere una determinata prospettiva, senza darsi margini di revisione, è un errore che paga chi lo perpetra. Ma quando sono in gioco questioni sociali – intendo che riguardano due soggetti, o una famiglia, o una città, o una nazione, o l'umanità – si entra nell'ambito della “giustizia”: errori di valutazione 'prudenziale' comportano la ferita, o addirittura la distruzione, di inalienabili diritti altrui.

Chi non si acceca davanti alla complessità delle problematiche, e ha in misura variabile la responsabilità delle vite altrui oltre che della propria, non può decidere con sicumera, ma neppure può ignorare che in molti bivi della storia il non decidere è una forma di decisione (e raramente la migliore). Perciò deve, da una parte, prospettarsi tutte le ipotesi praticabili – senza escluderne a priori nessuna -, dall'altra adottare la più probabilmente giusta o la meno probabilmente ingiusta. 

Nei regimi dittatoriali o più o meno autoritari i governanti sono soggetti a minori travagli morali: non devono cercare di individuare, di mettere a fuoco, di scoprire ciò che è giusto perché o - in sistemi teocratici - hanno già dettata dall'Alto la Norma assoluta oppure - in sistemi immanentistici - sono precisamente essi stessi, con le loro decisioni inappellabili, a instaurare la giustizia e a differenziarla dall'ingiustizia. 

Neanche in un'ottica di democrazia anarchica c'è spazio per dilemmi morali: si presuppone che ogni individuo decida da sé ciò che è giusto ma, non essendo egoista e anzi essendo convintamente sollecito dell'uguale diritto altrui, la sua decisione non potrà rivelarsi ingiusta da nessun punto di vista. 

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martedì 22 novembre 2022

L'APPARENTE FOLLIA DELL' AUTENTICA 'PRUDENZA'

 


L'APPARENTE FOLLIA DELLA “PRUDENZA” AUTENTICA

Sulla pallida ambiguità dell'espressione “virtù cardinali” ci siamo brevemente soffermati in un intervento precedente (https://www.zerozeronews.it/virtu-e-vizi-concetti-ormai-anacronistici/) . Ma quali sarebbero tali “virtù” ritenute “cardini” di una vita etica? 

L'elenco tradizionale le dispone in ordine di rilevanza decrescente: innanzitutto la “prudenza”, poi – un gradino appena sotto – la “giustizia”; ancora più sotto la “fortezza” e, infine, la “temperanza”. Questa graduatoria rispecchia la scala delle facoltà umane corrispondenti: la prudenza e la giustizia, infatti, sono qualità della nostra intelligenza, la fortezza della nostra volontà, la temperanza della nostra dimensione pulsionale. 

Già da questi cenni si intuisce che la “prudenza” dell'etica classica occidentale ha ben poco a che spartire con la “prudenza” esaltata dal 'buon senso' borghese moderno e contemporaneo. Non caratterizza per nulla, infatti, i soggetti che osano, ma non troppo; che si slanciano in avanti, ma con misura; che intraprendono una corsa, ma decisi a non premere sino in fondo l'acceleratore. Essa è piuttosto sinonimo di “saggezza”. E il saggio è uno che procede lentamente se c'è da esser cauti, ma che corre a precipizio se c'è da non perdere un minuto di tempo. E' un esperto della misura e, proprio per questo, sa che in alcune circostanze l'unica misura è giocarsi senza misura. Sa che, talora, la follia apparente è la scelta sostanzialmente più sensata. 

Ciò va declinato anche al negativo: nel linguaggio ordinario diciamo – opportunamente – che superare i 120 kilometri orari in autostrada è segno di imprudenza, ma dovremmo aggiungere che lo è, nelle medesime situazioni, procedere a meno di 80 chilometri orari. Solo se confondiamo la prudenza “con la cautela o con la moderazione” possiamo fraintenderla come una pseudo-virtù “modesta e quasi senile, carica di paure e di incertezze” (Remo Bodei, Prudenza in R. Bodei - G. Giorello – M. Marzano – S. Veca, Le virtù cardinali. Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Laterza, Bari – Roma 2017, p. 5). 

La prudenza – meglio la saggezza – non è dunque la caratteristica delle “anime morte”, degli ignavi, bensì dei lungimiranti: capaci di non sprecare un euro se non vedono nessuna valida ragione, ma di svuotare il conto in banca se ritengono che, in una determinata contingenza, ne va dei loro principi. Se, all'uscita da un pub, rischio la vita gettandomi dal London Bridge per vincere una scommessa tra amici un po' brilli non mostro d'esser saggio; ma altrettanto “imprudente” sarei se, sapendo nuotare, non mi tuffassi nel Tamigi per salvare un bimbo in difficoltà. Infatti anche questa astensione sarebbe effetto di una valutazione errata. 

Molti magistrati, nella recente storia italiana, sono stati uccisi: per imprudenza? Ed è stata, invece, per alcuni altri magistrati, indice di prudenza, saggezza, lungimiranza evitare certi incarichi, non proseguire certe indagini, seppellire sotto montagne di fascicoli certi documenti? Purtroppo è questo il modo più comune di esprimersi. Ma si deve alla loro memoria rettificare almeno le parole: chi rischia senza validi motivi è stolto, imprudente. Altrettanto, però, chi – pur in presenza di valide ragioni – decide di non rischiare. E prudente – davvero prudente, previdente, provvidente - è chi, evitando i rischi evitabili, affronta lucidamente gli inevitabili. La prudenza – ha sostenuto qualcuno – è la 'provvidenza' di cui siamo capaci noi mortali. Con tutte le incertezze del caso: saggezza implica discernimento di ciò che è meglio scegliere in una situazione determinata: solo a posteriori, e a distanza i tempo, si potrà stabilire con ragionevole certezza chi è stato imprudente per eccesso e chi (non meno colpevolmente !) per difetto.

In ogni esempio emerso in queste righe la saggezza è stata sempre legata a un'azione: guidare un'automobile, spendere soldi, donare beni materiali, tuffarsi da un ponte, esercitare una professione...Infatti la prudenza/saggezza non è una qualità della mente contemplativa, bensì della ragion pratica: i sapienti cercano di stabilire cosa sia bene e male in astratto, nell'universalità dei casi; ai saggi spetta deliberarlo, per sé, nel qui e ora. E' difficile essere saggi senz'essere, almeno un po', sapienti; ma non altrettanto difficile esser sapienti senza mostrare d'esser saggi. 


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sabato 19 novembre 2022

NON CI SONO PIU' LE BELLE VIRTU' DI UNA VOLTA. O FORSE SI'.

 

VIRTU' E VIZI: CONCETTI ORMAI ANACRONISTICI?

Il linguaggio del nostro catechismo infantile è davvero obsoleto e anche molti dei contenuti -veicolati con quel linguaggio arcaico – sono francamente inaccettabili. Al punto che il mio amico Luigi Lombardi Vallauri, noto filosofo del diritto, ha scritto e ribadito in varie occasioni che il catechismo della Chiesa cattolica dovrebbe essere vietato ai minori di 18 anni e riservato agli adulti che, una volta maturi, volessero apprenderlo.

Tutto da buttare, dunque? La maggior parte dei genitori ormai ne è convinta, ma senza riflettere abbastanza, a mio parere, su una verità elementare: non basta decostruire e liberare spazi, bisogna offrire alle nuove generazioni equivalenti funzionali. Altrimenti le si lascia in un vuoto desolato che le scoraggia, le disorienta, non le attrezza per l'impegno attivo a favore del “bene comune”.

Scegliamo un esempio fra molti: chi parla oggi delle quattro “virtù cardinali” della tradizione classica occidentale (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza)? 

Già il sostantivo “virtù” evoca alla mente qualcosa di untuoso, inautentico, tendente all'ipocrisia. Quando non designa posture apparenti, per salvaguardare il “buon nome” in società, sembra comunque riferirsi ad atteggiamenti faticosamente conquistati mediante atti di volontà, per domare impulsi istintuali animaleschi. Eppure il termine latino virtus aveva ben altro significato: il valore, la potenza intrinseca, di qualcuno o di qualcosa. Virtuoso era quell'essere che aveva esplicitato, attuato, le sue caratteristiche essenziali: per esempio il condottiero vittorioso o il sonnifero efficace (in quanto dotato di virtus...dormitiva!). Probabilmente ormai nell'uso comune il termine “virtù” è irrimediabilmente compromesso e, anziché tentare di rispolverarlo nella sua freschezza originaria, potrebbe risultare più agevole sostituirlo con parole meno equivoche: qualità eticafioritura personalefrutto maturo...o non so che altro (i poeti “virtuosi” potrebbero venirci in soccorso). L'essenziale sarebbe arrivare alla consapevolezza diffusa che uomini e donne sono virtuosi/e quando esprimono all'esterno ciò che vivono realmente al proprio interno: una dose accettabile – certo mai perfetta – di equilibrio, saggezza, ricchezza di sentimenti, vitalità progettuale, attitudine relazionale...Quando sono persone risolte (o, comunque, a una discreta tappa del cammino per diventarlo): che hanno 'sciolto' più nodi di quanti gliene restano e - pur senza rimuovere dubbi, domande, problemi - si pongono in maniera affermativa, propositiva, costruttiva. 

Se il sostantivo “virtù” è inflazionato e frainteso, ancora di più lo è l'aggettivo cardinali. Più di un interlocutore istruito mi ha dichiarato, senza ombra di ironia, di ritenere che l'aggettivo derivasse dalla supposizione (sin troppo benevola!) che tali virtù caratterizzino i più alti prelati della Chiesa cattolica. Ovviamente non è così. Prudenza, giustizia, fortezza e temperanza sono state considerate, invece, i “cardini” di una vita moralmente solida. Sono davvero queste quattro qualità etiche i perni sui quali si regge un'esistenza 'riuscita'? Si tratta di una tesi opinabile. Ma ciò che, innanzitutto, importa è – anche in questo caso – restituire alle parole il significato originario e autentico. Dunque sostituire il termine “cardinale” con qualche equivalente più espressivo quale fondamentale, basilare, essenziale...Insomma trovare il modo per sgombrare la scena da fantasmi fuorvianti in modo da confrontarsi schiettamente con la tesi (vera o erronea) della tradizione greco-latina: che ci sono atteggiamenti etici (“virtù”) elementari e irrinunciabili (“cardinali”) senza i quali si costruisce la propria esistenza su basi fragili.

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CEFALU' E MANUEL : PROTAGONISTI DEL ROMANZO DI FRANCO VENTURELLA

 

CEFALU', ROCCA DI LUCE

Rocca di luce (Asterios Editore, Trieste 2022) - romanzo d'esordio di Franco Venturella, mio amico e coetaneo (a riprova che, davvero, non è mai troppo tardi...) - ha due protagonisti principali: Manuel (di cui si segue la vicenda biografica dall'adolescenza sino alla piena maturità) e la città di Cefalù.

Poiché entrambi i protagonisti sono siciliani, la narrazione non poteva andare esente dal confronto-scontro con il sistema di dominio mafioso. 

L'angolazione da cui tale dominio viene osservato è il caso della famiglia di un “testimone di giustizia”. Di un cittadino – cioè – che, a differenza dai “collaboratori di giustizia”, non ha mai militato dentro una cosca mafiosa, ma si è trovato nell'occasione di deporre in tribunale e non si è sottratto al suo dovere civico. Va dato merito all'autore di aver evocato una vicenda che ne richiama tante altre, tanto più significative e apprezzabili quanto più silenziosamente lacerano la quotidianità e sconvolgono i progetti ordinari. Devo confessare che lo sviluppo della narrazione, con esito ancor più tragico della vicenda, mi ha lasciato perplesso per due motivi (per altro strettamente implicantisi). Dal punto di vista dell'efficacia letteraria, infatti, la denunzia del sistema mafioso mi sarebbe risultata più incisiva se non ci fosse stato un epilogo sanguinario: trovo urgente che si rappresenti nelle opere artistiche l'infernale 'normalità' della mafia senza necessariamente riferirsi a omicidi e stragi. Inoltre, dal punto di vista politico-pedagogico, non mi ha entusiasmato l'idea che un “testimone di giustizia” - a differenza di ciò che, per fortuna, è sinora capitato nella storia reale da quando è in vigore la normativa sulla protezione statale– paghi la sua decisione encomiabile a prezzi non solo ingenti, ma addirittura tragici.

I due protagonisti – affermavo sopra – sono Manuel e la città di Cefalù, i cui destini s'incrociano nel Duomo normanno. L'autore proietta la trama in un futuro non molto lontano dove, con lucido realismo, immagina la Chiesa cattolica in crisi devastante: dei cattolici praticanti e dei loro riti liturgici “era rimasto solo il ricordo nei manuali di tradizioni popolari come fatto folcloristico. A poco a poco, la gente si abituava a vivere etsi Deus non daretur. Proprio così: come se Dio non ci fosse. Diminuiti i battesimi, pochi sacramenti, alcuni matrimoni, la maggior parte solo con rito civile, perché le coppie sceglievano la convivenza, anche in considerazione dell’aumento esponenziale dei divorzi e delle separazioni. Tanto valeva convivere e non complicarsi la vita. E poi, l’amore non ha bisogno di carte bollate. Anche la natalità era in caduta libera, a livelli tali che la popolazione anziana aveva superato quella giovanile” (p. 18). 

In effetti, almeno in Occidente, siamo già in piena epoca “post-religionale”. La fotografia della situazione è tutt'altro che emotivamente distaccata: l'autore ne soffre al punto da immaginare, al termine del romanzo, una sorta di resurrezione imprevedibile. Ma è una prognosi attendibile?

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venerdì 11 novembre 2022

MARIA D'ASARO SU "SONO SICILIANO, MA POTEVA ANDARMI PEGGIO" DI AUGUSTO CAVADI



SONO SICILIANO, MA POTEVA ANDARMI PEGGIO


Chi, come la scrivente, ha avuto la fortuna di leggere la poliedrica e nutriente produzione saggistica di Augusto Cavadi, sa che essa è composta da testi diversi per ‘peso’ e tipologia di approfondimento. 

Se è consentito l’ardito confronto tra i vari libri dell’autore e le taglie dei vestiti, Cavadi potrebbe essere definito un saggista ‘sarto’, in grado di confezionare poderosi libri ‘large’ come Mosaici di saggezze, Il Dio dei mafiosi, In verità ci disse altro… saggi ‘medium’, come Il Dio dei leghisti, Presidi da bocciareQuel maledetto 1992… libretti ‘small’ come Filosofare in carcere, La mafia spiegata ai turisti, Né Principi azzurri né Cenerentole. I lettori/fruitori delle diverse ‘taglie’ letterarie hanno sperimentato e continuano a sperimentare che tutti i suoi prodotti sono comunque caratterizzati dal filo rosso della qualità e della fruibilità dei contenuti.

Sono siciliano ma poteva andarmi peggio (Di Girolamo, Trapani 2022, euro 9,90) rientra nella categoria ‘small’: il libretto pocket (92 paginette) raccoglie, per sezioni tematiche, alcuni scritti dell’autore finalizzati a scrutare l’anima e il carattere dei siciliani, scritti già pubblicati in un’apposita rubrica del bimestrale Il Gattopardo.

Scorrendo le pagine del libretto, Cavadi invita a ‘sorridere riflettendo’ o a ‘riflettere sorridendo’ su vizi e virtù della sicilianità, nella consapevolezza, che “solo una Sicilia raccontata nei pregi e nei difetti potrà preparare all’incontro con la Sicilia effettiva: che non è un è paradiso, ma neppure un inferno.”

Ci si interroga in primo luogo sulla convinzione di noi siciliani di essere eccezionali “portati a valutare enfaticamente ciò che ci capita (…) allergici all’aurea mediocritas di oraziana memoria, ci percepiamo o molto in alto o molto in basso (…) ci vediamo abnormi e, non di rado, lo siamo davvero”.

E poi, questo essere effettivamente molto in alto o molto in basso, viene sottolineato nell’ambito della cultura: l’autore nota come in Sicilia manchi un ceto culturale intermedio a metà tra la geniale aristocrazia intellettuale - che ha visto giganti come Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Sciascia, Guttuso, Consolo, Camilleri - e, ahimè, l’assai diffuso ‘sottoproletariato cognitivo’, per utilizzare una felice espressione di Davide Miccione. Purtroppo, dunque, proprio nella scarsa propensione alla cultura, intesa come volontà di informarsi, studiare, approfondire criticamente le conoscenze, “affondano le radici i ritardi più eclatanti della Sicilia, dal punto di vista della moralità civica e della maturità pubblica come della ricerca scientifica e della produttività economica”.

Altra questione che riguarda il carattere dei siciliani: sono davvero irredimibili contravventori delle norme e inclini all’illegalità? Anche qui, è difficile essere univoci: Palermo, ad esempio, è stata sia capitale della mafia che capitale dell’antimafia; e come tale “ha generato criminali indegni, ma anche cittadini integerrimi che – pur nell’epoca dell’indifferentismo e della concentrazione sul privato – hanno saputo subordinare al bene comune la loro intelligenza, le loro energie, persino la loro vita.”

Ma come sono visti i siciliani dall’esterno? Cavadi riporta alcune considerazioni di autorevoli ‘forestieri’, tra i quali lo studioso francese Philippe San Marco e il regista tedesco Wim Wenders. Per il primo, “Lealtà, interesse generale, amore della Patria, senso civico, cittadinanza, rispetto delle istituzioni, fiducia nella società” per i siciliani non sono altro che parole ‘prive di senso’.

Cavadi non si scandalizza per un giudizio così duro, invita anzi i lettori ad agire concretamente perché le considerazioni di San Marco possano risultare domani infondate.


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martedì 8 novembre 2022

LE CONFIDENZE DI UNO PSICHIATRA REGALATECI DA GIOVANNI A. FAVA


CONFIDENZE DI UNO PSICHIATRA SUL “MESTIERE PIU' BELLO DEL MONDO”

La sofferenza psichica appartiene a una dimensione umana tanto intima quanto nascosta. Tra gli psicoterapeuti di formazione medica (dunque anche psichiatri) che l'affrontano da decenni con la ricerca teorica e con la pratica clinica, il veneto Giovanni A. Fava ha raggiunto una notorietà internazionale con la sua Well-being therapy imperniata su un duplice capovolgimento di prospettiva: passare il timone della nave in tempesta dal terapeuta al paziente e, soprattutto, spingerlo a incrementare i fattori di benessere di cui fruisce anziché fissarsi con il contrasto ai fattori di malessere che l'affliggono. 

La traduzione italiana del libro in cui Fava sintetizza il suo approccio terapeutico è stata seguita, direi come conseguenza logica, dal volume Come sospendere i farmaci antidepressivi. La gestione personalizzata delle sindromi di astinenza(Franco Angeli, Milano 2022) che è anche coraggiosa denuncia delle strategie di troppe industrie farmaceutiche corroborate (in buona o mala fede) da sanitari del settore.

Solo con queste premesse si può intuire la validità di un piccolo libro, più divulgativo, del medesimo autore (Uscire dalla sofferenza mentale. Storie di cure e di autoterapia, Tab edizioni, Roma 2022, pp. 104, euro 12,00) in cui egli raccoglie le 'puntate' della rubrica Favas Feder (La penna di Fava) da lui curata per la rivista tedesca “Arztliche Psychotherapie”. Il libro si può qualificare “divulgativo” solo a patto di precisare che, comunque, il pubblico ideale è costituito da lettori non del tutto ignari di tematiche psicologiche, anche se non necessariamente terapeuti essi stessi. Infatti Fava, nei suoi interventi, racconta – il termine è intenzionalmente evocativo del registro letterario – alcuni episodi della sua esperienza clinica che gli offrono il destro per mettere a fuoco delle indicazioni terapeutiche di ordine generale.

Di queste indicazioni, in particolare quattro o cinque hanno colpito me – che non sono uno psicoterapeuta. 

La prima è che in una relazione terapeutica il medico, se è in grado, dà molto ma, se è attento, può a sua volta ricevere altrettanto dai pazienti quando essi spiegano “cosa provano in certe circostanze”, offrono “metafore dei loro problemi”, incoraggiano le “intuizioni iniziali” (p. 23): essi, più che l' oggetto, sono i cooperatori del processo clinico (come sosteneva anche George Engel, il fondatore della psicosomatica moderna). In fondo, per dirla con Jerome Frank, “la psicoterapia è un'autoterapia guidata” (p. 99).

Una seconda indicazione riguarda la necessità che lo psichiatra – anzi, in generale, il medico – non si limiti a contrastare i sintomi del malessere, ma induca il paziente a modificare quanto di stressante vi sia nel suo “stile di vita” complessivo e, intanto, gli si offra come “una persona su cui poter contare” (p. 31). Istruttive, per valutare l'adeguatezza del sistema formativo universitario, una obiezione e una domanda che Fava si sentì rivolgere in proposito da uno specializzando in psichiatria. L'obiezione aveva il carattere di una protesta all'invito a inquadrare il paziente nel contesto complessivo della sua storia e del suo attuale ambiente: “Ma questa è psicoterapia e non ho il tempo di farla” (ivi). Fava contro-obiettò che “non è psicoterapia, è quello che ogni medico, indipendentemente dalla specializzazione, deve fare. E' la medicina psicosomatica”, provocando così la domanda del giovane collega psichiatra: “Ma perché nessuno ci parla mai di queste cose?” (ivi).

Una terza notazione riguarda la “comorbilità iatrogena” (p. 64). Il termine è tecnico, ma il concetto che esso designa non è astruso: “si riferisce alle modificazioni sfavorevoli in termini di decorso, caratteristiche e probabilità di risposta secondarie allo specifico trattamento di una malattia” (ivi). Dunque andare in psicoterapia o assumere psicofarmaci quando non ce n'è bisogno può risultare almeno altrettanto dannoso di non farlo quando ce ne fosse effettiva necessità. “Gli psicoterapeuti esperti conoscono bene gli effetti nocivi che può avere una psicoterapia mal condotta oppure non indicata. E quanto difficile sia lavorare con un paziente successivamente a tale terapia.[...] Conoscono però molto meno gli effetti sfavorevoli dei farmaci, soprattutto le sottili alterazioni psicologiche che possono provocare” (p. 65). 

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giovedì 3 novembre 2022

MARIO MULE': QUALCHE CONSIDERAZIONE SU "SVEGLIAMOCI !" DI EDGAR MORIN

 



ANCORA SU EDGAR MORIN: CONSIDERAZIONI DAL PUNTO DI VISTA DELLE NEUROSCIENZE

(di Mario Mulé)


E’ ancora utile, dopo altri autorevoli commenti all’opuscolo di Edgard Morin Svegliamoci 1 proporre ulteriori considerazioni? Un dialogo su questioni tanto importanti ritengo sia comunque utile, perciò mi sono autorizzato a scrivere e a diffondere qualche altro pensiero.

Comincio con una sensazione: mi è sembrato che l’Autore, in questa breve opera, abbia voluto assumere una funzione ed una responsabilità profetiche 2Ma chi erano i profeti del mondo vetero-testamentario? Essi non “predicevano”, ma “dicevano”. I loro ammonimenti andavano oltre gli aspetti religiosi o morali, proponendosi piuttosto come “realpolitici”. Si proponevano la liberazione del popolo ebraico dalle illusioni, indicando un'alternativa da scegliere, tra una società pienamente umanizzata e una barbarie3. Anche Morin, con il suo invito a svegliarci, ci indica che l’umanità si trova oggi davanti ad un bivio: possiamo proseguire continuando un percorso umanistico ( attualmente in regressione) oppure correre inconsapevoli verso un possibile abisso.

L’invito ad aprire gli occhi per riconoscere la realtà e svegliarci certo non è nuovo.

Einstein aveva già segnalato che viviamo dentro una sorta di “ illusione ottica della coscienza. E’ una specie di prigione, che ci limita nei confini dei nostri desideri personali e dell’affetto per le poche persone a noi più vicine. Il nostro compito dovrebbe essere liberarci da questa prigione…”.

Possiamo richiamare tanti altri pensieri simili: “ E’ un fatto che, mentre crede di essere sveglia, la maggior parte di noi è come assopita…Ciò che intendo dire può essere simboleggiato dal nome di Buddha, che significa colui che si è ridestato, l’essere umano davvero cosciente di sé”. Chi ha scritto queste parole non è un devoto buddhista, ma (ancora) Fromm 4.

Dunque l’invito è a svegliarci, a liberarci per guardare a noi stessi e al mondo, o addirittura all’Universo di cui facciamo parte: è questo l’invito perentorio che ci arriva da Morin e da tanti altri “saggi”.

Come dobbiamo intendere questi ammonimenti? Certo non è un invito a fare sempre più cose, ad inseguire sempre nuovi desideri (indotti) da soddisfare, ad acquistare e consumare. “La tecnica (secondo Morin) ha imposto, in settori sempre più estesi della vita umana, la logica della macchina artificiale, che è meccanica, determinista, specializzata, cronometrata” ( lavora, mangia, dormi). Detto in altre parole, essere indaffarati non è una soluzione: lo siamo già fin troppo.

Da più parti ci arriva l’invito a conoscere ed a prenderci cura della nostra mente: “La mente è come un oceano. Nel profondo, sotto la superficie, esso è calmo e limpido. Non importa se in superficie ci sia una tempesta, in profondità l’oceano è tranquillo e sereno. Dalla profondità della tua mente, puoi osservare tutta la tua attività mentale ( pensieri, sentimenti, sensazioni, ricordi ) senza legarti ad essi, imparando a lasciarli andare”5. La metafora di Siegel è molto rassicurante. Come scienziato e clinico che utilizza la neurobiologia interpersonale egli ritiene che la neuroplasticità ci consenta di plasmare il nostro cervello; ritiene anche che possiamo dirigere la nostra mente, sviluppando attitudini molto preziose (come altruismo, cooperazione, compassione) potenzialmente presenti nella natura umana. Sulla stessa linea di pensiero si collocano altri autori: ad esempio Gilbert e Stephen W. Porges con la sua innovativa teoria polivagale 6.

Ma non tutti coloro che si occupano della mente umana ( siano essi clinici o neuroscienziati) condividono questa linea. Intanto i cambiamenti resi possibili dalla neuroplasticità richiedono grande autodisciplina ed anni di pratica. Altri inoltre segnalano che “la vita interpersonale dell’uomo deriva da articolazioni, combinazioni e sviluppi di questi sistemi ( interpersonali) già universalmente presenti nei primati, e continua a poggiare su di essi dalla culla alla tomba”7.

Quanto sono distanti o conciliabili queste due posizioni? Per Morin questa, semplicemente, è la realtà: l’uomo è sapiens-demens. Né può fare a meno della sua parte demens ( che è anche poetica) perché altrimenti la vita sarebbe arida8. Dobbiamo però essere attenti e capaci di dominare ( o almeno attenuare ) quelle componenti che altrimenti ci dirigono, come sta avvenendo oggi per l’istanza prometeica: “una dismisura insensata si è impossessata dei possidenti” (E. Morin).

Non so se l’umanità sarà capace di un pensiero complesso, che colga le interconnessioni e gli aspetti paradossali presenti nella vita; se sarà capace di evitare che l’antropocene evolva verso il thanatocene.

Ciò che oggi non possiamo negare è che la nostra casa, il nostro pianeta, sta bruciando. Che non c’è tempo da perdere, che è insensato restare indifferenti mentre la casa brucia. Tutto il resto viene dopo. Forse ciò che può servire è una grande alleanza, una cooperazione ove lavorino insieme scienza e religione, movimenti e forze politiche, istanze etiche e pensiero razionale.

Se non ora, quando?

Mario Mulé

Neuropsichiatra e pisoterapeuta

(Palermo)

1Cfr. in questo stesso blog la breve recensione di Augusto Cavadi: 

https://www.augustocavadi.com/2022/10/ancora-su-svegliamoci-di-edgar-morin.html

2 Lo stesso autore, nella sezione “ Ringraziamenti” posta alla fine del saggio, definisce quest’opera “un appello per un risveglio delle coscienze”.

3 Sono riflessioni di cui siamo debitori ad E. Fromm, tratte dal suo Attualità degli scritti profetici.

4 E. Fromm, L’arte di ascoltare, p.162.

5 D. Siegel, Mindsight. La nuova scienza della trasformazione personale, Raffaello Cortina, p.104. 

6 P.Gilbert, La terapia focalizzata sulla compassione, Franco Angeli; S. W.Porges, Le applicazioni cliniche della teoria polivagale, Giovanni Fioriti Editore.

7 Nella prospettiva evoluzionista i sistemi motivazionali ( da intendere come tendenze molto potenti e spesso ineludibili, ma diverse dagli istinti) sono disposizioni innate ed universali già presenti nelle specie animali evoluzionisticamente più vicini a homo sapiens - selezionate dalla evoluzione. Vedi G. Liotti – F. Monticelli (a cura di), I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Il manuale AIMT, Raffaello Cortina. Su una linea simile si colloca l’importante opera di J. Panksepp , fondatore della neuroscienza affettiva, di cui vedere il volume (scritto con L. Biven),  Archeologia della mente. Origini neoevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina.

8 Cfr. E. Morin, Amore, poesia, saggezza, Armando Editore.

martedì 1 novembre 2022

"OLTRE DIO. IN ASCOLTO DI UN MISTERO SENZA NOME": UN LIBRO SANAMENTE INQUIETANTE

  

Dialoghi mediterranei”

1.11.2022




DAL TRAMONTO DELLE RELIGIONI ALLA MISTICA POST-RELIGIOSA

Le religioni più diffuse nel pianeta sono in crisi? Per molti versi, sì. Soprattutto le grandi ‘confessioni’ cristiane: cattolica, ortodossa, valdese, anglicana, riformata,. Le chiese sono sempre meno frequentate man mano che le generazioni più anziane lasciano il posto alle nuove. Così sociologi e teologi, antropologi e filosofi, s’interrogano sulla categoria interpretativa “post-religionale”. Che comporta una domanda ancora più radicale: che ne è dell’idea tradizionale di Dio che le chiese cristiane hanno veicolato in questi venti secoli? Così la questione dell’epoca “post-religionale” coinvolge la questione del “post-teismo”: che ci aspetta dopo la “morte” del Dio biblico (onnipotente, onnisciente, giudice supremo dei popoli e dei singoli) dai tratti ancora umani, troppo umani? 

Alcune possibili risposte sono offerte dal quarto volume (Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome, a cura di C. Fanti e J. M. Vigil, Prefazione di P. Scquizzato, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano 2021) della Collana “Oltre le religioni”, cui hanno contribuito firme al di qua e al di là dell’Atlantico: J. Arregi, C. Magallón Portolés, M. J. Ress, G. Squizzato, S. Villamayor Lloro. Dal paradigma “religionale-teistico” dominante nella maggioranza dei fedeli che sono convinti d’essere cristiani si può uscire – andare “oltre” – in varie direzioni, alcune delle quali sono qui rappresentate da convinti esponenti.

Ateismo ?

Diciamo subito che nessuno dei co-autori si riconosce, almeno dichiaratamente, nella strada più battuta da chi lascia alle spalle la fede nel Dio biblico-ecclesiale: l’ateismo. E’ come se ai loro occhi l’ateismo sembrasse troppo spesso (se non addirittura sempre) la negazione, uguale e contraria, del teismo: dunque ad esso complanare. E, perciò, dello stesso grado di validità (meglio: di invalidità). E' quanto sostiene ad esempio J. M. Vigil: 

Tanto il cristianesimo quanto l'ateismo hanno sbagliato a confondere il theós con il Mistero della Realtà, con la divinità della Realtà. L'ateismo per la sua cecità dinanzi a qualunque realtà diversa da quella materiale. E il cristianesimo per la sua cecità di fronte alle contraddizioni legate all'immagine culturale-filosofica del theós, assunto come il volto stesso indiscutibile del Mistero ineffabile. E' per questo che, rispetto ai confronti tra cristianesimo e ateismo del secolo scorso, oggi vi sono voci che evidenziano l'inutilità di quel dialogo tra sordi impegnati a tentare di convincersi reciprocamente: entrambi avevano torto ed entrambi avevano ragione” (pp. 81 – 82).

Agnosticismo?

Più attendibile riesce, invece, la prospettiva agnostica o apofatica: Dio, se esiste, è l’Ineffabile, l’Indicibile. Il Conosciuto in quanto Inconosciuto. Ma – se così posso esprimermi – in alcuni di questi testi l'agnosticismo viene elevato all'ennesima potenza, sino al punto da non potersi auto-presentarsi come tale. E' come se l'agnostico arrivasse alla consapevolezza di non poter esser certo neppure del proprio agnosticismo. Scquizzato recupera in proposito un passaggio della Kena Upanishad citato da J. M. Kuvarapu nel suo Sulle acque dell'oceano infinito:

Chi dice «lo conosco» (Dio), non lo conosce, e anche chi dice «non lo conosco» non lo conosce: lo conosce solo chi dice «lo conosco eppure non lo conosco» ” (cfr. p. 13). 

Un'efficace lezione per gli scettici di ogni postura: se sei davvero scettico, non puoi essere sicuro neppure di ignorare davvero tutto! Magari sai qualcosa, a tua insaputa.

Rispetto alla problematica teologica S. Villamayor parla di un “agnosticismo attivo, si potrebbe dire innamorato”: “il post-teismo può essere accolto tanto da teisti quanto da atei, perché non presuppone l'affermazione né la negazione di Dio” (p. 146). In un certo senso, considerato quale “un lungo sguardo rivolto a un orizzonte senza forma che, in virtù della sua indeterminatezza, può essere ispirato da ogni figura”, “bisognerebbe chiamarlo piuttosto un pre-teismo, in quanto si ferma al passaggio previo e comune dell' indefinizione del mistero” (pp. 146 – 147). 

Accenti simili, declinati al femminile, si risentono nelle dichiarazioni di Carmen Magallón: se comunemente, trattandosi di Dio, si suppone che “le persone credenti abbraccino una fede che le porta ad affermare la sua esistenza, quelle atee la neghino in maniera convinta e quelle agnostiche restino nel dubbio”, non mi riconosco in nessuna delle tre categorie.

Così come non posso affermare l'esistenza di Dio, neppure posso negarla, ma sento l'impulso che l'amore ha dato alla mia vita. E un'intuizione (un desiderio ?) mi porta a pensare che, scendendo in profondità nella complessa e inafferrabile concezione di Dio, che nella sua assolutezza oltrepassa la nostra comprensione, sia possibile trovare radici, valori, dubbi e sentimenti simili nei tre gruppi” (p. 205).

Mistica panenteistica 

La maggior parte dei contributori a questo volume, però, non sembra accontentarsi di una dichiarazione di impotenza a pronunziarsi sul Mistero: vira, infatti, su posizioni di silenzio intellettuale, concettuale, ma non di silenzio assoluto. Propende infatti per recuperare dal passato e rilanciare nel futuro la prospettiva mistica: la possibilità di una comunione ineffabile, ma reale, con Dio, o meglio con la “sovradivinità” (P. Scquizzato, p. 22). Se “il credente” è colui che “afferma una verità, pronuncia una definizione della divinità: Dio è così e così…” (pp. 22 – 23), “il mistico è donna e uomo di fede, ma non può essere definito un credente. La fede per lui è esperienza dello Spirito nello spirito, dove soggetto conoscente e oggetto conosciuto sono la medesima cosa, e non sono nemmeno una ‘cosa’, ma piuttosto un essere, una vita, spirito appunto” (p. 22). Il mistico – rispetto al credente tipico – ha meno ed ha più: ha meno nozioni, meno idee, meno sapere sul Divino; ma ne ha un’esperienza più intima, profonda. 

Fra i tanti interrogativi possibili, se ne impone uno su tutti: chi può assicurarci che il mistico – anche quando fossimo noi stessi a interpretare questo ruolo – non sia, in perfetta buona fede, un illuso? Il soggetto in questione può anche rispondere di fruire della certezza interiore non verbalizzabile di percepire un Ciò, un Essere, una Realtà; e che non gli interessa neppure cercare una legittimazione logica, ragionevole se non razionale, del cammino intrapreso. Ma chi si trovi all’esterno di questa esperienza – o, comunque, la voglia osservare come se lo fosse: è il caso del filosofo della religione e del teologo della spiritualità – non può sottrarsi all’obbligo, o per lo meno al desiderio, di capire come distinguere la vera dalla falsa mistica. 

Il primo passo, mi pare, sia chiedersi a che condizioni 'oggettive' sarebbe possibile che una comunione mistica 'soggettiva' si desse. In parole più semplici: come dovrebbe essere il rapporto ‘ontologico’ fra Dio e il mondo per ammettere l’ipotesi di una comunione fra noi e Dio (da verificare poi caso per caso) ? La risposta è qualificata nella Prefazione di Scquizzato come “panenteistica”: la totalità dell’universo non è Dio, ma in Dio. Dio è talmente presente nell’universo da essere impensabile senza di esso come esso lo è senza di Lui:

Noi, e insieme a noi la natura, la creazione intera, stiamo vivendo la fase della manifestazione storica, temporale della divinità. Siamo l’onda dell’oceano ma anche, nel nostro essere più profondo, essenzialmente oceano ”(pp. 19 – 20). 

Trovo convincente questa chiave di lettura, ma non direi che la maggioranza dei testi raccolti nel volume la condivida. Infatti, se non erro, la prospettiva onto-teologica prevalente negli autori invitati sia piuttosto il panteismo : il cosmo è divino e Dio non è null’altro che il cosmo. Per dirla con Spinoza: Deus sive NaturaSive: “ossia”, “vale a dire”, “in altro termine”...E' curioso che il panteismo sostenuto (eccezion fatta per qualche autore che lo contesta esplicitamente: Gilberto Squizzato alle pp. 179 – 181) non è mai nominato come tale. Perché questa sorta di pudore semantico, di ritrosia terminologica? Perché la maggior parte di questi autori, che pensano e parlano da panteisti, non dichiarano mai di esserlo? Azzardo un'ipotesi: forse perché la storia delle idee ci insegna che il panteismo si rivela spesso una forma cortese di ateismo (“Tu esisti, caro Dio, nessuno vuole negarlo: solo che coincidi senza residui, senza sporgenze, con l’insieme dell’universo”). 

Comunque l'insieme dei contributi evidenzia – più o meno consapevolmente - la questione per me centrale: come superare i dualismi ontologici, senza rassegnarsi a un monismo ontologico (in cui non avrei criteri per distinguere l'assassino dalla sua vittima, l'essere-per-gli-altri dall'essere-per-sé-stessi, l'esperienza della gioia dall'esperienza del dolore)?

Il dualismo ontologico – fondato da Platone ed esasperato da Cartesio – è davvero rischioso: difficilmente si può evitare di sfociare in una visione “teistica” di Dio concepito come l'Esterno, l'Estraneo, l'Irraggiungibile, l'Indecifrabile, l'Imprevedibile. Né basta sopprimere questo dualismo eliminando con un colpo di spugna uno dei due poli, sfociando in un materialismo a-teo (materia senza Dio) o in uno spiritualismo a-cosmico (Dio senza materia). Se invece – su suggestione della fisica quantistica – scopriamo (o, sulla scia di Tommaso d’Aquino, riscopriamo) che la differenza fra materia e non-materia è secondaria, in quanto interna all’Essere, all'Intero, quale scandalo potrebbe provocarci l’ipotesi che la divinità e il mondo siano due manifestazioni dell’unica Energia, un po’ come l’acqua è sé stessa sia allo stato liquido che allo stato solido (quando si manifesta sia come ruscello sia come ghiaccio) (cfr. P. Scquizzato, pp. 16 – 20) ? Che tutto è Essere, ma non tutto lo è con la stessa densità, consistenza, complessità?

Criteri per distinguere la falsa dalla vera mistica

Se ammettiamo che in uno scenario come questo evocato (non-dualistico ma neppure monistico) – uno scenario in cui l'Essere si squadernasse a vari livelli d'intensità ontologica (in relazione di analogia: secondo i medievali, di “somiglianza che non esclude una dissomiglianza ancora maggiore”) - la mistica sarebbe pensabile, quali criteri potrebbero aiutarci a distinguere l'autentica dalle sue contraffazioni?

Personalmente ne individuerei, innanzitutto, due.

Il primo: il mistico che diventa seriamente consapevole che l'Essere è a lui più intimo di quanto egli stesso non lo sia a sé (riecheggio sant'Agostino) spera che, in questa vita o in eventuali successive, gli resti solo quel minimo di coscienza che gli consenta di fruire la gioia di questa identificazione. Un po' come un nuotatore che si immerga nel mare dimenticando tutto di sé, tranne l'essere immerso in quel mare. I falsi mistici che ho incontrato nella vita leggono questa identificazione all'inverso: sono talmente unito all'Assoluto da esserne l'espressione concentrata, l'epifania tangibile. La mia coscienza è dilatata al punto da coincidere - “una cosa sola” - con l'Uno. Un po' come un nuotatore convinto che basti toccarlo, entrare in rapporto (devoto) con lui, per sperimentare la comunione con il mare. L'io tocca l'apice dell'ipertrofia avvertendosi – in maniera tanto più pericolosa quanto più sincera – identico a Dio. La consapevolezza della propria relatività, arrivando al massimo possibile, si capovolge nell'illusione della propria assolutezza.

Un secondo criterio è abbastanza collegato a questo primo: il mistico autentico, in quanto unito all'Essere nella sua originaria sorgività, si avverte solidale con ogni sua manifestazione, anche minima. Nessun vivente, anzi nessun essente, gli è radicalmente estraneo. Nessuno gli riesce indifferente. Un mistico freddo, incapace di con-passione per le gioie e i dolori delle altre manifestazioni dell'Uno, è solo una patetica caricatura dell'originale. 

Se si mettono fra parentesi, almeno metodicamente, le difficoltà tecniche conseguenti, si deve ammettere che il rigore dei jainisti nel rispettare tutti i viventi senzienti è perfettamente coerente con la mistica. In qualcuno dei suoi libri, Thomas Merton racconta come – in una situazione di calura estrema in Oriente – abbia una volta cacciato con la mano degli insetti volanti che lo assediavano: con sorpresa, vide gli operai allontanarsi in silenzio dalla stanza. Richiestane la ragione, gli fu spiegato che non si poteva convivere con un soggetto così violento come lui.

Anche nelle tradizioni monoteistiche la relazione con gli altri – almeno con gli altri esseri umani – fa da cartina di tornasole della validità di una relazione sedicente mistica. Si racconta che un rabbino, invidioso di un collega di cui si diceva che in preghiera si elevasse al settimo cielo, lo abbia una volta seguito di nascosto nel bosco dove era solito ritirarsi. Interrogato al ritorno, avrebbe risposto: “No, non sale al settimo cielo. Va ancora più in alto. Infatti si allontana dal villaggio per visitare una vecchietta che vive da sola, spaccarle la legna e prepararle il fuoco della sera”.

La controfigura del mistico è talmente concentrata nello sforzo di dimenticarsi di sé da dimenticarsi di tutto tranne che di sé. Ignora che il modo migliore per de-concentrarsi dall'io è pulsare all'unisono con tutte le altre irradiazioni della Vita. Persegue, oggettivamente, l'isolamento più individualistico confondendolo con la comunione ontologica universale. Dimentica che – quale che sia la sua concezione complessiva dell'Essere - 

tanto la dualità quanto la non-dualità esprimono la disposizione a unirsi nell'impegno per la liberazione. Questa è la grande sfida e la prova dell'autenticità di ogni mistica” (S. Villamayor, p. 154). 

Una mistica a-dialogica ?

Nell'ottica panenteista – e più ancora nella panteista - resta aperta una questione esistenziale che non può non interrogare anche quanti sono più o meno indifferenti alle problematiche teoretiche sinora affrontate: la possibilità della preghiera o come si voglia chiamare il dialogo fra il mistico e l'Assoluto. Il dialogo infatti, se è reale e non solo metaforico come fra Leopardi e la luna, implica due soggettività distinte ma comunicanti. Due soggettività autocoscienti ed etero-coscienti, in qualche misura almeno auto-determinantisi: in Occidente si è detto anche due “persone”.

Posto che ormai il termine “persona” è difficilmente utilizzabile (“Definire la divinità come persona ha portato a immaginarlo come individuo, dato che, per il comune sentire, persona e individuo sono la stessa realtà”, P. Scquizzato, p. 14), come possiamo concepire l'Assoluto senza rendere irragionevole ogni forma di dialogo con Lui/Lei/Esso? 

A mio sommesso avviso questo è un aspetto della tematica che, almeno in queste pagine, trovo insoddisfacentemente affrontato. Nel paragrafo che vi dedica J. Arregi (Dio oltre un “Dio personale”) mi pare che le critiche alla teologia tradizionale colpiscano l'accezione antropologica di “persona” ritenendo di liquidare ogni possibile accezione di “personalità” (sia pur in senso analogico). Lo stesso autore forse sospetta questo qui pro quo e conclude con delle righe in cui riprende la categoria di “transpersonale” più volte riproposta da Hans Küng:

Con ciò non voglio dire in assoluto che Dio sia «qualcosa di impersonale», una realtà confusa e spenta senza la luce della coscienza e la fiamma dell'amore. Ma piuttosto che la Profondità ultima o la Realtà originaria di tutto il reale sia assolutamente transpersonale, infinitamente oltre qualsiasi cosa, eterna Presenza senza un qui o un là, eterno Processo senza un prima o un dopo, Spirito o Ruah che ci muove e ci abita e ci fa essere, eterna Comunione che tutto crea e si crea in tutto” (J. Arregi, p. 124).

Comunque si chiarisca in futuro questa qualità “personale” del Divino (anche con l'aiuto di strumenti metafisici un po' più chirurgici rispetto agli autori del volume), resta assodato che, con il “teismo”, è ormai crollata tutta una millenaria tradizione di preghiera come invocazione d'aiuto: se Dio fosse in grado di liberarci dalla peste perché dovrebbe prima consentirla, o addirittura provocarla? E – qualora fosse in grado di farlo – perché dovrebbe risparmiare mia figlia e non la figlia della vicina di casa?

Spazzato dall'orizzonte ogni ingenuo antropomorfismo, dalle pagine di questo volume (davvero intrigante, sanamente e santamente inquietante) mi pare emergano soprattutto due indicazioni.

La prima: accettare quella “onesta autocontraddizione semantica” - nota come “teologia apofatica” - consistente in “un discorso sul divino che sa di non poterne dire nulla” e accontentarsi di

quell'anelito, quel respiro profondo (potremmo dire quella spiritualità, dal latino spiro) e anche quello smarrimento davanti all'enigma del mondo che, pur forti di ogni cognizione scientifica e del moderno pensiero tecnologico, possiamo continuare a custodire nell'intimo della nostra coscienza. Oppure pensiamo a god, l'invocato: ci rimane il desiderio di un dialogo con quell'enigma e forse perfino l'azzardo di un tu che ci sia interlocutore e controparte, pur rinunciando consapevolmente a farcene alcuna immagine, tanto meno antropomorfa” (G. Squizzato, p. 173). 

La seconda: transitare dal dire preghiere a diventare preghiera.

Un giorno ci appare miracolosamente chiaro che non abbiamo bisogno di inventarci preghiere, perché siamo noi stessi – grazie alla nostra precarietà che tutto invoca dall'altro e dagli altri – preghiera vivente, fatta carne e silenzio”

a imitazione del “maestro sovversivo” di Nazareth che

non celebrò mai sacrifici, ma mostrò la sacralità (cioè l'intangibilità) di ogni uomo e di ogni donna, a cominciare dai più sofferenti e dai più disperati” (G. Squizzato, pp. 176 – 177).

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


Chi desiderasse la versione originaria e illustrata di questo articolo, potrebbe cliccare qui:

http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/dal-tramonto-delle-religioni-alla-mistica-post-religiosa/