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23.6.2021
IL GIUDICE LIVATINO RACCONTATO DA AUGUSTO CAVADI
di Davide Fadda
«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Questa è un po’ l’emblema dell’ultimo libro di Augusto Cavadi, Rosario Livatino, un laico a tutto tondo (Di Girolamo, Trapani 2021, pp. 110, euro 10,00). Il testo del filosofo e scrittore siciliano si propone di raccontare la figura di Rosario Livatino, giovane giudice ucciso dalla Stidda trentun anni fa, da una prospettiva più laica e meno confessionale. L’autore, infatti, sottolinea come la fede cattolica del giudice assassinato abbia indirizzato il taglio delle maggior parte delle pubblicazioni dedicategli, rendendo per certi versi riduttiva la portata narrativa della sua storia. In questo senso lo scritto si pone l’obiettivo di essere «destinato a ogni genere di pubblico, ma in particolare a quanti non si riconoscono abitualmente nell’universo simbolico cristiano». Secondo Cavadi, infatti, la storia di Livatino ha qualcosa da poterci insegnare. Qualcosa che va al di là del credo religioso e che potrebbe accomunarci non solo in quanto cristiani, ma prima ancora in quanto «cittadini». Ed è proprio su questo incrocio semantico ed etimologico che si incontrano le parole cittadino e laico (dal greco laos, 'popolo', quindi che riguarda l’insieme delle persone, dei cittadini, appunto).
Sui diversi significati, talvolta ambigui se non equivoci, che la parola «laico» ha assunto nel nostro Paese, è speso un intero capitolo. Se questo, da un lato, mette il lettore nelle condizioni di comprendere le diverse sfumature che la parola ha acquisito nella storia d’Italia, dall’altro ben ci fa capire cosa l’autore intenda e con quale accezione la utilizzi per definire alcuni tratti della personalità e della storia di Livatino. In particolare Cavadi si sofferma sull’accezione positiva del termine: «pensare e agire laicamente significa essere se stessi, non recitare parti preassegnate, non mostrarsi condizionato da credi religiosi o ideologie politiche». Da questo punto di vista quindi la fede cristiana di Livatino non fu per nulla in contrapposizione con la laicità del magistrato. Quest’ultimo, infatti, nonostante l’importante ruolo sociale ricoperto, non ebbe mai a concepirsi come una sorta di «plenipotenziario di Dio sulla terra»; al contrario cercò di rimanere uno del “popolo” al servizio del “popolo”. Ed è proprio questa sua coerenza per alcuni aspetti semplice, ma non certo banale, a costar cara a Livatino. Cavadi rileva proprio come questa sua “radicale semplicità”, che lo rendeva immune dall’esser corrotto o compromesso, ne decretò la condanna a morte. Su questo tema lo scrittore siciliano non ha dubbi: è proprio il compromesso dei molti a mettere in pericolo quei pochi, come Livatino, che rimangono «con correttezza al proprio posto».
È l’isolamento che questi personaggi hanno avuto all’interno della propria categoria di appartenenza a permettere ai mafiosi di agire, uccidendo non solo per togliere di mezzo le “persone scomode” , ma anche per mandare un avvertimento a chiunque voglia provare ad alzare la testa. Sono quindi la rettitudine, l’umanità e l’onestà i valori per cui visse e morì il giudice Livatino. Valori che coerentemente si legano alla frase iniziale con cui, credo, si possa estremamente sintetizzare il bel saggio di Augusto Cavadi: essere credibili, non significa, in fondo, non mostrarsi condizionato da interessi di parte in grado di compromettere la coerenza tra il ruolo che istituzionalmente rappresentiamo e le azioni che quotidianamente ci caratterizzano? Se la risposta, come ritengo, è affermativa, allora credibile fa rima con laico.
Davide Fadda