venerdì 27 agosto 2010

Insegnare le filosofie e a filosofare


“Vita Pensata”
Agosto 2010

Insegnare le filosofie e a filosofare

L’eredità hegeliana nel sistema italiano

In Italia torna, puntuale come la primavera, il dilemma suggerito da una celebre frase di Kant: bisogna insegnare le filosofie oppure a filosofare?
Nelle scuole medie superiori dove esiste, anzi resiste (non per molto, temo, data l’egemonia del modello didattico anglo-sassone che ama privilegiare le discipline ‘utili’: l’attuale capo del governo, Silvio Berlusconi, ha spiegato una volta che la sua scuola ideale è imperniata sulle 3 “i” di “inglese, internet, impresa”) questa materia viene insegnata, sostanzialmente, secondo il taglio della riforma Gentile: i programmi e i manuali scolastici la presentano come storia della filosofia. La convinzione sottintesa è che la filosofia sia identica alla storia della filosofia: che la filosofia si svolga, si squaderni, con una logica propria, nella storia e solo nella storia. Insomma: la filosofia che fonda e inspira l’attuale impianto pedagogico-didattico della filosofia (come di tutte le altre discipline umanistiche: letterature greca, latina, italiana, inglese, francese, spagnola, tedesca; arti figurative e plastiche…) è lo storicismo. Lo stesso terremoto culturale del 1968 (da cui, a mio avviso, il sistema dell’istruzione è riemerso con molti danni, ma anche con almeno altrettanti vantaggi) ha messo in discussione non il sostantivo (’storicismo’) bensì l’aggettivo ( che, da ‘hegeliano’, è diventato, piuttosto, ‘marxista’).
Tuttavia - per ragioni complesse ma in larga parte facilmente intuibili - anche il materialismo storico-dialettico, che aveva messo in ombra l’idealismo, negli ultimi venticinque anni si è eclissato e sempre più frequentemente gli insegnanti si chiedono se la prospettiva diacronica sia davvero l’unica raccomandabile. Anch’io devo confessare che, in una certa fase della mia carriera docente, avevo ritenuto di sostituire il taglio storico-diacronico con una sperimentazione teoretico-sincronica. Incoraggiato dalla proposta ministeriale di due programmi di studio facoltativi (A e B), ho anche fondato e co-diretto una Collana editoriale di volumi redatti proprio in vista di una possibile adozione nelle scuole che avessero voluto transitare dal programma tradizionale (storia della filosofia) al programma nuovo (filosofia per problemi) . Quando, però, ho sperimentato nelle mie classi gli strumenti predisposti (ero anche co-autore di tre dei sette volumi) mi sono accorto che l’operazione non funzionava bene: senza una informazione elementare di storia del pensiero occidentale, gli alunni non erano in grado di affrontare con sufficiente consapevolezza la discussione sui problemi filosofici fondamentali. D’altronde non era immaginabile che tornassi, come se nulla fosse accaduto, all’impostazione didattica precedente. Costretto dalla scomoda posizione di chi “non è più″ su una sponda e “non è ancora” sulla riva opposta, ho provato a uscire dalla metà del guado del fiume con varie sperimentazioni. Ormai alle soglie del pensionamento, posso provare a rappresentare il quadro attuale della ratio della mia pratica didattica, di cui sarei insincero se mi dichiarassi del tutto insoddisfatto.

Intreccio fra prospettiva diacronica e prospettiva tematica

L’attuale ordinamento nazionale prevede, per ogni cattedra come la mia nei Licei ad indirizzo classico-umanistico, 6 ore di lezioni settimanali per ciascuna classe del triennio terminale (terza, quarta e quinta) prima dell’ingresso in una Facoltà universitaria. Nei Licei a indirizzo scientifico o linguistico o psico-pedagogico et cetera le ore sono, solitamente, un po’ di meno.
Dedico due ore alla storia (economica, sociale, politica, militare, culturale…); un’ora alla educazione civica (una materia che di solito i miei colleghi trattano da Cenerentola, evitando persino di far acquistare un testo apposito , di tenere lezioni ad hoc, di verificare il processo di apprendimento specifico, di valutare la preparazione degli alunni…con il pretesto di inglobarne l’insegnamento nel corso di storia. Trovo, invece, molto interessante per gli studenti non limitarmi a cenni rapsodici occasionati da episodi storici o da fatti di cronaca, ma svolgere una trattazione organica di avviamento alla politica o, se si preferisce, alla cittadinanza critica e responsabile: illustrando gli elementi di diritto costituzionale, i lineamenti essenziali delle principali ideologie politiche del Novecento , le informazioni basilari sul sistema mafioso e sulle possibili strategie anti-mafia ); due ore alla storia della filosofia e un’ora alla filosofia. Mi concentro su queste 2 ore + 1.
Cominciamo dalle due ore di storia della filosofia. Quando ero studente, negli anni immediatamente precedenti al ‘68, circolavano testi di storia della filosofia molto poco ‘appetibili’: schematici, nozionistici, privi di brani antologici tratti da ‘classici’. Da una ventina d’anni in qua, invece, circolano in Italia dei libri davvero ben fatti che offrono a docenti e discenti percorsi di studio nutriti da ‘personalizzare’ : testi che, con dosaggi diversi, provano a mantenere la ‘tradizionale’ prospettiva storico-diacronica senza rinunziare ad aprire delle finestre tematiche (sul problema dell’essere, della conoscenza, del linguaggio, della storia, della religione, del diritto, dell’arte…). Qualche manuale scolastico aggiunge, in coda agli autori contemporanei, una parte tematica: la questione teologica, le domande politiche, gli interrogativi bio-etici… Altri autori, addirittura, hanno provato a organizzare l’esposizione storica dei filosofi del passato secondo blocchi tematici: il problema dell’essere (Parmenide, Eraclito, Platone, Aristotele); il problema dell’uomo (Sofisti, Socrate, Scuole Ellenistiche); il problema di Dio (sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno); il problema della conoscenza (Cartesio, Hobbes, Locke, Hume, Kant) e così via. L’esigenza di base è chiara: evitare che i ragazzi escano dai licei (che frequentano in cinque anni decisivi della loro formazione: dai quattordici ai diciotto) con la convinzione che la storia della filosofia sia una filastrocca di bizzarrie paradossali raccontata da un ubriaco in vena di umorismo.

Qualche precisazione sulla dimensione storico-diacronica

Ma, per rappresentare meno imperfettamente la situazione, è opportuno che spenda qualche parola di chiarimento su queste due dimensioni (la storica e la teoretica). Non basta, infatti, dire che si studia la storia del pensiero occidentale; vanno anche specificate le soluzioni a una serie nutrita di quesiti: quando inizia il pensiero occidentale? Con Socrate o, prima, con i ’sapienti’ come Talete o ancora prima con le teogonie e cosmogonie poetiche? Si possono ignorare del tutto le dottrine diffuse in Oriente (nel Vicino e nell’Estremo Oriente) prima e durante il V secolo avanti Cristo? E si può passare dai classici greci ed ellenistici ai Padri e Dottori del Medioevo senza sfiorare, neppure en passant, le linee essenziali delle Scritture Sacre ebraiche, cristiane ed islamiche? E quando ci si avvicina ai nostri giorni, ci si può limitare ai filosofi in senso stretto o si devono trattare anche pensatori (come Leopardi, Marx, Kierkegaard, Leone XIII, Darwin, Lenin , Freud, Adler, Jung, De Seassure, Barth, Gandhi, Einstein…) che si sono autointerpretati come poeti, scienziati, “scrittori religiosi”, dirigenti di organizzazioni politiche o confessionali? La libertà d’insegnamento, garantita dalla Costituzione italiana, permette ad ogni docente di dare a ciascuna di queste domande una risposta ‘personale’. Trovo la situazione auspicabile (se si obbligasse ogni docente di storia della filosofia a trattare anche Darwin o Freud come se fossero filosofi ‘tipici’ , non solo rivoluzionari in settori diversi dalla filosofia che hanno sconvolto le fondamenta anche della filosofia, si correrebbe il rischio di veder maltrattati da questo o quel docente degli autori che egli non apprezza, o forse neppure conosce) e, in ogni caso, inevitabile (nessuna didattica mediamente seria consente di affrontare tutti gli autori elencati nell’indice di un manuale: tagli, rinunzie, salti sono necessari, anche quando li si considera dolorosi).

Come se le domande sui contenuti non fossero abbastanza scottanti, se ne impongono altre di tipo metodologico: bisogna limitarsi alla trattazione sintetica, selettiva, ma chiara e ordinata del manuale o è opportuno che gli studenti abbiano un contatto diretto con i testi originali dei filosofi? E nei casi (ormai maggioritari) in cui si propendesse per la lettura dei ‘classici’, si deve partire dalle pagine del filosofo per poi tentarne di ricostruire il profilo o conviene piuttosto partire dalla presentazione manualistica delle sue opere e solo in un secondo momento sondare questo o quel brano, addirittura questa o quell’opera, scritti di suo pugno? Insomma: sono i ‘testi’ che devono fare da chiave per entrare nella prospettiva complessiva di un pensatore o, al contrario, deve essere una presentazione generale e sommaria di un pensatore a fare da chiave per entrare nelle sue pagine?
Neppure a queste domande sono date, nel sistema scolastico italiano, delle risposte univoche: né di diritto né, ancor meno, di fatto. Certo non mancano circolari ministeriali, saggi di studiosi, documenti di associazioni di docenti di filosofia: ma, in pratica, ognuno fa quel che vuole. O, per lo meno, quel che può: sia in relazione alla propria preparazione (non dimentichiamo che molti insegnanti sono filosofi ‘costretti’ dall’ordinamento a insegnare anche ’storia’ ed ‘educazione civica’, ma non mancano certo insegnanti appassionati di storia ‘costretti’ a insegnare anche ‘filosofia’) sia in relazione alle classi (alcune delle quali si entusiasmano alla lettura di un dialogo di Platone o di una lettera di Voltaire, mentre altre si annoiano palesemente, vistosamente). Anch’io navigo a vista e decido di classe in classe, talora di ora in ora: in genere preferisco di gran lunga assicurare a tutti gli alunni una presentazione sommaria del pensiero di un autore e affidare alla libera iniziativa dei singoli la lettura di qualche brano o di qualche opera intera; tuttavia, non appena intravedo qualche spiraglio di disponibilità almeno temporanea, non resisto alla tentazione di proporre come elemento costitutivo del programma ‘obbligatorio’ qualche capitolo del Discorso sul metodo o qualche sezione della Fenomenologia dello Spirito, nella mal celata speranza che l’aperitivo possa stuzzicare un più esigente appetito intellettuale.

Qualche precisazione sulla dimensione problematico-tematica

Ho voluto richiamare alcuni dilemmi pedagogico-didattici riguardanti la dimensione storico-diacronica dell’insegnamento della filosofia per dare un’idea della complessità della questione, almeno nel dibattito fra insegnanti italiani. Non certo più semplice si delineano i dilemmi pedagogico-didattici, se non addirittura già sostanzialmente filosofici, che riguardano l’altra dimensione dell’insegnamento: l’ambito problematico-tematico (o, con un termine un po’ più impegnativo, teoretico). Ho già accennato sopra alle ragioni di questo asse d’interesse: la perdita di consensi da parte dello storicismo (hegeliano e poi anche marxista) ha moltiplicato nel mondo dei docenti il desiderio di non limitarsi a raccontare ai ragazzi la storia della filosofia, ma di provare anche a fare filosofia. Riprendendo e correggendo leggermente Kant, in molti di noi si è manifestato il proposito di insegnare le filosofie per sollecitare l’attitudine a filosofare.
Ma che significato si può attribuire al verbo ‘filosofare’ quando i soggetti in questione non sono degli adulti specializzati bensì degli adolescenti? Se in questi casi si parla di co-filosofare non si sta cedendo alla tentazione della demagogia? In effetti, l’impostazione universitaria (almeno in Italia) non lascia molto spazio fra due corni dell’alternativa ’secca’: se non fai storia della filosofia, allora fai filosofia teoretica. Produci nuovi sistemi o, almeno, re-interpreti in maniera originale uno dei sistemi ‘classici’ che si sono guadagnati un posto d’onore nella galleria dei ‘modelli’. E’ evidente che, in una visione del genere, risulta semplicemente ridicolo ipotizzare uno studio della storia della filosofia in funzione di un’elaborazione filosofica personale da parte degli alunni.
Ma forse filosofare è un’attività che si può svolgere a diversi livelli di profondità. Forse, come sostiene il mio amico Alessandro Volpone, è un po’ come la musica o il foot-ball: la si può praticare pur non chiamandosi Schelling o Wittgenstein, come si può comporre musica anche senza chiamarsi Bach o Mozart o giocare a pallone con gli amici anche senza essere Pelé o Maradona . Forse imparare a filosofare significa, in senso incipiente e propedeutico, imparare a ragionare e, ancor più, a coordinare - almeno intenzionalmente - la sfera delle proprie idee con lo stile di vita abituale. Se questa accezione ‘debole’ o, direi meglio, ‘analoga’ di filosofare è legittima, perché non si potrebbe applicare al caso dei nostri alunni? L’esperienza ormai più che ventennale di varie iniziative di “filosofia per…non filosofi” - esperienza che si è felicemente intrecciata con la Philosphische Praxis di Gerd Achenbach e dei suoi ammiratori e seguaci sparsi un po’ in tutto il mondo - mi conferma nell’idea che ogni uomo ha una propria weltanschauung e che può scegliere di conservarla acriticamente e passivamente oppure di metterla in discussione riappropriandosene criticamente e liberamente. Lo dico con franchezza: un sistema scolastico che non dia allo studente gli strumenti - e le motivazioni - per maturare una propria visione dell’uomo, della società, del mondo…fallisce uno dei suoi compiti educativi centrali. Ed è un fallimento duplice: dal punto di vista dell’offerta culturale (perché la filosofia, se rimane pura memoria della tradizione storiografica, non attua la sua pluridimensionalità costitutiva) e dal punto di vista dei bisogni sociali (perché nessuna democrazia può sopravvivere se la stragrande maggioranza dei cittadini rinunzia a pensare con la propria testa).
Resta da chiarire, a questo punto, il risvolto ‘materiale’ della questione: quale ’spazio’ prevedere per il filosofare? Quale ‘luogo’ predisporre per dare ai giovani l’occasione di andare, grazie alla storia della filosofia, oltre le filosofie degli altri? Quali ’segmenti’ del tempo didattico riservare alla loro elaborazione di teorie personali e di confronto con le teorie dei compagni (e, se del caso, con prudente moderazione, del docente)? La mia risposta ‘pratica’ muta di anno in anno, anzi di classe in classe. Come ho ricordato sopra, l’attuale ordinamento degli studi in Italia prevede, per ciascuna delle tre classi terminali del Liceo classico, 3 ore settimanali per l’ambito filosofico (e 3 per l’ambito storico-sociale). In alcune classi ci sono abbastanza allievi così svegli, così interessati e creativi, che prendono spunto da qualsiasi trattazione storico-filosofica per avanzare obiezioni e proporre alternative teoriche: non puoi cominciare a raccontare la proposta filosofica di un Socrate o di uno Spinoza o di un Popper senza essere, felicemente !, interrotto da interventi ‘critici’. In queste casi preferisco dedicare tutte e tre le ore alla storia delle filosofie contando sul fatto che, nel corso delle lezioni, germinerà spontaneamente il filosofare. Ci sono dei casi però in cui la classe è troppo esigente, o troppo poco interattiva, per mantenere questa opzione didattica. Mi spiego meglio. Talora, eccezionalmente, può capitare una classe in cui - se non proprio tutti - molti alunni esprimano l’esigenza di affrontare una tematica (la giustizia sociale o la ricerca religiosa o l’epistemologia o l’etica sessuale…) in maniera organica, approfondita: in questi casi perché non dedicare un’ora (delle tre settimanali) esclusivamente a quella determinata tematica? Perché non trasformare la lezione frontale in un seminario, in un laboratorio, in una sessione di “comunità di ricerca” ? Di volta in volta ho utilizzato, come base e traccia, testi diversi: per fare due esempi fra i più riusciti, E’ possibile essere felici? Interrogare il passato senza restarne prigionieri di Elio Rindone e Etica per un figlio di Fernando Savater .
Non ricordo che mi sia capitato, ma - almeno come ipotesi - non escluderei che il ricorso a una scansione materiale più netta fra 2 ore di storia della filosofia e 1 ora di filosofia possa essere suggerita nei casi in cui una classe sia talmente poco vivace da non lasciarsi stimolare, provocare, dalla esposizione dei sistemi filosofi altrui. Forse, per degli alunni poco propensi a valorizzare gli aspetti ‘attuali’ dello studio della filosofia, potrebbe rivelarsi istruttivo - anche, per così dire, dal punto di vista simbolico - sapere che un’ora la settimana si sospende la metodologia tradizionale (il professore che spiega, il manuale sul banco, gli appunti alla lavagna e sul proprio quaderno, le verifiche orali e scritte, le valutazioni…) per regalarsi un ‘intervallo’ di silenzio meditativo e di scambio dialettico.

Augusto Cavadi

domenica 22 agosto 2010

Ci vediamo giovedì 26 agosto a Pinerolo (Torino)?


Care e cari,
ho il piacere di invitarvi ad una conversazione, introdotta da don Franco Barbero, sul tema del mio “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Cinisello Balsamo 2009).
L’appuntamento è per giovedì 26 agosto, alle ore 20,45, presso il F.A.T. (Centro terapeutico collegato alla comunità di base di Pinerolo), Vicolo Carceri 1 (a venti metri dal Municipio della città).

Se vi va, e potete, vi incontrerò con gioia.
A.

mercoledì 4 agosto 2010

Essere ‘laico’: le disavventure storiche di un vocabolo


“Il bandolo”
Luglio – agosto 2010-08-01
La parola ‘laico’

Le parole hanno lo strano destino di mutare - secondo le epoche e secondo i contesti come se fossero esseri viventi. Il vocabolo ‘laico’ è un’ottima esemplificazione di questo destino generale. Nonostante oggi, nel linguaggio dei media, lo si adoperi essenzialmente in opposizione a ‘credente’, ‘religioso’, ‘confessionale’, la sua origine pare sia squisitamente cristiana. Etimologicamente, infatti, laico è colui che appartiene al popolo (in greco, laos): più esattamente, al ‘popolo di Dio’. Sarebbe bello riscoprire e custodire questo prezioso significato originario ! Tu non puoi essere suora cattolica o pope ortodosso o pastore protestante se non in quanto - prima di tutto ed essenzialmente - sei un ‘laico’: un membro del popolo di Dio. In questo senso, negli anni Sessanta del secolo scorso, un teologo cattolico progressista proponeva - non senza un pizzico di provocazione- che si abolissero tutti gli altri titoli onorifici e ci si salutasse, tra parrocchiani di un borgo di montagna come fra cardinali del Concistoro, solo con un “Eminentissimo laico!”.
Ma cosa è successo, invece, storicamente nella cristianità? Già nel Medioevo si è andata configurando una dicotomia che, per il Nuovo Testamento, sarebbe risultata incomprensibile: alcuni ‘laici’ restano ‘laici’, altri ‘laici’ ritengono che il loro ‘ministero’ presbiterale (letteralmente: da membri più ‘anziani’, più autorevoli) li collochi su un piano radicalmente differente - e superiore - rispetto al resto del ‘popolo di Dio’. Assistiamo dunque ad una prima grande metamorfosi del significato originario: ‘laico’ è, nel linguaggio teologico medievale (sostanzialmente immutato all’interno della terminologia in uso nella Chiesa cattolica romana e nelle Chiese acefale ortodosse), il battezzato che non è ‘prete’ né ‘vescovo’ né ‘papa’. Essere ‘laici’ significa non essere stati ammessi alla gerarchia sacerdotale (nei suoi tre gradi: diaconato, presbiterato, episcopato): non aver ricevuto, mediante il sacramento dell’ordine, un ‘carattere’ che rende ‘ontologicamente’ irriducibili rispetto alla semplice base. E poiché un certo numero di preti sceglie di vivere in maniera monacale (sino al XII secolo) o in confraternite (da San Domenico e da San Francesco in poi), per una sorta di estensione vengono considerati ‘non laici’ anche gli uomini e le donne che rinunziano alla vita nel mondo e ‘professano’ i tre voti di obbedienza (ai ’superiori’), castità celibataria (intesa come rinunzia radicale ad ogni attività sessuale) e povertà (concepita come rinunzia radicale ad ogni diritto di proprietà privata). Come è noto, Lutero e gli altri riformatori hanno contestato questa suddivisione ‘ontologica’ fra battezzati-laici e battezzati-chierici, ripristinando una figura di pastore puramente ‘funzionale’. Ma, intanto, almeno in Italia e in altri Paesi a maggioranza (ufficialmente) cattolica, avveniva una seconda metamorfosi del vocabolo. Per una serie di ragioni storiche che sarebbe complicato richiamare, ‘laico’ inizia a significare non più solo ‘non-chierico’ (né consacrato mediante ‘voti’) ma, tout court, ‘non-cattolico’ e - poiché non si tiene conto della presenza, sia pur minoritaria, delle altre chiese diverse dalla cattolica romana - ‘non-cristiano’. Questa, grosso modo, la situazione attuale a cui ho fatto riferimento all’inizio. Ma ci possiamo accontentare del linguaggio dominante? Dobbiamo rassegnarci a intendere per ‘laicità‘ una sorta di neutralismo delle idee e di indifferentismo etico? O non dobbiamo provare a rivisitare il vocabolo, e a modificarne il significato, per evitare che le imprecisioni linguistiche fomentino la confusione delle idee e dei comportamenti pratici? La proposta che comincia a circolare negli ultimi decenni, e con la quale concordo, è di intendere la ‘laicità‘ non in antitesi a qualche altra dimensione antropologica bensì in sé stessa: come costellazione di atteggiamenti quali la curiosità intellettuale, la ricerca senza pregiudizi, il confronto sincero con le posizioni altrui, la tolleranza ed anzi la valorizzazione delle tradizioni diverse dalla propria…Così intesa, la laicità è compatibile con ogni convinzione religiosa: cattolica, ortodossa, protestante, ebraica, islamica, buddhista, induista, taoista, confuciana, animista, agnostica, atea. L’unica incompatibilità che può oscurare la laicità è costituita da un complesso di atteggiamenti mentali e comportamentali quali, la diffidenza verso il nuovo o il diverso, la rigidità fondamentalistica, la banalità conformistica, il dogmatismo atterrito dalle obiezioni che lo possono mettere in crisi…E’ del tutto evidente che, se si accetta questa interpretazione, è possibile trovare non solo veri laici fra credenti ma anche perfetti bigotti fra i non-credenti. Da quello che ne possiamo sapere, Socrate o Gesù di Nazareth sono stati dei ‘laici’ indomabili; Erode o Stalin dei bigotti a tutto tondo.

lunedì 2 agosto 2010

Bruno Vergani recensisce il mio “Filosofia di strada”


Sul quotidiano telematico (gratuito) www.cronachelaiche.it del 29 luglio 2010 è stata ospitata una bella recensione di Bruno Vergani ad uno dei miei ultimi libri.
Sono sinceramente grato a Bruno perché, essendo egli un filosofo di vocazione e di tempra (non di mestiere), so quanto pesano le sue parole di uomo onesto e saggio impegnato nel lavoro creativo delle mani e nei rischi quotidiani del commercio.
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Augusto Cavadi, “Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche”, Di Girolamo, Trapani 2010.

Filosofia di strada
Nei licei e nelle università non si “fa” filosofia, ma si insegna storia della filosofia. Raro, in ambienti accademici e non solo, un approccio alla materia che favorisca percorsi praticabili, che permetta azioni consapevoli, che suggerisca prassi politiche. La filosofia pratica è disciplina che ci emancipa da questo approccio intellettualistico, perché offre metodi e strumenti per renderci attori consapevoli del percorso personale e collettivo che l’esistenza esige.

Conoscere la filosofia, i suoi esponenti, i suoi metodi non per mera e neutra erudizione, ma per mettere alla prova quel pensiero oggi, per declinarlo qui e ora, sperimentando nella concretezza del vivere quotidiano quei percorsi e contenuti, per verificare se e quanto rispondono alle domande fondamentali dell’essere, dell’esistere, del realizzarsi e del morire, per inventare ipotesi originali e iniziare percorsi inesplorati.

La filosofia pratica da alcuni decenni si sta diffondendo in occidente e Cavadi, pioniere della materia, spiega e testimonia in questo saggio cos’è e come si pratica. Fatica (pp. 350) specialistica ma nel contempo di indubbio interesse per molti. Specialistica perché insegna le origini della filosofia pratica, rendiconta gli sviluppi e le applicazioni sul campo, approfondisce in dettaglio il confronto dialettico con gli esponenti storici delle diverse “pratiche filosofiche” e delle relative scuole. Affronta in profondità il rapporto, talvolta ostico, con le discipline contigue, analizzando le possibilità di alleanza e i confini teoretici, pratici e deontologici; le sinergie e reciproci rischi di ingerenza rispetto a figure come lo psicologo, lo psichiatra e, razza in via d’estinzione tuttavia trattata, i direttori spirituali.

Approfondimenti specifici utili anche per i non addetti ai lavori che per analogia possono agilmente trasporre le tematiche specialistiche in contesti allargati o più prossimi; essendo il campo di lavoro il pensiero umano stesso, di fatto la filosofia pratica è applicabile a tutto e a tutti: dimensioni personali e collettive, familiari e sociali, professionali e artistiche, spirituali e politiche.
Qui sta, per il non addetto ai lavori, l’opportunità ma anche il rischio: un fai da te inevitabilmente approssimativo e autoreferenziale, senza un compagno di viaggio competente, può condurre all’equivoco, alla confusione, alla perdita di tempo, allo smarrimento.

La filosofia pratica non è banalizzazione, non è un approccio “new age” alla filosofia. Qui Cavadi tira fuori gli attributi del filosofo e chiarisce in profondità, spacca il capello in quattro esponendo con rigore scientifico la disciplina della filosofia pratica attraverso puntuali ed esaurienti connotazioni epistemologiche.
Non so se oggi per la strada si affrontino le faccende dell’essere, dell’esistere e del relazionarsi con questo metodo e competenza, comunque l’Autore così ha titolato: “Filosofia di strada”.
Poi ha aggiunto “La filosofia-in-pratica e le sue pratiche” il titolo vero.
Libro assolutamente da leggere e vivere.

“Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche”
Augusto Cavadi
Di Girolamo Editore, Trapani 2010, euro 28,00

Bruno Vergani