mercoledì 31 luglio 2013

Vacanze filosofiche (24-30 agosto) e Filofest (30 agosto - 1 settembre): ultimo avviso


COMUNICATO STAMPA

su
Vacanze filosofiche per non filosofi (24 – 30 agosto 2013)
e
Secondo Filofest, Festival nazionale della filosofia di strada
(30 agosto – 1 settembre)

Intelligente, ma soprattutto riflessiva, l’estate proposta dal 24 al 30 agosto attraverso la tradizionale “Vacanza filosofica per non...filosofi”, a Leonessa (Rieti), sui Monti Sibillini, coordinata da Elio Rindone sul tema “Il divino al vaglio della filosofia”.  Partecipano anche Mario Trombino e Francesco Di Palo.

Spostandosi, poi, di poco più di 100 kilometri, a meno di due ore di auto, sull’altro versante dei Monti Sibillini, si potrà raggiungere Amandola dove, dalle 17 dello stesso venerdì 30 agosto sino al pranzo di domenica 1 settembre, avrà luogo la seconda edizione della “Filofest”, la Festa nazionale della filosofia di strada, il cui tema è “Osare il varco”, promossa dall’associazione Wega in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno, sotto la direzione scientifica di Augusto Cavadi. Sulla falsariga del programma dello scorso anno, che ha visto la partecipazione di circa trecento persone, ognuno potrà scegliere a quali “pratiche filosofiche” partecipare da “non filosofo” di mestiere, ma da “filosofo” per passione: colazioni e passeggiate filosofiche, dibattiti, meditazioni laiche, gite nel bosco, concerti di musica celtica e arpa, animazione gratuita con gli asinelli, i pony e i clown terapeuti. Per tutti c’è ovviamente la possibilità di pernottare nelle strutture convenzionate proposte
dall’organizzazione (www.vacanzesibillini.it), ma anche organizzarsi in proprio, sapendo che la partecipazione al festival è gratuita.

Per ulteriori informazioni, si può visitare il sito www.wegaformazione.com
oppure scrivere a info@wegaformazione.com
o chiamare il 334.3004636.
Ulteriori dettagli anche sul sito www.vacanzefilosofiche. altervista.org.
Per la Filofest 2013 vedere anche profilo Facebook di Wega. formazione
e i filmati su Youtube:



sabato 27 luglio 2013

Il caso don Nuovola e l'ipocrisia cattolica eretta a sistema


“Repubblica – Palermo”
25.7.2013

L’IPOCRISIA ERETTA A  SISTEMA


L’arresto per sfruttamento della prostituzione minorile (maschile) di don Aldo Nuvola, uno dei preti più noti a Palermo, non può non suscitare una vasta gamma di sentimenti e di considerazioni. Innanzitutto s’impone un sentimento di profonda pietà: per il prete recidivo (già condannato per reati simili) e per il mondo variegato di ragazzini a perdere che ogni giorno, nell’indifferenza di noi cittadini ‘perbene’, si vendono per poche decine di euro. E’ chiaro infatti che adulti e minorenni sono all’interno di un giro così vizioso che né il comune senso del pudore né il timore stesso della probabile sanzione penale riesconono a dissuaderli dal perseverare.
   Quando l’infelice protagonista è un prete cattolico scattano considerazioni specifiche che non sempre sono adeguatamente fondate. Mi riferisco ad esempio al collegamento fra obbligo del celibato e casi di pedofilia. Come ho notato in un libro-inchiesta non certo benevolo verso questa orrenda problematica (Non lasciate che i bambini vadano a loro, Falzea, 2010), si tratta di un collegamento gratuito: le percentuali di preti cattolici pedofili non sono più alte rispetto a categorie analoghe (pastori protestanti sposati, rabbini ebrei, allenatori di squadre di calcio giovanili, insegnanti di scuole medie e così via). Ciò che, invece, indigna con più ragione è la contraddizione fra il messaggio ufficiale della Chiesa cattolica in fatto di sessualità (in generale) e di omosessualità (in particolare) e la prassi ampiamente diffusa, da secoli, nel suo interno. Solo poche sere fa, a Roma, un mio giovane amico prete veneto mi confidava a cena di essere contento di aver concluso i suoi studi teologici nella capitale per vari motivi, tra i quali la prospettiva di lasciare un ambiente clericale (non solo di monsignori, si badi bene, ma anche di professionisti cattolici sposati e con figli) dove, con le modalità più viscide fatte anche di promesse di rapida carriera gerarchica, era oggetto di insistenti avances sessuali. Perché il messaggio ufficiale si fa sempre più insistente in direzione sessuofobica e omofobica (almeno con i due pontificati Wojtyla e Ratzinger, Bergoglio sembra invertire la rotta anche su questo terreno), mentre si tollera sul piano effettivo ogni genere di abuso?
    Ciò che offende la coscienza (laica o credente che sia) è questa sorta di ipocrisia eretta a sistema: che è l’esatto contrario non solo dell’etica laica ma anche dello spirito evangelico. La trasparenza esigerebbe, al contrario, un consapevole ribaltamento dell’impostazione ‘pastorale’ (che, in termini non teologici, equivale alla politica culturale della Chiesa cattolica). Non, ovviamente, in nome di un superficiale adeguamento all’andazzo dei tempi (come si evince da alcune intercettazioni ambientali in cui don Nuvola fa riferimento allo stile di Berlusconi e alle sue risorse finanziarie), bensì in nome di una più attenta fedeltà all’insegnamento di Cristo e alla tradizione dei primi secoli di storia cristiana. In quale passo evangelico, infatti, si condanna la dimensione sessuale dell’uomo? Dei dodici apostoli, di uno solo si dice che non era sposato: e quasi certamente perché troppo giovane. Nei primi secoli per diventare presbitero (prete) ed episcopo (vescovo) era non solo lecito, ma obbligatorio, aver dato prova di saper reggere una propria famiglia con moglie e figli. Delle centinaia di chiese cristiane oggi sparse sulla faccia della terra (cattolica, valdese, ortodossa, anglicana, luerana, calvinista, battista…) solo una impone ai suoi ministri l’obbligatorietà del celibato e, per giunta, l’astensione da qualsiasi gratificazione affettivo-sessuale (norma valida - ormai solo sui catechismi -  per qualsiasi fedele che non sia ancora, o non sia più, coniugato sacramentalmente). In una rilettura ermeneuticamente più corretta del messaggio sessuale biblico anche l’omoaffettività risulta radicalmente rivalutata.
      La saggezza dei grandi fondatori di scuole filosofiche o di movimenti religiosi si è dimostrata, lungo i secoli, anche in questo: parlare poco di ciò che avviene nel segreto delel camere da letto e molto di ciò che avviene alla luce del sole. Là dove pochi sfruttano il sudore di molti; gli arruffoni e i menzogneri si arrampicano sulle scale del potere per dominare gli onesti e i modesti; i carnefici si addormentano nelle loro case e le vittime non hanno giustizia neppure da morti. Solo una umanità meno violenta e più fraterna, riconciliata con gli altri animali e con il cosmo naturale, potrà riscoprire la sessualità come linguaggio di comunicazione e di interscambio, non come oggetto di compravendita del tutto prosciugato da ogni traccia di amore autentico.

Augusto Cavadi
  

sabato 20 luglio 2013

TRA MORI E BORSELLINO: LE PAROLE NON DETTE

“Repubblica – Palermo”
20 luglio


TRA MARIO MORI E LUCIA BORSELLINO: LE PAROLE NON DETTE

       Salgo sull’aereo per Roma delle ore 12 di giovedì 18 luglio. Mi hanno assegnato il 9 A, proprio accanto al finestrino: ma sono felice di non avere nessun compagno di viaggio nei due sedili alla mia destra. Al di là del corridoio, invece, i posti della fila 9 sono occupati da tre signori che viaggiano insieme: un giovane, un signore di mezza età e un signore più anziano, tra i settanta e gli ottanta direi. Mi sembra di conoscerlo e neanche inflessione e timbro della voce mi riescono nuovi. Sfoglia il giornale e si sofferma sulla pagina dedicata all’imminente commemorazione della strage di via D’Amelio: Borsellino fu davvero vittima della sua avversione a qualsiasi trattativa fra Stato e Cosa nostra?
     Nella fila davanti alla sua viaggia una signora sola: siede sulla poltrona 8 D, ma anche lei, come me, ha a disposizione l’intera terna di posti. E’ magra, vestita con sobria eleganza, per le mani un quotidiano. Neanche lei è per me un volto ignoto. Osservo che si sta soffermando sui servizi giornalistici riguardanti l’assoluzione di ieri del generale Mori: nonostante gli indizi, che per la Procura di Palermo valevano come prove, l’allora capo dei Ros non è responsabile di nessuna complicità con i mafiosi, non ha mai favorito la latitanza di Provenzano né di alcun altro boss.
     Rifletto un po’, frugo nella memoria, mi coglie un doppio flash: ma sì,  il signore anziano che legge di Borsellino è il generale Mori, la signora asciutta che legge di Mori è Lucia Borsellino. Mi chiedo se l’uno abbia riconosciuto l’altra, se l’altra l’uno. Mi chiedo se, forte dell’assoluzione in primo grado, Mori vorrebbe dire alla Borsellino, nel caso la riconoscesse: “Comunque, sappia che per suo padre mi sono addolorato molto. La sua ferita è, in piccola parte, la mia: come uomo e come servitore della Repubblica”. E mi chiedo se la Borsellino, a sua volta, vorrebbe dire a Mori, qualora capisse chi è: “Sono contenta della sua innocenza giudiziaria. Ma adesso una mano ce la dà a noi familiari, a questa Sicilia, all’intero Paese, per sapere come sono andate davvero le cose? Abbiamo sofferto, già da prima del 19 luglio 1992, tutto ciò che si può soffrire. Non abbiamo diritto, a titolo di risarcimento parziale, alla verità sugli assassini di mio padre? ”. Ma sono domande interiori che mi pongo ad alcune migliaia di metri dalla terra, addirittura al di sopra delle nuvole. Tra quindici minuti atterreremo a Fiumicino. Mori andrà per la sua strada, la Borsellino pure. Non si diranno una parola, forse non si scambieranno neppure uno sguardo. Al passeggero che casualmente ha condiviso lo stesso volo non resta che l’amarezza della storia: Palermo è anche questo, l’Italia è anche questa.

Augusto Cavadi

lunedì 15 luglio 2013

CINQUANT'ANNI DOPO IL MANIFESTO DEL PASTORE PANASCIA SULL'ECCIDIO DI CIACULLI


“REPUBBLICA- PALERMO”

 SABATO 13 LUGLIO 2013

CHIESA E MAFIA CINQUANT’ANNI DOPO CIACULLI


 La lupara ad personam non è mai stata l’unica tecnica adottata dalla mafia per imporre il suo violento dominio territoriale. Già il 26 dicembre del 1920  quattro persone incappucciate, rimaste sconosciute, lanciarono una bomba all'interno della sezione socialista di Casteltermini, nell’agrigentino, provocando, oltre a numerosi feriti, la morte del segretario locale e di quattro contadini iscritti al partito. Altri attentati dinamitardi di matrice mafiosa (la strage di Partinico con due vittime e la strage di Canicattì con 4 morti e circa 20 feriti) furono consumati nei mesi successivi alla strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 (in cui si contarono, come è noto, 11 morti e 56 feriti ). Probabilmente però la strage di Ciaculli, quartiere periferico di Palermo,  del 30 giugno 1963 ebbe una caratteristica sinistramente originale: l’Alfa Romeo  Giulietta imbottita di tritolo fu la prima strage ‘interna’  a Cosa nostra. Preparata da mafiosi con l’intento, fallito, di far fuori altri mafiosi.
      Forse per questa caratteristica di faida tra criminali, l’opinione pubblica non sembrò sconvolta dalla notizia. Ancora una volta prevalse fra la gente il ritornello, illusoriamente consolatorio, del “tanto s’ammazzano fra loro”.  Eppure si trattava, oggettivamente, di un evento sconvolgente che anticipava la successiva strategia stragista degli anni Novanta. A saltare in aria, infatti, non furono – come nei piani – altri mafiosi, ma sette servitori dello Stato: avvertiti da una telefonata anonima accorsero artificieri e uomini delle Forze dell’ordine che constatarono l’innocuità di una bombola che faceva capolino dall’interno della vettura. Si trattava purtroppo di una trappola. Infatti l’esplosione avvenne dopo, quando uno dei militi intervenuti aprì il portabagagli per vedere cosa contenesse: a rimanere dilaniati il tenente dei carabinieri Mario  Malausa, i marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell'esercito Pasquale Nuccio, il soldato Giorgio Ciacci.
     Erano gli anni in cui alla stragrande maggioranza della popolazione la parola ‘mafia’ si fermava in gola per la paura: solo “L’Ora”, Danilo Dolci e qualche altro “comunista” più o meno incosciente riusivano a pronunziarla. Gli ambienti religiosi, “moderati” e perbenisti, poi, erano troppo impegnati a discettare sulle lacrime delle Madonne in vena di apparizioni per abbassarsi a occuparsi di assassini, bombe e vittime civili…In campo cristiano,  unica voce a spezzare l’assordante silenzio, il pastore Pietro Valdo Panascia che dovette vincere le resistenze persino all’interno della sua piccola chiesa valdese. Di tasca propria, infatti, fece stampare e affiggere un Manifesto (“Iniziativa per il rispetto della vita umana”) per le vie della città  in cui  si appellava, , “a quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo, onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana, richiamando tutti ad un più alto senso di sacro rispetto della vita e alla osservanza della Legge di Dio che ordina di non uccidere”.
     Ma l’appello cade nel vuoto. Il cardinale Ernesto Ruffini, a capo della chiesa cristiana più numerosa, tace. Su input dello stesso papa Paolo VI,  la Segreteria di Stato vaticana scrive all’arcivescovo di Palermo per segnalare l’iniziativa della comunità valdese e per suggerire “un’azione positiva e sistematica per dissociare la mentalità della così detta ‘mafia’ da quella religiosa”, ma il “principe della Chiesa cattolica” risponde quasi piccato: “Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa”. Il modo in cui la chiesa cattolica si dedica all’educazione morale dei cittadini  “non è eccezionale, come l’intervento del Pastore Pier Valdo Panascia, ma continuo”.  La disistima di Ruffini, capo di una diocesi di 700.000 fedeli, nei confronti di Panascia, pastore di una comunità di 700 membri, è palpabile: egli stesso aveva da anni promulgato un decreto per cui chi fosse entrato, anche solo per curiosità, dentro il tempio valdese di via Spezio sarebbe stato ipso facto scomunicato!
      Due ecclesiologie erano di fronte: una concezione della chiesa come istituzione di potere che ritiene l’alleanza con la Democrazia cristiana e la lotta al comunismo una priorità assoluta rispetto ai fenomeni mafiosi, ridotti al rango di criminalità comune come se ne trova in tutto il pianeta; e, dall’altra parte, una concezione della chiesa come minoranza morale, coscienza critica di una società ormai assuefatta alla violenza da non avere più neppure la capacità di indignarsi.
Sul momento l’ecclesiologia ruffiniana risultò vincente, ma i decenni successivi rimetteranno in gioco molti (perversi) equilibri. I frutti dell’azione pastorale sistematica di Ruffini si snocciolarono anno dopo anno: una lunga lista di cattolici di indubbia complicità criminale (da Lima e Ciancimino sino a Cuffaro e Antinoro). Parallelamente il seme piantato da Panascia è andato crescendo: il Centro diaconale della Noce (che ha voluto organizzare in questi giorni un convegno per celebrare il cinquantesimo anniversario del “Manifesto” valdese) è diventato uno dei punti di riferimento più significativi della città, soprattutto per la cura dei minori in difficoltà e per l’accoglienza materiale e spirituale degli immigrati dall’Africa.
     Anche da parte cattolica, in questi decenni, si sono fatti enormi passi in avanti, dei quali la beatificazione per martirio di don Pino Puglisi ha recentemente segnato una tappa significativa. Ma cattolici e protestanti, come più in generale credenti e ‘laici’, non possono rifugiarsi sotto nessuna icona celebrativa: l’unico modo decente di fare memoria dei pionieri dell’antimafia è di perseverare, se possibile accentuandolo, nell’impegno per una Sicilia meno corrotta e meno ingiusta. Impegno di analisi teorica, di progettualità politica, di tensione etica: insomma qualcosa di più costoso delle generiche dichiarazioni d’intenti di cui abbiamo ormai le tasche piene.

                                                     Augusto Cavadi

sabato 13 luglio 2013

Ci vediamo domenica 14 a Niscemi (Caltanissetta)?

Domenica 14 luglio 2013 , alle 17,30, incontrerò le socie della sezione niscemese di "Soroptimist".

Nell'incontro informale, a cui è stato invitato anche il sindaco della città nissena, si proverà a progettare un percorso di educazione politica alla cittadinanza responsabile, consapevole e pro-attiva.

L'incontro si terrà nell residenza estiva di Rosanna Muscia, contrada Valle Niglio (pressi dell'incrocio tra il Feudo Nobile e la strada provinciale per Vittoria).

venerdì 12 luglio 2013

Ci vediamo oggi (venerdì 12 luglio) a Palermo?


Venerdì 12 luglio alle 18,30
presso il Club “Trinacria. Società canottieri”
 (Lungomare Cristoforo Colombo, n° 5159  ,
 Addaura - Mondello, Palermo)
incontro
sul libro di Augusto Cavadi & Friends,

Presidi da bocciare?

(Di Girolamo, Trapani 2012, pp. 132, euro 12,50).

Ne discutono la prof.ssa           Neva Galioto
e il preside                              Luigi Affronti.

Introduce e modera il prof.       Maurizio Barbieri.

venerdì 5 luglio 2013

L'ENIGMA IRRISOLTO DEL MARESCIALLO LOMBARDO




 “Centonove” 5.7.2013

LOMBARDO, UN MORTO IN TRIBUNALE

 Una giornalista, Daniela Pellicanò, è attualmente sotto processo a Messina per una denuncia querela avanzata dai magistrati  Gian Carlo Caselli e Gioacchino Natoli. Tra i testi convocati il generale Mario  Mori e il colonnello Mauro Obinu. L’accusa si basa sul libro della giornalista calabrese "Uno sparo in caserma. Il suicidio del Maresciallo Lombardo", del 2006, nelle cui pagine Caselli e Natoli hanno trovato dei passaggi diffamatori nei loro confronti. Come qualcuno ricorderà, il 4 marzo del 1995 un colpo di pistola suicida interruppe, inopinatamente, la vita del maresciallo dei Ros Antonino Lombardo. Era l' atto conclusivo di una serie inquietante di episodi che segnano uno dei momenti più oscuri della storia dell' antimafia. Infatti: il 23 febbraio, durante la trasmissione di Santoro "Tempo reale", Leoluca Orlando e Manlio Mele denunziano il «comportamento equivoco di qualche esponente dell' Arma dei Carabinieri» che, nel recente passato, aveva avuto responsabilità a Terrasini; il 24 febbraio il maresciallo Lombardo (oggetto, insieme a un suo superiore gerarchico, della plateale denunzia da parte dei due politici) presenta querela; il 25 i superiori esonerano Lombardo dalla missione negli Stati Uniti dove avrebbe dovuto prelevare il boss Badalamenti; poche ore dopo, lo stesso giorno, Badalamenti comunica di non voler più riconsegnarsi alle autorità italiane; nella notte fra il 25 e il 26 febbraio viene incaprettato Francesco Brugnano (confidente di Lombardo); il 2 marzo Lombardo parte per Milano come caposcorta del collaboratore di giustizia Cangemi; il 4, in mattinata, torna in Sicilia, incontra alcuni superiori che lo avvertono della possibilità molto concreta di indagini della magistratura sulla sua correttezza professionale. Agli stessi interlocutori confida la sua amarezza, poi scrive una breve lettera di addio e si uccide nella sua auto in caserma. Su questi fatti si sono aperte inchieste, svolte indagini, celebrati processi: la questione, dal punto di vista giudiziario, è chiusa. Che nei familiari, negli amici, in fasce dell' opinione pubblica interessata a queste vicende siciliane restasse l' ansia di saperne di più, è comprensibile: ed è proprio per  rispondere a questa legittima esigenza che Daniela Pellicanò ha preso in mano tutte le carte disponibili ed ha redatto la sua accurata ricostruzione giornalistica. Il risultato resta imbracato in una contraddizione: da una parte si afferma e si ribadisce che «il caso è aperto», che gli enigmi da sciogliere restano ancora troppi; dall' altra l' autrice mostra di essere arrivata a delle certezze sulle ragioni del suicidio di Lombardo, costretto intenzionalmente ad autoeliminarsi dalla scena per evitare che Badalamenti potesse tornare in Italia. Poiché, in questa ipotesi, sarebbero individuabili alcuni responsabili - diretti o indiretti - del piano, alla prima contraddizione se ne intreccia una seconda (certamente non meno grave). Da una parte, infatti, il libro sembra scritto per difendere la memoria di un investigatore dal fango con cui è stata imbrattata da accuse fondate su dati di fatto opinabili o, per lo meno, superficiali. Ma, dall' altra, non sembra che l' autrice usi lo stesso doveroso garantismo nei confronti di altri protagonisti della vicenda, per esempio di tre magistrati della Procura di Palermo accusati - rispettivamente - di aver ostacolato, il primo, il rientro di Badalamenti (in quanto il vecchio boss di Cinisi avrebbe potuto contestare l' impianto accusatorio contro Andreotti poggiante sulle dichiarazioni di Buscetta) e di aver propalato, gli altri due, la notizia di alcune accuse contro Lombardo formulate dal «pentito» Salvatore Palazzolo. Forse, da parte dell’autrice,  sarebbe stato più saggio - davanti a una congerie di dati tanto contrastanti – evitare di prendere posizione così netta: anche perché, in casi del genere, difendere la causa di qualcuno comporta ledere gravemente l' onorabilità di altri. Perché non limitarsi a riportare, insieme alle accuse contro Lombardo, le convinte testimonianze di stima e di fiducia di quanti gli erano a vario titolo vicini (soprattutto all' interno dell' Arma dei Carabinieri)?  In democrazia, criticare nel merito le sentenze è legittimo. Meno legittimo sparare giudizi sulle intenzioni che avrebbero ispirato i magistrati in questa o quell’altra decisione: questo è uno sport che sarebbe più opportuno riservare agli imputati (condannati già in primo rado) che, usando denaro di dubbia provenienza, si dedicano a comprare complici e supporter in giro per l’Italia.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

martedì 2 luglio 2013

A cinquant'anni dal Manifesto valdese su cristiani e stragi mafiose


“Riforma” 
5.7.2013

METASTASI DIFFUSE

   C’era una volta un tempo in cui la mafia faceva esplodere le bombe contro nemici dentro e fuori Cosa nostra. Quel tempo estesosi per decenni, dagli anni Sessanta agli anni Novanta del secolo scorso, adesso pare concluso. Per due ragioni: una buona e l’altra meno buona. La ragione consolante è che la struttura militare di Cosa nostra è in difficoltà come non mai nel secolo e mezzo della  sua storia: quasi tutti i capi di due, o tre, generazioni successive stanno marcendo in carcere. La ragione meno confortante è che la mafia residua non ha molti motivi per cercare lo scontro aperto con le istituzioni: si è infiltrata abbastanza dentro i gangli che contano. Tra i suoi adepti politici e banchieri, avvocati e medici, imprenditori e professori: e, quando non le bastano, può contattarli e contrattare da pari a pari.
    Una delle prime esplosioni mafiose avvenne nel 1963 a Ciaculli, quartiere periferico di Palermo: sette morti fra le forze dell’ordine. Il pastore Pietro Valdo Panascia fa stampare e affiggere un Manifesto (“Iniziativa per il rispetto della vita umana”) per le vie della città  in cui  si appella, a nome della chiesa valdese, “a quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo, onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana, richiamando tutti ad un più alto senso di sacro rispetto della vita e alla osservanza della Legge di Dio che ordina di non uccidere”. L’appello cade nel vuoto. Come viene raccontato nel prezioso Vivere il vangelo in minoranza. Breve storia dei Valdesi a Palermo (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005) di Renato Salvaggio, lo raccoglie solo, dalla lontana Roma, la Segreteria di Stato vaticana che scrive all’arcivescovo di Palermo per segnalare l’iniziativa della comunità valdese e per suggerire “un’azione positiva e sistematica per dissociare la mentalità della così detta ‘mafia’ da quella religiosa”, ma il cardinale Ernesto Ruffini risponde quasi piccato: “Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa”. Il modo in cui la chiesa cattolica si dedica all’educazione morale dei cittadini  “non è eccezionale, come l’intervento del Pastore Pier Valdo Panascia, ma continuo”. Il presule morirà troppo presto per poter misurare per intero gli effetti positivi dell’azione pastorale dei suoi preti: la serie di politici e amministratori sedicenti cattolici di indubbia complicità criminale si snoderà per decenni (da Lima e Ciancimino sino a Cuffaro, tutt’ora in galera per favoreggiamento dei più pericolosi boss mafiosi in circolazione sino a qualche anno fa ).
    Il 5 luglio, a celebrare il cinquantesimo anniversario del “Manifesto” valdese, si terrà un convegno pomeridiano presso il Centro diaconale valdese di Palermo  (uno dei frutti più eloquenti e duraturi dell’impegno pastorale, non certo episodico, di Panascia) con la partecipazione, fra gli altri, del Moderatore della Tavola Eugenio Bernardini. Una partecipazione significativa intanto per le chiese siciliane che rischiano di assuefarsi al dominio mafioso come ci si abitua alla pioggia invernale e all’afa estiva: un fenomeno così complesso e così capace di trasformazioni camaleontiche esige un’attenzione, un’analisi e una progettualità strategica sempre rinnovate. La tentazione di non studiare, di non confrontarsi con altre realtà extra-ecclesiali impegnate sul fronte antimafioso, è forte: ma significherebbe abdicare a una responsabilità storica ineludibile. Essere lievito evangelico in un contesto sociale segnato dalla viltà dell’equidistanza fra mafia e Stato democratico significa uscire dal limbo e prendere, pubblicamente, posizione.
    La partecipazione del Moderatore è, poi, significativa per ricordare a tutte le chiese italiane che la mafia è sì radicata nel Meridione, ma non ad esso circoscritta. Come tutti i tumori, ha prodotto le sue metastasi. Dal Piemonte alla riviera romagnola, dalla Lombardia alla riviera ligure, persino fra i cantieri edili degli Abruzzi eretti per ricostruire città note per la laboriosità e la correttezza etica dei suoi abitanti, le cosche mafiose meridionali  - in combutta con le nuove mafie importate dall’Est e dall’Africa – sono riuscite a tessere relazioni affaristiche,  accordi elettorali, strategie intimidatorie. Contrastare questo cancro della convivenza democratica è certamente un dovere civile, ma per chi osa dirsi seguace del vangelo di Gesù è anche risposta a una vocazione e testimonianza di una fede incarnata nelle strade dell’umanità.

Augusto Cavadi