lunedì 31 ottobre 2011

Ci vediamo a Milano venerdì 4 novembre?

Venerdì 4 novembre, alle ore 10, nell’aula 24 edificio u6 dell’Università Bicocca (Piazza dell’Ateneo nuovo, numero 1, Milano), Augusto Cavadi, autore del volume “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo), terrà un incontro pubblico organizzato dall’associazione studentesca “Voci senza scorta”. L’ingresso è libero.

domenica 30 ottobre 2011

Quando le omelie domenicali non annoiano


“Repubblica – Palermo”
29.10. 2011

Giovanni Salonia

LE SUE BRACCIA SEMPRE APERTE
Di Girolamo
Pagine 154
euro 12,90

Di solito, durante le prediche in chiesa, i fedeli cercano di nascondere – per educazione – gli sbadigli. Rare volte così non accade, anzi addirittura si prendono la briga di registrare le omelie, di trascriverle a casa sul computer e persino di pubblicarle a insaputa dell’autore per fargli un dono inatteso. E’ quanto è avvenuto, ad esempio, a Giovanni Salonia, un cappuccino siciliano che è anche psicoterapeuta e noto autore di volumi sulla Gestalt Therapy. Una prima raccolta (se ne prevedono altre due, relative agli anni liturgici B e C) è uscita con il titolo Le sue braccia sempre aperte, ma è forse il sottotitolo che dà la chiave di lettura dei vari commenti ai brani evangelici domenicali: Omelie dalla sapienza della vita. Infatti, le parole di Salonia, partono dall’esperienza di vita e mirano all’esperienza degli ascoltatori: come scrive p. Nisi Candido nella Presentazione, “ne deriva una lettura esistenziale della Sacra Scrittura nella liturgia, una traduzione vitale della Parola di Dio per persone concrete”.
Una facile profezia (per restare in tema…): questo libretto, dal tono così fresco e accessibile, senza mai cadere nel banale, sarà graditissimo a quelle centinaia di persone che, nella nostra isola e non solo, hanno incontrato padre Giovanni Salonia e desiderano coltivarne il ricordo in attesa dell’incontro successivo.

Augusto Cavadi

venerdì 28 ottobre 2011

Libertà di religione e laicità della scuola statale


“Repubblica – Palermo”
28 ottobre 2011
LA LIBERTA’ DI RELIGIONE IN UNA SCUOLA MULTIETNICA

Quando frequentavo il liceo, a ridosso del fatidico Sessantotto, la settimana di pasqua prevedeva un orario particolare. Lunedì e martedì uscita anticipata di due ore per gli ‘esercizi spirituali’, mercoledì non si entrava neppure: appuntamento in parrocchia per confessione annuale, messa e comunione eucaristica. No, non frequentavo una scuola cattolica confessionale, ma un istituto statale. E ciò che accadeva nella mia scuola era di fatto una consuetudine generale, almeno in Sicilia. Anni dopo un preside più coraggioso di altri si oppose alla prassi: scoppiò una polemica accesa, ma da quell’anno in poi tutti i licei cancellarono il “precetto pasquale” mattutino. Da allora, chi vuole, può decidere di dedicare alle meditazioni preparatorie e ai riti sacramentali qualcuna delle ore postmeridiane.
La memoria di quegli eventi mi è stata rinfrescata dalla notizia che a Borgo Molara, tra Palermo e Monreale, su richiesta di una madre musulmana, la dirigente scolastica ha disposto che – per evitare di mettere in difficoltà psicologiche una bambina della scuola elementare – si eliminassero alcune pratiche cattoliche tradizionali: niente preghierina all’inizio delle lezioni, niente preparazione catechetica alle feste di natale e di pasqua durante le ore di insegnamento (tranne, ovviamente, l’ora di religione). Insomma, come ha dichiarato la nuova dirigente scolastica, Melchiorra Greco, si tratta di salvaguardare la laicità di “un’istituzione che deve vedere tutti egualmente rappresentati e garantiti”. Secondo alcune notizie di stampa, un gruppo di genitori ha già preparato, con il sostegno del parroco don Pino Terranova, un documento di protesta indirizzato sia alle curie arcivescovili di Palermo e di Monreale sia all’Ufficio scolastico regionale.
In questo frangente – lo dico subito – sarebbe disastroso che l’opinione pubblica democratica lasciasse la dirigente a combattere da sola la sua piccola – ma non trascurabile – battaglia per la legalità. Per fortuna, non siamo in terra leghista: la secolare tradizione siciliana di convivenza fra etnie, culture e religioni diverse (ebraica, cristiana, islamica) ci ha educati all’interazione e alla complementarietà (basti pensare ai capolavori dell’architettura arabo-normanna), che è molto di più della mera tolleranza. Bisogna spiegare, con rinnovata pazienza, ai genitori che la “identità” dei loro figli, in quanto siciliani, è un’identità multipla, meticcia: sono figli della cattolica Roma, ma prima ancora della filosofica Atene e della ebraica Gerusalemme, senza contare le tracce perduranti e pervasive della civiltà islamica. E, soprattutto, che sono figli della democrazia repubblicana costruita, con il sangue degli italiani migliori, sulle macerie di un regime che per un ventennio ha utilizzato la religione cattolica come simbolo identitario in funzione di progetti (vanamente, ridicolmente) imperialistici.
Se poi questi genitori sono davvero credenti nel vangelo di Gesù, qualche teologo un po’ aggiornato potrebbe spiegare che proprio la fede cristiana – autenticamente interpretata – è refrattaria a ridursi, da messaggio universale, a patrimonio distintivo di una determinata nazione o, addirittura, regione. Secoli di commistione fra trono e altare, di confusione fra reati e peccati, di privilegi concordatari a favore della chiesa cattolica romana, hanno forse evitato la secolarizzazione galoppante? Hanno forse prodotto generazioni di cristiani sinceri, convinti, coerenti, istruiti biblicamente e impegnati socialmente?
L’originalità del cristianesimo è proprio di essere una proposta di vita al di là, al di sopra, delle differenze fra “uomini e donne, liberi e schiavi, greci e giudei”: quando lo si abbassa a bandiera di parte, lo si prostituisce; lo si abbandona alla strumentalizzazione dei potenti di turno.

Augusto Cavadi

martedì 25 ottobre 2011

Appunti su filosofia e globalizzazione


“Itinerarium” 12 (2004) 27, 159-166

Appunti su filosofia e globalizzazione

Uno sguardo d’insieme
La globalizzazione non è acefala: sta avvenendo nel nome di una civiltà e all’insegna della sua filosofia dominante. La civiltà occidentale si espande in nome dell’antropocentrismo nichilistico: in nome di una visione del mondo per cui il soggetto umano è unico donatore di senso e, ai suoi occhi onnipotenti, la differenza fra l’essere e il nulla appare irrilevante.
Non c’ è nessuna possibilità di umanizzare il processo globalizzatore se non si rifonda la sua prospettiva teoretica di base, rivedendo radicalmente sia l’antropocentrismo che il nichilismo. L’uomo si è sinora autointepretato, almeno da Francesco Bacone ad oggi, come il ‘padrone’ dell’essere extra-mentale: si tratta adesso di ripensarsi come l’esegeta di quel testo – in sé inesauribile – che è la realtà in tutta la sua estensione e profondità (dunque sicuramente ciò che esiste fisicamente, ma senza escludere a priori anche ciò che possa esistere ultrafisicamente).
Quella parte dell’umanità che possiede attualmente le redini della storia economica e politica - protagonista, e vittima, di una concezione nichilistica – non cerca più l’essere perché ha cancellato l’ipotesi di una dimensione metafisica e ha ridotto la dimensione fisica a oggetto di volontà di potenza: tratta l’essere come se fosse omologabile al nulla.
A questa globalizzazione nichilistica si oppone, sterilmente, l’identitarismo tribale di varie culture etniche, chiese, scuole di pensiero, movimenti politici: l’essere non viene cercato perché ci si illude di averlo catturato una volta e per sempre in maniera integrale (integralismo) e indiscutibile (fondamentalismo).
Lavorare per un’ispirazione ontologica della globalizzazione significa realizzare e diffondere un atteggiamento zetetico: ciò che è, in quanto è, non va deprezzato né monopolizzato illusoriamente, ma indagato e decifrato incessantemente con tutte le facoltà sensoriali, intuitive ed argomentative di cui la specie umana è capace. L’essere nella sua immensità – che come il Dio di Agostino è più intimo a noi di noi stessi e più altro di ogni alterità - costituisce il riferimento vitale di quell’essere parziale e precario che siamo noi: noi siamo dall’essere, nell’essere e per l’essere.
L’essere va conosciuto, rispettato, guardato, riguardato: ma anche amato. Felicità è amare ciò che è per quello che è (e non per quello che difetta di essere). Qui la tradizione filosofica occidentale mostra una certa inadeguatezza: insegna ad amare chi è amabile, ma si ferma davanti a chi (sfigurato nel volto o nell’anima) ha particolare indigenza d’amore proprio perché non è amabile.
Non sarebbe dunque di poco rilievo se la tradizione filosofica di matrice greco-romana si aprisse ad altre esperienze sapienziali, come la biblica. Il vangelo originario di Gesù di Nazareth, ad esempio, è una scuola efficace di amore agapico: considerato da questa angolazione, lungi dal presentarsi in concorrenza con la filosofia, può risultare, nella diversità strutturale, ad essa complementare.
Qui bisogna essere chiari. Il cristianesimo storico, nella misura in cui condivide l’aspirazione proselitistica delle altre religioni organizzate, può risultare un ostacolo alla globalizzazione zetetico – ontologica e mettersi al servizio di globalizzazioni tribalistiche (che non cessano di essere tali sono perché tendono a farsi imperialistiche). Ma il vangelo di Gesù può risvegliare, come ha riconosciuto in alcune sue pagine perfino Nietzsche, l’esperienza dell’amore universale. Non al modo delle morali precettistiche di stampo filosofico – pedagogico (anche se a questo si è ridotto il vangelo nell’opinione comune e, prima ancora, nella presentazione di quasi tutti gli esponenti delle chiese cristiane), ma come annunzio rassicurante prima, responsabilizzante dopo. Cristo ha attraversato le strade del mondo per rassicurare ciascuna persona di essere l’oggetto di un amore gratuito: e, proprio per questo, consentendole di diventare a sua volta soggetto di amore altrettanto gratuito.

Una strana parabola
Il rapido sguardo d’insieme appena delineato richiede delle precisazioni più articolate.
Il primo nodo concettuale da sciogliere è costituito dalla formula ‘antropocentrismo nichilistico’ che, in un certo senso, è ossimorica: l’antropocentrismo, enfatizzazione del ruolo dell’uomo nel contesto dell’universo, può reggere sino a quando l’universo mantiene un residuo di senso. Quando, invece, ‘tutto’ diventa intrinsecamente inintelligibile e privo di valore intrinseco, lo stesso uomo finisce col precipitare nell’irrilevanza ontologica e assiologica. Le ricorrenti versioni dell’anti-umanesimo, o addirittura della filosofia della morte dell’uomo, lo confermano: in un quadro complessivamente ‘assurdo’, l’antropocentrismo si capovolge in spiazzamento antropologico.
Proviamo a ripensare la situazione attuale alla luce della vicenda diacronica.
Nel mondo greco- romano l’uomo si autointerpreta come un essere prezioso, ma relativo. Nell’Antigone Sofocle esalta l’eccezionalità dell’uomo (“Molte ha la vita forze/tremende; eppure più dell’uomo nulla,/vedi, è tremendo”, 421 – 423), ma circoscrivendola all’interno della “suprema fra gli dèi, la Terra” (428). Nell’Aiace l’esortazione a vivere senza ‘tracotanza’ la relatività umana è ancora più esplicita: “Le immoderate creature insane/ai gravi colpi degli dèi soccombono,/(…), se chi è germe d’uomo/nel pensiero s’esalta oltre l’umano” (848 – 851).
Non molto diversa l’autointerpretazione antropologica nel mondo ebraico – cristiano. Della creatura umana il Salmo 8 proclama: “Lo hai reso poco da meno di Dio, di ‘forza splendente’ e di ‘maestà regale’ lo hai coronato”. Come spiega finemente un esegeta contemporaneo: “Dinnanzi alla grandezza della creazione, l’uomo si auto-intende come l’ ometto, come il debole. Ed è proprio da quest’angolo che prende forza la sua confessione di non essere troppo lontano dalla divinità e di essere rivestito di splendore e maestà. Constata la sua piccolezza di fronte al creato, ma allo stesso tempo è cosciente della sua dignità per il fatto che Dio lo ha reso partecipe del suo kadod collocandolo così al di sopra delle altre creature terrestri. Il poco che manca all’uomo per essere uguale a Dio lo situa nel giusto posto”.
Dunque il cosmo (per i greci) e Dio (per la Bibbia) limitano costitutivamente il potere dell’uomo, ma nello stesso tempo ne fondano e ne legittimano la dignità. Con la modernità occidentale si attiva, invece, un processo contraddittorio: l’uomo vuole autofondarsi liberandosi, gradualmente, da ogni vincolo ‘religioso’ (prima) e ‘naturale’ (dopo). Un primo accenno già nel XV secolo quando, ad esempio, un Pico della Mirandola (1463 – 1494) sostiene che Dio dice all’uomo: “La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. (…) Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”. Qualche decennio dopo gli fa eco Erasmo da Rotterdam (1469 – 1536): “Alberi si nasce, anche se senza frutti o con frutti selvatici; cavalli si nasce, anche se inetti; ma, credimi, uomini non si nasce, si diventa”. La parabola - intendo nel senso grafico del termine – prosegue nel secolo successivo: Francesco Bacone enfatizza il posto dell’uomo, destinato a suo avviso ad instaurare nel mondo non il regnum Dei ma appunto il regnum hominis. L’amplificazione della centralità dell’uomo prosegue nel Settecento con Kant, che ne fa il legislatore di una natura altrimenti indecifrabile, e più ancora nell’Ottocento con Fichte che, senza troppe perifrasi, proclama l’umanità Alfa ed Omega di un universo di per sé incosciente. Persino Marx, nello stesso secolo, pur avendo in genere abbandonato il linguaggio teologico, se lo ritrova quasi involontariamente per affermare che “l’uomo è, per l’uomo, l’Essere supremo”. Pare proprio che abbia ragione Maritain: a questo punto l’antropocentrsimo è diventato addirittura antropoteismo. Ma, col Novecento, la linea ascendente s’incurva: l’uomo riprecipita dalle altezza vertiginose raggiunte nella speculazione teoretica e si re-interpreta come essere debole, smarrito, senza senso. Michel Foucault trova espressioni efficaissime per dare voce a ciò che sta accadendo: “E’ possibile che abbiate ucciso Dio sotto il peso di tutto quello che avete detto; ma non illudetevi di costruire, con tutto quello che dite, un uomo che vivrà più di lui”.
Che cosa è successo, che cosa sta succedendo sotto i nostri stessi occhi? Quali le ragioni di questo capitombolo per cui l’uomo che si autoproclama (nella modernità, in contrapposizione all’era classica) centro dell’universo, precipita adesso nell’insignificanza (senza perdere, tuttavia, del tutto la tracotanza del Dio in terra)?
Si potrebbe spiegare questo dato storico con fattori socio-culturali: la visione antropocentrica, tipica della borghesia occidentale, mostra i suoi frutti estremi nei disastri del XX secolo e induce a rimettere in discussione la radice. Si potrebbe scavare più a fondo e intravvedere fattori teologico-spirituali: la visione antropocentrica, diventando atea, si capovolge in anti-umanesimo perché il valore dell’uomo non può prescindere dalla relazione ontologica col divino (inteso in senso monoteistico o panteistico). Ma dal punto di vista filosofico (e perciò condivisibile anche da chi fosse convintamente ateo) può essere illuminante la chiave di lettura teoretico – ontologica cui ho fatto riferimento all’inizio di queste pagine: la visione antropocentrica è maturata ‘a spese’ del valore dell’essere (della realtà, di ciò che è), ma lo smarrimento del senso dell’essere (in generale) non può non implicare lo smarrimento del senso dell’uomo (in particolare).

Indicazioni terapeutiche
La filosofia non ha mai inciso profondamente nelle vicende storiche: meno che mai può illudersi di incidervi oggi. Tuttavia, nel groviglio delle concause che indirizzano l’umanità in una direzione piuttosto che in un’altra, gioca un suo –sia pur modesto – ruolo: da qui la responsabilità, da parte di chi pensa, di dire ciò che ritiene essere vero.
La prima verità da stabilire è demistificare la retorica della globalizzazione. In realtà, infatti, non di globalizzazione si tratta ma di occidentalizzazione del globo: “la velocizzazione dell’informazione accorcia le distanze e annichilisce lo spazio, rendendo possibile un movimento vorticoso di capitali che non ha bisogno di essere localizzato. Di fronte al Cyberspazio ci sono almeno miliardi di uomini che non conoscono un sistema di trasmissione dell’informazione come il nostro”.
La seconda verità, impopolare a destra quanto a sinistra, è che questa occidentalizzazione non è solo una benedizione ma neppure esclusivamente una maledizione. Molto succintamente e quasi brutalmente: è costruttiva dal punto di vista del metodo e dei mezzi (esportiamo pensiero critico, razionalità scientifica, regole democratiche, tecnologia…), distruttiva dal punto di vista dei contenuti e dei fini (abbiamo usato la filosofia per autoincensarci, la democrazia per legittimare la supremazia sui deboli, la tecnologia per moltiplicare i profitti a scapito degli sfruttati…).
Una terza verità è che l’uomo non è per nulla il centro dell’universo, ma neppure un incidente di percorso nell’evoluzione: può perseguire la felicità individuale e collettiva aprendosi all’esperienza molteplice e palinsestica del reale. Deposto ogni delirio di onnipotenza, l’uomo occidentale deve recuperare “la certezza che ‘qualcosa’ resiste alle nostre fantasie di dominio della ‘realtà’ ”: questo ‘qualcosa’ (certamente la Natura, ipoteticamente il Fondamento divino della Natura) è un limite, ma anche un riferimento per il pensiero e un criterio per l’azione. Dunque: “se intendiamo separare l’uomo dalla natura, l’uomo non esiste”; ma ciò non equivale necessariamente a coltivare il folle progetto di “abbattere le barriere che abbiamo creato” – o meglio: che abbiamo trovato – “tra l’umano, l’animale e la macchina”.
Una quarta verità è che il rapporto fra l’essere umano e l’essere che lo ‘abbraccia’ (lo precede, lo avvolge, gli sopravvive) coinvolge non solo l’intelligenza ma l’intera gamma delle potenzialità esistenziali: dall’intuizione poetica alla sensibilità estetica, dal bisogno di riconoscimento al desiderio passionale, dalla memoria inconscia alla progettazione tecnica. La maggior parte dell’umanità nasce, vive e muore al di sotto delle sue potenzialità e, proprio per questo, non sperimenta quello stato di risveglio che assomiglia da vicino a ciò che comunemente chiamiamo felicità. Fare esperienza plenaria dell’essere significa anche attuare, e con ciò scoprire, la propria possibilità di gioire cogliendo i nessi logici ‘oggettivi’ fra i numeri; fruendo della dolcezza musicale di Imagine; accarezzando la bastardina che ti scondinzola ai piedi; immergendoti nel silenzio della comunione intenzionale col cuore del Tutto. Significa, ancora, trascendere queste stesse esperienze ‘erotiche’ (nell’accezione filosofico-platonica) e accedere, almeno puntualmente, a qualche esperienza ‘agapica’ (nell’accezione teologico – biblica): là dove si gioisce disinteressatamente della gioia altrui perché, anche a costo di un’eventuale autolimitazione, in qualche modo si è riusciti a riparare un’ingiustizia; a restituire una speranza di guarigione biologica o psichica; a far recuperare la fiducia nella propria intelligenza a un bambino disadattato; a far provare l’ebbrezza di un orgasmo, sognato come utopico, a una persona abitualmente rattrappita nella disistima di sé.

Augusto Cavadi

lunedì 24 ottobre 2011

Ci vediamo a Trapani sabato 29 ottobre alle ore 19?


Sabato 29 Ottobre alle ore 19:00

presso i locali della Parrocchia di Santa Teresa di Trapani

avrà luogo un incontro sul tema:

«Riformare la chiesa: possibilità o illusione?»

Introdurranno il dibattito:
AUGUSTO CAVADI
(Docente di filosofia, pubblicista e consulente filosofico)
&
ALESSANDRO ESPOSITO
(Pastore Valdese)

Modererà l’incontro:
ALESSANDRO DAMIANI
(parroco di Santa Teresa)

domenica 23 ottobre 2011

La globalizzazione delle mafie secondo Giuseppe C. Marino 23 Ottobre 2011 “Cittadella”, ottobre 2011-10-18 GLOBALMAFIE Se qualcuno si scoraggia davanti a libri voluminosi, sappia che Globalmafia (Bompiani, Milano 2011), dello storico Giuseppe Carlo Marino, è un finto-grasso. Infatti le 414 pagine possono essere lette a scaglioni: prima il saggio di Marino; poi il saggio del magistrato Antonio Ingroia; infine le quattro corpose appendici (tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transanazionale e la Convenzione Onu sulla corruzione). La tesi centrale del volume è tanto facilmente intuibile quanto condivisibile: se le mafie non sono un fenomeno solo locale, ma anche planetario, non si può sperare di contrastarle con strategie settoriali e nazionali. E’ necessario un coordinamento altrettanto vasto, internazionale, mondiale. Ciò è però più facile a dirsi che a farsi: infatti, “a fronte dell’intero quadro attualmente in dilatazione dei fenomeni mafiosi”, le “azioni antimafia promosse dai governi” meritano una “ben dubbia e inquinata credibilità”. Infatti troppo spesso i governi nazionali accompagnano la “filistea professione di legalismo” con una sostanziale complicità, per interessi finanziari o anche politici. Il caso della Colombia - in cui grossi mafiosi, con i loro eserciti privati, “sono stati a lungo protetti e ufficialmente utilizzati nella lotta al cosiddetto pericolo comunista” - è eloquente, ma non esclusivo. La stessa situazione italiana - con un governo che, quando decide di non adeguarsi alle leggi, ingiunge alla maggioranza parlamentare di adeguare le leggi agli interessi del governo – è esemplificativa della teoria generale formulata da Marino: l’azione repressiva “appare spesso molto contaminata: allorquando e laddove la democrazia sia carente o inesistente, la contaminazione si manifesta nelle forme di uno spregiudicato potere che, di fatto, istituzionalizza la corruzione, e il dominio dei corrotti, sotto la copertura di azioni ufficialmente messe in opera per la salvaguardia dell’ordine pubblico e della legalità”. La stessa diagnosi indica la terapia: le mafie si battono con le inchieste, i processi e le condanne, ma non solo. Più radicalmente va ripensato, e rifondato, l’intero sistema economico-politico: “il rapporto organico della mafia con la politica (…) costituisce uno dei fattori dinamici della stessa macchina mondiale del capitalismo globalizzato”. Certo, l’alternativa al capitalismo non è in vetrina, pronta da asportare: ma questo non è un motivo per rinunziare a cercarla, anzi a elaborarla, per prove ed errori. Ma Marino indica, con lucidità, i più “urgenti obiettivi tattici” da perseguire: primo fra tutti, coniugare la legalità formale, giuridica, con politiche sociali che contrastino, nella sostanza, vecchie povertà e nuove schiavitù. Senza un minimo di giustizia sociale, infatti, non c’è possibilità di democrazia: e senza democrazia, senza protagonismo popolare diffuso, non ci si libera da nessuna organizzazione mafiosa. Augusto Cavadi


“Cittadella”, ottobre 2011-10-18

GLOBALMAFIE
Se qualcuno si scoraggia davanti a libri voluminosi, sappia che Globalmafia (Bompiani, Milano 2011), dello storico Giuseppe Carlo Marino, è un finto-grasso. Infatti le 414 pagine possono essere lette a scaglioni: prima il saggio di Marino; poi il saggio del magistrato Antonio Ingroia; infine le quattro corpose appendici (tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transanazionale e la Convenzione Onu sulla corruzione).
La tesi centrale del volume è tanto facilmente intuibile quanto condivisibile: se le mafie non sono un fenomeno solo locale, ma anche planetario, non si può sperare di contrastarle con strategie settoriali e nazionali. E’ necessario un coordinamento altrettanto vasto, internazionale, mondiale. Ciò è però più facile a dirsi che a farsi: infatti, “a fronte dell’intero quadro attualmente in dilatazione dei fenomeni mafiosi”, le “azioni antimafia promosse dai governi” meritano una “ben dubbia e inquinata credibilità”. Infatti troppo spesso i governi nazionali accompagnano la “filistea professione di legalismo” con una sostanziale complicità, per interessi finanziari o anche politici. Il caso della Colombia - in cui grossi mafiosi, con i loro eserciti privati, “sono stati a lungo protetti e ufficialmente utilizzati nella lotta al cosiddetto pericolo comunista” - è eloquente, ma non esclusivo. La stessa situazione italiana - con un governo che, quando decide di non adeguarsi alle leggi, ingiunge alla maggioranza parlamentare di adeguare le leggi agli interessi del governo – è esemplificativa della teoria generale formulata da Marino: l’azione repressiva “appare spesso molto contaminata: allorquando e laddove la democrazia sia carente o inesistente, la contaminazione si manifesta nelle forme di uno spregiudicato potere che, di fatto, istituzionalizza la corruzione, e il dominio dei corrotti, sotto la copertura di azioni ufficialmente messe in opera per la salvaguardia dell’ordine pubblico e della legalità”.
La stessa diagnosi indica la terapia: le mafie si battono con le inchieste, i processi e le condanne, ma non solo. Più radicalmente va ripensato, e rifondato, l’intero sistema economico-politico: “il rapporto organico della mafia con la politica (…) costituisce uno dei fattori dinamici della stessa macchina mondiale del capitalismo globalizzato”. Certo, l’alternativa al capitalismo non è in vetrina, pronta da asportare: ma questo non è un motivo per rinunziare a cercarla, anzi a elaborarla, per prove ed errori. Ma Marino indica, con lucidità, i più “urgenti obiettivi tattici” da perseguire: primo fra tutti, coniugare la legalità formale, giuridica, con politiche sociali che contrastino, nella sostanza, vecchie povertà e nuove schiavitù. Senza un minimo di giustizia sociale, infatti, non c’è possibilità di democrazia: e senza democrazia, senza protagonismo popolare diffuso, non ci si libera da nessuna organizzazione mafiosa.

Augusto Cavadi

martedì 18 ottobre 2011

Biografia completa di Matteo Messina Denaro


“Repubblica – Palermo”
16.10.2011

Salvatore Mugno

MATTEO MESSINA DENARO
Massari Editore
Pagine 240
euro 15

Dei padrini della sua generazione, Matteo Messina Denaro sembra essere rimasto l’unico in latitanza. Forse a causa di questa singolarità, si vanno moltiplicando le monografie a lui dedicate. Salvatore Mugno, autore di questo volume intitolato appunto Matteo Messina Denaro. Un padrino del nostro tempo, è stato tra i primi in Italia a occuparsene, pubblicando - con un ricco corredo di note – alcune lettere spedite dal capomafia a un interlocutore e firmate con lo psedudonimo Alessio. In questo più ampio, corposo testo - reso ancor più utile e gradevole da 116 fotografie – il tenace studioso trapanese ripercorre la carriera criminale del boss di Castelvetrano, soffermandosi ampiamente anche sui personaggi - più o meno inquietanti – che l’hanno accompagnata e favorita (fidanzate e politici inclusi) . Impressionante la sfilza di vittime più o meno accertate (parecchie decine). Numerose le notizie inedite o poco note: per esempio il progetto – all’inizio degli anni Novanta – di fondare il partito “Sicilia libera” da contrapporre alla Lega Nord. O che del più ‘laico’ dei mafiosi - dichiaratamente ateo – alcuni accoliti non hanno esitato a proclamare: “Ogni bene viene da lui. Lo dobbiamo adorare, è Iddio”. Insomma, ce n’è abbastanza da giustificare il titolo di uno dei capitoli conclusivi del libro (Matteo personaggio “letterario”) , suggerito dalle pagine di un’opera di Giancarlo De Cataldo.

domenica 16 ottobre 2011

Anche la borghesia palermitana rompe con Cosa Nostra?


“Repubblica – Palermo”
16.10.2011

SE LA BORGHESIA INVERTE LA ROTTA
Nel 1875 lo aveva scritto Franchetti: la mafia non è un pugno di delinquenti marginali, ma un’associazione di “facinorosi della classe media”. Tra aristocrazia e proletariato, la “classe media” è la borghesia: e del tutto appropriatamente Mario Mineo e, con più ampiezza di documentazione, Umberto Santino hanno dunque coniato la formula (un tempo oggetto di sospetto, oggi di uso comune) “borghesia mafiosa”. Che non vuol dire, ovviamente, che tutti i mafiosi siano borghesi (Riina e Provenzano non lo sono) né, ancor meno, che tutti i borghesi siano mafiosi (potrei elencare nove o dieci borghesi come me che, con certezza assoluta, non lo sono né lo diventeranno), ma che la mafia senza il rapporto organico con la borghesia non sarebbe. Sarebbe brigantaggio, delinquenza, terrorismo…non mafia.
Se l’analisi è corretta, le conseguenze operative balzano all’evidenza: solo un divorzio radicale, definitivo, fra Cosa nostra e borghesia (imprenditoriale, professionale, burocratica, politica, intellettuale) potrebbe davvero far rotolare Cosa nostra in un baratro senza ritorno. Ma ciò avverrà mai? Ci sono dei dati statistici attendibili che non lasciano sperare bene. Anzi, diciamolo con franchezza: che inchiodano alla disperazione. Recentemente Tano Grasso, in un contributo a Mafia o sviluppo (la riproposizione di un dibattito con Libero Grassi del 1991), riferiva che circa il 90% delle attività commerciali siciliane continuano, nonostante tutto, a pagare il pizzo. Altrettanto recentemente Corrado De Rosa, esperto e coraggioso psichiatra napoletano, ha documentato (nel suo I medici della Camorra) per la Campania ciò che altri suoi colleghi confermano, sostanzialmente, per la Sicilia: “le connessioni tra sanità e criminalità organizzata” non si evidenziano solo in “corruzione negli appalti, politiche clientelari per l’assegnazione di ruoli dirigenziali, affari della sanità privata, nomine di primari”, ma anche nelle risultanze delle consulenze cliniche specialistiche. Omicidi come quelli dei medici Sebastiano Bosio e Paolo Giaccone costituiscono una tragica contro-prova. I Ros di Palermo - e non scapestrati agitatori d estrema sinistra – hanno scritto in un documento abbastanza recente: “E’ stato davvero sconcertante scoprire che tanti professionisti, soprattutto medici, si siano relazionati con Cosa nostra in maniera così naturale, tanto da far riflettere sull’impegno complessivo che la classe borghese della città intende realmente profondere in direzione della lotta alla criminalità organizzata”. Personalmente sono rimasto sconvolto quando un conoscente avvocato mi ha confidato di aver tolto dal portone esterno la targa professionale (dando ordine al portiere di dire agli sconosciuti che si era trasferito in altra città) solo per non pagare più il pizzo che avevano cominciato a chiedere (e a ottenere!) per i suoi proventi professionali.
Eppure, per dirla con due antropologi statunitensi in questi giorni a Palermo, i coniugi Jane e Peter Schneider, la dittatura mafiosa è “un destino reversibile”. Delle persone splendide hanno avviato da anni delle strategie, tanto più efficaci quanto meno rumorose, per attivare la svolta a “u”: “Addio pizzo” prima, “Libero futuro” dopo. Clienti e imprenditori che s’impegnano, mettendoci la faccia e la firma, a boicottare l’economia inquinata. E adesso è arrivato il momento di “Professionisti Liberi” (www.professionistiliberi.org). Mille fra professionisti in attività (o nella prospettiva di diventarlo) hanno firmato, sulla base di un Manifesto etico, una “Dichiarazione di impegno” e ieri si sono presentati al Teatro Biondo per proclamare pubblicamente la loro filosofia, il loro progetto politico e le loro strategie operative. Mille nomi su un centinaio di migliaia non sono molti, ma sono abbastanza per iniziare un percorso. Soprattutto se le adesioni anticipate da parte di alcuni Ordini professionali dovessero concretizzarsi e concretizzarsi non per moda, bensì per convinzione. Ci sono mali da cui solo la Natura, o il Creatore, possono preservare; da altri, come la mafia, solo la società può decidere se liberarsi o meno. Capisco che ci possono essere remore di vario genere, ma almeno questo riterrei auspicabile: chi voglia, ancora una volta, mettere la testa sotto la sabbia del conformismo e del cinismo, smetta di imprecare contro l’abusivismo edilizio sulle coste, la disoccupazione giovanile e di ritorno, gli intralci artificiosi della burocrazia e le forme di concorrenza sleale nei commerci e nei servizi. Non si può avere la botte piena e il mafioso ubriaco.

Augusto Cavadi

giovedì 13 ottobre 2011

Dopo il sindaco attuale Pdl, quale futuro per Palermo?


“Centonove” 7.10.2011

COME PREPARARSI AL DOPO CAMMRATA?

I “ritiri spirituali” sono abbastanza in declino, anche negli ambienti cattolici. In compenso, però, fioriscono dei cloni: per esempio, da molti anni, i ritiri “politici” organizzati ogni estate dalla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”. In uno degli ultimi week-end, i soci di questa associazione di volontariato culturale hanno invitato, presso una deliziosa masseria dalle parti di S. Giuseppe Jato, vari esponenti della scena politica palermitana per meditare sul futuro della città, anche in vista delle amministrative sempre più vicine. A riflettere, a discutere con agio (senza l’incubo del cronometro), a pranzare insieme, a passeggiare, in un clima rilassato lontano dai rumori metropolitani e dalle gazzarre mediatiche. La domanda formulata nell’invito : “Che cosa pensereste di fare, personalmente o come aggregato politico, se doveste succedere a Cammarata?”
Tutti gli intervenuti (dal centro-destra, Carlo Vizzini, all’estrema sinistra, Sergio Lima, passando per esponenti del centro-sinistra come Ninni Terminelli, Davide Faraone, Pippo Russo, Nadia Spallitta, e di movimenti come Giuseppe Valenti) hanno concordato sullo stato di disastro finanziario in cui il nuovo sindaco troverà le casse cittadine. Solo grazie a artifizi contabili il Comune di Palermo non è stato ancora dichiarato tecnicamente in stato di insolvenza. Come ha dichiarato qualcuno dei relatori, “se uno ha in odio un nemico acerrimo da rovinare, gli può offrire la candidatura a sindaco del capoluogo regionale”.
Un secondo punto di relativa convergenza: più che girandole dei nomi, servirebbero un programma succinto (con obiettivi circoscritti e comprensibili anche dagli elettori meno addentro alle alchimie della politica locale, cioè dalla stragrande maggioranza degli elettori) e un identikit di candidato sindaco. Circa il programma, tra le priorità più gettonate (molte delle quali a costo zero e attuabili nei primi cento giorni): chiudere stabilmente al traffico privato il centro storico (in particolare la via Emerico Amari, in modo da creare un corridoio vivibile per le migliaia di turisti che sbarcano al porto durante le crociere); incrementare i collegamenti pubblici, specialmente con le periferie urbane (invertendo la filosofia attuale: dal “chiedersi come le auto possano spostarsi” a “come possano farlo i cittadini”); rimodellare la macchina amministrativa del Comune (in modo da responsabilizzare i dirigenti più meritevoli, indipendentemente dalle appartenenze partitiche, e soprattutto in modo da ricostituire quelle équipe che durante la “Primavera palermitana” avevano mostrato di saper lavorare in sinergia con notevole professionalità); attivare controlli telematici incrociati sulle forniture di luce e telefono in modo da scovare gli evasori della tassa sull’immondizia e poter diminuire le imposte ai cittadini onesti che le hanno sempre pagate; restituire alla giunta e al consiglio le competenze che la normativa in vigore (più volte in questo decennio disattesa) conferisce ad essi e di cui si è indebitamente appropriato l’Ente Porto; azzerare le consulenze remunerate a discrezione del sindaco; accorpare i consigli di amministrazione delle società comunali (Amat, Amap, Amia, Amg, Gesip) e affidare queste ultime a manager competenti (tra gli attuali o cercando altrove) che le trasformino, come avviene in altre municipalità, da pozzi mangiasoldi a imprese produttive; offrire alternative legali ai venditori ambulanti che preferiscono, anziché deambulare, stanziare abusivamente agli incroci delle strade; ristabilire un minimo di decoro urbano smantellando tutti i gazebi e le superfetazioni che imbruttiscono l’immagine della città e ne diminuiscono la viabilità per i pedoni.
Sull’identikit del prossimo sindaco le convergenze sono state, comprensibilmente, meno compatte. L’orientamento prevalente, comunque, si è configurato per una personalità anagraficamente giovane; sufficientemente esperta del funzionamento dell’apparato amministrativo municipale ( e dunque anche delle cause del malfunzionamento); capace di rappresentare (anche per la sua storia di impegno nel sociale) una prospettiva ideale abbastanza forte da raccogliere consensi da cittadini di più aree partitiche e, soprattutto, da cittadini delusi e sfiduciati. Insomma, anche al di qua dello stretto si sogna un Pisapia, un De Magistris, uno Zedda: ma “la linea della palma” si sposta anche all’incontrario?

Augusto Cavadi

lunedì 10 ottobre 2011

Ci vediamo a Roma venerdì 14 ottobre 2011?


L’ANPI (Associazione nazionale dei partigiani d’Italia) e LIBERA ( Presidio 3° Municipio)
con il patrocinio del 3° MUNICIPIO
promuovono il convegno:
“ LIBERA CHIESA IN LIBERO STATO ”: IERI, OGGI. E DOMANI ?
Vetreria Sciarra: Sala Levi (Via dei Reti,ang. Via dei Volsci) Roma - Venerdì 14 ottobre 2011.

Mattina: Ore 9.30 – 13.30
MODELLI DI RELAZIONI STATO/CONFESSIONI RELIGIOSE
Presiede e introduce DOMENICO GALLO (ANPI)
Paola Gaiotti De Biase – I 150 anni di Unità e la Chiesa cattolica: lungo conflitto ed evento provvidenziale
Sergio Lariccia – La Chiesa cattolica nella Storia costituzionale d’Italia (Statuto Albertino, Legge delle Guarentigie, Patti Lateranensi, Revisione concordataria del 1984).
Articolo 8 della Costituzione: tutte le confessioni religiose sono egualmente libere.
Commenti di: Micaela Procaccia (Confessioni religiose che hanno definito Intese con lo Stato), Alessandro Paolantoni (Confessioni religiose ancora senza Intese ).

DIBATTITO
Domenico Gallo: La laicità principio supremo dell’ordinamento costituzionale.

Pomeriggio: Ore 14.30 – 19.00
LA LIBERTA’ DEI CITTADINI NELL’ATTUALE ORDINE COSTITUZIONALE
Testimonianze e comunicazioni su aspetti specifici della realtà sociale

Coordina: Stefano Cavallotto

Moni Ovadia (filmato)
Amedeo Piva – La presenza cattolica nell’assistenza.
Giovanni Avena – L’informazione religiosa sui Media
Marina Boscaino Il sistema formativo pubblico tra scuola statale e scuola paritaria
Augusto Cavadi – Il Dio della Chiesa Cattolica e il Dio di Cosa Nostra: differenze confortanti e somiglianza inquietanti
Francesco Zanchini – La gerarchia cattolica nella vita politica.

Dibattito e conclusioni

sabato 8 ottobre 2011

L’anarchismo oggi: lo stato di salute


“Repubblica – Palermo”
2.10.2011

Salvo Vaccaro
PENSARE ALTRIMENTI
Elèuthera
Pagine 212
Euro 15
Come sta l’anarchismo? Uno dei suoi maggiori conoscitori (e promotori) in Italia, il palermitano Salvo Vaccaro, con molta onestà intellettuale e politica risponde: non gode di buona salute. Per non parlare delle anarchiche e degli anarchici “in carne e ossa il cui agire frustrato appare poco incisivo, se non addirittura irrilevante, rispetto agli equilibri politici entro e fuori le istituzioni”. Ma la diagnosi non lo scoraggia, anzi lo induce a “una riflessione (auto) critica sul piano teorico” che possa rilanciare gli ideali anarchici e libertari anche sul piano pratico, operativo. Frutto di questo intento è il prezioso libretto a più voci, curato dallo stesso Vaccaro, dal titolo Pensare altrimenti e dal sottotitolo, ancor più eloquente, Anarchismo e filosofia radicale del Novecento. I prestigiosi co-autori (M. Abensour, L. Call, D. Colson, N. J. Jun, T. May, S. Newman) rivisitano criticamente alcuni pensatori del XX secolo senza i quali non è progettabile un anarchismo calibrato sul XXI: Deleuze, Foucault, Levinas e soprattutto Derrida. Un anarchismo che, in ogni ipotesi, sarà tentativo di rispondere nella quotidianità e nella concretezza alla “passione del vivere liberi”, con creatività ma “sulla scia di oltre un secolo di sperimentazioni sociali all’insegna dell’autogoverno, dell’autogestione, dell’orizzontalità delle forme organizzative”.
Augusto Cavadi

venerdì 7 ottobre 2011

Il 4 novembre: giornata di festa o di lutto?


TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 701 del 7 ottobre 2011

Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Sommario di questo numero:

1. Cessino i massacri in Afghanistan e in Libia, cessi la partecipazione italiana alla guerra assassina e si adoperi l’Italia per la pace che salva le vite

2. Un appello a tutte le persone di retto sentire e di volonta’ buona per un 4 novembre dalla parte di Abele

3. Augusto Cavadi: Una mentalita’ nuova che si lasci alle spalle l’epoca delle guerre

4. Paolo D’Arpini: Il mio auspicio

5. Associazione per la pace: Capodanno a Gerusalemme

6. Segnalazioni librarie

7. La “Carta” del Movimento Nonviolento

8. Per saperne di piu’

1. EDITORIALE. CESSINO I MASSACRI IN AFGHANISTAN E IN LIBIA, CESSI LA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLA GUERRA ASSASSINA E SI ADOPERI L’ITALIA PER LA PACE CHE SALVA LE VITE
(…)

2. INIZIATIVE. UN APPELLO A TUTTE LE PERSONE DI RETTO SENTIRE E DI VOLONTA’ BUONA PER UN 4 NOVEMBRE DALLA PARTE DI ABELE
(…)

3. OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE. AUGUSTO CAVADI: UNA MENTALITA’ NUOVA CHE SI LASCI ALLE SPALLE L’EPOCA DELLE GUERRE

[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi@alice.it) per questo intervento.

Augusto Cavadi, prestigioso intellettuale ed educatore, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, e' impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, nuova edizione aggiornata e ampliata Dehoniane, Bologna 2003; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994, D G editore, Trapani 2006; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003; Gente bella, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Strappare una generazione alla mafia, DG Editore, Trapani 2005; E, per passione, la filosofia, DG Editore, Trapani 2006; La mafia spiegata ai turisti, Di Girolamo Editore, Trapani 2008; E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla piu' inutile di tutte le scienze, Di Girolamo, Trapani 2008; Chiedete e non vi sara' dato. Per una filosofia pratica dell'amore, Petite Plaisance, Pistoia 2008; In verita' ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani, Falzea, Reggio Calabria 2008; Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Milano 2009; Come posso fare di mio figlio un vero uomo d'onore? Coppola, Trapani 2008; L'amore e' cieco ma la mafia ci vede benissimo, Coppola, Trapani 2009; Filosofia di strada. Il filosofare-in-pratica e le sue pratiche, Di Girolamo, Trapani 2010; Non lasciate che i bambini vadano a loro, Falzea, Reggio Calabria 2010. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo e siciliane. Segnaliamo il sito: www.augustocavadi.eu (con bibliografia completa). Cfr. anche l'intervista nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 420]

Davvero, come sostiene Hillmann, la guerra esercita un forte fascino per l’umanita’? A giudicare dalla frequenza con cui la si pratica - e, nelle pause fra una guerra e l’altra, la si mima nei giochi, nelle danze, negli spettacoli e nelle liturgie - si direbbe di si’. In realta’ essa si radica su un “istinto” tanto naturale quanto prezioso per la sopravvivenza del singolo, della tribu’, della specie: l’autodifesa. Ma sappiamo che la psicologia contemporanea tende a circoscrivere con piu’ virgolette il vocabolo istinto quando si tratta dell’essere umano dal momento che, a differenza degli altri animali (o, meglio, in misura piu’ marcata rispetto agli altri animali), in lui l’istintivita’ genetica, biologica, e’ - sin dal primo vagito, anzi sin dai nove mesi di formazione nel grembo materno - plasmata sociologicamente, culturalmente. Nell’essere umano si preferisce dunque parlare di impulsi, tendenze, propensioni e abitudini.

Ecco perche’, dopo alcuni milioni di anni sul pianeta, le guerre non sono certo attuazione pura e semplice di un istinto, ma qualcosa di molto piu’ complesso: sono progetti elaborati a tavolino, soppesati alla bilancia degli interessi economici, che solo ideologicamente (intendendo qui l’avverbio nel senso deteriore del termine) vengono spacciati per risposte naturali a sfide inevitabili. Naturale e’ infatti difendersi: non altrettanto difendersi esclusivamente con mezzi violenti ne’, ancor meno, difendersi attaccando preventivamente il possibile nemico. Le due grandi guerre mondiali a cui l’Italia ha preso parte sono state un esempio tragicamente illuminante di quanto poco necessarie - e di quanto molto autolesioniste - siano in genere le guerre: o non ottengono nulla di cio’ che si propongono (vedi risultati della seconda guerra mondiale al fianco, anzi a servizio, della follia nazista) o l’ottengono parzialmente e a costi spaventosamente maggiori (vedi la “vittoria mutilata”, a conclusione della prima guerra mondiale, premessa della sconfitta integrale a cui siamo andati incontro ventidue anni dopo, per non aver capito che al peggio non c’e’ fine).

Il 4 novembre festeggeremo le Forze armate? Ogni cittadino italiano a modo suo. Personalmente cerchero’ di non cadere nella trappola di chi mi vuole indurre a identificare le istituzioni militari con i concittadini che - per convinzione, piu’ spesso per mancanza di alternative di lavoro - vi dedicano la parte piu’ significativa delle breve esistenza terrena. Lungi dall’accettare il ricatto di tutto prendere o tutto lasciare, distinguero’ le Forze armate dai militari: nei tempi, nei luoghi e nei modi piu’ opportuni - come persona umana e come educatore - professero’ tutto il mio atterrito rifiuto delle strutture organizzate e l’augurio piu’ sincero ai miei concittadini in armi che proprio essi, portatori di esperienza diretta e annosa, diventino gradualmente nella societa’ civile i promotori di una mentalita’ nuova che si lasci alle spalle l’epoca delle guerre come ci siamo lasciati (almeno in linea di principio) l’epoca dei sacrifici umani in onore degli dei o della schiavitu’ perenne in conseguenza di una sconfitta in battaglia. Diventino i promotori di una nuova societa’ in l’aggressivita’ “naturale” venga canalizzata su altre guerre, contro altri nemici e con altre armi: le guerre contro la fame, le malattie, le leggi ingiuste, le politiche ipocrite, in difesa degli umani inermi, degli animali e dell’ambiente.

4. OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE. PAOLO D’ARPINI: IL MIO AUSPICIO
(…)

5. INCONTRI. ASSOCIAZIONE PER LA PACE: CAPODANNO A GERUSALEMME
(…)

6. SEGNALAZIONI LIBRARIE
(…)

7. DOCUMENTI. LA “CARTA” DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
(…)

8. PER SAPERNE DI PIU’
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta@sis.it
Tutti i fascicoli de “La nonviolenza e’ in cammino” dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 701 del 7 ottobre 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Per ricevere questo foglio e’ sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request@peacelink.it?subject=subscribe
In alternativa e’ possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista “nonviolenza” nel menu’ a tendina e cliccare su “subscribe” (ed ovviamente “unsubscribe” per la disiscrizione).
Tutti i fascicoli de “La nonviolenza e’ in cammino” dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

mercoledì 5 ottobre 2011

La scuola che ho trovato nel ‘68 e che lascerò nel... 20??



Dopo aver resistito alle richieste di autocensura e alle lungaggini burocratiche, oggi ho potuto avere in mano l’ultimo numero degli “Annali” del liceo in cui insegno:
“Annali” del Liceo classico G. Garibaldi di Palermo
Anni 2002 – 2009 (nn. 38 – 45)
Maggio 2011 , pp. 234 – 239.

LA SCUOLA CHE HO TROVATO,
LA SCUOLA CHE LASCIO

Poiché secondo il movimento filosofico in cui mi riconosco (la Philosophische Praxis di Gerd Achenbach riletta in Italia da Neri Pollastri) ogni filosofo deve ridurre al minimo la distanza fra le parole che parla e la vita che vive, mi piace partire da un dato autobiografico: dopo cinque anni di frequenza come alunno, sono uscito dal Liceo “Garibaldi” alla fine dell’anno scolastico 1968 - 1969 ed oggi, alla fine dell’anno scolastico 2008 - 2009, dopo altri dieci anni di frequenza come insegnante, mi appresto a congedarmi dal medesimo liceo per iniziare la terza (e ultima) fase della mia vicenda mortale. Una parabola di quaranta anni esatti, come si può notare: abbastanza, suppongo, per poter riflettere sulla scuola che ho trovato da giovane alunno e sulla scuola che lascio da anziano docente.

La scuola degli anni Sessanta
Anche se ai vecchi lo si perdona facilmente, trovo disdicevole la tendenza a ricordare il passato soffuso di luci senza ombre e a dipingere a tinte fosche il presente. Perciò voglio esprimermi con la massima chiarezza possibile: la scuola che ho frequentato da alunno nel quinquennio 1964 - 1969 aveva molti pregi, ma sostanzialmente risultava insopportabile. 
Tra i pregi che mi vengono immediatamente alla memoria, un senso complessivo di serietà istituzionale. Le figure dei presidi, dei loro collaboratori più stretti, della stragrande maggioranza dei professori incutevano - o, per lo meno, suggerivano - atteggiamenti di rispetto nei loro confronti. In loro presenza (quindi non solo quando ci si rivolgeva a loro, ma anche quando ci si rivolgeva a coetanei o a bidelli) era semplicemente inimmaginabile fumare, schiamazzare, alzare la voce urlando, darsi al turpiloquio. Ancor meno immaginabile era uscire ed entrare a piacimento dai locali dell’istituto per recarsi al bar o per fare un giro in moto durante qualche ora di lezione particolarmente noiosa.
Questa atmosfera - in sé apprezzabile e che mi è capitato tanto spesso di rimpiangere nella mia carriera di docente - comportava però dei risvolti assai meno gradevoli. Per ricorrere anche qui ad una formula complessiva (dunque inevitabilmente generica) direi che il prezzo più alto era costituito da una ipocrisia sistemica. La facciata di ordine, di buona educazione, di rispetto delle gerarchie e delle competenze nascondeva del marcio insopportabile. Una sorta di sciovinismo provinciale impediva di riconoscere manchevolezze, difetti, oggettive inadeguatezze: dalla debolezza di certi dirigenti che assistevano impotenti alla severità persecutoria di alcuni professori nei confronti degli alunni alla scarsa preparazione di altri docenti che o non conoscevano abbastanza le proprie discipline o non conoscevano il modo di comunicarle in aula. Anche tra quei pochi che erano preparati e che sarebbero stati in grado di esternare didatticamente la propria competenza non mancavano quelli che difettavano di diligenza: arrivavano puntualmente in ritardo, si stravaccavano annoiati sulla cattedra, si lasciavano facilmente indurre a chiacchierare di sport o di gossip televisivo (pur di non spiegare la Divina Commedia o la Prima guerra mondiale). E’ vero: i ragazzi non fumavamo per i corridoi (i professori e il personale amministrativo ed ausiliare, invece, sì), ma ci si chiudeva dentro i cessi per farlo; non si dicevano parolacce a voce alta, ma le si incidevano nei banchi, nelle pareti, nelle mura esterne; non si criticava apertamente la didattica dell’insegnante, ma ogni occasione era buona per farne l’imitazione caricaturale (talvolta volgare, talaltra davvero acuta e divertente).
Dunque si viveva all’incrocio di queste due dimensioni contraddittorie: un’impressione di serietà istituzionale e una diffusa ipocrisia sistemica. Il risultato più doloroso - e alla lunga più pernicioso - di questo groviglio lo si registrava, ovviamente, nei percorsi di apprendimento. C’era (e lo si vedeva sempre più chiaramente man mano che crescevamo in istruzione e in maturità) uno iato fra la supponenza dei professori - che nel portamento, nell’abbigliamento, nel modo di relazionarsi anche con i genitori, davano a intendere di essere ‘luminari’, se non altro perché titolari di cattedra in un liceo pubblico di indiscusso prestigio - e il loro effettivo valore professionale. Nella migliore delle ipotesi, trasmettevano nozioni e nozioni si attendevano da noi come verifica dell’apprendimento. La maggior parte di loro sono ormai defunti e, se qualcuno ancora vive, non mi pare elegante aprire polemiche ad personam. Preferisco dunque evocare tre nomi, che certamente rientravano nel novero delle felici eccezioni, di insegnanti che tenevano a stimolare la nostra capacità critica: Giuseppe Bellafiore (accurato studioso di arte e di urbanistica), Andrea Brigaglia (geniale cultore di matematica e di fisica), Vito Muciaccia (fine classicista ed egli stesso autore di liriche). Sarebbe troppo lungo spiegare perché ho avuto contatti sporadici con i primi due e durevoli con il terzo: ciò che qui mi preme sottolineare è la loro consapevole volontà di non dare per scontato che si dovessero studiare le loro discipline, di problematizzarne il senso e lo statuto epistemologico. Potrei dire - e l’affermazione non suonerebbe lusinghiera per i docenti di filosofia di quel periodo, ingabbiati nella routine dei programmi ministeriali - che essi insegnavano le loro ‘materie’ con spirito genuinamente filosofico. Una splendida, davvero indimenticabile, conferma l’avemmo il giorno nel quale un compagno - di animo particolarmente delicato - sottolineò con una pernacchia fragorosa l’enfasi con cui Muciaccia aveva concluso la lettura di una poesia di Catullo. Ci guardammo stupiti: questa volta il professore così tollerante, così comprensivo, per dirla tutta così poco adatto a tenere in pugno una classe di diciottenni abbastanza scalmanati (anche perché si era in pieno Sessantotto!), sarebbe esploso certamente! Ma - con una elasticità mentale e temperamentale davvero sorprendente - ci spiazzò tutti quanti. “La pernacchia” - esordì - “costituisce una presenza discreta, ma ricorrente, nella letteratura greca e latina. In Omero, ad esempio…”: e lì un’ora e mezza di narrazione e citazioni e commenti seguendo il più insolito ‘filo rosso’ delle spiegazioni mai ascoltate al liceo Garibaldi. E forse non solo lì. Non so se L. C. sia stato in grado di apprezzare la raffinatezza della ‘lezione’ con cui il professore di lettere classiche aveva reagito alla sua goliardata un po’ balorda. Certo è che, ai miei occhi, quel colpo d’ala pedagogico e intellettuale bilanciava ore, mesi, anni di lezioni mnemoniche - con tono talora soporifero talora nevrotico - tenute, solitamente, dagli altri suoi colleghi.

La scuola del post-sessantotto
Quando, nell’autunno del ‘68, arrivarono anche a Palermo le onde del maggio francese, il nostro liceo fu tra i primissimi - se non il primo - a recepirle. Già negli anni immediatamente a ridosso, un gruppo di noi alunni avevamo dato vita a un giornalino di istituto costretto al filtro di una censura ridicola (a cui rispondemmo pubblicando i titoli delle poesie e degli articoli censurati con i relativi spazi in bianco). A dicembre iniziò il rito (che sarebbe diventato, nei decenni successivi, irrinunciabile) della ‘occupazione’ della scuola per protesta. Tra i promotori delle prime assemblee di base - del tutto illegali, s’intende - non mancavano le differenze ideologiche e strategiche (che non di rado sfociavano in tensioni e in conflitti), ma ci accomunava una forte insoddisfazione verso il sistema scolastico (e, più ampiamente, sociale) in cui ci trovavamo storicamente inseriti.
La ‘contestazione’, come si chiamò il movimento studentesco dell’epoca con un neologismo che si diffuse rapidamente sino all’inflazione, sembrò spazzare in pochissimi anni un assetto consolidato che sembrava inossidabile: le proteste giovanili si legarono alle rivendicazioni operaie e alle mobilitazioni femministe. Non è questa la sede per tentare il difficile bilancio complessivo del decennio 1968 - 1977: è già abbastanza arduo limitarsi al mondo della scuola. Comunque, se dovessi sintetizzare in una asserzione netta le mie convinzioni, non avrei dubbi: con la tempesta del Sessantotto la scuola ha perduto molto, ma meno di quanto abbia guadagnato. La scuola che lascio quaranta anni dopo è, tutto sommato, meno brutta di quella che ho trovato allora. E’ una scuola meno auto-referenziale (sa che dirigente, insegnanti, personale amministrativo ed ausiliare non sono i ‘padroni’ ma, con le famiglie e con gli alunni, i co-gestori dell’istituzione); meno autoritaria (il potere del dirigente sugli insegnanti e degli insegnanti sugli alunni è limitato da paletti giuridici sempre meglio specificati); meno nozionistica (i docenti cercano di ridurre la quantità degli argomenti da trattare per favorire la qualità dell’apprendimento)…
Tuttavia, dire “meno brutta” non equivale a dire “bella”. La scuola che lascio non è ancora ciò che l’etimo greco (scholé) prometterebbe: un luogo di ‘otium’ , di piacere, di festa della conoscenza e del sapere, nel quale si sperimenta una gioia intensa e duratura di cui nessun ‘neg-otium’ (per quanto necessario alla vita terrena) dovrebbe cancellare completamente le tracce. Non è ancora un laboratorio di democrazia dove si impara il mestiere di cittadini, il gusto della partecipazione, la felicità della pro-attività a favore del bene comune, a cominciare dei diritti degli impoveriti del pianeta.
Se c’è una cosa che non è mutata significativamente da prima a dopo il Sessantotto, è il clima di illegalità sistemica che permea - soprattutto nel Meridione italiano - la vita scolastica. Sin dal primo impatto, i ragazzi constatano che la legge non è uguale per tutti: i figli delle famiglie ‘bene’ hanno molto più probabilità dei figli di ‘nessuno’ di essere assegnati alle sezioni ‘giuste’ (già il solo fatto che ci siano sezione ‘ambite’ e sezioni ‘da evitare’ costituisce una macchia vergognosa). Dopo qualche mese constatano che gli educatori adulti sono i primi a non rispettare le regole (arrivano in ritardo, posteggiano davanti all’entrata della scuola in perfetta zona rimozione, fumano nei locali scolastici, si rifiutano di autorizzare le assemblee di classe nelle ore delle loro lezione, usano espressioni aggressive e offensive nei confronti degli alunni e delle loro famiglie…). A fine d’anno, infine, si accorgono che la valutazione dei docenti non è equanime: il nipote del professore o la figlia della signora che lavora in amministrazione ottengono dei voti migliori, a parità di meriti (o di…demeriti), rispetto ai compagni che non hanno “santi in paradiso”.
Ma, anche a non voler considerare le situazioni moralmente più degradate del Sud, lo sguardo complessivo sulla scuola italiana non riposa certo su un panorama idilliaco. Che cosa manca alla scuola di oggi per diventare ciò che ogni ragazzo si aspetterebbe o, per lo meno, di cui avrebbe oggettivamente bisogno? Si potrebbe stilare una lunga serie di desiderata di carattere finanziario, legislativo, organizzativo…I sindacati hanno, o dovrebbero avere, il compito di tenere vive queste rivendicazioni (mentre sembrano molto più preoccupati di difendere i privilegi acquisiti dai loro dirigenti) . Ma nulla cambierà davvero se non muterà radicalmente il reclutamento degli insegnanti. Dall’inizio della Repubblica ad oggi tutti i governi hanno stipulato un patto tacito con i docenti: vi assumiamo facilmente, senza seri filtri selettivi; una volta assunti, non vi sottoponiamo a nessuna verifica in itinere; in cambio, vi paghiamo poco e vi neghiamo qualsiasi progressione di carriera significativa (a meno che non siate disposti a mutare mestiere, diventando dirigenti o ispettori ministeriali). Questo patto scellerato ha provocato disastri incalcolabili. Ormai posso contare decine di generazioni di alunni: quasi nessuno dei più intelligenti, dei più preparati, dei più motivati ha scelto di insegnare. E con ragioni lucidissime: “Professore, non ce la sentiamo di vivere ‘romanticamente’ con stipendi da fame e senza una prospettiva di riconoscimento dei meriti”. Ma se non si spezza questo patto scellerato, la categoria degli insegnanti degraderà inarrestabilmente: le personalità forti, creative, affascinanti si terranno lontano dalle cattedre, lasciando il posto a persone (nelle migliori delle ipotesi, oneste e discretamente istruite) di scarso carisma, di fioca passione, non innamorate di ciò che insegnano né degli allievi a cui dovrebbero contagiare l’innamoramento. Se continua questo trend negativo, se non si riesce ad invertirlo con provvedimenti legislativi ed amministrativi radicali, la scuola toccherà dei livelli talmente bassi che sarà improbabile risalire la china. So che non è il momento politico-culturale più adatto per permettersi previsioni ottimistiche. Secondo il politico più influente dell’ultimo ventennio in Italia (che, parafrasando una sua auto-definizione, è stato il peggiore degli ultimi 150 anni) la scuola avrebbe dovuto concentrarsi su tre “i”: informatica, inglese, imprenditoria. Sinora, almeno nel Meridione italiano, ho visto poca informatica, poco inglese, ancor meno cultura d’impresa. Il risultato è che la scuola del futuro si profila all’insegna di altre “i”: ignoranza, insensibilità, indifferenza. Tuttavia, se si riflette sulle vicende umane, si impara che la storia sorprende non solo in negativo, ma talora anche in positivo. Perché escludere, dunque, che un sussulto di dignità e di buon senso possa convincere la maggioranza dei cittadini - e, in prospettiva, dei parlamentari - della necessità di modificare la politica scolastica attuale? Perché escludere che cambino radicalmente le regole in modo che intraprendere la professione di insegnante diventi più difficile ma, se si riesce a superare il filtro selettivo, anche più gratificante?

lunedì 3 ottobre 2011

Meditazioni filosofiche sulla morte e la mortalità


“Phronesis”, 14 - 15, ottobre 2010
(Versione cartacea: acquistabile via internet www.ipoc.it;
versione telematica gratuita: www.info.phronesis)

R. Bodei – E. De Monticelli – V. Mancuso – G. Reale – A. Schiavone – E. Severino, Che cosa vuol dire morire, a cura di D. Monti, Einaudi, Torino 2010, pp. 171, euro 15,00.

Se comparato con testi analoghi, questo può vantare almeno tre pregi peculiari: la polifonicità (vengono ‘intervistati’ sei pensatori italiani di diversa estrazione culturale), l’attenzione a cosa significhi morire nel XXI secolo (quando l’apparato scientifico-tecnologico condiziona decisamente i dati naturali) e il coinvolgimento esistenziale dei co-autori (ai quali la curatrice del volume chiede non solo ciò che pensano in generale della morte ma come si pongono, in prima persona, davanti ad essa) nella convinzione che “ogni pensiero sul mondo, per essere autentico, debba partire dalla vita” (p. VIII).
Ovviamente ogni lettore potrà individuare, in dipendenza dalla sua ottica, tanti altri aspetti positivi, anche se meno evidenti. Uno dei quali, nella mia prospettiva, è lo scompaginamento di un cliché dominante : che per il credente in senso confessionale la vita sia un valore indisponibile e che per il non-credente - o, come puntualizza opportunamente Bodei, per chi “crede in altre cose” (p. 77) – essa sia priva di valore intrinseco e in balìa esclusiva dell’autodeterminazione soggettiva. Il libro, invece, attesta che il panorama è molto più articolato e, per certi versi, sorprendente. Da una parte, infatti, non regge l’identificazione fra matrice cattolica e difesa a oltranza della sopravvivenza biologica. Sarebbe troppo facile mostrarlo nel caso di Vito Mancuso (teologo cattolico considerato eretico dalla maggior parte dei doctores cattolici) o di Roberta De Monticelli (che, proprio in seguito all’intransigenza della Chiesa cattolica su queste tematiche, ha deciso di proclamare ufficialmente, in un articolo su “Libero”, la sua estraneità al mondo ecclesiale, “sulla soglia” del quale le era “a volte avvenuto di sostare”). Assai più significativa, invece, la posizione di Giovanni Reale, unanimemente riconosciuto come uno dei tre o quattro più prestigiosi filosofi cattolici viventi. L’ex-docente dell’Università Cattolica di Milano, infatti, arriva ad accusare “la Chiesa, sì anche la Chiesa” di essere vittima (inconsapevole) del paradigma scientistico da cui vorrebbe prendere le distanze: “un paradigma culturale dominato da un’idea della tecnologia così invasiva, così totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura” (p. 25). Il professor Reale non si limita a ribadire principi generali, ma - quando apprende che alla famiglia di Piergiorgio Welby viene negata la possibilità di funerali in chiesa - mostra anche il senso pratico di prendere carta e penna e di indirizzare alla vedova Mina una bella lettera (che nel libro viene riprodotta per intero insieme alla risposta ricevuta): “La terapia imposta a suo marito e la nutrizione artificiale imposta per diciassette anni alla Englaro rientrano, a loro modo, in forme di accanimento terapeutico. Chiedere la loro sospensione, pertanto, non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, ma rientra in quella libertà che non può essere negata a nessun uomo (…). Io, come credente, sono sicuro che questo sia lecitissimo e giustissimo: la natura l’ha creata Dio, la tecnologia è opera dell’uomo: se io preferisco, alla fine, della mia vita (che Dio stesso mi ha dato9 lasciare alla natura (che lui stesso ha creato) il suo corso, e non alle tecniche messe in atto dall’uomo, sono ben lontano dal commettere un atto irreligioso, anzi addirittura mi sento molto religioso, in quanto dico a Dio: è venuta per me la fine, sia fatta la tua volontà (come vuole la natura), senza bisogno che intervenga l’uomo con le sue tecniche” (p. 30).
Ma neanche dal mondo laico, abbondantemente rappresentato nel volume, mancano le sorprese. Certo, non stiamo considerando laici barricaderi, come li definisce – prendendone le distanze – Remo Bodei, bensì dei laici come lui che si ritiene tale in quanto per principio non “rifiuta la religione”, bensì la confusione “fra Stato e Chiesa e tra morale e diritto” sì che “si può essere laici e religiosi allo stesso tempo, se si mantengono queste distinzioni” (p. 58). Ebbene, questi laici ragionevoli - e come potrebbero non esserlo, se davvero filosofi ? – ritengono, ad esempio con Aldo Schiavone, che “l’affermazione che la vita sia un bene di cui non possiamo totalmente disporre può essere sostenuta anche nella prospettiva di un non credente. Si può pensare che essa esprima un valore e una potenzialità sociali di significato talmente alti, da non poter essere affidati, in particolari circostanze, unicamente a chi quella vita la vive. (…) Ogni vita è di chi la vive, ma questa appartenenza è socialmente condivisa. Entra in gioco quello che potremmo chiamare un principio generale di etica della specie” (pp. 13- 14). Infatti - come spiega più dettagliatamente ancora Bodei – “la nostra vita non appartiene soltanto a noi, ma ai familiari, agli amici, alla comunità. Una certa cultura laica vorrebbe trasformare la morte in un evento banale, ma la morte non è mai banale: è solennità, è mistero. Ogni volta che muore qualcuno, un intero mondo scompare e si perde per sempre. Io difendo quel mistero. Viviamo come ospiti grati che cercano di capire perché sono finiti in questo mondo e quanto durerà. Vivere con un margine di incertezza non toglie la responsabilità delle proprie azioni, ma lascia aperta la porta al dubbio che le cose, alla fine, possano rivelarsi diverse da come le abbiamo pensate. E’ il contrario delle fedi rigide, sia laiche che religiose, dentro le quali ci si mura per non avere paura” (p. 57).
Come se questi accenti non fossero abbastanza imprevisti, Bodei si spinge oltre, sino a suggerire agli orfani delle ideologie del Novecento (“non solo nel campo degli eredi del marxismo, ma in quello del pensiero liberale e democratico”) di “distinguere “le religioni storiche dal senso del sacro. Credo che il senso del sacro è presente in tutti noi, a meno che non vogliamo affogarlo nell’ottusità e nell’egoismo. Il senso del sacro implica il riconoscimento di qualcosa più grande di noi, che ci sovrasta e che riguarda tutti” (p. 73).
Ma se è vero che non vale più la “vecchia contrapposizione fra i laici che difendono la qualità della vita, e i credenti, che pensano invece che la vita non ci appartiene” (p. 59), non significa che siano evaporate altre differenze, talora vere e proprie polarizzazioni. Ad esempio: è vero, come scrive Aldo Schiavone, che “in breve l’intervento della tecnica sarà di una invasività e forza da modificare radicalmente la qualità ‘naturale’ di questi cruciali avvenimenti” e che, “per quanto attiene in particolare alla morte, saremo sempre più noi stessi a decidere quando, come, e, in un futuro più lontano, addirittura se morire” (p. 6)? O, al contrario, ha ragione Vito Mancuso quando scrive: “Molti si illudono che presto riusciremo a non morire mai? Lasciamoli illudere” (p. 128)?
La questione è più complessa di ciò che appare agli occhi di chi non è aggiornato sulle prospettive della cibernetica. Infatti Schiavone non parla solo di una immortalità biologica (resa possibile dall’ingegneria genetica in sede preventiva e, successivamente, dal continuo trapianto di organi, man mano che si vanno consumando), ma soprattutto di quella immortalità - o, per lo meno, lunghissima sopravvivenza – possibile in “ ‘forme intermedie’ - le chiamo così in attesa di trovare un’espressione migliore – nelle quali sarà possibile mantenere le funzioni di un pensiero e di una personalità individuali entro strutture parzialmente o quasi completamente extrabiologiche, risultato di tecniche di ‘bioconvergenza’, che conserveranno ben poco del nostro piano anatomico originario. Forme in cui la nostra esistenza si prolungherà, ma non più nei termini in cui l’abbiamo conosciuta, verrà ricacciata indietro, sempre più indietro e lontana. Fin dove spingere la propria vita - nel senso della propria autocoscienza – diventerà probabilmente una scelta umana, in cui dovranno incontrarsi volontà differenti, e sarà compiuta anche in rapporto ai costi sociali del suo prolungamento, alle possibilità cognitive e affettive nelle condizioni concrete che di volta in volta si daranno, e alle responsabilità che ne discenderanno” (p. 6). Ha ragione Schiavone: “Evocare simili scenari apre orizzonti sconfinati, che implicano problemi di socialità, di eguaglianza nelle possibilità di accesso alle nuove tecnologie, di rapporti fra tecnica, vita e mercato, di adeguamento culturale, che appena riusciamo a immaginare. Però tanto vale cominciare a parlare di queste cose, e non fingere che non stia succedendo niente” (pp. 6 – 7). Con tutte le riserve del caso, perciò, ci si potrebbe chiedere: la sintesi fra la memoria del soggetto e un supporto artificiale sino a che punto potrebbe garantire “un pensiero e una personalità individuali”? Il software che immagazziniamo nella mente ‘funziona’ indifferentemente in un corpo organico e in un hardware costruito dall’uomo? E’ ammissibile questa ri-edizione del dualismo anima-corpo in una sorta di ‘tecnognosticismo’ ? O non ha ragione Alberto Giovanni Biuso quando, riflettendo su queste prospettive, avverte che, se “l’umanità contemporanea sembra correre verso l’obiettivo di riprodurre tecnicamente se stessa sia nelle modalità biologiche che in quelle del computazionale, tali pretese mostrano in realtà contraddizioni profonde e un limite costitutivo: la corporeità umana, infatti, non è mai semplice corpo –inanimato ma sempre corpo vivente e auto consapevole. Aver abbandonato i significati, i fini, il limite come semplici scorie teoriche, astratte, metafisiche, ha condannato gran parte dell’esperienza contemporanea a non sapere più quale sia il posto dell’umano nel mondo e quindi a non saperci più stare” (Cyborgsofia. Introduzione alla filosofia del computer, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, p. 102)?
Comunque, pur nella disparità dei punti di vista, i vari contributi a questo volume lasciano individuare importanti fili comuni. Come nota, nell’Introduzione, Daniela Monti, “l’indicazione che sembra emergere con maggior forza è quella di un nuovo personalismo fondato sull’etica della libertà: riconoscere a ogni uomo l’autorità morale per scegliere, anche nell’ultimo tratto di strada, significa conferire di nuovo dignità alla morte, strappandola dalla terr di nessuno in cui è stata confinata” (p. IX).
Se urge “costruire una cultura della morte, che non sia dominio esclusivo della medicina né rimozione di un evento inevitabile”, e se “per questo è necessario che la filosofia scenda in capo e faccia la sua parte” (p. VIII), l’incrocio di idee - più di una volta spiazzanti come deve avvenire fra filosofi di qualità - che si realizza in questo volume è un piccolo ma significativo segnale nella direzione giusta.

Augusto Cavadi

sabato 1 ottobre 2011

I padrini del ponte di Messina


“Centonove” 30.9.2011

Mazzeo svela gli affari di mafia sullo Stretto

Le grandi opere pubbliche o sono molto utili o sono molto dannose. Se la Tav al Nord e il Ponte al Sud non sono molto utili, sono molto dannose (dal punto di vista finanziario, ambientale, sociale e politico). Se questo ragionamento è semplice (e, proprio nella sua semplicità, convincente), meno facile è esplicitare le argomentazioni e formulare le risposte alle possibili obiezioni: da qui la necessità di un saggio, pacato e documentato, come I padrini del ponte di Antonio Mazzeo (Alegre edizioni, pp. 206, euro 14), arricchito da una prefazione di Umberto Santino. In particolare, il coraggioso giornalista messinese approfondisce l’angolazione evocata dal sottotitolo: Affari di mafia sullo stretto di Messina. Perché, insomma, questo ponte è diventato non solo un bancomat per istituti, agenzie, ditte prima ancora di materializzarsi (anzi, meno si materializzerà e più spanderà denaro pubblico a destra e a manca), ma anche una ghiotta occasione per ricompattare Cosa Nostra e ‘drangheta calabrese. “In un’area del Mezzogiorno dalle mai attenuate relazioni feudali” – conclude l’autore – “la più grande delle opere pubbliche sarà mero oggetto di contrattazione fra un signore plenipotenziario (Pietro Ciucci, amministratore delegato), un paio di vassalli e i manager di colossi economici dai piedi d’argilla. Il tutto sotto gli occhi vigili di una borghesia che non conosce scrupoli, indolente e mafiosa”.

A. C.