domenica 30 dicembre 2018

CALENDARIO DELLA CASA DELL'EQUITA' E DELLA BELLEZZA (GENNAIO 2019)

CASA DELL'EQUITA' E DELLA BELLEZZA
Via Nicolò Garzilli 43/a – Palermo
Care amiche e cari amici della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo,
questo aggiornamento è il primo del 2019: dunque, ovviamente, auguri per tutto.

·      Sabato 5 gennaio ore 17,30:A che punto siamo con il nuovo governo nazionale? Incontro di verifica con i parlamentari del Movimento 5 Stelle Giorgio Trizzino (Camera dei Deputati) e Steny Di Piazza (Senato della Repubblica).  Organizza la Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Appuntamento alle 18,00 (conclusione max. ore 20,30).  Ingresso libero e gratuito (offerta facoltativa per la gestione della Casa) sino a esaurimento posti. Precedenza ai soci della Scuola, ai sostenitori mensili della Casa e a quanti si prenoteranno (a.cavadi@libero.it) e riceveranno conferma via e-mail.

·      Lunedì 7 gennaio dalle 19,15 alle 21,45: Sergio Di Vita conduce un corso annuale di “Teatro dell’Oppresso” che si svolge nella Casa (all’interno delle attività promosse dalla Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone) con cadenza settimanale. Per ulteriori informazioni: vitadisergio@gmail.com.

·      Martedì 8 gennaio dalle 18,30 alle 20,00Meditazione sul “Natale fra storia e leggenda”proposta da Augusto Cavadi a partire dal libro (appena edito) di Ortensio da Spinetoli, Introduzione ai vangeli dell’infanzia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2018

·      Domenica 13 gennaio dalle 11,00 alle 13,00:Incontro di spiritualità laica(“La domenica di chi non ha chiesa”). Dopo la prima mezz’ora di accoglienza reciproca, dalle 11,30 alle 13,00 una meditazione condivisa (introduce Giovanni La Fiura). Alle 13,00 pranzo con ciò che ciascuno desidera offrire in tavola. Chi non è già sostenitore mensile della Casa è invitato a versare 5,00 euro per le spese di gestione della stessa.

·      Lunedì 14 gennaio dalle 19,15 alle 21,45: Sergio Di Vita conduce un corso annuale di “Teatro dell’Oppresso”che si svolgerà nella Casa (all’interno delle attività promosse dalla Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone), con cadenza settimanale. Per ulteriori informazioni: vitadisergio@gmail.com

·      Nello stesso giorno, ma dalle 19,30 alle 22,30, incontro quindicinale del “Gruppo noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne”. Nel corso delle due ore è previsto un momento conviviale autogestito. Poiché molte scuole e associazioni chiedono interventi e testimonianze sul tema, i maschi disposti a momenti di autocoscienza, di riflessione su testi specifici e a tenere incontri di formazione sono vivamente pregati di aderire al gruppo ormai troppo sparuto rispetto alle richieste che provengono dall’esterno

·   Sabato 26 gennaio: Laboratorio straordinario del Teatro dell’Oppresso
   Dalle 9:30 alle 19:30. 8 ore di lavoro, 2 ore di pausa per il pranzo 
   (conviviale: ovvero è affidato alla libera collaborazione dei partecipanti). 
     Iscrizioni (entro il 20 gennaio) :

·     Mercoledì  30 gennaio, dalle ore dalle 18 alle 21Laboratorio di formazione esperienziale – dedicato soprattutto alle donne – condotto dalla psicologa Ana Afonso, sul tema della “cura di sé”:   “Come ricavare tempo per me stessa? Come trovare il giusto equilibrio tra tutti gli impegni e i miei bisogni personali?”
Queste sono le due questioni chiave che saranno esplorate  mediante condivisione orale e alcune attività pratiche. Per informazioni e prenotazioni: educationtofreedom@zoho.com (entro il 26 gennaio).

                                                     Se siete davvero interessati a una di queste proposte, segnatela in agenda. Intanto un affettuoso arrivederci,
                                                            Augusto Cavadi
                                                         a.cavadi@libero.it



mercoledì 26 dicembre 2018

FEMMINICIDI E MASCHICIDI: IL CONTO E' IN PAREGGIO?

24.12.2018

 Uomini e dei

FEMMINICIDI, MASCHICIDI: UNA RADICE COMUNE ?

Un marito uccide la moglie in quel di Catania; dopo qualche giorno è una moglie ad assassinare il marito nel sonno a Palermo. A un femminicidio segue un maschilicidio. Affiorano ricordi di scuola ormai nebulosi: “S'ode destra uno squillo di tromba;/a sinistra risponde uno squillo”. E, a cascata, si snocciolano luoghi comuni che è difficile filtrare criticamente. 
   Innanzitutto: lo vedi che non sono solo gli uomini a uccidere le donne? Domanda retorica del tutto superflua. Nessuno ha mai sostenuto che le donne non siano capaci di assassinio (le tragedie greche abbondano di esempi) né che, se uccidono, abbiano sempre dalla loro buoni motivi per farlo. I numeri però sono numeri: e la sproporzione statistica fra i due generi di delitti s’impone implacabilmente. 
   Scatta allora la domanda di riserva: perché prima queste cose non succedevano e oggi sono all’ordine del giorno? (Subito dopo si aggiunge di solito: ormai non ci sono più i “valori” di un tempo…). Mi piacerebbe sapere a quale “prima” ci si riferisca: dieci, cento o mille anni fa? Perché ogni generazione ha conosciuto coniugi che avvelenano, accoltellano, strangolano…insomma ammazzano il proprio congiunto: da quando ho memoria – diciamo da mezzo secolo in qua – si è appreso di omicidi intrafamiliari; indietro nel tempo, sovrani illustri hanno pagato sicari disposti a sostituire incerte cause di divorzio; su su fino alle tragedie latine e greche con Medea che, per vendicarsi del marito, arriva addirittura a uccidere i due figli avuti da lui. Allora cerchiamo di mantenerci lucidi distinguendo i mali reali della nostra epoca (che ci sono, e sono gravi) dai mali percepiti (che sono i mali reali amplificati da un sistema massmediatico che raggiunge un pubblico assai più vasto del passato in tempi inimmaginabilmente più rapidi). 
   Dipanati questi e simili equivoci (i fatti sono fatti: i delitti nel mondo occidentale contemporaneo sono in calo rispetto al passato anche recente), restano sul tappeto dei fenomeni oggettivi che attendono di essere analizzati. Prima di tutto evitando le improvvisazioni, come quando – in base a qualche antidepressivo rinvenuto nell’abitazione della persona che ha assassinato – si parla subito di “raptus” (con l’illusione che, se di pazzia si tratta, non può capitare nulla di simile a noi “sani di mente”). La questione è più complessa: la punta dell’iceberg rimanda alla parte sommersa che è un sistema culturale, etico, simbolico, politico, sociale, economico nel quale – come avvertiva Kant più di due secoli fa – si tende a usare le persone (per non parlare degli altri senzienti) come se fossero cose, mezzi, strumenti per i nostri fini. Quando uno strumento non funziona più, o non funziona bene come prima, lo si getta tra i rifiuti: pazienza se è una compagna di vita che vuole lasciarci, un figlio problematico che ci delude, un socio in affari poco efficiente, un creditore che reclama il suo denaro, un dipendente in nero che si è fatto male sul lavoro…
   La terapia per riaprire gli occhi sulla dignità di ogni essere vivente non è meno difficile della diagnosi. I credenti tendono a puntare sul ritorno delle religioni, ma sarebbe sin troppo ovvio osservare che prima della secolarizzazione attuale le cose non andavano per nulla meglio; che le religioni storiche hanno contribuito a costruire il sistema attuale; che, senza una radicale revisione autocritica, non contribuiranno a cambiare in meglio la situazione. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

domenica 23 dicembre 2018

TRE DONNE CONTRO LA MAFIA SOCCORSE (UN PO' MALDESTRAMENTE) DA GILETTI



23.12.2018    

TRE DONNE CONTRO LA MAFIA

Mezzojuso è un piccolo, ma gradevole, comune della provincia di Palermo che fa parte della diocesi molto singolare di Piana degli Albanesi: infatti essa appartiene alla giurisdizione della chiesa cattolica ma conserva riti, tradizioni, simboli della chiesa greco-ortodossa. La splendida chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio (detta della Martorana) è la con-cattedrale di questa diocesi che, tra le caratteristiche più originali, annovera la presenza di preti del tutto legittimamente sposati.
    Come molte località del Meridione, anche il volto di Mezzojuso è stato negli ultimi due secoli sfregiato dall’acido muriatico della mafia. Mio padre,  che vi  era nato, mi raccontava che il venerdì santo si svolgevano due distinte processioni religiose: una della parrocchia ‘latina’ e un’altra della parrocchia ‘greca’. Per evitare che i fedeli di una delle due disturbassero il rito dell’altra, ciascuna comunità faceva sfilare al seguito delle statue un proprio mafioso con tanto di fucile in spalla: così, tanto per dissuadere da propositi poco pasquali. In anni più recenti si è appreso di summit con mafiosi di altissimo livello, quali lo stesso Bernardo Provenzano, proprio nelle campagne adiacenti il paese. 
     E’ in questo contesto che le sorelle Napoli, rimaste orfane del padre, provano a mandare avanti l’azienda agricola ereditata nel 2006. Com’era prevedibile, i mafiosi della zona non vogliono lasciarsi scappare questo facile bocconcino: infliggono i primi danneggiamenti e offrono generosamente la protezione da…sé stessi. Per otto lunghi – lunghissimi – anni reagiscono secondo la tradizione locale e, molto probabilmente, anche familiare (al netto di possibili omonimie): cercano di negoziare con alcuni estortori anche grazie alla mediazione di altri mafiosi. Constatata l’impraticabilità di questa via d’uscita, decidono d’imprimere una svolta alla loro strategia: si rivolgono alla stazione dei carabinieri guidata da un giovane comandante tanto preparato quanto disponibile. 
     A questo punto la storia si biforca. Alcune istituzioni (a cominciare dalla Prefettura) e alcune associazioni intuiscono la rilevanza della situazione: le sorelle Napoli vengono riconosciute come vittime di mafia, vengono anche premiate per il loro coraggio. E il fatto di provenire  da una famiglia o mafiosa o comunque non anti-mafiosa, lungi dal diminuire il significato della loro iniziativa, lo impreziosiscono: sulla scia di altre donne, celebri  - come Serafina Battaglia e le madri di Salvatore Carnevale e di Peppino Impastato - o meno note come Maria Benigno, Michela Buscemi, Vita Rugnetta, Piera Lo Verso, Anna Pecoraro, Maria Cangialosi, Rosa Cannella. 
     Altre istituzioni (a cominciare dal Comune di Mezzojuso) e altri aggregati sociali o tacciono o criticano l’operato delle tre sorelle che, rivolgendosi agli “sbirri”, avrebbero disonorato la famiglia anagrafica e, in un certo senso, l’intero paese nativo. 
     In questo delicato frangente si catapulta a Mezzojuso una trasmissione nazionale come “Non è l’arena” de La7 e irrompe come una spada a doppio taglio: da una parte ha il merito di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda, dall’altra lo fa con toni che forse nel conduttore Massimo Giletti, senz’altro nel commentatore Klaus Davì, sarebbero dovuti essere meno aggressivi, meno trancianti. Chi non vive in Sicilia difficilmente si rende conto che anche i cittadini in buona fede, bersagliati ogni giorno da appelli di vittime del racket, finiscono col ridurre di molto le capacità di scandalizzarsi e di reagire: un fenomeno oggettivamente sbagliato, ma in cui la responsabilità soggettiva dei singoli va misurata con cautela ed equità. Dunque: ben venga ogni stimolo esterno a non finire con l’accettare passivamente la solitudine di chi si ribella alla dittatura mafiosa, purché ciò avvenga nei termini e nei modi di chi giudica dall’alto di uno scanno lontano dal groviglio dei vissuti. 
   Si è così giunti alla cronaca di questi giorni. Il sindaco di Mezzojuso ha chiesto e ottenuto dalla Procura di Termini Imerese il rinvio a giudizio per diffamazione di Giletti, Davì e il direttore de La7 Andrea Salerno: un’iniziativa che rientra nei diritti del sindaco Salvatore Giardina, ma che lascia un po’ di amaro in bocca. Da un esponente delle istituzioni ci si sarebbe attesa una reazione meno dura, una sorta di “Sì, grazie per la sollecitazione; ma si badi anche alle forme”. Tanto più che, invece, lo stesso sindaco sta mantenendo un silenzio davvero eccessivo, se non imbarazzante, su una notizia ormai accertata e resa di pubblico dominio proprio in una delle ultimissime trasmissioni della stessa rete televisiva: che Antonino Tantillo, padre di Giovanni, attuale presidente del consiglio comunale di Mezzojuso, è stato nel 1998 tra gli organizzatori di un agguato  ai danni delle tre sorelle Napoli. Nessuno può essere considerato responsabile degli errori dei propri genitori, è ovvio: ma quando questi errori, gravissimi, vengono alla luce nessuno può ritenersi esonerato dal condannarli. Altrimenti è difficile non concludere che si usano due pesi e due misure.

Augusto Cavadi

martedì 18 dicembre 2018

I COMUNISTI ITALIANI IERI, GLI ISLAMICI STRANIERI OGGI

18.12.18
      
LA SCOMUNICA DEL 1949: UNA STORIA D’ALTRI TEMPI.   O FORSE NO.

Il cattolico ‘medio’ si dice tale, anche dopo la fase critica dell’adolescenza, perché – tutto sommato – accetta un ‘pacchetto’ di idee, simboli, pratiche costituito da un nucleo originario (il messaggio di Gesù di Nazareth) e da un involucro storicamente sviluppatosi, attraverso cui quel nucleo è stato veicolato in venti secoli (la chiesa istituzionale). Le due componenti (vangelo + istituzione ecclesiale) non sono omogenee: il primo, infatti, come tutti i messaggi profetici è tendenzialmente contestatore e innovatore; l’altra, come tutte le grandi istituzioni, è tendenzialmente conservatrice. Da qui le tensioni interne al mondo cattolico in ogni secolo: ognuno, infatti, più o meno consapevolmente, attribuisce maggior peso a una delle due componenti, col risultato che s’incontrano ora cattolici più evangelici che istituzionali e ora cattolici più istituzionali che evangelici. La cronaca di questi giorni è una vistosa conferma di questa ipotesi interpretativa: essa infatti registra, da una parte, cattolici che in nome dell’universalismo evangelico sono disposti a mettere in discussione l’assetto secolare della “civiltà cristiana” e, dall’altra parte, cattolici che in nome della continuità identitaria assicurata da un’istituzione consolidata, sono disposti a rigettare in mare (metaforicamente e letteralmente) i portatori di nuovi bisogni e di nuovi valori. 
      La novità attuale è che, come pochissime altre volte, a dare più importanza al vangelo rispetto all’autoreferenzialità dell’istituzione, c’è un gruppo di vescovi tra cui il papa; mentre, a difendere la tradizione e i privilegi socio-economici, ci sono i restanti vescovi e, soprattutto, la maggioranza dei fedeli (evidentemente non proprio assidui lettori del Secondo Testamento).
      Come andrà a finire?  Morto un papa – Francesco – se ne farà un altro che ristabilirà l’assetto precedente, in cui la carica rivoluzionaria del vangelo sarà veicolata con tutte le precauzioni del caso, senza eliminarla del tutto ma evitando accuratamente che esploda? Oppure, anche dopo Francesco, ci saranno altre guide del popolo cattolico convinte della necessità di una conversione dei credenti prima ancora che dei ‘lontani’, degli ‘infedeli’? 
     Ritengo, francamente, che non sia facile rispondere. Nell’attesa che gli avvenimenti sciolgano il dilemma – e, per chi vuole, affinché si possa agire in una direzione o nell’altra – può essere molto istruttivo rivisitare la storia recente. Se non dell’intera chiesa cattolica, almeno della chiesa italiana. Soprattutto nel periodo in cui i ‘barbari’, i ‘nemici’, non venivano da fuori i confini nazionali ma vivevano, lavoravano, votavano da cittadini italiani in mezzo a cittadini italiani. Mi riferisco alla vicenda che Arnaldo Nesti ha rievocato, con abbondanza di documenti (talora inediti), in un libro edito in queste settimane: La scomunica. Cattolici e comunisti in Italia, Dehoniane, Bologna 2018,pp. 143, euro 12,00, corredato da una prefazionedi Luigi Bettazzi (vescovo emerito di Ivrea) e da una postfazione di Achille Occhetto (ex segretario generale del PCI). Mi limito, per ovvie ragioni, ad alcune considerazioni telegrafiche.
a)   La diffidenza delle gerarchie cattoliche nei confronti del marxismo non erano, in linea di principio, infondate. Il Partito comunista italiano (negli anni dal 1945 al 1978, anno dell’assassinio di Aldo Moro) aveva come modello di riferimento l’Urss (l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) che, nelle sue zone di influenza, dava pessime prove di sé sia contro i dissidenti interni sia verso gli Stati satelliti (vedi invasione dell’Ungheria nel 1956 e invasione della Cecoslovacchia nel 1968). Come scrive lo stesso monsignor Bettazzi, “le notizie che provenivano dal mondo comunista – distruzione di chiese, prigionia e morte per sacerdoti, religiosi e religiose, e anche per chi avesse battezzato un neonato o compisse pubblicamente atti religiosi – avevano sparso la convinzione che vi fosse un’opposizione tale tra il comunismo sovietico e ogni forma di religione da dover mettere in guardia i fedeli da questo contrasto assoluto, un po’ come c’era stato nei primi secoli tra i poteri pagani e i cristiani, chiamati quindi al martirio” (p. 5). 
Se oggi gli immigrati (a qualsiasi titolo e con qualsiasi mezzo) fossero tutti esponenti dell’islamismo fondamentalista, le preoccupazioni dei cattolici filo-salviniani sarebbero più che fondate; ma gli islamici sono solo una parte dei profughi e, tra di essi, i fondamentalisti sono una percentuale irrisoria. D’altronde la biografia dei terroristi islamici attesta, sino ad ora, che la stragrande maggioranza (o forse la totalità) non è sbarcata da nessun barcone, ma è nata e cresciuta in Europa. 
b)  Quando, nel 1949,  la scomunica del Vaticano colpì attivisti ed elettori dei partiti e dei sindacati di sinistra era già entrata in vigore la Costituzione italiana (elaborata e approvata da tutte le forze politiche anti-fasciste). I cattolici anti-comunisti avrebbero potuto, del tutto legittimamente, pretendere il rigoroso rispetto delle norme democratiche concordate, senza chiedere che una fetta molto consistente dell’elettorato italiano fosse bollato come eretico e sovversivo. Anche oggi vige in Italia una Costituzione democratica: una cosa è pretendere che chiunque entri e viva dentro i nostri confini la rispetti (o, se non lo convince, lotti legalmente per una sua revisione seguendo le modalità previste dalla Costituzione stessa) e un’altra cosa è condannarlo a prioricome cittadino inaffidabile in base al colore della pelle o alla lingua materna o alla religione dei suoi padri. Con questi criteri selettivi gli Stati Uniti d’America non avrebbero potuto avere come presidente Obama né la città di Londra potrebbe avere, tuttora, come sindaco Sadiq Aman Khan.
c)   Pur diffidando (non senza ragioni) dell’ideologia del marxismo-leninismo tradotto operativamente dai governi sovietici e filo-sovietici, alti esponenti della gerarchia cattolica (quasi due decenni prima della celebre distinzione di papa Giovanni XXIII fra dottrina e perone concrete che vi aderiscono) mettevano in guardia dal non identificare sic et simpliciterogni elettore del PCI con un convinto aderente all’ideologia comunista. Ad esempio, già nel 1948, l’arcivescovo di Firenze, il cardinal Elia Dalla Costa, raccomandava ai suoi parroci di non dimentica che “parte di coloro che hanno dato o danno il voto al comunismo l’hanno fatto o lo fanno per ottenere vantaggi economici” (p. 51); infatti “non è da dimenticare che i lavoratori, i poveri di ieri, riconoscono nel comunismo quasi una specie di redenzione e giudicano che senza di esso certe loro elevazioni non sarebbero state raggiunte. E’ vero? Io non lo so; ma so che essi operano dietro questa convinzione” (p. 12). 
Qualcosa di molto simile potrebbe riscriversi oggi a proposito di immigrati di altre confessioni religiose (islamici e induisti soprattutto). Essi non affrontano certo i rischi di traversate terribili per fare da missionari in Occidente delle loro convinzioni religiose. Quando non sono già del tutto secolarizzati, agnostici o atei – esattamente come molti intracomunitari - mantengono un’appartenenza confessionale soprattutto perché in essa trovano ragioni di conforto e di speranza, per questa vita e per un’altra successiva. Invece di perseguitarli o respingerli come fossero agenti segreti di ideologie che (a ragione, qualche volta, o a torto, più spesso) non condividiamo, dovremmo vederli, prima di tutto ed essenzialmente, come esseri umani. E, chi di noi è credente, anche come figli di Dio. Già nel 1963, l’arcivescovo di Bologna, il cardinal Giacomo Lercaro, ricordava in un messaggio ai cattolici il dovere di “promuovere il bene religioso e morale della Nazione” non combattendo comunismo e comunisti, ma “contribuendo ad assicurare la libera e fraterna convivenza di tutti gli uomini, delle classi e dei popoli” (p. 39).  
d)  L’apertura dialogica e accogliente verso i comunisti (italiani o stranieri: l’accoglienza in Vaticano del genero di Krusciov da parte di papa Angelo Roncalli gli meritò, da parte dei cattolici tradizionalisti,  il soprannome – con intenti offensivi – di “Nikita Roncalli”, p. 34) è stata possibile solo in quelle personalità che hanno maturato una transizione, all’interno della loro visione-del-mondo, dalla centralità della chiesa istituzionale alla centralità del “regno di Dio”. Il libro di Nesti abbonda di esempi istruttivi sia di cattolici disposti a sacrificare la dignità e la vita stessa degli esseri umani per difendere la compattezza dell’istituzione ecclesiale sia di cattolici che, con grande travaglio, hanno infranto la corazza ideologico-istituzionale per vivere con libertà gli orizzonti del messaggio originario di Cristo. 
Un esempio drammatico della prima posizione è riportato, autobiograficamente, dal vescovo Bettazzi: “In Italia si pensava a una diversa attenzione al Partito comunista italiano: l’on. Moro stava preparando, nel 1978, un iniziale appoggio esterno del Partito comunista e, per questo, fu sequestrato e assassinato, con una singolare connivenza delle Brigate rosse, che per rapirlo uccisero cinque poliziotti: un’alta personalità ecclesiastica, cui ero ricorso per vedere se si poteva trattare, concluse lapidariamente con la frase di Caifa: <<Meglio che muoia un uomo solo piuttosto che tutta la Nazione perisca>> (cf. Gv 18,14)” (pp. 6 – 7). 
Un esempio di segno opposto è costituito dalla vicenda del gesuita Riccardo Lombardi. Per il primo mezzo secolo di vita acquistò fama nazionale come “microfono di Dio” per la sua instancabile opera di predicazione in tutto il Paese, anche via radio, contro il comunismo e a difesa del sistema – culturale e morale – incentrato sulla chiesa cattolica romana. Ma, negli ultimi anni, questa postura da crociata si incrina ed egli attraversa una crisi spirituale, e persino psichica, angosciante. Durante un viaggio a Manila del 1976 annota: “La Chiesa dovrebbe essere come Cristo. Ridursi in pane, farsi mangiare dal popolo per comunicarlo all’umanità. Ma come, con queste cattedrali di stile occidentale, questi conventi confortevoli, queste scuole cattoliche per i ricchi, questi pranzi diplomatici? Come con questa mentalità clericale, secondo cui il privilegio ci compete? Sono sconvolto, mi vergogno nel profondo del cuore” (p. 33). Queste impressioni di viaggio lo inducono a una vera e propria conversione teologica: “Se il piano di Dio è il Regno universale, la Chiesa è solo mezzo privilegiato per servirlo. E certe conseguenze si devono trarre. Una Chiesa che si dà fino all’estremo, che quasi si dimentica di sé stessa, perché tutti e ciascuno possano essere aiutati a crescere nel bene che già possiedono in sé stessi, è la condizione perché il cristianesimo possa inculturarsi in questi paesi” (p. 33). Infatti “lo Spirito agisce ovunque un uomo lotta sinceramente per ottenere ai fratelli giustizia, ovunque c’è un pacifico e un pacificatore e dovunque c’è qualcosa di vero e di buono”; “il piano di divino di salvare il genere umano è offerto a tutti”; “non la Chiesa ma il Regno di Dio è annunziato in molte parabole del Vangelo. Non la Chiesa ma il Regno di Dio è il fine della creazione. Nel servire la diffusione del regno di Dio, inteso nei cuori degli uomini, di ogni uomo, sinceramente in buona fede, anche senza il credo cristiano, sta la funzione universale della Chiesa” (p. 34). 
Così, in Riccardo Lombardi, si sono fronteggiate due prospettive opposte: da una parte la “religione” di papa Pio XII, dei cardinali Ruffini e Siri, di monsignor Roberto Ronca, di Luigi Gedda…(personaggi per i quali, pur di salvare le istituzioni ‘cattoliche’, sarebbe stata accettabile l’alleanza con i fascisti vecchi e nuovi); dall’altra la “fede” di un Giovanni XXIII, del cardinal Lercaro, del vescovo Helder Camara, di don Milani, di don Balducci..(per i quali, gli interessi terreni e mondani del mondo cattolico vanno subordinati del tutto alla radicalità dell’agape evangelica). Il gesuita, convertitosi in extremis, lasciatasi alle spalle la lunga “Crociata della Bontà” per assicurare ai cattolici “la leadership politica e morale” (p. 30)  della nascente Repubblica italiana, perverrà infine alla convinzione liberante che “nel regno di Dio è compresa anche la Chiesa come nucleo voluto da Dio, ma esso si estende misteriosamente al di là di essa, nel santuario delle coscienze” (p. 33). 
Come ho cercato di evidenziare anni fa nel mio Il Dio dei leghisti(San Paolo, Cinisello Balsamo 2012) l’alternativa, dai tempi della difesa dal pericolo “rosso”, non è mutata nella sostanza: o lasciamo che uno, cento, migliaia di esseri umani muoiano perché le nostre nazioni, le nostre credenze religiose, i nostri sistemi sociali, non vengano messi in discussione dal confronto con l’alterità (anche a costo di ridurre la nostra fedeltà evangelica ai minimi termini e di stringere patti politici con “atei devoti” di ogni colore) oppure, al contrario, ci convinciamo che il nucleo del messaggio evangelico è dedicarsi alla vittoria del “regno” della giustizia, della libertà, della fratellanza, della nonviolenza sull’attuale dominio dell’iniquità, dell’oppressione, della prepotenza e della conflittualità violenta. 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

lunedì 17 dicembre 2018

LA FAMIGLIA E' UNA CAMERA A GAS ? CON ROBERTO PUGLISI




GLI OMICIDI IN FAMIGLIA

Natale di sangue, spari, coltellate 
"Ecco cosa distrugge una famiglia"

Roberto Puglisi

E poi ti trovi davanti all'inciampo della normalità. Lo rintracci 
nelle strade e nei volti, ai crocevia. Facce scavate, un grigiore che 
sotterra i colori e li rende inerti. Discorsi smozzicati imperniati sui 
soldi che mancano, sulla sussistenza dell'indomani, sulle ali che
non appaiono più giovani. Alcuni inghiottiti da qualcosa. Altri che
trascinano i passi come se avessero catene al posto delle scarpe.
E poi ti trovi davanti alla rottura improvvisa. E provi
 a raccontare
 ciò che, in fondo, non è raccontabile, con le ricostruzioni della
 cronaca 
fin qui disponibili. La mamma che uccide il suo bimbo a Catania.
 Il papà 
della famiglia felice che stermina i suoi cari e si toglie la vita.
 Gli 
antidepressivi. Intorno, le prime stelle rosse dal fioraio, le ultime
 foto 
della felicità, coriandoli di sorrisi, le faccine sui social. Segnali
 luminosi
 in un crepaccio.

E adesso l'orrore di Falsomiele, a Palermo, con un uomo

 macellato
come un agnello. E il capo della Squadra mobile, uno che non 
si smarrisce 
mai perché ne ha viste tante: "Il nostro compito non è soltanto 
quello di 
arrestare gli autori dell'omicidio, ma stabilire cosa abbia 
provocato questo 
gesto di follia". Nella difformità di vicende, moventi e circostanze;
 è come
 se ci fosse una deflagrazione alle porte di uno stanco Natale.

E allora ti chiedi se non lampeggi una spia tra il dolore

 di certi 
giorni e il confine estremo di certe cronache che accennano 
a un male 
oscuro, forse, in rilievo. Qui si intersecano riflessioni, qualche
 tentativo 
di risposta. Le domande si sommano. La voglia di capire ciò 
che appare incomprensibile rammenta le molliche di pane che
 Hansel e Gretel 
cercarono invano, sulla via del ritorno. A che punto è la notte?

“Non mi riferisco direttamente a quello che è accaduto perché

 non si
 possono unificare gli eventi e perché ne sappiamo ancora poco.
 Vorrei 
partire da un dato generale che mi risulta – dice Marco Barone, 
psicologo, psicoterapeuta – : il male oscuro, se diamo al termine 
il 
significato di un disagio profondo, talvolta dagli effetti imprevedibili, 
non è semplice da definire. E l'accesso alle cure risulta più complicato, 
visto che il servizio sanitario nazionale ha dei limiti di copertura, 
mentre
 il problema si rivela vasto".

Il dottore Barone offre la descrizione di un attimo 

che è già 
storia: “Tanto è cambiato. Abbiamo strumenti che ci collegano
 ovunque, mentre si deteriora la qualità delle relazioni e della 
comunicazione interpersonali. Non lavoriamo più per produrre 
cose. 
Sforniamo denaro e consumo. Abbiamo perso molto, soprattutto
 i
 valori. Abbiamo spezzato il legame che ci univa alla famiglia
 che spesso 
è la prima vittima del clima generale. Le feste, specialmente
 quelle natalizie, 
rappresentano un momento emotivamente forte, un'occasione
 di bilancio. 
Si sente il maggiore bisogno di un contatto affettivo che, magari,
 proprio 
in famiglia, non c'è. E in certi contesti al limite può accadere
 l'irreparabile”.

Roberto Alajmo affronta la questione da scrittore, con 

suggestioni
 e incubi. Non a caso è suo 'Il repertorio dei pazzi della città
 di Palermo'. 
“Non sono sicuro che ci sia un aumento del livello della follia.
 Mi pare che 
sia impazzito il contesto che ti mette nelle condizioni, a tua volta, 
di 
impazzire. Se non rispondi a determinati modelli di successo, può 
scattare 
una molla che non c'era. Tuttavia, le cose tragiche che stiamo 
purtroppo leggendo non sono originali, hanno radici antiche e 
nei miti. E chiunque sia genitore, per esempio, se non si vuole 
perseguire il moralismo, sa che arriva un momento in cui
 l'impazzimento
 può sfiorarti. Dietro le mura di qualunque appartamento,
 gli ingredienti cuociono in una pentola a pressione. Non sai 
cosa c'è dentro, avverti appena il sibilo”.

Augusto Cavadi, professore, filosofo, ha una posizione

 che lo 
mette in controluce: "Oggi abbiamo un'amplificazione 
cognitiva 
perché le cose sono comunicate in tempo reale. Da che 
ne ho 
memoria, fatti atroci, purtroppo, sono sempre accaduti.
 E, per dirla 
tutta, non ho troppa nostalgia della famiglia del passato. 
Non la esalto. Quest'epoca coltiva la propria alienazione,
 come le altre. E' necessario distinguere le dinamiche singole senza banalizzare, per comprendere. 
Scriveva Tolstoj: 'Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia 
infelice è invece disgraziata a modo suo'".

Marina Cassarà, avvocato che segue percorsi 

dolorosissimi, con umanissima sensibilità, da donna inserisce
 un orizzonte un po' più rosa.
 “Il male oscuro lo vedo, lo sento, lo percepisco, in certi fatti 
di cui mi 
occupo, in certe persone... Ma poi guardo i ragazzi che 
mi sembrano 
ottimisti e bellissimi e privilegio la speranza. E' terapeutico
 piangere 
quando qualcuno cura il pianto e lo trasforma in pace, quando
 sei accudito nella tana familiare che è il simbolo della protezione. 
Se questo manca...”.

I puntini di sospensione alludono alla cappa grigiastra

 dei giorni e ai mostri acquattati dietro l'angolo. Ci sono indicazioni
 plausibili? Chi lavora con le sofferenze degli uomini ci ha provato 
a orientarsi, in un fumo denso, ognuno nel suo campo alle prese 
con il singolo riflesso di uno specchio. Restano,
 intere, le domande e le differenze tra storia e storia. Resta la notte, 
con 
la paura di un'alba incerta. Ma ha ragione Marina, l'avvocato. 
Le luci 
esistono. Le speranze sono a portata di mano. Natale è 
l'immagine di 
 una salvezza nelle peggiori condizioni possibili. Tutto può 
nascere e 
sempre rinascere nel cuore di chi non si arrende.

sabato 15 dicembre 2018

QUANDO IL BOSS FA VOLONTARIATO

www. repubblica. it
(Palermo) 
15. 12.2018

QUANDO IL BOSS FA VOLONTARIATO

La questione di estrema attualità se, e come, accogliere nelle associazioni di volontariato (cattoliche e non) persone che – dopo un periodo di detenzione - devono svolgere servizi di utilità sociale non ammette soluzioni facili. Ogni caso è un caso a sé e solo per pigrizia mentale e etica si può rispondere, sloganisticamente, con un “sempre” e con un “mai”. Ciò che le associazioni possono, e dovrebbero, fare è darsi una “carta” di criteri comuni in modo da offrire agli ex-detenuti (specie se condannati per reati di mafia) un’immagine per quanto possibile compatta, evitando la rischiosa differenziazione fra “lassisti” e “rigoristi”.
  Il primo di questi possibili “criteri” potrebbe essere la sconfessione pubblica del proprio passato. Se chiedo di fare volontariato in un gruppo il mio primo passo dovrebbe consistere in un’auto-presentazione sulle ragioni che mi inducono a questa scelta: l’esperienza pluridecennale di formazione degli operatori ci conferma che già in questo primo contatto non è facile mentire. Certo tutti possiamo tirar fuori capacità istrionesche, ma per un ex-affiliato di mafia (vero o presunto ex) non è per nulla facile dichiarare in una pubblica assemblea di soci che rinnega la propria appartenenza a una cosca.
   Un secondo criterio dovrebbe prevedere l’assoluto divieto di collaborazione, almeno nelle ore di volontariato, fra due ex-detenuti. Ciò sia per ridurre le possibilità di condizionamento psicologico reciproco sia per evitare che, agli occhi di terzi, si crei una qualsiasi forma di complicità fra soggetti provenienti da esperienze negative comuni (specie se si tratta di persone appartenenti a sodalizi di stampo mafioso).
  Un terzo criterio potrebbe consistere nell’affiancamento, per un congruo periodo di tempo, del neo-volontario con un operatore che già da anni lavora in quel determinato settore. Dal punto di vista giuridico-giudiziario, infatti, si può misurare il rispetto formale delle regole (puntualità all’inizio e al termine delle ore di servizio; comportamento corretto nei confronti dei colleghi e degli utenti etc.), ma un’associazione di volontariato, come e in un certo senso più ancora di un’istituzione pubblica o privata, deve guardare al merito, ai contenuti, alla qualità morale dell’attività che viene prestata. Soprattutto quando si tratta di avere contatti con bambini e ragazzi; di studiare insieme a loro commentando la storia e i fatti di cronaca; di testimoniare un certo modo di guardare la vita…è essenziale capire che cosa un ex-detenuto sta comunicando agli adolescenti che, pur in buona fede (ovviamente nei casi migliori), intende accompagnare nello studio, nello sport, nell’avviamento al lavoro. 
    Ma chi ci assicura che l’ipotetico volontario “accompagnatore” abbia la maturità intellettuale e pedagogica per fare bene il proprio lavoro e per aiutare l’ipotetico volontario “accompagnato” a farlo bene? Qui si apre una delle ferite più eclatanti di tanto associazionismo, cattolico e laico, italiano (soprattutto, bisogna amaramente riconoscere, da Roma in giù): la mancanza, totale o quasi, di formazione iniziale e in itinere. Se una persona mostra l’intenzione di dare una mano agli altri, questo viene ritenuto già sufficiente per arruolarla: se poi è analfabeta, dal punto di vista della psicologia o della comunicazione o dell’empatia, ciò viene ritenuto irrilevante. Una ventina di anni fa, al Centro “Pedro Arrupe” di Palermo, col direttore dell’epoca p. Gianni Di Gennaro, decidemmo di affiancare, alla Scuola di formazione politica, anche una Scuola di formazione al volontariato. Dopo alcuni anni, le richieste scemarono: le associazioni cittadine continuavano ad accettare nuovi volontari, ma questi non avvertivano nessuna esigenza di preparazione né storico-sociologica né psico-pedagogica. Da qui un quarto “criterio”: un ex-detenuto che chieda di prestare opera volontaria presso un’organizzazione deve accettare di partecipare attivamente, con gli altri associati, a incontri periodici di aggiornamento professionale (relativamente al settore in cui opera) e di supervisione della sua attività. Un’associazione che non preveda questi momenti di verifica, di approfondimento, di interazione fra i componenti delle squadre farebbe bene a chiudere i battenti e, in ogni caso, a non accettare nel suo seno inserimenti di soggetti problematici.
 Una volta stabiliti e rispettati questi criteri – e altri simili che saranno suggeriti da chi ha esperienza sul campo – si potrà tentare la difficile scommessa del reinserimento sociale di concittadini macchiatisi di reati gravi e gravissimi. Con fiducia aprioristica sulle risorse di riabilitazione di qualsiasi essere umano, ma con la lucida consapevolezza che tali risorse dipendono dalla libera autodeterminazione di ciascuno. Per quanto possa essere amaro ammetterlo, la libertà è una lama a doppio taglio. E le possibilità che venga esercitata in una direzione riparativa e costruttiva equivalgono, esattamente, alle possibilità che venga attuata a danno di sé stessi e degli altri.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com