sabato 27 giugno 2015

CI VEDIAMO A PALERMO, MARTEDI' 30 GIUGNO, ALLE 18,30 ?

Approfittando di una delle rare apparizioni palermitane di Elio Rindone, discuteremo con lui dell'attuale papa Francesco I in confronto critico con il suo immediato predecessore Benedetto XVI. L'occasione è data dal suo recente libro Da Raztinger a Bergoglio, www.ilmiolibro.it, Roma 2015 (che si può acquistare sia via internet che ordinandolo in qualsiasi libreria Feltrinelli).
L'incontro avverrà alle 18,30 presso la Chiesa di S. Francesco Saverio all'Albergheria.
Per avere un'idea del volume riproduco la mia introduzione:

 
PRESENTAZIONE
 
   Non è che oggi si legga meno di ieri, se mai è vero il contrario. Cambia il supporto della scrittura: l’altro ieri la pergamena segnata a mano, ieri sino a oggi la carta su cui si sono impressi i caratteri mobili di Gutenberg, oggi e domani computer e tablet in continua interazione reciproca. Le opinioni di Elio Rindone non sfuggono a questo destino: dapprima, e innanzitutto, vengono diffusi e letti via internet. Pur se suggeriti da eventi di cronaca, non si tratta tuttavia  di scritti di valenza effimera: da qui il desiderio di alcuni lettori  - il cui numero va, lentamente ma gradatamente, crescendo – di vederli raccolti in un libro (all’…antica !) sia per averli sott’occhio in maniera organica sia per facilitare quanti non abbiano abbastanza familiarità con la  telematica.
   Ecco, allora, un’altra raccolta di interventi editi su vari siti il cui filo rosso è l’attenzione critica alla struttura istituzionale della Chiesa cattolica e alla teologia che la legittima. Un’attenzione che ha certamente valore per gli storici del cattolicesimo ma almeno altrettanto per gli osservatori  - credenti o meno – di ciò che sta avvenendo in questi anni, in questi mesi di “bergoglismo” galoppante.
     L’opinione pubblica è comprensibilmente affascinata dallo stile diretto, affabile, autentico di questo “vescovo di Roma” che i cardinali hanno ripescato dalla “fine del mondo”, anche per contrasto con la figura e il carattere del suo immediato predecessore Benedetto XVI.   Ma – ci avverte sostanzialmente l’autore – è solo per un errore di prospettiva che ci si può concentrare sui papi trascurando il papato: e, soprattutto, quel complesso dottrinario e organizzativo di cui il papato è da una parte espressione somma e, dall’altra, garanzia assicurativa.
     Allo stato attuale (secondo semestre del 2014)  sembra di essere a un bivio. Una direzione, la più auspicabile e la meno probabile, è che papa Francesco I avvii una riforma radicale dell’ortodossia cattolica che consisterebbe non nella revisione di questo o quel dogma biblicamente poco fondato, quanto nel ridimensionamento del punto di vista dottrinario rispetto al punto di vista operativo. Insomma, un po’ paradossalmente, nella riscoperta della prospettiva evangelica originaria per cui l’unica ortodossia che conta è…l’ortoprassi.
    Una seconda direzione, meno entusiasmante e secondo Rindone più probabile, è che il papa argentino continui a offrire una bella testimonianza personale di fede, di sincerità, di sobrietà e di preoccupazione per gli ultimi della Terra, ma lasci così come li ha trovati i capisaldi teologici e organizzativi della Chiesa, senza recidere nessuna delle radici da cui, con estrema consequenzialità logica, derivano i mali che egli pur denunzia: carrierismo all’interno delle gerarchie, collateralismo con i poteri politici ed economici forti (a prescindere da ogni valutazione etica), gregarismo passivo dei fedeli-laici rispetto al clero, marginalizzazione delle donne nella vita ecclesiale, tiepido o del tutto assente impegno del corpo ecclesiale nella sua interezza per una globalizzazione dei diritti.
    Francesco I ha firmato e diffusa l’enciclica quasi del tutto vergata da Ratzinger Lumen fidei    : però qualcuno ha osservato che la sua prima vera enciclica è stata il viaggio a Lampedusa per gridare la solidarietà agli immigrati africani che rischiano tutto pur di scommettere su una vita dignitosa. Forse questa duplicità  - la fredda chiarezza concettuale ereditata dal predecessore, la calda sensibilità per chi soffre alimentata dalla lunga esperienza in America Meridionale – è come la cifra enigmatica del papato attuale, il primo nella storia di un figlio di sant’Ignazio di Loyola.
   In una storiella umoristica, che gira da decenni negli ambienti cattolici, si sostiene che sfuggano all’onniscienza di Dio solo tre dati: quante siano davvero le congregazioni di suore; da dove ricevano tanti soldi i salesiani; che cosa pensi davvero un gesuita.  Tra una decina di anni al massimo Rindone ci spiegherà, in un'altra raccolta simile a questa, come si sarà sciolto il terzo enigma.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com






venerdì 26 giugno 2015

PAOLO CERVARI E AUGUSTO CAVADI DISCUTONO SU ERMANNO BENCIVENGA


“Phronesis”
Anno XII (2014), numero 21-22

LETTERE SU ERMANNO BENCIVENGA, La filosofia come strumento di liberazione (Cortina, Milano 2010).
Uno scambio epistolare fra Augusto Cavadi e Poalo Cervari



Caro Augusto,
ho ripreso recentemente La filosofia come strumento di liberazione, che avevo attentamente processato già alla data della sua uscita, nel 2010. E nel rileggerlo, sia pure saltellando qua e là, mi sono ritrovato molto daccordo con Bencivenga. Di certo è un filosofo di alto livello e per di più attento e informato di quanto accade nella scienza contemporanea, motivo per cui, per esempio, a livello ontologico si rifà alla meccanica quantistica. Il libro, di quasi divulgazione, ha il merito di mettere sul tavolo moltissime questioni importanti, e in generale non ci risparmia affermazioni forti e sorprendenti, così come ragionamenti sintetici ma ben articolati, in tutti i campi della filosofia, dalletica allestetica, dalla politica alla metafisica, dallontologia allepistemologia.
Come ti dicevo, mi sono ritrovato daccordo con lautore in ogni questione, quasi in ogni passaggio, fino ad esserne insospettito. Cosa non quadra? E meditando su questa domanda ho infine trovato una risposta: va tutto troppo bene. Ovvero: la visione di Bencivenga è ottimistica e positiva, fonda non solo lessere delluomo, ma perfino lintero universo sulle nozioni di gioco e di libertà, da cui la filosofia come strumento di liberazione, tema che immagino sia caro anche a te, e dipinge un mondo in cui sembra quasi assente il male. Intendo un male radicale, non un male residuale o privativo. E così mi sono proposto di girarti la questione: che ne pensi? Mi spiego un poco di più: secondo Bencivenga   (nomen omen!) il male deriva in fondo, riassumendo un po, dal fatto che noi possiamo scegliere di trattare gli altri come cose od oggetti. Ebbene mi è venuto da pensare che tutto questo sorvola elegantemente sulla questione per lappunto del male radicale, così come lha formulata (è un riferimento, ma non vincolante) Jacques Lacan quando parla del godimento dellAltro: il punto chiave è che vuole godere di me, trattarmi per lappunto come una cosa di cui disporre a piacimento. E dunque, e qui concludo, la questione non sta tanto nel fatto che noi abbiamo la libera scelta di fare o non fare questa bruttissima cosa, ma che per certi versi noi (si anche noi) vogliamo e, insieme, siamo necessitati a farlo. Giusto per girarla infine in pop philosophy, richiamando un personaggio con cui si è misurato anche Zizeck, te lo immagini il dialogante ed irenico Bencivenga di fronte ad Alien? Che ci farebbe, un bel discorsetto?  E dunque mi ripeto: che ne pensi?

Caro Paolo,
 una visione può essere definita “ottimistica e positiva” solo se, preliminarmente, si stabilisce un parametro di valutazione. Rispetto a uno Schopenhauer – ad esempio – Bencivenga può risultare un buontempone: non così, ad esempio, rispetto a un Leibniz…Per esprimermi meno genericamente nella questione interessante che sollevi, distinguerei gli scenari che mi pare ti appaiono invece assimilabili: lo scenario cosmico e lo scenario antropologico.
Dal punto di vista del cosmo, Bencivenga è un ottimista? Forse, col metro dell’assurdismo nietzschiano o sartriano, sì: per lui, infatti, non pare che “in principio sia l’Assurdo e l’Assurdo era Dio” né il mondo sia “un’orribile marmellata” opaca, appiccicosa, senza senso. Ma non lo qualficherei ottimista rispetto a quelle concezioni teistiche secondo le quali il mondo può giocare quanto vuole e come vuole, ma sotto l’occhio previdente e provvidente di un’Intelligenza creatrice. Sì, egli rinvia qua e là ad una matrice “neoplatonica”, ma in chiave essenzialmente anti-materialistica: ti sembra che per lui, come per ogni neoplatonico, il mondo sia generato dal Bene e destinato a ritornarvi? Non direi.
     Più fondate le tue riserve sul piano antropologico: egli sembra ignorare non solo ogni “peccato originale” all’Agostino di Tagaste, ma anche ogni “male radicale” alla Immanuel Kant. Qui però devo confessarti che non saprei se rimproverargli questo oblìo o attribuirglielo a merito. Provo a spiegarmi meno male che posso. Che Freud o Jung abbiano ragione nel diagnosticare un “impulso di morte”, una “ombra”, nella struttura antropologica, non c’è dubbio: ma, d’altra parte, sostenere con Anassimandro che dobbiamo scontare morendo la colpa d’essere nati o, con Pascal, che il “mistero” del “peccato originale” debba essere assunto per fede come criterio ermeneutico della condizione umana, mi sembrano posizioni francamente ingiustificabili. Ingiustificabili teologicamente (perché nella Bibbia non c’è la dottrina del peccato originale come l’la formulata sant’Agostino e come viene insegnata da tutte le chiese cristiane: Matthew Fox  nel suo In principio era la gioia e Vito Mancuso in tutti i suoi libri più recenti lo spiegano ad abundantiam), ma – e a noi come filosofi importa molto di più questa seconda angolazione – ingiustificabili teoreticamente. Infatti l’esperienza ci dice che la natura dell’uomo esiste, ma è storica: l’uomo non nasce libero, ma liberabile; non perfetto, ma perfettibile. Qui l’ottimismo di Bencivenga  - che mi pare riguardare l’uomo come può diventare non l’uomo come è di fatto – mi pare condivisibile.
    Dunque sono d’accordo con questo suo libro al 100% ? No, anch’io ho le mie riserve. Comincio, per rilanciarti la pallina, con due.
    La prima è quando attribuisce alla filosofia il compito di destrutturare il senso comune, il noto. Lo diceva già Hegel che il noto è spesso nemico del vero, ma non possiamo fare  - a mio parere – della dissacrazione un criterio rigido. Ci sono molti casi in cui la filosofia è costretta a capovolgere l’opinio communis, ma altri in cui deve rinunziare ad essere stupefacente a ogni costo: altrimenti diventa schiava dell’anticonformismo di principio. Tra i colleghi con appeal mediatico più elevato lo trovo un vezzo diffuso.  Personalmente ritengo che la fedeltà a ciò che ci appare vero può imporre alla filosofia di essere, per rubare a Wright Mills la sua definizione di sociologia, la penosa elaborazione dell’ovvio.
      Ma la filosofia ha a che fare con la verità, con l’accertamento di “come stanno le cose” là fuori di noi?  Tocco qui una seconda riserva nei confronti del discorso, per tanti versi intrigante, di Bencivenga. Egli identifica realismo e materialismo, ma per me è un abbaglio: ogni materialismo è un realismo, ma non ogni realismo è materialismo. C’è un realismo che consiste nel prendere atto della oggettività della materia ma che non si limita ad essa e ritiene che, nella sfera del materiale, cova ed emerge e qualche volta esplode un surplus di immateriale. Essere  realisti nel senso di voler capire come è la realtà in sé può essere una ingenuità o il sintomo di un delirio di onnipotenza o quel che si voglia, ma non necessariamente un indice di materialismo. (Naturalmente non sto sposando le tesi del neo-realismo di questi ultimissimi anni, se non mesi, di cui parlano Maurizio Ferraris & company: l’ho studiato poco perché ogni proposta teoretica che sa troppo di lancio pubblicitario di un nuovo prodotto alla moda mi dissuade dall’approfondirla. Se può servire un riferimento bibliografico, mi orienterei piuttosto sui testi di Franca D’Agostini). Allora  - stringo verso la mia obiezione - se egli afferma che la filosofia debba inventare una società diversa dall’attuale, concordo; se afferma che debba inventare universi possibili, non sono d’accordo. Prima di disegnare utopie (legittime e necessarie in ambito storico-sociale) la filosofia deve decifrare il cosmo nelle sue strutture ontologiche: in costante dialogo con le scienze, nella piena consapevolezza della differenza di competenze, la filosofia è anche un modo di conoscere la verità dell’universo. Una verità parziale, smentibile, completabile, ma una verità. Con buona pace di Fichte (e se non equivoco anche di Bencivenga) questa modestia epistemica di chi vuol fare girare il soggetto intorno al mondo (proprio come se Kant non ci fosse) la chiamo realismo: né dogmatismo né materialismo.
Ma forse così hai abbastanza materiale da cui prendere le distanze…
  
Caro Augusto,
più che “materiale da cui prendere le distanze” mi hai dato un’overdose di materiale: hai citato una ventina tra filosofi, correnti e pensatori e credo che, qualora convocati tutti, il dibattito eventuale scadrebbe, benché tu non abbia citato cinici, in cagnara.
Mi limito pertanto ai pochi punti in cui mi pare apparire con chiarezza nella tua lettera una tesi. E parto dalla tue considerazioni sui rapporti tra “lo scenario cosmico e lo scenario antropologico”. Mi accusi di averli assimilati. Può darsi, non ne ho fatto credo una tesi, ma può darsi che non ne abbia accuratamente discriminato i confini. Ma c’è un perché.  In primis sarebbe cosa lunga, ma in secondo luogo credo che la radice di tale tua impressione stia in alcune opzioni filosofiche che forse non condivido con te. La prima è che credo che il primato , il primum, filosofico non sia il conoscere ma l’agire, e pertanto l’etica, e solo da lì possiamo a mio parere costruire un ontologia. Detta in parole povere, seconda tesi, non credo che esista un mondo, e in questo sono del tutto d’accordo con Bencivenga, ma caso mai più mondi, da noi stessi e altri costruiti, poiché qualsiasi osservazione comporta il comportamento di un osservatore (il riferimento è a Varela, ma spero di citare pochi filosofi!), e pertanto la sua azione osservativa fa parte del sistema osservato, cosa che a sua volta implica una scissione originaria nell’ontologia stessa (è una posizione fichitiana? Forse).
Ciò comporta una posizione a favore della molteplicità dell’essere, di ascendenza aristotelica, quando invece tu mi sembri un po’ platonico (è vero? Che ne pensi?).  E questo forse a sua volta spiega il tuo passaggio in cui mi imputi in modo implicito, o comunque tiri in ballo come tesi da negare, il “sostenere con Anassimandro che dobbiamo scontare morendo la colpa d’essere nati o, con Pascal, che il ‘mistero’ del ‘peccato originale’ debba essere assunto per fede come criterio ermeneutico della condizione umana” dicendo che ti  sembrano “posizioni francamente ingiustificabili”. Più che Pascal, concorderei con Anassimandro, ma con questa precisazione: tralasciando l’interpretazione che ne diamo oggi, irrimediabilmente individualistica (e quindi cristiana), leggerei la parte maledetta evocata dal greco come una conseguenza di quanto detto prima: se costruiamo mondi e non possiamo fare altro che farlo, per tanti che ne costruiamo, tanti altri ne tralasciamo, distruggiamo e condanniamo al silenzio. E qui forse c’è la radice del Male a cui accennavo nella mia precedente lettera, che a sua volta dipende dalla libertà che ci prendiamo di fare mappe e mappe di mappe di ciò che poi chiamiamo un mondo. Non si tratta di infrangere una regola, trasgredire un’ingiunzione, rinnegare questo quest’altro: distruggere e costruire sono due lati della stessa medaglia, e qui sta a mio avviso la radice della crudeltà intellettuale del filosofo, che  sotto questo profilo certamente, costruisce mondi possibili, come tutti peraltro, anche i non filosofi.
E ancora, anche nella tua tesi che l’uomo “non nasce libero, ma liberabile” ravviso una tendenza all’unificazione che non mi appartiene, e non tanto nell’idea che esista “l’uomo”, quanto nell’idea che esso “nasca”: vedo del creazionismo in questa tua idea, dove per creazionismo intendo un modo di pensare che a mio parere appartiene pure ad Heidegger e a tutti quei pensatori che ancora mantengono un orientamento ad affermare l’assoluta differenza dell’uomo rispetto al resto del mondo (dei mondi). Anch’io propendo per un primato antropologico, ma per me coincide col fatto che siamo l’osservatore (e l’osservatore di osservatori…) e quindi più che una luminosa eccellenza piuttosto un’accecata particolarità condannata a non vedere l’occhio che guarda con il medesimo occhio che guarda ciò che viene guardato: insomma siamo sempre posizionati.
Motivo quest’ultimo per cui l’idea di  potere “conoscere la verità dell’universo”, compito che tu assegni alla filosofia, mi fa oscillare tra sdegno e ilarità. La verità? L’universo? Ma per favore! Perdonami il tono, ma stiamo giocando a disputare… e un po’ di sputi riscaldano il processo…
Concludendo e tornando al tema da cui siamo partiti, ricucendo un poco altre cose che hai di passata sostenuto: non sono realista (materialista poi nemmeno per idea) se per realismo intendiamo la tesi per cui ci sono cose nel mondo e il mondo è la somma di queste cose che ci sono dentro. E nemmeno interpretazionista  puro, perché con Ferraris e altri convengo che vi siano oggetti fisici con statuto diverso, per usare la sua terminologia, dagli oggetti sociali. Penso che tuttavia che pure gli oggetti fisici non siano da noi appresi per quello che sono, ma solo come mappe che ci facciamo di un qualcosa che con buona approssimazione posso ricondurre a qualcosa di non distante dalla cosa in sé kantiana. E convengo con Bencivenga che tutto quanto sopra comporti dialogo, gioco e libertà. Ma per chiudere il cerchio ancora una volta, ritengo che il nostro autore trascuri i contrari che ne discendono per logica: imposizione, condanna e lavoro.
E non c’è bisogno per ammettere questo né di un Dio Maligno né di un peccato originale, ma nemmeno, anzi al contrario, di pensare che in principio vi sia la gioia, che tutto questo sia gioia. E’ semplicemente il modo con cui ci ritroviamo ad essere: una fuoriuscita dall’Eden? Si, ma l’Eden è una favola che abbiamo costruito dopo… E polemos  è la madre di tutte le cose.

Caro Paolo,
    comincio con una nota marginale, una sorta di breve parentesi, sulla “ventina di filosofi” (ti piace esagerare, vedo!)  da me citati. Tu sai che, nell’esercizio della nostra professione di filosofi consulenti, ne citiamo pochi o punto. Non così – almeno io – quando discutiamo da lettori di filosofia con colleghi della medesima area: infatti citare un autore mi serve per alludere con un nome a un universo di pensiero che sarebbe prolisso ri-narrare. A parte il fatto che è un elementare atto di onestà intellettuale: non penseremmo se non fossimo dentro una tradizione che ci precede e, spero, ci sopravviverà.
   Ti sono grato per la chiarezza con cui esponi la tua prospettiva: sei (fichtianamente o meno, questo davvero poco importa in questo momento) un filosofo che “costruisce” mondi. Poiché io sono un filosofo che cerca di “scoprire” l’unico mondo esistente (sia pure analogicamente esistente in più dimensioni, a più livelli), è ovvio che i nostri giudizi su Bencivenga possono concordare, su qualche passaggio, per accidens: in radice partono da angolazioni opposte. Possiamo in questa sede argomentare le ragioni teoretiche di ciascuna delle nostre opposte visioni del filosofare? Suppongo che converrai con me sulla negativa. Mi limito dunque a fare mia una domanda della De Agostini (la domanda che conclude un suo brano dalla Introduzione alla verità del 2011): la nostra generazione è stata condizionata fortemente da “una prospettiva filosofica che si è dichiarata antimetafisica, ma spesso si è rivelata portatrice di una metafisica implicita, molto restrittiva, e tanto più dogmatica quanto inconsapevole. Una possibile descrizione, in breve, è la seguente: si tratta di una interpretazione della indipendenza della realtà (esiste una realtà “in sé” che non è “per noi”) in termini di inaccessibilità. Per avere V devo avere realtà indipendente, ma poiché l’indipendente è inaccessibile, V risulta essere un concetto insensato (o deve essere radicalmente riformato). Ma chi ha detto che l’indipendente è inaccessibile?”.
     Come vedi, sono un generoso: ti ho servito in un piatto d’argento altri buoni motivi per sdegnarti (come non ti consiglierei per la salute del tuo fegato) o per scompisciarti dalle risate (cosa che riterrei estremamente più raccomandabile). Comunque, per finire, non voglio sottrarmi, dato che lo spazio a nostra disposizione non è illimitato, a due o tre tue curiosità ad personam (meam).
      Sono più neoplatonico che aristotelico? Non direi. A meno che, scajolanamente, non lo sia a mia insaputa. Certe citazioni (“Il mondo viene dalla grande Gioia e va verso la grande Gioia”) avranno potuto trarre in inganno: erano posizioni neo-platoniche che richiamavo non perché le condivida  (sono in riflessione su questo punto cardinale), ma per ipotizzare un parametro di riferimento opposto al tuo, in confronto al quale il discorso di Bencivenga, per te troppo ‘ottimista’, potrebbe risultare al contrario ‘pessimista’.
       Ritengo che l’essere umano non sia riducibile al resto del mondo più per “una luminosa eccellenza” che per  “un’accecata particolarità”?  Qui , direbbe il famoso filosofo del linguaggio  molisano Antonio Di Pietro, ci azzecchi. Preferirei che nel mondo ci fosse un Totò Riina in meno e una Felicetta (la mia gattina tenerissima) in più. Tuttavia devo riconoscere  - al di là della psicologia – che un mondo tutto di felicette e senza totòriini sarebbe, necessariamente, un mondo senza Gandhi, Martin Luther King, Che Guevara, Falcone e Borsellino. Perché il prezzo che si deve pagare per l’eccellenza morale di alcuni è la possibilità dell’abiezione morale di altri.  Sarebbe insomma un mondo più tranquillo, ma più piatto.  Questo è “creazionismo”? Non lo so e, francamente, poiché mi riferivo alla nozione greca di “natura”, direi di no. Ma, se proprio lo fosse, pazienza: nella vita mi è capitato di sostenere tesi peggiori.
      Ciò di cui sono certo è che la filosofia, se esercitata come vorremmo noi filosofi-in-pratica, potrebbe aiutare il mondo in cui ci troviamo di fatto ad avere per il futuro meno Hitler e più Bonhoeffer, meno Stalin e più Pasternack. O (vedi di quanto poco mi accontento ?) meno Mastella e più Prodi.
    
Caro Augusto,
     sulla funzione della pratica filosofica che schizzi nel tuo ultimo paragrafo sono assolutamente d’accordo. Così come comprendo la necessità di citare filosofi e correnti filosofiche allo scopo di evitare lunghe argomentazioni. Credo, tuttavia che, come ho già scritto, ciò comporti in realtà la complicazione, per lo meno potenziale, delle argomentazioni e per questo, tanto nella pratica filosofica quanto in ciò che sto dibattendo con te, cerco di rimanere il più possibile parco in merito. Del resto anche qui facciamo pratica filosofica, così come la facciamo sempre giacché, converrai spero con me, la filosofia è in se stessa una pratica filosofica.
    Insomma prediligo il linguaggio tetico. E pertanto riprendo quanto tu mi proponi, in merito alla metafisica e alla citazione della De Agostini, per chiarire la mia posizione. Non credo che la realtà sia inaccessibile, per lo meno nel senso che mi pare intenda tu. Ma soprattutto vorrei chiarire cos’è per me la realtà. Per me è ciò di cui cerchiamo di farci un’idea, allo scopo di decidere che fare. Che sia indipendente, per lo meno in parte e rispetto a me, mi pare ovvio. Che sia accessibile… dipende da cosa intendiamo per accessibile. Vedi, io non sono un costruttivista radicale radicalissimo, e penso che noi della realtà facciamo delle ipotesi (le ho chiamate mappe) e che queste ipotesi siano molteplici e non necessariamente tra loro coerenti. Inoltre, ritengo che se facciamo una certa mappa, escludiamo da quella mappa cose che un’altra invece comprende. Credo che la differenza sostanziale tra me e te consista nel fatto che per te esiste un unico territorio, idealmente descrivibile da una sola mappa, la mappa perfetta. Io invece ritengo che questa mappa perfetta sia a rigori impossibile. Mi spingerei addirittura ad affermare che sia l’impossibile (forse era ciò che intendeva Lacan quando affermava che il Reale è l’impossibile?). Quindi non credo che esista là fuori un solo e unico territorio… e dunque cosa c’è? Non lo so e credo che non lo si possa sapere. Non in modo assoluto. Ci sono solo mappe che funzionano più o meno bene in funzione di scopi mutevoli. Ed è qui che secondo me entra in ballo l’etica come primum.  Lo scopo orienta la mappa, come peraltro il contrario, ma qui mi verrebbe da citare l’adagio dell’uovo e della gallina, oppure, più dottamente, di rimandare alla nozione di accoppiamento strutturale. 
     Credo che Bencivenga condivida in pieno il mio punto di vista. Con un po’ troppo ottimismo, come ho già argomentato nelle precedenti lettere. E di conseguenza convengo con te che siamo su posizioni molto distanti, e a questo punto mi verrebbe da chiederti di spiegarmi, per concludere questo carteggio, che cosa per te è affermabile, in forma tetica, su quanto ho di passata e in modo certamente vago e manchevole, argomentato, ovvero quanto tu chiami “l’unico mondo esistente”. Ma come fai a sapere che si dia un “unico mondo esistente”? E te lo chiedo perché ho il sospetto che in quanto aggiungi dopo, ovvero che tale mondo sia “analogicamente esistente in più dimensioni, a più livelli”,  si nasconda una segreta convergenza con le mie posizioni. Perché se è solo analogicamente esistente in più dimensioni, a più livelli, allora mi verrebbe da chiederti che ne sai di ciò di cui è l’analogo. E mi verrebbe pure da chiederti in che termini un’analogia possa essere esistente, e che cosa sia “esistente”… ma non voglio abusare della tua pazienza…

Caro Paolo,
  non è per evitare abusi…pazienzali da parte tua che cercherò di essere breve, quanto per non perdere il riferimento principale che ci è stato suggerito dalla direzione della rivista: il testo di Bencivenga che è molto più affine alle tue concezioni che alle mie. Egli scrive, a p. 36, che ciascuno dovrebbe essere in grado  - per così dire fisiologicamente – di “dare un suo senso  al mondo e a quanto conosce: un senso personale e soggettivo, fragile e mutevole”. Frasi come questa pongono almeno due questioni.
         La prima è ontologica: esiste un mondo? La mia risposta è: sì, indubbiamente. Esiste uno e un solo  “territorio” (in ciò dissentiamo), di cui non conosciamo né lo spessore né i confini (in ciò concordiamo) ,  che è strutturalmente analogo. Nel linguaggio aristotelico-tomistico medievale direi che il mondo (l’essere come l’intero di ciò che è) è intrinsecamente analogo, di analogia se non di attribuzione, per lo meno di proporzionalità: intendo dire che il mondo forse è l’analogo secondario di un modello originario (l’Essere assoluto, necessario), ma certamente si dispiega su strati, su livelli, che hanno qualcosa in comune e molto di differente.
       La seconda questione è gnoseologica: c’è qualcuno che può farsi un’idea adeguata di questo mondo, che può coglierne la struttura intelligibile, il senso? Tra i mortali, no di certo. Ognuno di noi ha dunque una sua “mappa” che non coincide con la “mappa” di nessun altro (e qui siamo d’accordo). Ma la moltiplicazione delle mappe implica la moltiplicazione dei mondi? Ovviamente penso di no: e qui mi distanzio da tutti quelli che pensano  (o sembrano di pensare) che moltiplicare le mappe significhi  - quasi in un delirio onirico idealistico – moltiplicare i mondi. E queste mappe, certamente diverse, sono anche equivalenti? Sono tutte egualmente lontane dal “mondo”?  Se il mondo “in sé” non avesse senso  - e se, perciò, il senso fosse solo una produzione antropologica – sarebbe certamente così.  Ma, per ragioni impossibili da argomentare in questa sede, propendo per ritenere che il mondo “in sé” abbia un senso proprio (esattamente come pensava Eraclito quando accennava a un Logos che è da sempre, per sempre e dappertutto): dunque le nostre rappresentazioni, le nostre mappe, per quanto “personali e soggettive, fragili e mutevoli”, non sono tutte ugualmente distanti dal dato ontologico originario.
Per scomodare ancora Eraclito, c’è la mappa del dormiente, la mappa dello sveglio e la mappa di chi vaga in dormiveglia.  Grosso modo è come mettere a confronto dieci pittori che raffigurino la torre Eiffel: secondo me sarebbe possibile (anche se travagliato: la fatica del dialogo) redigere una graduatoria della perspicacia interpretativa di ciascuno dei dieci pittori, dal banale riproduttore di forme esteriori al poeta che coglie ed esprime l’esprit di quella torre nel contesto storico in cui è nata e geo-sociale attuale. Il senso che ciascuno di noi afferra (non crea!) dell’universo – non sto parlando di quella minima porziuncola di cosmo che è la storia dell’umanità, dove c’è poco da scoprire e quasi tutto da creare -  non è mai il senso completo, esauriente; tuttavia c’è differenza, noterebbe Aristotele, fra chi fallisce il bersaglio per un centimetro e chi lo fallisce per un metro. Posso concedere a te e a Bencivenga che non potremo mai stabilire con certezza assoluta chi di noi fallisce per un centimetro e chi di noi manca il bersaglio di un metro; ma se proprio non ci fosse nessuna differenza, neppure agli occhi di un ipotetico Arbitro assoluto, personalmente troverei molto meno intrigante fare filosofia. Tanto varrebbe limitarsi alla immaginazione poetica…che oltretutto è più piacevole esercitare rispetto al lavoro concettuale.
     Nell’attesa di stabilire come stanno le cose ontologicamente, bisogna pur vivere: qui riconosco il primato dell’etica che ti sta tanto a cuore. Ma è un primato tautologicamente pratico: nel senso che è meglio partire dal comune riconoscimento che un neonato va allattato e, poi, cercare di argomentare le ragioni filosofiche di tale riconoscimento anzicché partire dalla disputa “se i bambini abbiano diritto ad essere alimentati” e passare all’azione solo dopo aver risposto con chiarezza argomentativa alla questione (anche perché intanto di bambini ne morirebbero a milioni…). Possiamo trasformare questo primato pratico dell’etica in primato teoretico nel senso che – alla Kant o alla Levinas – possiamo fondare la nostra “mappa” del cosmo sulle nostre istanze etiche? Qui, ancora una volta, le nostre prospettive si differenziano. Preferirei dire che non so se l’uomo è libero, se l’anima è immortale e se Dio esiste  -e che sono alla ricerca di una risposta razionale e ragionevole a questi interrogativi – piuttosto che accettare quella sorta di pia autoillusione kantiana di poter recuperare, per “postulazione”, dalla finestra dell’etica ciò che è uscito dalla porta della teoretica. Ma forse quando tu scrivi che fondi l’ontologia sull’etica ti riferisci a un’operazione più convincente di quella realizzata da Kant nella Critica della ragion pratica: perciò, alla prossima occasione (meno cartacea, più verbale), sarò felice di ascoltare il tuo autentico pensiero in proposito.

giovedì 25 giugno 2015

MELANIA FEDERICO RECENSISCE "LA RIVOLUZIONE, MA A PARTIRE DA SE' "

MELANIA FEDERICO RECENSISCE  "LA RIVOLUZIONE MA  A PARTIRE DA SE'"


A SUD EUROPA
anno IX, n. 6



La rivoluzione, ma a partire da sé

     Se bastasse un menù per fare della nostra vita un pasto prelibato, allora la tavola dellesistenza umana sarebbe sempre imbandita di piatti gustosi e invitanti. Ogni individuo sarebbe chef della propria vita per la quale sceglierebbe gli ingredienti più giusti per condire al meglio il proprio cammino di vita. Tra le componenti della sua ricetta cè certamente il pensare positivo, che tuttavia non sempre basta. Talvolta è necessario usare degli integratori per sopperire laddove ci sono delle carenze. Certamente bisogna sempre aggiungere quel pizzico di sale e pepe che restituisce sapore a tutti i palati.
      Il nocciolo della questione è sciorinato nel nuovo libro di Augusto Cavadi , La rivoluzione, ma a partire da sé. Un sogno ancora praticabile (IPOC. Milano 2014, pp. 105, euro 16,00). Il segreto di unesistenza sensata è racchiuso nella capacità di pensare e di riflettere. Per poi ritornare a mettere in discussione ciò che abbiamo asserito in prima istanza. Per i Greci, infatti, il logos   - il pensiero -   era imparentato con latto di raccogliere - legein- i sassi della vita. Pensare, dunque, è colligere fragmenta, cioè raccogliere i frammenti e provare a ricostruire qualcosa di coerente ed unitario.
      In poco più di cento pagine lautore non cerca imitatori pedissequi, e dunque insipienti, ma si limita ad offrire ipotesi di percorsi possibili. Gli eventi della vita modificano le persone, talvolta le forgiano, altre le indeboliscono. Ci sono poi azioni che rifaremmo esattamente allo stesso modo, altre che non rifaremmo assolutamente. Unitario è lessere umano che si interroga, unitario     - seppur nella varietà delle sue articolate manifestazioni- il cosmo sul quale e a partire dal quale egli si interroga. Quando è in gioco il saper vivere, nessuna forma di conoscenza può pretendere il monopolio e nessuna può essere deprezzata al punto da non essere neppure considerata. Ed ecco che Augusto Cavadi affronta il problema da diverse prospettive avendo    - prendendo in prestito un verso di Edgar Lee Master -   fame di significato della vita. Infatti, come asserisce Karl Marx, quando c’è fame davvero ci si avventa sul piatto senza preoccuparsi di usare educatamente coltello, forchetta e cucchiaio.
     Nel menù esistenziale trovano spazio una serie di interrogativi. Se la gente non si impegna attivamente, ciò significa prima di tutto che non crede in qualcosa per cui valga la pena di impegnarsi. Ecco allora il disimpegno. Un primo orientamento è la necessità di elaborare un progetto esistenziale: seppur inseriti in una società colma di disvalori è necessario dare valore. E indispensabile dedicare a tale impegno tutte le circostanze favorevoli, ma soprattutto un po di spazio quotidiano: dieci, quindici minuti di silenzio e riflessione possono essere sufficienti, ma sono senzaltro necessari. Senza una meditazione perseverante non si può pretendere di fare chiarezza. Occorre allora individuare gradualmente degli obiettivi. Ed è proprio in vista di un obiettivo dominante, di una mèta, che si sceglierà il tipo di studi, il lavoro, gli amici, il modo di impiegare le forze, il tempo, la vita.
      Occorre essere fedeli al reale andando oltre il soggettivismo e guardare il mondo come per la prima volta. Non è escluso, tuttavia, che ci si imbatta nella sofferenza. Imparare a leggere il senso delle cose, a riconoscere gli appelli della storia, significa anche imparare a decifrare lesperienza del dolore. Seguendo le orme dellorientamento valoriale non bisogna perdere la fiducia nellessere umano. Anche dinanzi allesperienza della delusione, dellamarezza, e ai conseguenti fallimenti dei rapporti umani, ci sono indubbiamente degli aspetti salutari: queste situazioni ci aprono gli occhi su come vanno veramente le cose, liberandoci da ingenuità infantili e, talora, da mitizzazioni frettolose.
         La prima forma dimpegno è la vigilanza intellettuale seguita dalla fruizione della bellezza passando per lacquisizione e la testimonianza di una cultura della sobrietà e del rispetto ecologico. Non bisogna affatto sottovalutare il momento del dialogo personale e intenzionale con gli altri. Una società non è una società progressista se manca fra i suoi membri il dibattito pubblico e, soprattutto, il colloquio privato. Allimpegno occorre attribuire una dimensione sociale - che può essere locale e mondiale - dedicandosi anche al volontariato. Ed ecco che arriva la rivoluzione: la felicità si può perseguire intenzionalmente o inconsapevolmente, ma di certo non si può cessare di desiderarla. E se è vero che tutte le ciambelle non riescono col buco, è necessario mettere nella vita tutti gli ingredienti giusti.
Melania Federico

martedì 23 giugno 2015

AUTO-TERAPIA PSICOLOGICA


“Monitor”   19.6.2015

AUTO-AIUTO PSICOLOGICO


           Con piacevole sorpresa ho ricevuto una lettera (sì, proprio una lettera all’antica, con tanto di busta e di francobollo!) dal dottor Giorgio Vallero, neuropsichiatra torinese che però da due anni vive abitualmente a Maiorca, nelle isole Baleari. Le ragioni per cui la missiva mi è giunta gradita sono più d’una, ma ne evidenzio qui solo due. La prima è che mi ha impressionato assai favorevolmente apprendere che un medico, a un certo momento della vita, abbia avvertito l’esigenza interiore di chiudere lo studio, di trasferirsi in un’isola amata e di dedicarsi a “leggere, studiare, cercare, pensare, chiedere”. Spesso altri professionisti che conosco sembrano quasi drogati dalla propria professione, vi restano inchiodati, come incapaci di accettare la quiescienza e di interessarsi ad altro: per dirla con Pascal, si preoccupano di come diventare soldati o re, dimenticando di imparare il mestiere di uomini.
          La seconda ragione di gradimento della lettera è che l’autore mi segnala un sito internet molto interessante da lui curato (www.auto-therapy.it), un sito di  “auto-aiuto psicologico per persone sofferenti” che “non vuole certo sostituirsi all’incontro diretto con uno psicoterapeuta, né può quindi affrontare situazioni estremamente complesse. Può però fornirti un aiuto, attraverso un metodo che verrà illustrato passo dopo passo, accompagnandoti nella costruzione del tuo percorso, con modalità che potrai gestire secondo la tua forza emotiva ed il tuo tempo. Questo sito è anonimo e gratuito. Esso si augura che tu acquisti progressivamente serenità e capacità di stare bene con te stesso; allo stesso tempo, spera di riuscire a farti percepire la calorosa presenza di coloro che lo hanno creato: anche se non conoscono il tuo volto e la tua voce, è genuino il loro desiderio di offrirti quegli strumenti che loro stessi hanno imparato ad usare (con l’aiuto di altri) nei loro tempi difficili, e si sentono onorati di poter passare a loro volta il testimone”.
       Come sanno i lettori di questa rubrica settimanale, non sono uno psicoterapeuta e dunque mi dichiaro disponibile senz’altro ad ospitare critiche e obiezioni che potrebbero pervenirmi da psicologi che, visitando il sito, avessero delle osservazioni da socializzare. Da filosofo-in-pratica mi limito a notare che il taglio, e il tono, dei contenuti offerti dal dottor Vallero mi son sembrati convincenti. E mi auguro che molte persone possano trovare qualche spunto per chiarire a sé stessi quali percorsi intraprendere per uscire da una delle fasi buie che tutti, prima o poi, attraversiamo nel corso dell’esistenza. La consulenza filosofica e la consulenza psicoterapeutica non sono certo due approcci in concorrenza: secondo i casi, le personalità, soprattutto il genere di difficoltà che si stanno sperimentando, l’una o l’altra può risultare più adatta. E talora può risultare praticabile, anzi indispensabile, una sinergia di entrambe (pur nel rispetto delle differenze epistemologiche).

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

domenica 21 giugno 2015

CONVERSANDO DI FILOSOFIA CON MARIO TROMBINO


“Phronesis”, XII (2014), 21 - 22


CONVERSAZIONE CON MARIO TROMBINO


Tra le professioni vicine alla consulenza filosofica, ma nettamente distinte da essa per finalità e metodi, rientra certamente l’insegnamento della storia della filosofia. Mario Trombino è una delle migliori espressioni dei professori di liceo italiani: preparato ed efficace nella comunicazione, sia verbale in aula che mediante una quantità di manuali in uso nelle scuole. Ci siamo conosciuti quasi mezzo secolo fa, frequentando insieme la facoltà di filosofia a Palermo e la scuola di perfezionamento in scienze morali e sociali a Roma. poi le nostre strade si sono divise perché Mario ha girato molto fra Francia e Italia diventando uno specialista di didattica della filosofia, mentre io sono ritornato in Sicilia dove ho cercato di misurare la validità della filosofia con le problematiche socio-politiche del territorio.

    E’ stato grazie a internet, quando Mario ha fondato e diretto da Bologna il noto sito www.ilgiardinodeipensieri.eu , che abbiamo ripreso i contatti e la collaborazione in varie avventure.  Nell’ultimo decennio ho tentato di spiegargli cosa sia la filosofia-in-pratica, al punto da scrivere per lui un e-book ad hoc (La filosofia ci farà liberi?Un’interpretazione delle pratiche filosofiche, BBN, Fosdinovo 2011) che gli ho dedicato a stampa; ma invano. L’ “amico ritrovato”continua a oscillare fra incompresnione e dissenso nei confronti del mondo delle pratiche filosofiche. La conversazione che segue è solo l’ultimo di questo disperato tentativo di intendersi fra persone che fanno mestieri troppo simili per cogliere le specificità epistemologiche della professione altrui.



***





·      Augusto : Quanti ci occupiamo di filosofia, lo facciamo con interessi differenti e  in differenti ruoli sociali. Anche per via dei manuali scolastici che hai pubblicato negli anni, con vari co-autori e con vari editori, ti ho sempre pensato come un insegnante di storia della filosofia: interessato, dunque, allo studio dei testi della tradizione filosofica e alla didattica. Ti riconosci in questa rappresentazione o la correggeresti?

·      Mario : Mi riconosco per il passato. Quando ho cominciato a insegnare storia e filosofia al Liceo negli anni Settanta vedevo alcuni studenti andare bene, altri male, ma non capivo perché i primi andavano bene e i secondi male, e come dovessi impostare il mio lavoro perché i secondi si comportassero come i primi. Rispondere a queste due domande ha richiesto, con mia sorpresa, studi molto complessi in campi lontani dalla didattica, come la filosofia teoretica, la storia della filosofia, le scienze cognitive e, ovviamente, la pedagogia. Applicare questi studi al mio lavoro di insegnante è quel che ho fatto in questi decenni, molto aiutato da gruppi di ricerca soprattutto francesi, come quello di Michel Tozzi, e italiani. Ora però non insegno più e quindi mi occupo d'altro.



·      Augusto :  D’altro? Puoi raccontarci i tuoi campi attuali d'impegno filosofico?

·      Mario : Io mi sono sempre occupato di filosofia in una dimensione professionale, volta a obiettivi mirati e operativi. Quando ho smesso di insegnare, non era più possibile occuparmi di ricerca in didattica della filosofia, settore che ai miei occhi ha un'importanza altissima, ma credo che siano assai pochi a pensarla come me. In quei mesi Ubaldo Nicola lasciava la direzione della rivista “Diogene”, e sono subentrato io, con una nuova redazione. E' risultato immediatamente chiaro che una rivista che si propone di "Leggere la realtà con gli occhi dei filosofi", come è scritto sulla testata, si muove su un terreno di frontiera diverso da quello della didattica della filosofia, ma è egualmente caratterizzato da obiettivi mirati e operativi. Serve una ricerca filosofica di tipo nuovo, e ci stiamo attrezzando per farla con una veste organizzativa inedita, in dialogo con diversi settori della società civile e della politica. Per varie ragioni, con l'industria in primo luogo.

·      Augusto :  Ma il trimestrale  "Diogene magazine" è, per così dire, il cuore pulsante di una più ampia rete di strumenti editoriali e telematici che, con una associazione di recente fondazione, hai attivato...

·      Mario : Occupandomi di didattica della filosofia ho dovuto studiare analiticamente i generi letterari che sono stati utilizzati dai filosofi per la comunicazione filosofica. Sono tanti, molte decine, alcuni ripetuti nei secoli, altri raramente utilizzati. Ciascuno ha caratteri definiti, precisi;  consente alcune cose e ne esclude altre (e questo senza eccezioni), tanto che non pochi filosofi hanno sentito il bisogno di ripetere le stesse teorie in più di un genere letterario avendo di mira obiettivi diversi. Oggi se ne usano relativamente pochi rispetto al passato, perché la filosofia accademica ha omologato pochi modelli, ma ne stanno nascendo di nuovi per via della "nuova oralità" resa possibile dai media elettronici e soprattutto per l'enorme espansione delle immagini come linguaggio della filosofia. Nella rete di strumenti a cui accenni stiamo sperimentando queste forme nuove della comunicazione filosofica, senza abbandonare la ricchezza enorme dei generi letterari tradizionali.
Ma tutto questo ha a che fare, appunto, con la comunicazione filosofica. Noi ci stiamo occupando anche di ricerca (di base e applicata), che è cosa diversa, fermo restando che, avendo la mente una struttura linguistica, i due piani della ricerca e della comunicazione comunque si intersecano in più punti, e questo costituisce un problema ancora oggi aperto sia per chi studia la comunicazione sia per la messa a punto dei metodi di ricerca.



·      Augusto :  La vostra attenzione alla "comunicazione filosofica" fonda, e spiega, dunque, il sito web ( www.diogenemagazine.com), le edizioni cartacee e in e-book di testi di seria divulgazione filosofica, le serate pubbliche in cui proiettate riproduzioni di quadri celebri e li commentate dal punto di vista della storia delle idee e così via. In che modo si concretiza, invece, la seconda direttiva di marcia cui accenni (intendo "una ricerca filosofica di tipo nuovo, con una veste organizzativa inedita, in dialogo con diversi settori della società civile e della politica")? 

·      Mario : Questa seconda "direttiva di marcia", come dici bene, dipende dal fatto che non troviamo nella ricerca filosofica accademica quel che ci serve. Ti prego di non considerare questa una critica, ma solo una constatazione. Il tipo di problemi che ci poniamo, evidentemente, sono diversi da quelli che si pongono i professori universitari. Non possiamo certo "dettare l'agenda" ad altri, così ci siamo proposti, attraverso l'Associazione “Diogene Multimedia”, di avviare al nostro interno alcune ricerche.
Tieni presente che trattiamo la filosofia come qualsiasi altra disciplina scientifica, collegandoci in modo diretto alla tradizione della filosofia scientifica del Seicento e non tenendo conto della separazione tra le vie di ricerca della filosofia e della scienza venuta dopo. Questo rende impossibile fare ricerca filosofica a livello individuale, perché nessuno di noi possiede la competenza di base necessaria. Abbiamo quindi deciso di costituire, intorno a progetti specifici di ricerca (puoi vedere i primi progetti nel sito dell'associazione, www.diogenemultimedia.com), alcuni gruppi di ricerca che lavoreranno sotto la guida di uno di noi. Non so se otterremo risultati, è una via inedita per la ricerca filosofica, a mia notizia, i cui modelli sono presi da un lontano passato. Non è infatti un modello inedito in assoluto, lo è per il nostro tempo (a mia notizia, almeno).

·      Augusto :  Forse qualcosa del genere è stata tentata dal Circolo di Vienna, per le problematiche logiche ed epistemologiche, e dalla Scuola di Francoforte per quanto riguarda le tematiche socio-politiche. Comunque sia, queste tue risposte mi aiutano a capire meglio ciò che avvicina e ciò che differenzia la tua prospettiva 'professionale' da noi filosofi-in-pratica di "Phronesis". Tutti quanti siamo convinti della valenza sociale, pubblica, della ricerca filosofica e, conseguentemente, di riattualizzare il gesto socratico (almeno secondo il racconto di Cicerone) di riportare la filosofia dal cielo alla terra e di farle frequentare le vie, le piazze e i mercati degli umani. Se non vedo male, però, tu ritieni (in sostanziale continuità con la vocazione didattica che ha contraddistinto la tua vita sino al pensionamento dalla scuola pubblica) che si tratta di diffondere  - divulgare in senso alto e nobile - una filosofia prodotta nei laboratori degli esperti in filosofia; laddove noi (che grosso modo possiamo riconoscerci nell'angolazione di  Gerd Achenbach) riteniamo necessaria ma non sufficiente l'elaborazione filosofica interna al mondo dei filosofi e scommettiamo sulla possiibilità di con-filosofare insieme ai non-filosofi di professione. Schematizzando brutalmente, tu pensi che il filosofo debba condividere un 'filosofato', mentre noi corriamo il rischio di condividere un 'filosofare'. All'inizio di una tua conversazione pubblica con non-addetti-ai-lavori sai già di cosa parlerai, di come tratterai l'argomento e quali tesi conclusive vuoi offrire al senso critico degli uditori; in quanto filosofi-consulenti, invece, all'inizio di una conversazione (a due o in piccole comunità di ricerca) non sappiamo di cosa parleremo e, se per caso lo abbiamo concordato preventivamente, non sappiamo in ogni caso né come si svolgerà il dialogo né a quali conclusioni approderà. Se mi obietti che il tuo atteggiamento è più fedele del nostro al (probabile) Socrate storico, sarei propenso a darti ragione: leggendo i dialoghi platonici, almeno, si ha l'impressione che egli sapesse benissimo dove condurre l'interlocutore e che ve lo conducesse proprio facendo finta di non saperlo. Anche se mi obietti che la nostra antropologia è un po' troppo ottimista  - al punto da supporre che l'industrialotto varesino o il pescatore trapanese siano dei potenziali filosofi capaci di apportare un proprio reale contributo all'indagine esplorativa di ciò che è - sarò propenso a darti ragione. Tuttavia....Ma mi fermo. Non vorrei dare l'impressione che si tratta di fare graduatorie fra la tua e la nostra filosofia della filosofia. Mi basterebbe una tua conferma che ho colto appropriatamente ciò che ci unisce (e che può giustificare collaborazioni e sinergie operative) e ciò che ci differenzia (e che può giustificare la stima per il carisma dell'altro).

·      Mario : Provo a mettere in fila i fatti. Mi sono occupato di ricerca in didattica della filosofia per rispondere alle esigenze professionali tipiche di un insegnante, e ho scoperto - con sorpresa, sottolineo ancora - che per ottenere risultati didattici era necessario scomodare discipline complicatissime e teoriche in qualche caso estremamente lontane da una dimensione pratica. La consulenza filosofica segue ovviamente altre vie, perché non ha di mira l'insegnamento; ma non è detto che non si possano studiare sinergie. E' una questione che si può affrontare con analisi di dettaglio. Poi mi sono occupato di ricerca filosofica, e di applicazione della ricerca all'analisi di questioni di "lettura della realtà". Il punto è che la prospettiva professionale in cui opero non può fare a meno di teorie, perché son queste che consentono di "leggere la realtà". Se ho capito bene, invece la consulenza filosofica fa a meno di teorie. Dunque il punto d'incontro tra la tua e la mia prospettiva professionale per la filosofia potrebbe forse essere sui metodi. Solo che anche questi discendono, nel mio lavoro, da teorie.  Ma la verità è che io non so con esattezza se per la consulenza filosofica la filosofia sia una scienza. Io non ho mai mosso un passo, se non per errore (e gli errori vanno messi nel conto e individuati, se si riesce, per correggerli), al di fuori di questa prospettiva. Una scienza di cui peraltro sappiamo con certezza assai poco, in modo non dissimile dalle altre scienze riguardo ai loro principi base. Ed è questo il fondamentale motivo per cui si fa ricerca.  

·      Augusto :  Non so bene cosa tu intendi per 'teoria'. Dalle tue parole mi sembra che si possano ricavare due accezioni semantiche principali. Nella prima accezione direi che lo usi come sinonimo di statuto epistemologico dell'attività filosofica: se è così, quasi tutti i libri di filosofi-consulenti dedicano almeno una parte a spiegare lo statuto epistemologico della consulenza filosofica. In una seconda accezione direi che lo usi, più etimologicamente, alla greca: come sinonimo di conoscenza della realtà, disvelamento dell'essere, sguardo contemplativo. Se è così, ti do atto che nel mondo della consulenza filosofica si registra in proposito il più ampio pluralismo: per alcuni la filosofia è una forma di conoscenza (assimilabile alla fisica o alla biologia o alla sociologia) mentre  per altri non conosce ma riflette criticamente sulle varie forme di conoscenza (una sorta di epistemologia delle varie discipline scientifiche). Queste differenze ci riguardano in quanto filosofi, non in quanto filosofi-consulenti. In questa veste, infatti, non dobbiamo diffondere la nostra filosofia, ma aiutare i nostri consultanti ad elaborare meglio la loro filosofia: che un consultante potrà intendere come disciplina scientifiica, un altro come epistemologia delle discipline scientifiche acceditate, altri ancora – ed è prevedibile che saranno la stragrande maggioranza dei nostri interlocutori, solitamente cittadini che non sono laureati in filosofia - intenderanno la filosofia come "visione-del-mondo" e grappolo di criteri etici. A tutti questi interlocutori non dobbiamo insegnare la 'vera' teoria (che per ogni consulente sarebbe, inevitabilmente, la propria), bensì a sottoporre a verifica dialettica la loro: a rivedere criticamente ciò che pensano dell'uomo e della natura, della storia e dell'etica, della religione e della politica… Se per te questo complesso di idee, più o meno organicamente strutturato e dai risvolti pratici ineliminabili, è teoria, allora anche la consulenza filosofica (e le altre pratiche filosofiche che rientrano nella filosofia-in-pratica) trattano di teorie. Se, invece, per te la weltanschauung non è teoria, allora la consulenza filosofica non si preoccupa di teorie, o per essere più precisi non se ne preoccupa sempre e necessariamente. A me, ad esempio, è capitato di discutere di epistemologia delle scienze umane con un consultante che di mestiere fa l'antropologo e voleva discutere sulla ipotesi che esista una natura umana universale ed è capitato di discutere di epistemologia delle psicoterapie con un gruppetto di psicoterapeuti che volevano discutere su cosa si possa intendere per 'cura' in senso clinico; ma, come accennavo, si tratta di casi francamente eccezionali. Di solito bussano ai nostri studi di consulenza filosofica delle persone che vogliono confrontarsi sul senso dell'onestà o della malattia, della fedeltà o dell'invecchiamento: pur non citando quasi mai Platone o Kant, Kierkegaard o Gadamer, la frequentazione con i loro testi ci supporta notevolmente nel supportare, a nostra volta, la formazione delle idee (o, se preferisci, delle teorie) da parte dei nostri interlocutori. Noi filosofi di professione ci mettiamo a servizio dei nostri ospiti non distribuendo dottrine, tesi, consigli, bensì favorendo in loro  - mediante la conversazione -   la precisione linguistica, la coerenza logica nell'elaborazione di ogni convinzione, la compatibilità reciproca delle convinzioni all'interno della stessa mente, la non-contraddittorietà di principio fra l'insieme delle proprie convinzioni mentali e lo stile di vita quotidiano. Con una formula (approssimativa come tutte le sintesi) potremmo dire che in quanto filosofi teoretici e in quanto storici della filosofia ognuno di noi di "Phronesis" fa la sua strada (e può incontrarsi benissimo con percorsi come il tuo); ma, in quanto filosofi-in-pratica, siamo accomunati dall'attenzione alla valenza esistenziale e politica di tutte le teorie (dalle più raffinate e articolate alle più naif). Se un muratore con la terza elementare ha desiderio di vivere con saggezza la sua attività sindacale, siamo disponibilissimi al dialogo; se un professore ordinario di filosofia analitica di Oxford ha desiderio di uno scambio accademico sull'interpretazione del secondo Wittgestein, ma abbiamo modo di sospettare che l'esito dello scambio non inciderà minimamente sulla sua sfera esperienziale, in quanto consulenti filosofici non avremo nessun interesse ad accettare. Se è uno studioso erudito e brillante, accetteremo: ma in quanto storici della filosofia o in quanto aspiranti teoreti.

·      Mario : Non esiste, a mia notizia, nessun filosofo del passato che abbia percorso la vostra strada. E' già accaduto che filosofi del passato si siano sentiti porre questioni come quelle che i vostri "consultanti" pongono, ma hanno risposto proponendo le loro teorie, o quelle della scuola a cui appartenevano. Seneca ed Epitteto hanno usato le dottrine e i metodi stoici, Cartesio ha usato le sue teorie e proposto il suo metodo, e così han fatto tutti quelli di cui ho notizia storica quando si siano trovati in una situazione simile alla vostra.
Tra le tante immagini di Socrate, forse una è simile alla vostra, ma con differenze notevoli (Socrate non accetterebbe la dimensione professionale, rifiuterebbe il denaro e userebbe comunque metodi propri e codificati, come l'ironia, ad esempio). La versione "popolare" della scuola cinica potrebbe essere stata simile alla vostra pratica, ma ne abbiamo notizie storiche troppo esili per saperlo. E per la pratica che descrivi, altre tradizioni non filosofiche possono essere richiamate (e questa è una caratteristica di varie altre filosofie nate nel secondo Novecento).
Per usare una distinzione proposta da Hadot, la filosofia come pratica di vita non è mai esistita senza una filosofia come discorso teorico, cioè senza un corpo di dottrine individuali o di scuola e di metodi codificati.

      La consulenza filosofica, se capisco bene, non ha né il primo né i secondi, quindi dal mio punto di vista va considerata una filosofia di tipo radicalmente nuovo. Al contrario di quel che sembra, ne nascono raramente, perché la maggior parte dei filosofi opera sul solco dei precedenti e propone variazioni, spesso solo di dettaglio. Le granti teorie sono relativamente poche, i metodi un po' di più, ma se si screma dalle differenze storico-linguistiche, per ciascuno dei problemi esaminati dai filosofi le soluzioni proposte sono a volte talmente poche da poter stare entro classificazioni davvero brevi (abbiamo studiato questo aspetto della storia della filosofia in una analisi del 2006).
Per chi si occupa di didattica della filosofia credo di poter dire che la consulenza filosofica, non riprendendo alcun filosofo del passato, se non per un aggancio generico con la tradizione da cui riprende il nome, va studiata con le stesse procedure e gli stessi criteri con cui si studiano, e si insegnano, le altre tradizioni radicalmente nuove.
Per chi si propone, come noi con la rivista “Diogene Magazine” e l'Associazione, di "leggere la realtà con gli occhi dei filosofi", la consulenza filosofica è una delle tante scuole che hanno fatto la storia della filosofia da cui trarre gli elementi per leggere la realtà. Tieni infatti presente che noi siamo molto lontani dal voler aiutare i nostri lettori a formarsi una propria filosofia, termine che in questo contesto interpreteremmo come sinonimo di "propria opinione ben motivata" o "propria scelta di vita". L'obiettivo è diverso: è proporre teorie e metodi filosofici (del passato o del presente non importa) come chiavi di interpretazione della realtà.

·      Augusto :  Oh, carissimo! Ti posso dare un bacio in fronte? Le tue parole sono preziose al di là di qualsiasi prezzo immaginabile! Come attento osservatore di fenomeni storici - in particolare di storia delle idee - stai convalidando autorevolmente ciò che il nostro movimento ha sempre sostenuto: "non esiste nessun filosofo del passato che abbia percorso la vostra strada". Non sono così ingenuo da non capire che, sulle tue labbra, questa originalità inedita sia un titolo di demerito; ma, alle mie orecchie, risuona come un complimento. Anzi, accentuerei la tua notazione: non solo non siamo nessuna "scuola del passato", ma non siamo neppure una "scuola". Hai molta più ragione, insomma, di quanto immagini: non siamo persone che vogliono dare pareri, consigli, ricette. Da Seneca e da Epitteto, dai Cinici (più o meno 'popolari'), da Cartesio e dallo stesso Socrate ci separa un abisso: abbiamo, in quanto filosofi, "un corpo di dottrine" e spesso dei "metodi codificati"; ma in quanto filosofi consulenti ci teniamo questo patrimonio come dietro-pensiero e vi attingiamo solo per quanto strettamente  necessario nello stimolare e nel supportare il pensiero dei nostri ospiti. 
   Hadot ha ragione da vendere sul piano storico (tanto è vero che la chiesa cattolica ha potuto mutuare dalle scuole ellenistiche la combinazione di dottrine ben delimitate con esercizi spirituali pratici): ed è proprio per questo che gli studi di Hadot ci illuminano su ciò che non siamo, su ciò che non vogliamo diventare. Siamo un fenomeno talmente nuovo, talmente incomparabile, talmente rivoluzionario che voi storici della tradizione filosofica occidentale dovrete scegliere: o esercitare la pazienza di leggere ciò che spieghiamo di noi stessi (a cominciare dal libro di filosofia più istruttivo del 2013, 
Ascetica da tavolo. Pensare dopo la svolta pratica, che Davide Miccione ha pubblicato con l'Ipoc di Milano) o rassegnarvi a non capirci nulla. Questa volta il giochetto del neo non funziona: non siamo neo-stoici né neo-epicurei, non siamo neppure achenbachiani se non nella misura in cui ci siamo riconosciuti nel suo modo di far esplodere il potenziale esistenziale e politico di ogni dottrina veramente filosofica, di ogni metodo veramente filosofico e soprattutto di ogni vita veramente fiosofica.
   Solo due precisazioni. Tu scrivi: "la consulenza filosofica, dal mio punto di vista, va considerata una filosofia di tipo radicalmente nuovo". Perfetto! Non siamo una nuova filosofia (ognuno di noi è più o meno neo-qualche cosa e anche vetero-qualcos'altra: tra di noi marxisti e platonici, tomisti e hegeliani...), ma un nuovo modo di fare la filosofia di sempre.
    In questa novità rientra la professionalizzazione dell'esercizio filosofico (con tariffe di onorario incluse): perché, almeno in questo, non ci ci hai riconosciuto un'ascendenza storica illustre come i sofisti? Io me lo sento rinfacciare spesso: siete in tutto nuovi, ma quanto a sete di denaro siete vecchi di almeno duemila e cinquecento anni...Voglio sperare che il tuo silenzio su questa nostra (presunta) valenza neo-sofistica sia dovuta all'acutezza del tuo sguardo di storico. I sofisti si facevano pagare non per fare filosofia con i clienti, ma per insegnarla (come la totalità degli insegnanti, privati e pubblici, liceali e universitari, da allora a oggi); noi ci facciamo pagare il tempo che dedichiamo a con-filosofare con i nostri ospiti (e che dunque sottraiamo ad altre attività remunerative, come lavare le scale ai grandi magazzini o scrivere romanzi di successo). E' ovvio che la filosofia non ha prezzo come non ce l'ha la musica o la liturgia; ma è altrettanto ovvio che se una persona sceglie di dedicare la vita alla filosofia, alla musica o alla liturgia, chiunque decida di usufruire del suo carisma debba sostenerlo nelle spese necessarie a sopravvivere dignitosamente. A differenza degli psicoterapeuti (soprattutto gli psicanalisti) per i quali il pagamento di onorario fa parte ineliminabile della pratica professionale, noi filosofi-in-pratica svolgiamo molte attività e accettiamo molti colloqui o gratuitamente o con compensi simbolici. Chi di noi potrà contare su ricche eredità familiari, come Benedetto Croce, o su generosi contributi di ammiratori, come David Hume, potrà dedicare alcune ore della giornata a con-filosofare con avventori senza chiedere nessuna forma di risarcimento per il tempo sottrattto ad attività remunerate.

·      Mario : Sì, non vedo possibile il richiamo tra la sofistica antica e la consulenza filosofica dei nostri tempi. I Sofisti si facevano sì pagare, ma erano dei professori, non dei consulenti. Concordo del tutto con quello che scrivi su questo punto. Ed è proprio perché non ritrovo nella storia della filosofia modelli per la pratica filosofica così come l'hai descritta che parlo di novità radicale. Se l'originalità sia una nota di merito o di demerito, lo capiremo col tempo. Io al momento sospenderei il giudizio, perché è presto per dirlo. La consulenza filosofica è a me poco nota, quindi non mi permetterei comunque di dare giudizi, ma in ogni caso è un fenomeno sociale nuovo, esteso, che non ha ancora avuto il tempo di produrre esiti chiari agli occhi di un osservatore esterno come me.
Dal modo però in cui tu la presenti, e dalla lettura dei testi che tu richiami, a me non pare che si possa dire che si tratta di "un nuovo modo di fare la filosofia di sempre". La filosofia di sempre smonta ed elabora teorie, e usa metodi che codifica, voi non lo fate.
Vi siete messi su una strada davvero nuova, avete varcato delle colonne d'Ercole, lasciandovi alle spalle il vecchio mondo, al quale peraltro io appartengo con i miei due campi di studi.
Lasciami però dire due parole sulla filosofia come professione e quindi al rapporto tra la filosofia e il denaro. La nozione di professione non in tutti i casi è direttamente legata ad uno specifico sapere: la professione-docente è la stessa per un professori di matematica, di filosofia, di italiano, e così via. Al variare dei saperi, la professione non cambia, quindi il rapporto non è diretto. Parallelamente, è possibile dire che per ciascuna area della conoscenza umana sono possibili un certo numero di professioni, che legano quel sapere a qualcos'altro. Perché ci sia una professione, peraltro, la presenza di un sapere è condizione necessaria ma non sufficiente. Occorrono due altre cose: una esigenza individuale o sociale a cui la professione risponde, e un flusso di denaro che ripaga il lavoro del professionista. Ora, nel campo della filosofia è indubbiamente una professione quella del professore di filosofia, e lo è altrettanto quella del giornalista e dell'editore (sono le figure professionali che ho ricoperto nella mia vita). E' invece molto dubbio che la ricerca filosofica dia luogo ad una professione. Ho fatto molta ricerca filosofica nella mia vita, in campi ben definiti, ma non ho risposto ad alcuna esigenza sociale e, per conseguenza, il mio lavoro non è mai stato ripagato. Vorrei essere chiaro: l'esigenza sociale a cui la ricerca filosofica può (forse: quando si fa ricerca non si può mai essere sicuri di arrivare al risultato) rispondere io ritengo che dovrebbe esserci, ma se davvero ci fosse i risultati che ho ottenuto avrebbero dovuto trovare chi li ripagava in denaro. Non l'hanno trovato. Sì, i professori universitari e i ricercatori sono stipendiati dallo Stato per fare ricerca filosofica, ma io diffido di professioni che trovano chi ripaga il lavoro dei professionisti solo nella mano pubblica.
Se applichi questo ragionamento alla consulenza filosofica, state varcando le colonne d'Ercole anche in questa direzione, perché tutte le professioni (davvero nessuna esclusa) hanno un corpo di teorie e di metodi codificati su cui si basano, mentre la vostra no. Eppure la consulenza filosofica è indubbiamente una professione perché risponde ad una esigenza sociale e infatti tu parli di "consultanti", cioè persone che ripagano in denaro il lavoro del consulente. Che poi il consulente possa lavorare gratis, questo è irrilevante: un libero profesisonista o un artigiano possono non farsi pagare, ma restano comunque  professionisti. E' loro scelta, non della persona che si rivolge per avere il loro lavoro a suo vantaggio.

·      Augusto: Grazie del tempo che mi hai riservato. Gratuitamente. A proposito: neanch’io, a ben pensarci, sarò pagato per questa intervista.