domenica 28 maggio 2023

DODICI "LUOGHI COMUNI" SULLA MAFIA


 «Le nuove frontiere della scuola», anno 2023, marzo, n. 60

Dodici stereotipi sul fenomeno mafioso

 

Già negli anni Ottanta (del secolo scorso) un’attenta sociologa, Graziella Priulla, notava la transizione, in tema di mafia, «dal silenzio al rumore»[1]. Il rumore sulla mafia è polifonico: intessuto di vecchi miti, interpretazioni folcloristiche, chiacchiere da caffè, narrazioni strumentali, pregiudizi di vario genere...Ecco perché ogni discorso sensato – intendo: documentato e  argomentato - sul sistema di dominio mafioso non può non partire da una bonifica che sbarazzi il campo dagli stereotipi (o luoghi comuni). Anche se si tratta di un’operazione non facile dal momento che 

 

«gli stereotipi assolvono soprattutto a due funzioni: la prima è una funzione rassicuratrice, di avallo della giustezza delle rappresentazioni e dei comportamenti dati, cioè dei conformismi sedimentati; la seconda è quella di rimozione e demotivazione di processi di conoscenza che porterebbero alla problematizzazione e messa in crisi delle idee e dei comportamenti correnti»[2].

 

Un primo stereotipo potremmo qualificarlo come genetista o, più brutalmente, razzistala mafia è una caratteristica del DNA dei meridionali italiani e, in particolare, dei siciliani. Se ne possono smussare le manifestazioni, ma non può essere certo estirpato. In quanto tale è un fenomeno localistico, circoscrivibile, che può macchiare con i suoi schizzi altre aree del Paese e del mondo (vedi Stati Uniti d’America) solo attraverso i flussi migratori: se si controllano questi, si controlla il contagio inter-regionale e internazionale.

In evidente opposizione a questo primo luogo comune ne è stato elaborato un secondo:  la visione della mafia come invenzione del Settentrione italiano tesa alla “criminalizzazione della Sicilia e dei siciliani, da parte dei cattivi che scendono dal Nord”, in particolare ad opera della “sociologia rampante” che troverebbe nei mass-media un altoparlante interessato. Che questa visione, alimentata da un “sicilianismo recente o antico”, sia infondata è dimostrato da quelle ricerche empiriche su come “la stampa del Nord veda il problema mafia”: “con tutte le carenze, le lacune, con tutta la superficialità, però non abbiamo mai trovato un solo esempio di criminalizzazione indebita della Sicilia”[3]

Questi primi due stereotipi originano, a mio parere, dalla difficoltà di determinare con una certa precisione il rapporto problematico fra la ‘cultura’ siciliana e la ‘cultura’ mafiosa[4]: che non è né di totale separazione/estraneità né di totale identificazione/sovrapposizione. Infatti la ‘transcultura’ mafiosa ha attinto, a piene mani, dal patrimonio culturale siciliano (esasperando, deformando, strumentalizzando idee, simboli, valori, tradizioni, usi, costumi...), ma se in origine tutti i mafiosi sono siciliani, non è mai stato vero che tutti i siciliani siano stati mafiosi. Anzi: la storia della mafia si intreccia, sin dai primi passi nella seconda metà dell’Ottocento, con la storia dell’antimafia.  

Chi ritiene di non poter negare l’esistenza della mafia in Sicilia trova, spesso, rifugio in un terzo stereotipo: la mafia come “malattia”. Da questa angolazione 

 

“il corpo dello Stato, le istituzioni, la democrazia italiana, sono buoni, corretti, capaci di esercitare le proprie funzioni, ma arriva, non si sa bene da dove, una malattia, un contagio, un virus che perverte tutto questo, che trasforma in cancro il funzionamento generale dell’organismo, il quale ne risulta non soltanto impoverito, ma prossimo al collasso, per ragioni inspiegabili ed esogene, non prodotte dall’interno”[5].

 

Non si capisce, o non si vuole capire, che il sottosistema mafioso non allignerebbe né vigoreggierebbe se il sistema socio-economico-politico-culturale in cui è incistato non fosse mafiogeno. 

Se si capisse questo nesso si eviterebbe la formula banale (un quarto stereotipo) della mafia come emergenza

 

“Uno dei termini maggiormente in uso, soprattutto sulla stampa e alla televisione, è quello di «recrudescenza» de fenomeno mafioso [...]. Se i delitti superano un certo numero, ovviamente imprecisato, si parla di «emergenza». Sembrano termini innocui, ma in realtà essi sottintendono un’idea di mafia come mera fabbrica di omicidi, che «sospende le attività» tra un omicidio e l’altro: una visione che potremmo definire di tipo «congiunturale». La mafia invece è un fenomeno continuativo, strutturale, che svolge molteplici attività e usa l’omicidio secondo una logica di «violenza programmata»[6].

 

L’idea che la mafia sia essenzialmente un’attività bellica (i mafiosi contro lo Stato e i mafiosi tra loro stessi) è alla base di un quinto pregiudizio: la mafia come recinto violento rispetto a cui restare esterni se si vuole restarne immuni. 

 

Secondo affermazioni diffusissime «i mafiosi si uccidono tra di loro. Se ti fai i fatti tuoi non ti toccano. La morale che c’è dietro è duplice: gli omicidi dei mafiosi sono come un fatto naturale, che non riguarda il tessuto sociale; il comportamento consigliato è il «farsi i fatti propri», cioè la passività, l’astensione non solo dall’intervenire ma pure dal vedere e sentire”[7].

 

Quando questo luogo comune è messo in crisi da uccisioni di magistrati o poliziotti viene aggiornato: è vero, non sono mafiosi, comunque hanno scelto professionalmente di avere a che fare con la mafia. Se poi a cadere sono passanti occasionali, come la madre dei due bambini della strage di Pizzolungo, lo stereotipo viene elevato al quadrato diventando ancora più tragicamente comico:

 

“Sono «poveri innocenti che non c’entravano»: qui «innocenti» vuol dire «non addetti ai lavori». La mafia, quando uccide gli «innocenti», è «disumana», aggredisce l’intera «comunità umana», come se uccidendo un giudice o un giornalista eliminasse un «colpevole» e desse prova di umanità”[8].

 

 

Strettamente legato a questo stereotipo se ne può individuare un sesto: la mafia come effetto di poteri lontani. Indubbiamente, dall’unificazione del regno d’Italia a oggi, la mafia siciliana ha fruito di rapporti privilegiati con i governi nazionali che, secondo le stagioni politiche, hanno tentato di negoziare per strumentalizzarla anziché contrastarla per estirparla. Ma ciò non significa che la Sicilia – e Palermo in particolare – abbiano, per un solo periodo storico per quanto breve, trasferito a Roma la direzione centralizzata delle cosche mafiose. La capitale, sede del cervello organizzativo, è rimasta – purtroppo – dove è stata sin dall’origine ottocentesca. Come la stessa – per fortuna -  è rimasta la capitale dell’antimafia, dove si sono elaborate le strategie vincenti e dove si sono pagati i prezzi più alti in termini di vite umane. 

Estremizzata, questa visione vittimistica della mafia sfocia nell’affermazione – apparentemente ‘rivoluzionaria’ – che la mafia è lo Stato. Quasi per bilanciare il rischio di questa tesi, dalle conseguenze paralizzanti (se così fosse, infatti, resterebbe solo la prospettiva non proprio imminente anarco-comunista dell’abolizione dello Stato tout court) ha avuto straordinaria fortuna la definizione della mafia come anti-Stato. Ma si tratta solo di un ennesimo – il settimo nel nostro elenco – stereotipo: infatti

 

«non è una forzatura ideologica affermare che non c’è stato, in Italia, Stato senza mafia, come non c’è stata mafia senza Stato» [9].

 

La verità – troppo sottile per lasciarsi ingabbiare in formule sloganistiche sommarie – è che la mafia di per sé non è in antitesi con lo Stato, ma tende a farsi Stato; quando in questa strategia di infiltrazione nei gangli e nei posti di comando dell’ordinamento statuale trova funzionari integerrimi (non tutti) e coraggiosi (ancora meno), allora – e solo allora – diventa antitetica rispetto a questi settori dello Stato (rassegnandosi a posizioni di disperata opposizione come il banditismo, il gangsterismo, i terrorismi di matrice politica o religiosa).

La mafia come tumore allogeno, dunque. Ma i tumori sono soggetti a metastasi. Ecco, dunque, confinante con gli stereotipi precedenti, un ottavo luogo comune: l’ubiquità della mafia. Si badi bene: non si afferma, con Leonardo Sciascia, che “la linea della palma” si è spostata verso il Nord e che vi sono organizzazioni criminali mafiose e para-mafiose in altre regioni italiane, in altri Stati europei ed extra-europei . Ciò sarebbe inoppugnabilmente vero. Piuttosto – riecheggiando operazioni già realizzate da personaggi come il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo – si appiattisce la specificità della mafia a livello di criminalità ‘ordinaria’ e, così ridimensionata, la si riconosce presente da sempre in tutto il mondo. Il risultato è noto: tutte le manifestazioni di violenza e corruzione del pianeta sono mafia, dunque nessuna è veramente mafia. Si perde di vista il prototipo originario della mafia (siciliano!)  e ci si condanna a battaglie secondarie con organizzazioni delinquenziali molto meno insidiose. 

Le patologie sono soggette a variazioni, solitamente peggiorative. Intesa come accidente esterno, la mafia si presta a un nono  stereotipo, parzialmente apologetico: la mafia come fenomeno in via di degenerazione. La sua versione più ‘nuova’ è sempre cattiva, a differenza della ‘vecchia’ che – invece - era buona. Quasi da “rimpiangere”. Si tratta di una “illusione” “nefasta”: si accetta di occultare un passato di “atrocità” e di “delitti” con l’immagine “reificata” che i mafiosi più anziani, e perdenti rispetto alle nuove generazioni criminali, offrono di sé[10]. Con questa contrapposizione infondata fra «due momenti, l’antico e il nuovo», le cosche mafiose possono ottenere consenso sociale attingendo «perennemente al serbatoio del mito»[11].

Un decimo stereotipo è legato al precedente e, insieme al precedente, sta o cade: la mafia come rispettosa dei bambini, delle donne e dei preti.  E’ il ritornello che si ascolta ogni volta che una vittima di mafia appartiene a una di queste categorie. Se la smemoratezza storica fosse appena un po’ minore si saprebbe che, sin dalle origini nella seconda metà del XIX secolo, i mafiosi hanno spazzato via tutte le vite umane che, anche involontariamente, intralciavano i suoi piani delittuosi. Certo, statisticamente è più frequente l’incontro-scontro con adulti maschi, ma non c’è alcuna remora ideologica o morale che impedisce, se necessario, di uccidere bambini, donne e preti.

Uno dei vantaggi di esprimersi per luoghi comuni, senza preoccuparsi di esibire le prove di ciò che si afferma, è che alcune formule possono essere invertite senza fatica e talora, addirittura, adottate in entrambe le posture. Abbiamo appena esaminato il mito della mafia benefattrice e rispettosa degli inermi, il mito della mafia incontaminata prima della degradazione modernistica? Capovolgendolo si ha lo stereotipo della mafia come residuo arcaico, primitivo, destinato a dissolversi man mano che la società diventa più ricca, più progredita tecnologicamente. Questo undicesimo luogo comune è smentito clamorosamente dalla capacità dei mafiosi di «adattarsi a contesti molto diversi da quelli originari», di «integrarsi in società complesse» e di «coniugare elementi di arretratezza con altri di modernità»[12].  Non senza solidi argomenti, infatti, qualcuno ha potuto scandire la storia della mafia in quattro fasi principali: «una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo»; «una fase agraria, che va dalla formazione dello Stato unitario agli anni ’50 del XX secolo»; «una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ‘60»; «una fase finanziaria dagli anni ’70 ad oggi»[13].

Di un dodicesimo pregiudizio sono state, e in parte sono ancora, vittime anche le autorità giudiziarie: la mafia come organizzazione esclusivamente maschile . Ma una cosa è affermare (con verità) che la mafia è patriarcale, maschilista, e un’altra cosa è sostenere che le donne non possono farne parte e, di conseguenza, essere responsabili di reati di tipo mafioso. Già nel 1993 Anna Puglisi scriveva che 

 

«l’immagine della donna siciliana chiusa in casa e vestita di nero, non corrisponde nella quasi generalità alla situazione attuale. In Sicilia, come altrove, le donne rivendicano emancipazione e occupazione, anche se in Sicilia come in tutto il Meridione, tra i disoccupati la percentuale maggiore è quella delle donne. Del resto sappiamo che la conquista di piena parità in tutta la società italiana è molto lontana. Comunque lo stereotipo di donna siciliana sottomessa, semplice trasmettitrice dei valori legati alla famiglia, non ha più ragion d’essere. Anche all’interno delle famiglie mafiose»[14].

 

La questione viene ripresa anche in un recente libro a più mani e, tra l’altro, vi si legge che,

 

«mentre fino al 1990 solo una donna era stata incriminata, nel 1995 si ebbe un’impennata, le donne coinvolte in associazione mafiosa divennero 89» [15].  

 

Renate Siebert [16] è stata una delle studiose che ha combattuto

 

«con forza il pregiudizio in cui tanto da parte della mafia, quanto per un certo tempo da parte dell’antimafia, sono state rinchiuse le donne: l’idea che non potessero essere considerate responsabili delle loro azioni. Come abbiamo già ricordato, fino al 1995 ci fu una sola imputazione per associazione mafiosa a una donna. La motivazione era che non essendo affiliate tramite il "rito della santina" le donne fossero impossibilitate a svolgere ruoli di rilievo nell’organizzazione; nelle sentenze si legge chiaramente come le donne, non avendo il sufficiente grado di autonomia per essere riconosciute responsabili del reato di associazione mafiosa, se hanno commesso reati lo hanno fatto “per seguire i loro uomini". L’antimafia faceva così da specchio a quello che la mafia esprimeva a proposito delle donne»[17].



[1] G. Priulla, Informazione e mafia: dal silenzio al rumore in U. Santino (a cura di), L’antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989, pp. 69 – 79.

[2] A. Crisantino, Mafia: la fabbrica degli stereotipi in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, Di Girolamo Editore, Trapani 2006, p. 57.

[3] G. Priulla, Informazione, cit., p. 75.

[4] Uso ‘cultura’ fra virgolette, ma subito dopo recepisco un suggerimento di Umberto Santino: “Per indicare la complessità culturale della mafia e la sua capacità di adattamento al mutare del contesto” adottare “il concetto di «transcultura», intesa come percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui convivono aspetti arcaici, come la signoria territoriale, e aspetti moderni, come le attività finanziarie” (U. Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso e del movimento antimafia in A. Cavadi [ed.]A scuola di antimafia, cit., p. 29). Analogamente ritengo che sia riduttivo parlare di ‘cultura’ siciliana al singolare, senza tener conto né della diacronia né delle differenze fra le varie aree della stessa isola. Essa è piuttosto, a sua volta, una ‘trans-cultura’ in cui individuare almeno l’intreccio di tre prospettive: la visione cattolica, la visione borghese-individualistica e la visione mafiosa (cfr. A. Cavadi, Per una pedagogia antimafia in A. Cavadi [ed.]A scuola di antimafia, cit., pp. 83 – 125).

[5] Ivi, p. 72.

[6] A. Crisantino, Mafia, cit. p. 60 (il virgolettato «violenza programmata» si riferisce a G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata : omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989).

[7] Ivi, p. 61.

[8] Ivi.

[9] U. Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso e del movimento antimafia in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, cit., p. 24.

[10] R. Mangiameli, Stereotipo, CD Rom Mafia, a cura di P. Pezzino- C. Ottaviano, Cliomedia Officina, Torino 1998, successivamente ripubblicato in R. Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2000, p. 200.

[11] Ivi.

[12] A. Crisantino, Mafia, cit. p. 63.

[13] U. Santino, Per una storia sociale della mafia e dell’antimafia in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, cit., p. 36.

[14] A. Puglisi, Donne e mafia, “Giraffen”, Copenaghen luglio 1993, n. 11 in A. Puglisi, Donne, Mafia e Antimafia, Di Girolamo Editore, Trapani 2005, p. 11. 

[15] S. Pollice, Il filo che ci unisce, in A. Dino  G. Modica (a cura di), Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni, Mimesis, Miano – Udine 2022, p. 145.

[16] Soprattutto in R. Siebert, Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano 1994, passim.

[17] S. Pollice, Il filo, cit., p. 151. 

mercoledì 24 maggio 2023

ADDIO A FRANCESCO CRESCIMANNO, AVVOCATO CORAGGIOSO E SIGNORILE





SE NE E’ ANDATO UN AVVOCATO CORAGGIOSO E SIGNORILE

Quando le famiglie Falcone e Borsellino cercarono un avvocato penalista affidabile per costituirsi parti civili ebbero non poche difficoltà: infatti molti professionisti, avendo accettato (del tutto legittimamente!) di difendere in tribunale i carnefici, erano impossibilitati a tutelare le vittime. Ma Francesco Crescimanno si era lasciato le mani libere e poté accettare l’incarico. In alcune puntate della trasmissione RAI  dedicata alla registrazione di processi rilevanti, milioni di spettatori potemmo assistere agli scambi fra il piccolo e mite legale palermitano e Totò Riina. “Ricorda dov’era il 23 maggio del 1992?” . “No, avvocato. Come, penso, non lo ricorda neppure Lei”. “Veramente io lo ricordo molto bene perché aiuto la memoria con l’agendina”.

Francesco, con cui ci siamo frequentati da giovanissimi, era aduso alla dialettica: quando era il caso,  scherzosa; mai, comunque, aggressiva. Una volta mi raccontò di aver chiamato a telefono la casa di un suo cliente che non aveva pagato più l’onorario previsto. Quando la moglie riconobbe la sua voce, prontamente lo apostrofò con un forte e deciso: “Cornuto!”. Francesco non si scompose, rifece il numero e, appena dall’altro lato sentì alzare la cornetta, con calma precisò: “Mi scusi, Signora. Evidentemente poco fa mi ha scambiato per suo marito. Volevo dirle che, invece, sono l’avvocato Crescimanno”.

Ho in mente altre sue risposte salaci, ma comprensibili solo nel contesto goliardico del Sessantotto. 

Il gusto dell’ironia non lo ha lasciato sino a quando un male crudele non gli ha annebbiato la mente. 

Domani mattina, ai funerali in chiesa, si prevede un concorso notevole di amici e estimatori che hanno già esternato i propri sentimenti nei vari canali social. Ma adesso ci piace immaginarlo con tutta la sua vivace lucidità di un tempo a pungolare, con bonomia, i santi del paradiso.

 

Augusto Cavadi 

www.augustocavadi.com


https://www.zerozeronews.it/piangiamo-lamico-piangiamo-il-grande-avvocato-francesco-crescimanno/

lunedì 22 maggio 2023

OLTRE BIAGIO CONTE: DALL'ASSISTENZA EROICA ALLA PROGETTUALITA' POLITICA


 "Appunti sulle politiche sociali" 2023/1 (n. 242)

Gruppo solidarietà - Maie di Maiolati

Volontariato e politica. Riflessioni dopo la morte di Biagio Conte 

La maggior parte degli italiani aveva lentamente disperso la memoria di un giovane palermitano che, agli inizi degli anni Novanta, era stato rintracciato dalla trasmissione televisiva “Chi l'ha visto?” e indotto così a ritornare, sia pur temporaneamente, a casa. Ma la figura romanticamente medievale di questo pellegrino, inseparabile da bastone e cane, che - autoproclamatosi francescano, pur senza aderire a nessuna istituzione ecclesiastica -  indossa un saio verde  e si dedica ad assistere, sotto i portici della stazione ferroviaria principale,  barboni di ogni provenienza etnica, nella sua città diventerà invece sempre più celebre. Scrittori come Giacomo Pilati e registi come Pasquale Scimeca gli hanno dedicato libri e film; la stampa  cartacea e on line, le radio e le televisioni non solo locali lo hanno seguito per tre decenni soprattutto quando ha optato per clamorose forme di protesta (digiuni o pellegrinaggi a piedi con la croce sulle spalle) a favore dei suoi senza-tetto (spesso immigrati non ancora regolarizzati).

Nessuno però si sarebbe aspettata l'ondata, anzi la marea, di imponente partecipazione ai suoi funerali di vescovi e preti, autorità civili, cittadini  di ogni estrazione sociale, etnica e culturale. E poiché solo uno snobismo ingiustificabile può negare che vicende come questa pongano domande ineludibili, provo, quasi telegraficamente, a inanellare alcune considerazioni.

La prima riflessione è che anche nella nostra epoca di “passioni tristi”, di disincanto rispetto agli ideali seduttivi, di appiattimento su una grigia  routine quotidiana in cui tutti gatti risultano grigi, certe scelte simboliche particolarmente radicali continuano a toccare profonde corde emotive. Chi ha il coraggio di adottare simili gesti profetici merita non solo rispetto, ma direi anche ammirazione e gratitudine, perché ci ricorda che si può ancora remare contro corrente.

Una seconda considerazione riguarda non la sfera intima, coscienziale, intenzionale di fratel Biagio, quanto la lettura che gli altri, vicini o estranei, fanno del suo stile, del suo approccio, del suo metodo. Qui sono in gioco non certo i meriti soggettivi (di cui nessun uomo può farsi giudice), bensì i criteri-guida delle strategie operative oggettive (sulle quali l'esame critico è lecito, anzi doveroso). Quali sono stati i suoi orientamenti di fondo ?

Quando Biagio Conte tornò a Palermo, dopo la “fuga” ad Assisi, venne a trovarci al Centro sociale “S. Francesco Saverio” che avevamo avviato da alcuni anni nel quartiere Albergheria, noto soprattutto per il mercato di Ballarò. Come facevamo con tutti gli aspiranti volontari, abbiamo sinteticamente presentato le linee essenziali del nostro statuto e della nostra pedagogia. Del tutto legittimamente, fratel Biagio non si è ritrovato su quasi nessun punto del nostro programma: né sulla impostazione collettiva (per cui le decisioni venivano assunte assemblearmente, senza leaderismi verticistici); né sull'ispirazione a-confessionale (per cui il Centro era gestito da un consiglio direttivo eletto dai soci, provenienti  da una pluralità di storie ideali e ideologiche, e non si interpretava come espressione di alcuna chiesa); né sulla finalità principale di tipo 'politico' (per cui ritenevamo di dover supplire le istituzioni sono temporaneamente e, al di là di ogni logica assistenzialistica, di dover sollecitare la gente del quartiere a esigere che le amministrazioni pubbliche attivassero i servizi essenziali per i bambini, le donne, gli anziani, i disoccupati, gli immigrati). 

Così le nostre strade, in questi trent'anni,  si sono snodate in parallelo, sia pure a un solo chilometro di distanza:   ovviamente senza polemiche, anzi con occasionali, cordialissimi, incontri fra persone accomunate dal fronte della solidarietà. 

Che bilancio è possibile oggi dopo una storia più che trentennale?

Innanzitutto – ed è la mia terza considerazione – che nell'immaginario collettivo non c'è partita: l'approccio dell'eroe che, almeno istituzionalmente, non condivide con nessun altro responsabilità di gestione della sua opera sociale, lottando per così dire col proprio corpo in difesa degli ultimi, è decisamente più apprezzato del metodo, alternativo, di quanti, nella stessa città e nella stesso periodo di tempo, hanno provato a fare squadra, a condividere onori e oneri, a corresponsabilizzare i fruitori dei propri servizi mirando ad abbattere la barriera fra chi dà e chi riceve. Nessuno stupore: non è solo adesso, nella “società dello spettacolo”, che certi personaggi e certe vicende levitano (pur senza proporselo) nella sfera del mito ed altri personaggi, con altre vicende, restano (temporaneamente o definitivamente) nell'ombra. Tuttavia chi ha visto ha il diritto, e  il dovere, di testimoniare: prima di fratel Biagio, durante gli anni della sua splendida testimonianza (qui andrebbe bene il termine più vicino all'etimologia greca: martirio) e anche dopo la sua prematura scomparsa (per tumore, a meno di sessant'anni), ci sono stati e ci sono preti e suore, laici e laiche  di ogni appartenenza culturale, che, sia pure optando per stili di vita più discreti, meno appariscenti, hanno speso il meglio delle proprie energie per combattere il sistema di dominio mafioso, lo sfruttamento della prostituzione, la diffusione delle droghe pesanti, l'ignoranza dell'alfabeto civico: insomma, come si usa dire negli ambienti del Terzo Settore, per insegnare a pescare più che per distribuire pesci agli affamati. 

Questa considerazione non mira a stabilire graduatorie. Ognuno segue il proprio “demone” interiore. E' importante però bilanciare con la lucidità della ragione i sussulti dell'emotività e non dare per scontato che il significante debba prevalere sul significato al punto da renderlo irrilevante. In un piccolo saggio dedicato a Tommaso Moro, Libertà nel mondo (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2012), Hans Kung indaga sul paradosso di un personaggio che, pur vivendo in pienezza le gratificazioni  mondane del potere politico, degli affetti familiari e delle proprietà economiche, se costretto dalle vicende storiche a scegliere fra la fedeltà alla propria coscienza e la sottomissione al sovrano inglese, non esita a rinunziare alla sua stessa vita biologica, rivelando così – al di là delle apparenze – la radicalità della sua fede. In un'ottica simile, Romano Guardini, nel saggio Il santo nel mondo incluso nel primo volume di Ansia per l'uomo (Morcelliana, Brescia 1958), ritiene che ormai il “santo della straordinarietà” debba lasciare spazio al “santo della presenza modesta”, più consono all'epoca moderna in cui, “al posto della personalità dominatrice, succede il team, o gruppo di lavoro”: “nel gruppo nessuno si distingue; ma ognuno è importante. Ciascuno lavora al suo posto; ma con responsabilità per la causa comune. […] il santo non sarebbe più caratterizzato da una forma di esistenza distinta dal resto della vita. Egli è colui che opera ciò che è giusto e buono, nel nascondimento. Ma con una purezza d'intenzione che si accorda sempre più profondamente con l'amore di Dio, e si libera sempre più perfettamente dall'egoismo fino a raggiungere una libertà che non ha nulla da fare con l'originalità e la genialità, ma che si realizza completamente nell'intimo della persona”. Poiché l'amore per Dio si può manifestare solo amando gli esseri viventi, ci si potrebbe chiedere -  procedendo oltre Guardini – se la santità odierna non possa realizzarsi, oggettivamente, anche in soggetti estranei a ogni problematica di ordine teologico-religiosa. 

Una quarta riflessione concerne ancora l'aspetto teologico-ecclesiale di questa vicenda. I decessi illustri ci stanno abituando al grido (non si sa mai quanto) popolare: “Santo subito!”. Neppure in questo caso poteva mancare la richiesta di una rapida canonizzazione di una persona che non si è limitata a lavorare “per” i poveri né “con” i poveri, ma “da” povero fra “poveri”. Nel corso di un'intervista sulle pagine siciliane di “Repubblica” don Cosimo Scordato, co-fondatore del Centro sociale “S. Francesco Saverio”, glissa elegantemente sulla questione della “beatificazione” del missionario: “Gesù dice: «Beati i poveri». Lo sono già quindi. Come lo è stato già Biagio nella sua vita: beato. La gente fa riferimento alla sua figura per mettersi in discussione, segue la sua testimonianza. Al di là di ogni eventuale processo di beatificazione che potrà arrivare”. La risposta, mirata a relativizzare la questione della proclamazione canonica delle virtù “eroiche” del defunto, va però letta – se si vogliono evitare equivoci bimillenari - alla luce di tutta la pluriennale predicazione dello stesso don Scordato, attento lettore e seguace della “Teologia della liberazione”: come hanno dimostrato inequivocabilmente gli studi esegetici di p. Dupont, nel Discorso della Montagna Gesù proclama “beati” i poveri che lo circondano non perché sono poveri, ma perché nel suo progetto e nella sua speranza sta avviandosi, già qui e già ora,  una rivoluzione (“il Regno di Dio”) grazie alla quale non lo saranno più. Gesù non è pauperista. Ama i poveri perché odia la povertà e li vuole liberare dalle sue catene. Se non si sottolinea abbastanza questa valenza contestatrice, disturbante, del messaggio evangelico si rischia di identificare il “beato” cattolico con l'ennesima “vittima sacrificale” di un sistema socio-economico ritenuto immodificabile. 

Questi accenni teologici possono far luce sulla mia quinta, e ultima, riflessione suggeritami dalla straordinaria avventura del nostro “povero” cristiano. Per fratel Biagio la giunta municipale ha proclamato sette giorni di lutto cittadino: a mia memoria, mai successo nulla di simile negli ultimi settant'anni. E non è stata la giunta progressista di Leoluca Orlando che, pur tra contraddizioni e ritardi, si è sempre distinta per una speciale attenzione all'accoglienza dei flussi migratori nel Mediterraneo, bensì la giunta di centro-destra di Roberto Lagalla, sostenuta da Fratelli d'Italia e Lega.  Ai suoi funerali sono accorsi a decine esponenti politici, regionali e nazionali,  di ogni schieramento: anche di quegli schieramenti che da decenni sono impegnati a bloccare con ogni mezzo, lecito o meno, gli arrivi di immigrati in Sicilia; che praticano politiche clientelari e sperperano in maniera scandalosa il denaro pubblico; che non hanno mosso un solo dito per sostituire – o per lo meno integrare – l'azione emergenziale di Biagio e dei suoi collaboratori con iniziative istituzionali, sistemiche, stabili nel tempo.  E' eccessivo sospettare che tanto concorso di autorità che, in questi decenni e ai nostri giorni, hanno ignorato i drammi di cui Biagio si è fatto carico come ha potuto, sia solo l'ostentazione  di una solidarietà pelosa, strumentale? E' eccessivo temere che l'esaltazione di chi ha aiutato i poveri serva, più o meno consapevolmente, per distrarre l'attenzione da quelle (sempre più rare, fioche e isolate) voci che a Palermo e in Sicilia chiedono il superamento delle condizioni strutturali di povertà? Don Helder Camara, arcivescovo di Recife, ripeteva, come è noto, che se aiutava i poveri della diocesi si diceva che fosse un buon prete, ma, se si chiedeva a voce alta perché ci fossero tanti poveri, veniva tacciato di essere un comunista. Il concorso di politici e di amministratori pubblici intorno alla bara di fratel Biagio Conte sarebbe stato così numeroso e così unanime se in vita egli avesse esortato alla “giustizia sociale” con la stessa intensità con cui ha chiesto “solidarietà cristiana”? Se avessero fatto parte del suo vocabolario abituale anche parole come “mafia”, “democrazia”, “Costituzione” ? Solo le decisioni dei prossimi mesi diranno chi è accorso al feretro del missionario solitario per sposarne, nell'ambito delle proprie competenze, la causa e chi ha ipocritamente approfittato della commozione generale per darsi una spolveratina alla coscienza. Palermo, come ogni altra città italiana afflitta da piaghe sociali, ha certo bisogno di eredi sulla scia e sul modello profetici di Biagio Conte, ma almeno altrettanto di aggregazioni politico-culturali che interloquiscano criticamente con le istituzioni, ne denunzino le collusioni con i gruppi affaristico-mafiosi, offrano agli amministratori proposte innovative e li incalzino affinché essi le traducano in fatti tangibili. Certamente solo ai primi le autorità cittadine, sponsorizzate dai Totò Cuffaro e dai Marcello Dell'Utri (appena usciti da anni di galera per collusione con i clan mafiosi), riserveranno funerali imponenti. Ma pazienza. Chi lavora per rendere meno atroce la società deve mettere in conto che la gratitudine sarà  l'ultima reazione che potrà attendersi. 

 

Augusto Cavadi 

www.augustocavadi.com

 

venerdì 19 maggio 2023

LA CONSULENZA FILOSOFICA: UN SERVIZIO PER CHI VOGLIA PENSARE INSIEME A UN FILOSOFO DI PROFESSIONE

IN TUTTA ITALIA IL MESE DELLA CONSULENZA FILOSOFICA

 

 

La vita è complicata (perfino in aree del pianeta per molti versi privilegiate come la nostra). Quattro occhi l’osservano meglio di due. Ecco perché è del tutto comprensibile il desiderio di confrontarsi con qualcun altro di fronte ai bivi dell’esistenza: accetto un’insperata offerta di lavoro meno gratificante, ma più remunerativo, del mio attuale? Ricorro a una fecondazione eterologa anche se non vivo in coppia stabile? Accondiscendo alla richiesta di un genitore anziano e malato che invoca l’eutanasia o faccio di tutto per dissuaderlo? 

Chi appartiene a un’organizzazione religiosa in casi simili bussa alle porte di un prete o di un rabbino o di un imam. Chi è più “laico” – o comunque preferisce affidarsi a professionisti qualificati – bussa alla porta di uno studio di psicoterapia. Qualche altro, più fortunato, ha un amico saggio e fidato cui chiedere consiglio. 

In tutti questi casi c’è la probabilità – che è un po’ rischio e un po’ speranza – di aspettarsi un sostegno, un conforto, un’indicazione illuminante: un aiuto, insomma, dall’esterno che riduca, o azzeri, la nostra fatica di riflettere e di decidere. Alcuni pastori d’anime, alcuni psicoterapeuti, alcuni amici assecondano le nostre aspettative di questo genere; altri, anche a rischio di deludere, si limitano a giocare a pingpong, restituendoci la pallina per non renderci inattivi, passivi. 

Chi non ha timore di questo rimando – e vuol essere sicuro di non incontrare né padri né maestri né terapeuti né somministratori di consigli – può rivolgersi, direttamente, a un filosofo. Più precisamente a uno di quei filosofi che coltivano la propensione e l’attitudine a dialogare con interlocutori desiderosi di essere aiutati a pensare, e a decidere, con la propria testa. Filosofi di questo genere, da Socrate a oggi, ne sono sempre esistiti, ma solo da una quarantina di anni si sono organizzati professionalmente per darsi una propria visibilità pubblica. In Germania, e poi nelle diverse nazioni del mondo in cui sono nate tali organizzazioni, essi hanno scelto di denominare in varie maniere questa professione così antica e così nuova: Philosophische PraxisPhilosophy Practice,  Philosophical counselingFilosofia in pratica... In Italia ha finito col prevalere una denominazione – “Consulenza filosofica” – non priva di pericoli dal momento che rischia di essere identificata con una delle tante declinazioni del Counseling (psicologico, pedagogico, giuridico etc.). 

Cos’è in concreto la CF ? Come si svolge un colloquio fra il filosofo consulente e il suo consultante (che ovviamente può benissimo essere del tutto asciutto in storia della filosofia)? La maggiore associazione professionale italiana (“Phronesis”) offre, proprio in questo mese di maggio 2023, la possibilità di chiedere un appuntamento a titolo sperimentale (e a onorario ridotto) a uno dei suoi soci distribuiti nelle varie regioni del Paese: basta cercare nell’elenco on line al link https://www.phronesis-cf.com/maggio-2023-mese-della-consulenza-filosofica/

 

Augusto Cavadi 

lunedì 15 maggio 2023

LA VIDEO-REGISTRAZIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI B. MORI "PER UN CRISTIANESIMO SENZA RELIGIONE"

 

È stata finalmente pubblicata su YouTube la registrazione video dell'Incontro con Augusto Cavadi sul libro di Bruno Mori, Per un cristianesimo senza religione. Ritrovare la "Via" di Gesù di Nazaret, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2022, all'indirizzo:https://www.youtube.com/watch?v=DcbkNKhydg4

Un caro saluto
Stefano
Associazione "Liberare l'uomo" di Treviso

venerdì 12 maggio 2023

LEGALITA' GIUSTIZIA COSTITUZIONE : DOMENICA 14 MAGGIO ORE 17.30 A MEZZOJUSO (PALERMO)


In doverosa risposta a chi mi ha chiesto chiarimenti, preciso che:
a) Valentina Chinnici, la mia co-relatrice all'incontro organizzato presso il Castello di Mezzojuso, è consigliera regionale del PD ma non è neppure parente della Caterina Chinnici che è stata candidata alla presidenza della Regione alle ultime elezioni:
b) se ad essere invitata insieme a me fosse stata la dott.ssa e magistrata Caterina Chinnici, figlia del glorioso fondatore del pool antimafia alla fine degli anni Ottanta e inspiegabilmente passata in questi giorni a Forza Italia, avrei accettato ugualmente l'invito, ma a condizione che si fosse configurato come dibattito fra persone di posizioni ben diverse.

 

giovedì 11 maggio 2023

LA SPIRITUALITA' LAICA: FABIO BONAFE' INTERVISTA AUGUSTO CAVADI SU "ALTO ADIGE" (8.5.2023)


 CAVADI E LA SPIRITUALITA’ LAICA

“Alto Adige”, 8 maggio 2023

 

 

Augusto Cavadi, docente di Palermo e autore di numerosi libri, è conosciuto come “filosofo di strada”, promotore della “consulenza filosofica”, teologo critico, conoscitore del fenomeno mafioso e organizzatore di eventi culturali. Dopo un fine settimana per un Seminario sulla Tenerezza sull’appennino reggiano, sarà in Alto Adige dall’8 al 10 maggio per una serie di incontri.

Nella serata dell'8 maggio alle ore 20 al Centro per la Cultura di Merano, in collaborazione con l'UPAD, presenterà il libro "Quel maledetto 1992", dedicato all'eredità di quegli anni e alle stragi che portarono alla morte dei magistrati antimafia Falcone e Borsellino. Martedì 9 maggio nella mattina incontrerà gli studenti di alcune classi del Liceo Linguistico dell'Istituto Marcelline di Bolzano: in dialogo con loro esplorerà alcuni aspetti fondamentali del fenomeno mafioso a partire dalla figura di Peppino Impastato (proprio in occasione del 45mo anniversario dell'assassinio). Sempre martedì 9 maggio presso la Chiesa della Visitazione di Bolzano, a partire dalle ore 18, Cavadi presenterà il suo libro "O religione o ateismo? La spiritualità  «laica» come fondamento comune” (Algra Editore, 2021). A proposito degli argomenti di questo ultimo libro gli abbiamo fatto alcune domande.

 

Per secoli la maggior parte degli uomini è vissuta all’interno di forme religiose, talvolta mettendo in discussione parti di credenze o riti, ma senza dubitare della verità della religione e della sua necessità. Oggi invece si assiste a un abbandono, specialmente nelle società occidentali, quasi a un ripudio delle religioni. Cosa sta succedendo? È un processo inevitabile e utile? È un “progresso”?

* Se per “religione” intendiamo un sistema istituzionale, dottrinale, liturgico, normativo in cui gli esseri umani cercano la relazione con la dimensione divina dell'universo, essa ha una data di nascita che orientativamente risalirebbe a 12.000 anni fa. Se ciò che affermano molti antropologi è vero, significa che dal 70.000 al 10.000 a. C. l'umanità è vissuta senza “religione”: dunque la fase storica di società senza religioni – che stiamo imparando ad attraversare – non è un fatto inedito. Secondo Marìa Corbì, nel suo fondamentale volume appena tradotto in italiano “Verso una spiritualità laica. Senza credenze,senza religioni, senza divinità”, sostiene che sia un fenomeno inevitabile dal momento che la funzione sociale delle religioni (e, aggiunge egli, delle ideologie politiche) si sarebbe esaurita. Un fatto non inedito e divenuto necessario: anche utile? Se tolgo a un bambino le redinelle, che lo accompagnavano nei primi passi, opero una scelta oculata se il bambino ne approfitta per camminare più liberamente. Non, però, se senza quel sostegno vacilla e piomba a terra. La scommessa della nostra generazione è anche questa: vivere il cedimento delle strutture religiose tradizionali come un'occasione di crescita, di maturazione, di progresso e non, come purtroppo mi pare possibile, di sbandamento esistenziale e collettivo.

 

Nel libro Lei distingue la “religione” dalla “religiosità”, che sembra avere qualche vantaggio rispetto alla prima.

* Ovviamente queste categorie hanno un carattere molto orientativo, convenzionale. Quello che constato – ma non sono certo l'unico fra gli osservatori di questi aspetti della storia contemporanea – è che persone come Foscolo o Beethoven o Einstein o Jaspers, pur non riconoscendosi in nessuna “confessione” religiosa istituzionale, hanno testimoniato esplicitamente un atteggiamento di ammirazione e di fiducia verso una dimensione, dai tratti divini, più profonda della realtà empirica.      Questa apertura/tensione verso l'Oltre e l'Altro, che è anche l'Intimo e il Sé, è ciò che chiamo “religiosità”. E, per una certa ironia della sorte, mi pare di constatare che tale “religiosità” non solo non è un'esclusiva dei circuiti delle “religioni” ufficiali, ma anzi è più presente fuori da essi che dentro.

 

L’eclisse, forse definitiva, delle religioni può portare dunque all’ateismo, o anche a una specie di totale indifferentismo. Ma – mi pare di capire – anche alla riscoperta di una “religiosità” di tipo panteistico, pre-cristiano, esterno rispetto ai principali monoteismi diffusi sul pianeta. È così?

* Direi di sì. Ma aggiungerei subito dopo che l'alternativa alla fede confessionale vissuta all'interno delle “religioni” non è solo la “religiosità”  alla Jung o alla Fromm. Vi sono persone radicalmente estranee a ogni ricerca dell' Onni-abbracciante , a ogni sentimento religioso, ma di vivissimo senso etico, di sensibilità estetica, di spontanea compassione verso le sofferenze dei viventi: esse hanno tutto il diritto, se lo desiderano, di rivendicare una propria “spiritualità”.  Come scrive uno di loro, André Comte-Sponville. nel suo “Lo spirito dell'ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio”, perché, se rinunzio a ogni religione, dovrei rinunciare a ogni spiritualità?


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martedì 9 maggio 2023

PEPPINO IMPASTATO, NEL 45mo DALL'ASSASSINIO, RACCONTATO OGGI A BOLZANO

 

Oggi, 9 maggio, 45.mo anniversario dell'omicidio di Peppino Impastato, incontro i liceali del Liceo Linguistico "Marcelline" di Bolzano per parlare di mafia e antimafia. Il professore che mi ha invitato ha scritto così sul blog della sua scuola:

IL RICORDO DI PEPPINO IMPASTATO AL LICEO LINGUISTICO DELLE MARCELLINE CON AUGUSTO CAVADI /

Era il 9 maggio del 1978 (giorno orribile della storia repubblicana italiana perché fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro in via Cateani a Roma). Il corpo di Peppino Impastato venne trovato, riempito di tritolo, sui binari della ferrovia Palermo-Trapani. Il giovane giornalista era uscito allo scoperto da tempo. Prima aveva rotto con la famiglia perché vi facevano parte alcuni mafiosi del paese di Cinisi, dove viveva. Poi aveva cominciato a denunciare pubblicamente la mafia attraverso le frequenze della radio “Aut Aut”, una radio libera, che aveva messo in piedi con alcuni amici. Si era scagliato contro il capo della mafia di quel territorio, Gaetano Badalamenti, ribattezzato da lui “Tano seduto”. La mafia voleva che si credesse che Impastato stesse preparando un attentato terroristico. Solo la determinazione della madre, Felicia, e del fratello Giovanni, fece emergere la matrice mafiosa dell’omicidio, riconosciuta nel maggio del 1984 dal tribunale di Palermo. Nel maggio del 1992 i giudici decisero l’archiviazione del caso, ma, dieci anni dopo, Badalamenti fu condannato all’ergastolo come mandante. La storia di Peppino è stata ricostruita nel film “I cento passi”

Proprio nel giorno del ricordo della morte di Peppino Impastato (martedì 9 maggio dalle ore 8.50 alle ore 10.30) verrà a tenere una lezione agli studenti della prima e della seconda del Liceo linguistico delle Marcelline di Bolzano, Augusto Cavadi, filosofo e giornalista di Palermo, autore di molti libri che si sono occupati anche di mafia e delle figure che hanno lottato contro la criminalità organizzata come, appunto, quella di Peppino Impastato (“Peppino, martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi” o di Falcone e Borsellino e altri eroi civili (“La mafia spiegata ai turisti”). «Giuseppe Impastato – scrive Cavadi nel suo libro dedicato al giornalista siciliano - ha intuito che il potere mafioso è un sistema di violenza militare che le istituzioni statuali debbono contrastare, ma non soltanto. Mafia, infatti, è anche un codice etico-pedagogico. Peppino ne ha infranto l'ereditarietà spezzando il legame con la famiglia mafiosa paterna. Mafia è anche una mentalità, una prospettiva sul mondo. Egli ha non solo studiato per conto proprio, ma si è fatto promotore d'informazione alternativa. Mafia è anche un'attività economica (parassitaria, non produttiva). Peppino si è schierato, concretamente, contro le speculazioni illegali dalla parte dei contadini e degli operai. Mafia è anche un "soggetto politico" ed egli ha ritenuto opportuno coniugare il lavoro sociale con la presenza nell'amministrazione civica, morendo assassinato da candidato al consiglio comunale della sua città».

Ma maggio è pure il ricordo del terribile attentato al giudice Falcone, avvenuto sull'autostrada nei pressi di Capaci. Una strage che, collegata a quella di luglio dello stesso anno contro il giudice Borsellino, ha cambiato la storia della lotta alla mafia e alle sue connessioni interne e internazionali.

FRANCESCO COMINA (Bolzano)

lunedì 8 maggio 2023

INCONTRO PUBBLICO A MERANO (BOLZANO) SULLO STATO ATTUALE DI "COSA NOSTRA"


L’eredità etica delle stragi del 1992 e i nostri comportamenti quotidiani allo scopo di attuare una vera “antimafia” del fare a scapito delle sole parole: questi gli argomenti al centro dell’incontro di lunedì 8 maggio 2023 con il filosofo-in-pratica palermitano Augusto Cavadi. La serata si terrà presso il Centro per la Cultura di Merano (ore 20.00, entrata libera) ed è organizzata da Fondazione Upad, Mairania 857 e Libera, uomini e numeri contro le mafie.
Ripercorrendo le note vicende, ormai storiche, di inizio estate 1992, i giorni feroci delle bombe che segnarono la morte dei giudici Falcone e Borsellino e i membri delle loro scorte, Cavadi sottolinea nel suo volume “Quel maledetto 1992”, quanto oggi] “la situazione sia per certi versi identica ma anche, per fortuna, incomparabilmente diversa”.
L’impegno di Cavadi, attraverso quest’opera, è quello di mostrare al lettore quanto efficaci siano alcune predisposizioni dell’animo umano, come l’indignazione personale, capace di mettere in moto tutta una serie di meccanismi che possono essere l’arma vincente nella strada del cambiamento sociale. È anche il caso del dolore e della relativa indignazione, che può fungere da molla per una maggiore consapevolezza del proprio diritto/dovere di essere cittadini. Tutto ciò senza dimenticare cosa è cambiato e cosa invece è, per certi aspetti, addirittura peggiorato nel contrasto alle mafie. Pur sottolineando come la situazione attuale sia profondamente diversa rispetto al periodo delle stragi, Cavadi ci spiega che, nonostante la sconfitta dell’apparato militare di Cosa Nostra, il rapporto politico tra mafie e istituzioni non soltanto non è morto, ma è rigoglioso; all’ala militare, insomma, si è sostituita, in termini di importanza, l’ala politica delle mafie. Sul piano del cambiamento, invece, si sottolinea come la mancata vittoria di Cosa Nostra non sia da attribuire esclusivamente ai martiri civili più noti, di cui dobbiamo certamente custodire la memoria, ma anche a tutti quegli eroi silenziosi, che fortunatamente non sono morti e di cui spesso non conosciamo il volto, “che hanno perseverato nel fare, molto semplicemente, il proprio mestiere”. Ciò non può che stimolare la costruzione di una proposta civica che tenga in considerazione sia la celebrazione dei martiri laici in senso stretto, attraverso la commemorazione, pur sempre necessaria, sia le azioni che quotidianamente debbono poterci distinguere in questo senso. Come fattore primario Cavadi evidenzia la conoscenza del fenomeno, un fine a cui vuole contribuire anche questa serata meranese.
L’iniziativa gode del sostegno della Provincia di Bolzano, del Comune di Merano, di Alperia, della Dr. Schär e della Cassa di Risparmio di Bolzano

A cara della Redazione di:

https://www.buongiornosuedtirol.it/2023/05/augusto-cavadi-cosa-nostra-piu-rigogliosa-che-mai-ma-eroi-silenziosi-si-oppongono/



venerdì 5 maggio 2023

LA TENEREZZA E LE TRE VIOLENZE CHE LA SFREGIANO


IL VALORE RIVOLUZIONARIO DELLA TENEREZZA

 

Dal 5 al 7 maggio l’associazione “Liberare l’uomo” di Treviso organizza a Marola di Carpineti (Reggio Emilia) un convegno sulla “Tenerezza”. Un tema sdolcinato, o per lo meno per stomaci delicati? Non necessariamente. Che Guevara, che non era esattamente un’aspirante suora di clausura, ha sostenuto con decisione: “Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza”.

Ma cosa intendere con questa parola accattivante? Certamente rispetto, attenzione, capacità di ascolto, solidarietà...ma non solo. La tenerezza è di più: è ‘con-passione’ attiva. E’ un moto di identificazione con ciò che l’altro prova, di pesante o di gioioso, per cui in qualche misura ci si “scioglie” nell’altro. 

Il contrario della tenerezza è, probabilmente, la violenza. La violenza degli indifferenti condannata da Martin Luther King, innanzitutto: ciò che tu provi – le tue passioni – non mi sfiorano neppure. Ma anche la violenza sadica: la mia passione più intensa è spegnere la tua vitalità, se c’è, e acuire la tua sofferenza, se c’è. 

Come un prisma dalle infinite sfaccettature, la violenza ha innumerevoli versioni. 

Forse la versione più appariscente è economico-sociale: il capitalismo predatorio che, in nome del profitto, spreme sino all’osso i prestatori d’opera. Non so se sia possibile ed auspicabile una società post-capitalistica, ma sono certo che, intanto, a questo capitalismo attuale bisogna assolutamente tagliare le unghie. 

Qualcuno, come Peppe Sini, sostiene da decenni che la violenza capitalistica non è la violenza basica, originaria: la madre di tutte le violenze sarebbe la violenza del sistema mentale e istituzionale del maschilismo patriarcale sulle donne. In effetti nella “catena della violenza” l’operaio umiliato in fabbrica, tornato a casa, può compensare le proprie frustrazioni prima di tutto maltrattando la compagna e i figli, soprattutto se piccoli.

Da qualche anno cerco di verificare se, a un livello ancor più radicale della violenza maschile sulle donne, non vi sia la violenza sistemica dello specismo antropocentrico che vede in tutti gli animali senzienti solo materia prima da cucinare. Non c’è stata mai un’epoca, nella storia dell’umanità, in cui gli esseri umani abbiano costretto altre creature senzienti a nascere in cattività, a crescere in condizioni di perenne sofferenza, a morire in maniera crudelissima. Gli allevamenti sono una sorta di lager nei quali ci assuefacciamo alla ‘spietatezza’ – all’assenza di pietas - cieca e sorda. Forse, allora, la diffusione degli animali da compagnia è più di una moda passeggera: inconsciamente avvertiamo che contemplare due cagnolini che giocano fra loro, o due gattini che riposano abbracciati, costituisce una preziosa occasione di sperimentare un po’ di tenerezza. E di ravvivare quel senso di umanità in noi sempre più flebile. 

 

Augusto Cavadi

 

·      Per l’edizione originaria con apparato iconografico linkare qui:

https://www.zerozeronews.it/il-valore-rivoluzionario-della-tenerezza/

giovedì 4 maggio 2023

APPUNTI PER UNA FENOMENOLOGIA DEI SICILIANI SECONDO ANTONINO CANGEMI


  









Davvero si può parlare di “sicilianità”, ovvero di una serie di tratti comuni che connota chi vive nell’Isola, rendendolo differente dagli altri? Di certo – nel cinema, soprattutto – si è posto eccessivamente l’accento su alcuni caratteri tipici dei siciliani, enfatizzandoli e costruendo stereotipi qualche volta caricaturali e folkloristici, ma è innegabile che ciascuna popolazione acquisisce e assume una propria identità derivante innanzitutto dal proprio contesto territoriale e storico. Ciò vale per i finlandesi come per i siciliani, le cui specificità caratteriali sono state sottolineate fin da tempi remoti risultando spiccate anche per l’insularità e per la posizione geografica della Sicilia al confine tra due continenti.

Marco Tullio Cicerone, ad esempio, colse nei siciliani lo spirito arguto ma anche sospettoso e una certa vocazione causidica, come pure l’inclinazione all’umorismo. Quando l’avvocato-filosofo di Arpino tratta del senso del ridicolo nel De oratore sottolinea il gusto per la battuta dei siciliani, che aveva conosciuto bene prima da questore a Lilibeo (l’odierna Marsala), poi girando l’isola per acquisire testimonianze utili nel giudizio contro Verre: «Per quanto le cose vadano male, ai siciliani non manca mai l’opportunità di uscirsene in qualche battuta spiritosa».

Saltando molto avanti nel tempo, nella seconda metà del XVI secolo Scipione Di Castro, quando Marco Antonio Colonna è nominato vicerè di Sicilia, scrive il pamphlet (come oggi lo definiremmo) Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia, mettendolo in guardia dai siciliani che si ritroverà nella propria corte: li descrive accorti e timorati quando trattano i propri affari privati, temerari e spavaldi quando maneggiano il denaro pubblico, e perciò abbastanza pericolosi.

Nel XIX secolo Guy de Maupassant notò nei siciliani l’austerità degli arabi e «una grande vivacità di spirito…orgoglio natale…fierezza e gli stessi caratteri del viso che lo avvicinano più allo Spagnolo che all’Italiano».  

Sicilia, di Giovanni Comisso (ph. Rudolf Pestalozzi, 1953)

Sicilia, di Giovanni Comisso (ph. Rudolf Pestalozzi, 1953)

Nel Novecento sulla natura dei siciliani vi sono pagine di alta letteratura, a partire dal colloquio del principe di Salina col funzionario sabaudo Chevalley nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria…», o dal discorso su Verga di Luigi Pirandello: «Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e anche quasi un’istintiva paura di essa…Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura, intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di questo aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé…», senza dimenticare le pagine di Sebastiano Aglianò autore del saggio che con più profondità indaga sulla psicologia degli isolani, Che cos’è questa Sicilia?, e quelle di Leonardo Sciascia che in Fatti diversi di storia letteraria e civile fornisce alla sua maniera una risposta a un interrogativo di fondo: «Alla domanda “Come si può essere siciliano?” un siciliano può rispondere: “Con difficoltà”».

Il tema, come si vede, è stato affrontato da fior di pensatori e letterati, e intriga sempre, anche quando viene trattato con leggerezza, senza la pretesa di dire qualcosa di nuovo rispetto a quanto sia già stato detto – il che, francamente, sarebbe assai difficile se non impossibile –, e senza alcun sussiego. Ed è con spirito di affabile levità, nella consapevolezza di quanto pericoloso sia pontificare sulla “sicilianità” e facile cadere nelle trappole dei luoghi comuni, che Augusto Cavadi ha scritto il breve saggio Sono siciliano ma poteva andarmi peggio edito da Di Girolamo (2022). Un libro nelle cui pagine scorre un filo sottile di ironia e di umorismo: un’ironia discreta e un umorismo garbato utili a stemperare discorsi che altrimenti risulterebbero gravosi o a sbollire la collera che ciascun siciliano legato alla propria terra prova dinanzi a malcostumi atavici e difficili da sradicare.

Corleone (ph. Sergio Larrain, anni 50)

Corleone (ph. Sergio Larrain, 1959)

L’ironia bonaria e sorniona di Cavadi si manifesta già negli iniziali piccoli paragrafi del primo capitolo Fenomenologia del siciliano nei quali si mette in risalto l’«invincibile senso dell’eccezionalità» dei siciliani e la loro tendenza a esagerare, qualcosa che – detto in toni volutamente minori – richiama il «siamo dèi» gattopardiano.

A proposito del Gattopardo, il libro di Cavadi nasce da una rubrica curata dall’autore in un interessante mensile che prende in prestito il titolo dal capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Il poliedrico saggista palermitano – un filosofo in pratica molto interessato ai temi teologici e della legalità che di tanto in tanto si lascia distrarre dalla saggistica divulgativa – ha già pubblicato, sempre per i tipi di Di Girolamo, i pamphlet La mafia spiegata ai turisti I siciliani spiegati ai turisti.

Sono siciliano ma poteva andarmi peggio – raccolta di articoli rivisitati – può considerarsi il completamento di una trilogia nata un po’ per piacere di divagazione, un po’ per tentare di coniugare istruzione e intrattenimento, educazione civica e scrittura accattivante, leggerezza e cultura.

Un libro di agevole e gradevole lettura, Sono siciliano ma poteva andarmi peggio, nel quale però non mancano arguzie e riflessioni tutt’altro che scontate. Come quella sulla doppia natura dei siciliani: materni nel pubblico e patriarcali nel privato. Secondo Cavadi, nei siciliani prevale l’indulgenza materna quando agiscono nella sfera pubblica, sicché sono pronti a perdonare l’evasore e l’intrallazzatore di conti pubblici, la durezza paterna negli affari privati quando vengono minacciati il senso dell’onore e la “roba”. In questo caso la sua ironia si fa amara e la sua constatazione rinvia, con qualche sfumatura differente, agli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia. 

Sicilia, di Giovanni Comisso (ph. Rudolf Pestalozzi), 1953

Sicilia, di Giovanni Comisso (ph. Rudolf Pestalozzi, 1953)

Il libro si fa apprezzare anche per pacatezza ed equilibrio. L’autore – in ciò per nulla un esempio di “sicilianità” – non esagera mai e non si lascia irretire dalle posizioni estreme e anzi, come suggerisce l’azzeccato titolo, cerca sempre una via mediana, non certo per evitare sbilanciamenti a qualcuno sgraditi o per inclinazione al compromesso, ma perché l’intelligenza gli suggerisce risposte diverse da quelle polarizzate verso cui si è comunemente spinti. Sicché dinanzi al conflitto tra chi tende ad amplificare i mali dell’Isola e chi, al contrario, magnifica i siciliani e la Sicilia condannando quelli che ne denunciano le storture, Cavadi ritiene che «solo una Sicilia raccontata nei pregi e nei difetti potrà preparare all’incontro con la Sicilia effettiva: che non è né un paradiso, ma neppure un inferno»›.

Parimenti Cavadi sconfessa un altro luogo comune, quello per il quale la Sicilia sarebbe una terra vittima da chi l’ha conquistata depredandola delle sue ricchezze. Ma se ciò è in parte vero, è pure vero che la Sicilia ha ricevuto dai tanti popoli che vi si sono insediati tante risorse che, nella pluralità delle civiltà succedutesi, hanno contribuito a creare quello spirito cosmopolita e tollerante che la contraddistingue, senza contare che la “sopraffazione” lamentata è stata possibile grazie alla complicità di quei siciliani che da essa hanno conseguito benefici.

Nel libro di Cavadi – come detto, da sempre impegnato in iniziative contro l’illegalità e la mafia – non poteva mancare un capitolo sulla legalità. Anche nella parte dedicata al tema della legalità, Cavadi fa piazza pulita dei luoghi comuni: la Sicilia non è solo mafia, come enfatizza una superficiale e distorta rappresentazione dell’Isola, né può disconoscersi la presenza, significativa e malefica, di Cosa nostra, un cancro che l’ha deformata e imbruttita, difficile da estirpare, contro cui però si agita una coscienza critica sempre più vigile ed estesa.

sicilialogoUn altro luogo comune ribaltato dall’autore è quello secondo il quale la Sicilia è una terra poco sicura per chi la visita a causa del proliferare della delinquenza comune. In verità questa diffusa convinzione era stata smentita già due secoli addietro da Maupassant che  nel diario del suo viaggio in Sicilia scriveva con gusto provocatorio: «Se ricercate le coltellate e gli arresti, andate a Parigi e a Londra, ma non venite in Sicilia», e nel primo decennio del Novecento da Sigmund Freud che in Sicilia trovò più di uno spunto per i suoi studi: «Devo vivamente contraddire l’impressione, che nutrivo pure io, che qui in Sicilia si sia per così dire fra selvaggi ed esposti a straordinari pericoli. Si hanno le stesse sensazioni e le stesse condizioni di vita che ci sono a Firenze e a Roma». Cavadi, per rassicurare i turisti, cita Gaetano Mosca che, oltre a essere stato uno dei politologi e sociologi italiani più acuti, fu uno dei primi studiosi del fenomeno mafioso: «…gli italiani del continente ed in generale tutti i forestieri che viaggiano od anche abitano in Sicilia sono quasi sempre rispettati dai malfattori, perché, non avendo il forestiero in generale rapporto con la classe delinquente, è difficile che contro di lui possa addursi il pretesto di una vendetta personale».

Di particolare interesse è l’ultimo capitolo del libro, I siciliani visti dagli altri. In esso si alternano le impressioni di imprenditori, registi, scrittori dei nostri giorni – l’americana Sally M. Veillette, il tedesco Wim Wenders autore del film Palermo shooting, la “milanese” Natalia Milazzo, lo studioso francese Philippe San Marco – con quelle di un noto autore del secolo scorso, Edmondo De Amicis, che visitò l’Isola nel 1906 consegnandoci nel suo reportage considerazioni oggi tuttora degni di nota, specie con riferimento all’individualismo del siciliano «dotato di facoltà intellettuali e morali ammirabili» cui fa da contraltare la sua renitenza all’associazionismo.

Chi nutre diffidenza verso i libri florilegio di articoli di stampa, leggendo Sono siciliano ma poteva andarmi peggio ha l’occasione per ricredersi: il libro ha una struttura saldamente unitaria, gli argomenti presi in esame sono felicemente collegati, il tono discorsivo – proprio di un giornalismo gradevole ancorché dotto (ma mai saccente) – conquista il lettore, lo coinvolge senza che se ne accorga in riflessioni tutt’altro che banali. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia e col quotidiano La ragione.