martedì 31 ottobre 2006

SUI DIFETTI E I PREGI DEI SICILIANI


“Repubblica - Palermo” 31.10.06

LUOGHI COMUNI TUTTI DA RIDERE

NATALIA MILAZZO
I siciliani
Sonda
Pagine 140
Euro 9,50

Curiosando fra le novità del Salone di Torino, lo sguardo mi è stato catturato da una copertina intrigante. Intanto per il nome della collana: Le guide xenofobe. Poi per il titolo: Siciliani. Guida ai migliori difetti e alle peggiori virtù. Infine per il risvolto con didascalia sull’autrice: “Metà milanese e metà siciliana, unisce con discreto successo i peggiori difetti di entrambi i popoli: ad esempio è sempre di corsa e permalosa”. Si poteva resistere al richiamo? Forse sì, ma ho ceduto. E ho fatto bene. Perché il libro è non solo divertente, ma anche istruttivo. E conferma il sospetto che, quando si vuole studiare seriamente un ‘oggetto’ un po’ ridicolo come siamo noi siciliani, lo strumento più adeguato sia proprio l’ironia.

La chiave nel sottotitolo del volume: Figli di un dio maggiore. Ciò che il principe Tancredi - secondo Giuseppe Tomasi di Lampedusa - raccomanda alla fidanzata Angelica (“Devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque”) è “il motto che ogni siciliano porta scolpito nel cuore, dalla nascita alla morte”. In contesto più serioso, Giovanni Falcone - per spiegare la difficoltà di fare fronte comune contro la mafia – citava un’opinione parallela del Gattopardo riguardante la convinzione di ogni siciliano di essere un semidio e di non poter dunque ridimensionarsi in un gioco di squadra. L’isolano come creatura eletta, speciale: siamo nella palude dei luoghi comuni? Forse. Ma, come mi argomentava l’antropologo (palermitano!) Alberto Cacopardo, se i luoghi comuni non avessero fondamento, non sarebbero diventati comuni.
D’altra parte, Natalia Milazzo si guarda bene dal dipingere monocromaticamente i suoi (quasi) corregionali: sa che ogni difetto è il risvolto di una virtù o, per lo meno, il prezzo che spesso bisogna pagare per esercitare qualche altra virtù. E’ vero, infatti, che il siciliano “non ha mai fretta perché non giudica niente al mondo tanto importante da scomodarlo”; è vero che “parla soprattutto di sé, conscio che ben pochi argomenti possono essere altrettanto interessanti”; ed è vero, conseguentemente, che “nei rari casi in cui è costretto ad ascoltare qualcun altro, mostra la massima indifferenza: con gli occhi socchiusi e il mento rivolto verso l’alto, fumando lentamente, evitando di guardare in faccia l’interlocutore, baderà soprattutto accuratamente a non esprimere la benché minima traccia di stupore o ammirazione”. Come è sacrosantamente vero che, se un amico gli comunica di aver vinto “il premio Nobel per la letteratura”, coglie l’occasione al volo per informare di aver fatto parte della giuria di un premio letterario di uno sperduto paesino di montagna e per dichiarare che “la letteratura ormai è morta e sopravvive soltanto nei piccoli centri”. Ma ciò lo rende odioso? Per nulla. Quello stesso senso di innata, spontanea, incosciente e infondata superiorità ci rende – molto spesso – generosi, ospitali, accoglienti: “intanto, non solo non vi scroccherà mai niente, ma litigherà per offrirvi sempre lui il caffé”; poi litigherà per avervi a pranzo e non vi presenterà mai gli avanzi del giorno prima, ma preparerà “il meglio del meglio” (anche se “cercherà con tutte le sue forze di farvi credere che una cena di otto portate, servita da due camerieri noleggiati per l’occasione, per lui sia la pura e semplice routine quotidiana)”.

Riquadro sull’autrice
Natalia Milazzo, milanese figlia di un siciliano, “come tutti i siciliani sostiene di discendere da una famiglia di antiche e nobili origini”. Di Milano ama “la Scala, Radio popolare e il fatto che non è stata disoccupata neppure un giorno della sua vita”; della Sicilia “ama assolutamente tutto, come chiunque ci vada esclusivamente in vacanza”. Ha studiato latino e greco, si è laureata in arte: e ciò, inutile per trovare lavoro, le ha insegnato “a godersi la vita”. Con la stessa casa editrice ha pubblicato Madri. I figli so’ piezz’e core (2000) e Alessandro Manzoni: più diavolo o più santo? (2003).

venerdì 27 ottobre 2006

IL CONVEGNO


“Centonove” 27 ottobre 2006

EUTANASIA E FORMAZIONE

A che conclusioni è arrivato il seminario sull’eutanasia organizzato qualche settimana fa a Petralia Sottana dalla scuola di formazione “G. Falcone” ? Ai lettori interessati potrebbero riuscire istruttive alcune considerazioni - sia pur telegrafiche - emerse dalla discussione.
Una prima considerazione, attestata dai medici presenti, riguarda l’iter formativo universitario: agli studenti si parla di diagnosi, prognosi e terapie ma si tace rigorosamente sulla morte. L’evento cruciale nella vita del malato viene rigorosamente tabuizzato: come si poteva diventare magistrato in Sicilia senza aver studiato neppure per un’ora la mafia, così si può diventare operatore sanitario (medico o paramedico) senza essere preparati a rapportarsi con l’esito infausto. Non si tratta, ovviamente, di un deficit puramente nozionistico: a mancare è un’alfabetizzazione emotiva così che ogni singolo terapeuta è costretto ad improvvisare il proprio modo di comunicare con il malato terminale e con la famiglia. Da qui la necessità, insistentemente evocata, di attivare luoghi e modalità per una duplice formazione: all’accompagnamento dei morenti sino al passo estremo e all’accompagnamento di chi - per professione o per legami di parentela o per scelta di volontariato – esercita tale accompagnamento.

Una seconda considerazione riguarda la prassi quasi unanime del “consenso informato”. Nonostante la normativa vigente, lo si riduce a pura formalità burocratica: nel Meridione - ma, a quanto pare, anche altrove in Italia - al paziente non vengono spiegate né la gravità della malattia né la gamma delle possibili terapie (con relativi effetti collaterali). In ossequio alla cultura dominante, che ha eletto la tecnologia a valore indiscutibile, si dà per scontata la disponibilità del malato ad ogni tipo di intervento meccanico invasivo pur di prolungare la vita biologica: poi, quando la spina è stata inserita, ci si pone il problema se staccarla o meno (e di chi debba assumersi la responsabilità di una scelta così drammatica). Ma se si ribaltasse l’impostazione? Se si desse per scontato che ognuno di noi vuole vivere e morire ‘naturalmente’, sì da sottoporre a terapie straordinarie solo coloro che ne facessero – a voce o per “testamento biologico” – esplicita richiesta? Nonostante il buon senso di queste prospettive, esse potrebbero entrare nella mentalità e nella pratica quotidiana solo a costo di spodestare i medici dal ruolo attuale di padroni del destino dei malati: una detronizzazione che toglierebbe loro il potere monopolistico di disporre del corpo sofferente altrui, ma li alleggerirebbe di ogni eccessiva responsabilità morale.
Questi princìpi orientativi appartengono alla cultura (più diffusa in ambienti confessionali) della “sacralità della vita” o (più diffusa in ambienti laici) della “qualità della vita”? Come è facile constatare, si tratta di criteri di giudizio e di comportamento che precedono ogni comoda ma fuorviante contrapposizione schematica. In realtà, quando non si usano le formule come manganelli ideologici per battaglie elettorali del tutto indifferenti alle tragedie personali, si scopre - è stata questa una terza considerazione emersa dalla discussione a Petralia – che credere davvero alla ‘sacralità’ della vita non è appannaggio esclusivo delle coscienze religiose e, soprattutto, che ciò non esclude - ma al contrario implica – un’attenzione alla ‘qualità’ della vita. Se la vita è sacra, lo è dappertutto ed interamente. Lo è dappertutto: nel caso dei malati di tumore, ma anche dei soldati mandati a combattere in nome della democrazia e dei civili falcidiati dai bombardamenti; ma anche delle madri africane prive di medicine contro l’Aids e dei bambini che non hanno cibo né acqua per sopravvivere; ma anche dei bovini allevati in condizioni disumane in vista della macellazione e dei volatili sterminati per passatempo…Sarebbe dunque, anche politicamente, opportuno chiedersi quanto sia giusto investire risorse finanziarie pubbliche affinché un ottantenne arrivi – zeppo di tubi ed aghi - a ottantadue anni senza preoccuparsi, prioritariamente, di evitare che una ragazza attenda dieci mesi per l’asportazione (tardiva) di un tumore maligno perché non ha il denaro per pagarsi la visita privata presso lo studio del primario ospedaliero. E se la vita è sacra, lo è in tutte le sue dimensioni: quando un soggetto ritiene di essere mortificato irreversibilmente nella sua esigenza di pensare, di esprimersi, di relazionarsi affettivamente al prossimo, di esercitare autonomamente le proprie attività fisiologiche, chi ha il diritto di imporgli la sopravvivenza in nome di princìpi teologici o etici o politici? Perché sarebbe sacra l’intangibilità materiale di un cuore che batte e non l’intangibilità spirituale di un cervello che ragiona e decide? E’ davvero paradossale: ci si aspetterebbe che a difendere ad oltranza la durata fisica della vita fossero, soprattutto, quanti pensano che l’uomo sia solo un grumo di materia destinata a dissolversi; invece sono, soprattutto, quelli che dichiarano di credere in una dimensione spirituale della persona e in suo futuro ultraterreno. E l’illogicità della mentalità comune arriva al punto da ritenere lecito alleviare con l’eutanasia ‘attiva’ le sofferenze di un cane perché è ‘solo’ un animale, ma illecito liberare un soggetto umano dalle stesse sofferenze con un’eutanasia anche solo ‘passiva’ perché, in virtù della sua dignità spirituale, è ‘più’ di un animale.
Insomma: siamo in un campo in cui il dialogo fra esseri ragionevoli è inquinato da pregiudizi e chiusure fanatiche. In questo scenario si aprono, però, spiragli di luce (e siamo ad una quarta ed ultima considerazione): un papa che, a un certo punto, rifiuta di sottoporsi ad accanimento terapeutico e grida il suo diritto di morire in pace; teologi cattolici che, prendendo le distanze dai monsignori telegenici, assumono un atteggiamento mentale molto elastico in fatto di eutanasia (almeno passiva); chiese cristiane, esterne al recinto cattolico, che vanno moltiplicando le prese di posizione ufficiali a favore di una libertà di dibattito sulla base non di diktat dogmatici quanto di argomenti razionali.

giovedì 26 ottobre 2006

UN LIBRO DI SALVATORE COSTANZA


“Repubblica - Palermo”
26.10.2006

I trapanesi e il fascismo

Quanto è cambiata la Sicilia da cento anni ad oggi? Intuitivamente lo immaginiamo un po’ tutti, ma una cosa è rispondere a naso e tutta un’altra argomentare sulla base di documenti criticamente filtrati. Insomma: rispondere con i metodi delle scienze storiche. Più precisamente: con i metodi della storia ‘locale’. Che spesso cede al provincialismo e merita, per questo, d’essere considerata la Cenerentola delle specializzazioni storiografiche; ma che, potenzialmente, ha una sua dignità ed una insostituibile funzione. Essa infatti si accosta analiticamente ai frammenti della vicenda umana: ma vede in ciascuno di questi una sorta di cifra attraverso cui leggere i contesti globali.

E’ grazie alla microstoria , dunque, che è possibile misurare il cammino - pur lento, accidentato e contraddittorio – che la Sicilia ha compiuto nell’ultimo secolo. E’ quanto ha provato, con paziente lavoro sulle fonti di prima mano e con risultati apprezzabili, il trapanese Salvatore Costanza con le vicende della sua città scandagliate - dopo altri volumi a partire dal XVI secolo – con un recente saggio (Trapani fra le due guerre, Di Girolamo Editore) sul ventennio tra la fine della prima guerra mondiale (1918) e l’inizio della seconda (1939). L’esordio del volume sa di attualità: la differenza di prezzo dei prodotti agricoli e ortofrutticoli dal produttore al consumatore è enorme, a vantaggio di intermediazioni commerciali speculative, se non proprio parassitarie. La gente soffre, prefetto e politici promettono rimedi, ma in effetti non cambia nulla. Neppure le agitazioni contadine del “biennio rosso” (1919 – 20) sortiscono effetti degni di nota. Anzi, no, alcuni effetti si registrano: stragi di sindacalisti, militanti socialisti, contadini inermi (a livello locale), quasi a concorrere, con conflitti simili in altre zone del Paese, all’avvento al governo del partito fascista (a livello nazionale).
I ceti abbienti di Trapani fascisti lo diventano secondo, per così dire, la tradizione cittadina: senza particolare entusiasmo (pare che nessuno dei numerosi squadristi trapanesi presenti a Napoli al congresso che decise la marcia su Roma del ’22 vi abbia poi partecipato effettivamente), con qualche pigrizia e molta capacità di sfruttare il nuovo regime. Secondo l’autore, persino nella fase ‘rivoluzionaria’ il fascismo dovette scendere a patti con il blocco dei grossi proprietari terrieri trapanesi: dunque, anche, con porzioni non trascurabili di mafiosi. Lo stesso “prefetto di ferro”, Cesare Mori, “durante la sua reggenza a Trapani (tra il 1924 e il 1925) si esercitò abilmente nel senso di colpire le attività extralegali, ma conservando la rete delle complicità mafiose nel ceto agrario”. Da questo connubio , più o meno sincero, tra regime fascista e notabili del conservatorismo locale si formò - o, secondo i casi, si rafforzò – il dominio di alcune famiglie i cui cognomi (Todaro, Salvo, Adragna, D’Alì…) ricorrono frequentemente pure nelle cronache odierne. Un dominio che, anche se – come nel caso dei D’Alì - originato da attività imprenditoriali di tipo marittimo, si trasformò inesorabilmente in imprese di terra (agricoltura e produzione del sale, soprattutto) e in iniziative finanziarie (come la “Banca Sicula”). Significativa in proposito la vicenda dei Florio: se nell’Ottocento Ignazio e Vincenzo Florio avevano acquistato dai Pallavicino di Genova le Egadi (promuovendo la pesca del tonno e l’attività ittico-conserviera), nel 1937 l’azienda ritornava a un’altra famiglia genovese, i Parodi, “segnando un significativo tragitto a ritroso verso il capitale settentrionale”.
Non mancarono le resistenze al regime, ma - come spesso accade dalle nostre parti - restarono atteggiamenti individuali (”l’otium dell’erudizione storica” di un Carlo Guida e di un Francesco De Stefano o “l’itinerario di fede attraverso la poesia colma di religiosità naturale” di un Andrea Tosto De Caro), senza diventare un fenomeno politicamente organizzato e socialmente rilevante.
Queste e simili traiettorie spiegano il destino di Trapani che, da porto animato e proiettato sulla vicina Africa (1912-14), diventa il capoluogo di un entroterra in cui si ricostituiscono i grossi latifondi a spese dei piccoli coltivatori diretti incapaci di mantenere gli appezzamenti acquistati a fatica nei primi decenni del XX secolo. Non fu senza conseguenze la decisione del regime di “sopprimere l’Istituto Nautico, che da cento anni formava capitani e macchinisti in gran numero per il naviglio mercantile”.
La storia raccontata da Costanzo in questo volume - corredato da un’ ampia documentazione fotografica - si ferma all’inizio della seconda guerra mondiale. Potrà l’autore (che ha già dato alle stampe nel 2005 Tra Sicilia e Africa. Storia di una città mediterranea e nel 2006 Cultura e informazione a Trapani fra Otto e Novecento) compiere un ultimo passo avanti sino alla fluida realtà odierna di una città a vocazione frustratamente mediterranea?

martedì 24 ottobre 2006

Ascoltate oggi la sua voce


“Repubblica - Palermo”
24.10. 06

AUTORI VARI

Ascoltate oggi la sua voce
Il pozzo di Giacobbe
Pagine 300
Euro 22

Poniamo che siate dei preti e che dobbiate preparare l’omelia domenicale. Oppure dei laici, credenti e praticanti, un po’ stanchi di ascoltare le solite prediche. Oppure, anche, dei laici che - pur non frequentando la messa settimanale - hanno curiosità di conoscere una spiegazione aggiornata delle letture bibliche. In tutti questi casi, e forse in altri ancora, questo libro - curato da Maurizio Muraglia - può riuscirvi davvero utile. Esso, infatti, raccoglie le riflessioni sui brani evangelici della liturgia cattolica (Anno C) maturate nell’ambito della comunità “Kairòs” di Palermo. Sono redatte quasi tutte da uomini e donne impegnate nel mondo delle professioni: da qui il tono, ed il taglio, assai poco clericale dei testi. Ma i lettori più ligi alle indicazioni magisteriali non hanno motivo di accostarsi a questi testi con riserva: infatti sono stati concepiti sotto l’occhio vigile e paterno di don Carmelo Torcivia, stimato docente di teologia pastorale, che - accompagnando il cammino dei suoi compagni di ricerca - ne ha garantito la sostanziale ortodossia.

domenica 22 ottobre 2006

La difficolta’ quotidiana di vivere in un luogo bello


Repubblica – Palermo 22.10.06

La difficolta’ quotidiana di vivere in un luogo bello

Che cosa rende fastidiosa la vita a Palermo? La risposta è meno facile di quanto si possa supporre. Metereologicamente, il clima è mite. Le strade non sono sporche come dieci o venti anni fa. Una recente inchiesta (pubblicata su “Venerdì” di “Repubblica”) ha appurato che gli abitanti, nonostante il cipiglio abitualmente corrucciato, sono fra i più gentili del mondo. Il costo della vita è, proporzionalmente, tra i più sostenibili d’Europa. La ricchezza artistica ed urbanistica - un centro storico tra i più belli e i più vasti d’Italia - è invidiabile ed invidiata dai visitatori che confessano candidamente la sorpresa di trovarsi davanti ad una realtà effettiva di gran lunga migliore dall’immagine che se n’erano creata a casa. Per non parlare del cibo, della rosticceria, dei dolci…

Eppure. Eppure vivere nel capoluogo siciliano per più di una settimana di seguito è pesante. Talora sfibrante. Ma cos’è che non va? Per dare nome a un sentimento, avvertito intensamente ma non decifrato lucidamente, ho provato a mettere in sequenza una serie di piccoli episodi che - poco significativi in sé stessi - finiscono con il comporre un quadro istruttivo. Una sorta di mosaico diabolicamente integrato.
Intanto l’ingresso in città, di ritorno da un viaggio. Da Villabate al Politeama è quasi una fila ininterrotta di automobili, anzi due file parallele. Alla nostra destra una corsia sarebbe rigorosamente riservata alle emergenze (in autostrada) e ai mezzi pubblici (in città) : di fatto è a disposizione dei furbi. Non di uno o due, come accade un po’ dappertutto; ma di decine, anzi di centinaia. E’ evidente che sanno di poter restare impuniti.
Il giorno dopo, coda di due ore e cinque minuti alle Poste centrali. Quando arriva infine il mio turno, l’addetta mi spiega che l’avviso di ritiro del pacco inesitato non è stato rilasciato da un loro postino bensì dall’incaricato di un’agenzia che lavora per conto delle Poste: dunque non è affidabile. Un’altra impiegata tenta di convincermi con argomenti deliranti: “E’ una vita che i nostri cartellini sono gialli, come fa a dar credito a un foglio rosso e bianco?”. Una terza cambia tattica: “Ha ragione, decine di clienti ogni giorno vengono qui tratti in inganno dall’invito che rilascia questa agenzia quando non trova in casa i destinatari. Pensi che anch’io, che lavoro da anni alle Poste, ci sono cascata…”. Mi sembra di impazzire. Chiedo del direttore che, come ogni buon dirigente, o non c’è per davvero o fa dire di non esserci. Ho perduto - se considero gli spostamenti da casa in via Roma e da via Roma a casa - l’intera mattinata e, per giunta, resto senza il mio plico: ma chi risponderà del disservizio? Chi pagherà per i danni non occasionali ma sistematici che ogni giorno decine di cittadini sono condannati a subire?
Due giorni dopo è la volta dell’Asl 6 di via Giacomo Cusmano. Arrivo alle 11,25 per chiedere l’appuntamento con un oculista: il numero lampeggiante sul display mi avverte che sono preceduto da 104 assistiti. Dopo un’ora, ne restano ancora 62. Mi rivolgo alla gentile signora dell’Ufficio “per le relazioni col pubblico e la tutela degli utenti” chiedendo perché funzioni uno solo dei due sportelli mentre, al di là dei vetri, quattro impiegati chiacchierano amabilmente. Lei stessa stenta a credere che ciò sia vero, va a segnalare il disagio dei tanti in attesa, torna allargando le braccia con un rassegnato: “Mi dispiace, mi hanno detto che non si può fare altrimenti”. Alle 13,35 - dopo due ore e dieci minuti - viene finalmente il mio turno e chiedo all’impiegato dietro lo sportello se sia normale ciò che è accaduto quella mattina. Mi risponde assertivamente e mi invita a protestare con il responsabile del servizio a causa della cui imperizia quasi ogni giorno pazienti e addetti arrivano allo stremo delle forze: peccato che - secondo copione - il responsabile è già andato via per la sacrosanta pausa prandiale…Anche in questo caso si è davanti ad una parete rocciosa inabbordabile: si resta come soffocati da un senso d’impotenza. Nessuno prenderà sul serio la tua ira, nessuno sarà chiamato a rendere conto del suo menefreghismo. A chi rivolgerti per avere giustizia, per evitare che altri - giorno dopo giorno - vengano calpestati nei loro diritti elementari? Più si sale nella scala gerarchica, più cresce nell’interlocutore la certezza dell’impunità. E allora ti ricordi della definizione che un personaggio di Dacia Maraini dà dell’inferno: una specie di Palermo senza pasticcerie.

venerdì 20 ottobre 2006

CUBA-SICILIA. PARAGONE IMPOSSIBILE?


Centonove 20.10.06

CUBA-SICILIA. PARAGONE IMPOSSIBILE?

La ragazza nera, molto bella, che ci guida per le stanze della caserma Moncada a Santiago di Cuba ci spiega perché il luogo in cui ha avuto inizio la rivoluzione castrista contro il regime di Batista sia diventato un museo. Con orgoglio racconta che qui ogni nuova generazione deve avvicendarsi per sapere quanto fosse crudele il fascismo e quanto sangue sia costata la liberazione da un regime dittatoriale che affamava la maggior parte degli abitanti pur di preservare i privilegi di pochi. All’uscita, aspettando il pullman all’ombra benefica di un albero, mi abbandono a sognare ad occhi aperti: ci sarà un giorno in cui, laggiù in Sicilia, una ragazza dai capelli neri potrà parlare al passato remoto di un sistema di potere mafioso che ha assassinato centinaia di sindacalisti, carabinieri, giudici, poliziotti, giornalisti, politici pur di difendere i privilegi delle cosche e della loro cerchia di ‘amici’? Magari, come da anni propone invano all’amministrazione comunale il Centro “Impastato”, accogliendo turisti e studenti isolani in una “Casa della memoria” dove venga riproposta, con serietà documentale, la più che secolare storia della mafia e dell’antimafia (dai Fasci siciliani di fine Ottocento alle associazioni antiracket operanti nel XXI secolo)?

Questi vagheggiamenti mi passeggiano per la mente nel resto della giornata. A sera accetto l’insistente offerta di uno spostamento dall’albergo al centro storico della città in risciò-bicicletta. Per i primi cinque minuti è più rilassante e istruttivo di quanto supponessi, come andare a piedi ma senza stancarsi; poi, nelle salite soprattutto, è troppo duro vedere un giovane trentenne pedalare con tutte le forze per portare due passeggeri quasi sulle spalle. Gli confidiamo il nostro disagio, ma lui risponde - con l’immancabile sorriso caraibico – che se gli avessimo risparmiato la fatica, per quella sera non avrebbe portato nulla da mangiare alla moglie e al figlioletto di cinque anni. Parla benissimo l’italiano, come molti suoi coetanei che - invece di spezzarsi le reni con le biciclette importate negli anni Novanta dalla Cina – preferiscono ronzare intorno ai turisti per offrire sigari contraffatti e ragazzine spigliate. A un certo punto, per caso, mi comunica che ha la patente di guida automobilistica. “Perché allora non provi a fare il taxista?” “Decide lo Stato chi ha questo diritto. E senza padrino, non si ottiene l’autorizzazione”. “Perché hai detto proprio ‘padrino’?” “Non si dice così? Voi avete i mafiosi, noi abbiamo i padrini”. “Ma se va a questo modo – obietto – la democrazia rivoluzionaria di Fidel Castro non è una vera democrazia!”. Altro sorriso sornione: “Di queste cose io non parlo”. Paura o piuttosto deferenza assoluta verso un mostro sacro?
Lo invito a fare una pausa al bar con una birra, gli accenno all’ “Associazione per l’amicizia Italia – Cuba” che ha organizzato il nostro viaggio e sposto la discussione su altri argomenti: dell’embargo statunitense verso il suo paese può parlare. Come si può parlare della catasta di frigoriferi sovietici dismessi per far posto ai più ecologici modelli giapponesi. Ma quando ci salutiamo non mi viene facile cancellare il passaggio della conversazione su padrini e mafiosi. Non c’è dubbio che la condizione media dei cubani sia migliore rispetto a cittadini di stati vicini (la povertà dei campesinos è intrisa di dignità e direi quasi di signorilità: nulla di comparabile, per quello che ho potuto constatare personalmente, con la miseria dei ‘senza terra’ brasiliani) e che non si notino, fra una classe e l’altra, le differenze abissali che anche da noi risultano offensive. Come non c’è dubbio che la Sicilia attuale sia mille miglia avanti rispetto al ventennio fascista e agli anni del secondo dopoguerra, quando – con un anno di anticipo sulla stessa Costituzione italiana – venne varato lo Statuto regionale. Ma è proprio inevitabile che ogni rivoluzione si fermi a metà? Forse - pur a partire da storie diverse e, dunque, con strade diverse davanti - Cuba e Sicilia hanno un compito assai simile: far diventare effettivi, e per tutti, quei diritti sociali che sono stati soltanto enunciati nelle loro Carte fondamentali.

A PARTIRE DAL CASO AGRIGENTO


“Repubblica - Palermo”
20.10.06

Pedofilia in parrocchia: il silenzio delle curie

Le notizie sull’andamento del processo giudiziario riguardante don Paolo Turturro rattristano. Chi conosce il personaggio e - pur non avendone condiviso tante esternazioni - sa che cosa ha rappresentato nel grigio panorama ecclesiale e civile palermitano, non può apprendere senza amarezza il resoconto delle accuse che gli rivolgono alcuni adolescenti della sua ex-parrocchia. Mentre su questo fronte si può ancora sperare in un dibattimento più ampio che possa portare ad una sentenza assolutoria, in un altro caso i giochi si sono chiusi il 7 luglio 2004 quando il tribunale ha condannato a 2 anni e sei mesi di reclusione il prete agrigentino don Bruno Puleo per abusi sessuali nei confronti di 7 ragazzi che frequentavano il seminario. La notizia di queste ore (riportata nell’ultimo numero di “Adista”, agenzia di stampa attenta al mondo religioso) è che il vescovo di Agrigento, mons. Carmelo Ferraro, ha risposto alla richiesta di risarcimento da parte di Marco Marchese, una delle sette vittime, con una controcitazione: pretende dalla vittima dell’abuso, di cui era a conoscenza, un risarcimento di 200.000 euro per i danni che la denuncia dell’abusato avrebbe arrecato all’immagine della Chiesa di Agrigento presso l’”opinione pubblica”.

Già nel 2000 l’ex-seminarista, fondatore di un’associazione per la lotta alla pedofilia (www.mobilitazionesociale.org), si era recato a colloquio con il vescovo per confidargli il proprio dramma, ma trovando solo un muro d’indifferenza. Nel 2006 gli si è rivolto, per una seconda volta, con una lettera aperta anche per chiedergli come mai il prete condannato fosse stato solo spostato di sede e gli fosse stata affidata una parrocchia (con i relativi bambini) di Palma di Montechiaro: ma neppure questa volta un accenno di comprensione né di autocritica da parte di mons. Ferraro. Da qui la decisione di affidare all’avvocato Salvino Pantuso l’incarico di citare in giudizio il vescovo, il rettore del seminario minore di Favara dell’epoca e, ovviamente, il prete molestatore. Ma, all’atto di citazione per danni presentato il 5 aprile 2006, la Curia agrigentina - per nulla intimorita, nonostante le ampie ammissioni in sede processuale - ha risposto con una controdenunzia del 30 maggio 2006, prodotta dall’avvocato Anna Mongiovi Gaziano, basata sulla premessa che ormai ogni risarcimento sarebbe caduto in prescrizione essendo trascorsi più di dieci anni ” dalla presunta commissione del fatto illecito”. Il vescovo, pur avendo dichiarato nel corso del processo di essere stato informato da Marchese degli abusi subiti da parte di don Bruno Puleo, ora definisce “destituite di ogni fondamento” le accuse che hanno portato alla condanna, a seguito di patteggiamento, dello stesso don Puleo, e quindi rigetta la richiesta di riconoscimento di “responsabilità solidale”. Nega inoltre che sussistesse un rapporto di dipendenza tra il condannato e la stessa Curia poiché, ai tempi, egli adempiva “il ruolo di semplice seminarista animatore”.
Come andrà a finire la querelle giudiziaria? Anche in questo caso l’ultima parola spetterà ai giudici. Come cittadini che cercano di capire, a noi spetta evitare qualsiasi ingenerosa generalizzazione: ci sono tanti preti che lavorano con i minori e per i minori mantenendo (nonostante una discutibile disciplina ecclesiastica che li obbliga al celibato) un comportamento ineccepibile. Di più: ce ne sono alcuni, come è stato il caso di don Baldassare Meli all’Albergheria di Palermo, che prendono il toro per le corna, denunziano a viso aperto i pedofili e ne ottengono la condanna in tribunale. Ma proprio il silenzio che da anni è seguito all’allontanamento del prete salesiano dall’Oratorio di S. Chiara conferma che l’abuso sui minori costituisce un tema vietato sia nel mondo cattolico che nella società. In questura ci hanno detto che, nonostante le apparenze, si continua a indagare su questi torbidi intrecci: sarebbe auspicabile che, ogni tanto, un’iniziativa giudiziaria marcasse la differenza fra riservatezza professionale e imperdonabile omertà.

martedì 17 ottobre 2006

“E PER PASSIONE LA FILOSOFIA”


Repubblica - Palermo 17.10.2006
Nino Alongi

LA FATICA DI PENSARE

Il ritorno alla filosofia: una moda o un bisogno? E l’interrogativo che Augusto Cavadi, l’autore dell’agile saggio E per passione la filosofia, si pone e pone ai lettori. Dalla lettura si evince chiaramente l’obiettivo che in fondo si intende perseguire: riproporre, avvalendosi di uno stile comunicativo ma senza mai scadere nella banalità, gli eterni temi dell’esistenza umana che la filosofia non risolve, ma tuttavia affronta, spesso con più lucidità della scienza, suscitando di volta in volta nella lettura reazioni diverse, ma che sempre alla fine coinvolgono. Nel saggio vengono ripercorsi con le domande di senso le risposte che i grandi della filosofia hanno dato. Il saggio è ricco di note e di riferimenti. Un intreccio sapiente di attualità e di dottrina, un gioco fatto di riflessioni dotte e di battute ironiche, “la fatica del pensare” che diventa stimolo - come direbbe Ludwig Wittgenstein - a pensare da sé. Il lettore, infatti, si ritrova alla fine, certamente con più dubbi che certezze, ma con una maggiore disponibilità alla lettura e alla riflessione. Completa il saggio una ricca bibliografia su temi filosofici di autori italiani e stranieri.

sabato 14 ottobre 2006

IL CONVEGNO DI VERONA


La Repubblica – Palermo
14.10.2006

I desideri dei cattolici siciliani

Dopo il Concilio Vaticano II (1963 – 1965) nella chiesa cattolica si è riaffacciata l’esigenza di momenti assembleari ‘allargati’ rispetto alle riunioni periodiche riservate ai cardinali (Concistori) o, se mai, ai rappresentanti dei vescovi (Sinodi). In Italia questa domanda di partecipazione democratica alla riflessione - se non ancora alle deliberazioni – della chiesa istituzionale si è concretizzata, sinora, in tre Convegni nazionali (aperti non solo, come di solito, ai vescovi delle trecento diocesi, ma anche a rappresentanti del clero, dei frati, delle suore e dei laici battezzati e praticanti). L’ultimo di questi tre Convegni nazionali è stato celebrato a Palermo nel 1995 e si è allora concluso con una visita di Giovanni Paolo II: il prossimo, dopo più di dieci anni, si svolgerà a Verona dal 16 al 20 ottobre sul tema “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”. Anche la Sicilia ha preparato un documento i cui principali contenuti saranno esposti e messi in circolo dai delegati affinché contribuiscano, nella dialettica complessiva, ad una sintesi di ciò che la chiesa cattolica italiana vuole essere, e vuole fare, nel prossimo decennio.

Il documento, che esprime – almeno ufficialmente – gli umori e le opinioni di 18 diocesi e di 1797 parrocchie, meriterebbe qualche momento di attenzione.
Un primo motivo di interesse è il nome del ‘testimone’ che, come ogni altra regione italiana, anche la Sicilia è stata chiamata a indicare quale modello emblematico: non un prete (per esempio don Pino Puglisi) ma un laico (il giudice Rosario Livatino). Uno che è morto ‘martire’ (sappiamo che questo vocabolo greco significa appunto ‘testimone’) non per difendere ‘valori cristiani’ in senso confessionale ma - più elementarmente e fondamentalmente – per rispettare sino in fondo i propri impegni professionali. Mi pare che la scelta della comunità ecclesiale siciliana parli chiaro: nessuna ostentazione di fedeltà al vangelo o di appartenenza alle organizzazioni cattoliche può esonerare il battezzato credente (soprattutto se esponente della Cosa pubblica) dal dovere di essere, prima di tutto e radicalmente, un cittadino esemplare.
Un secondo motivo d’interesse è che Rosario Levatino è caduto combattendo non l’illegalità e la corruzione in generale, ma il potere mafioso. Che - come illustra efficacemente il film Il giudice ragazzino - è anche killers e kalashinkof, ma prima di tutto combutta fra mandanti, dunque fra colletti bianchi e boss. Dunque il messaggio ‘ufficiale’ dei cattolici siciliani non è per nulla vago: la lealtà verso la Cosa pubblica non può non comportare l’estraneità rispetto a Cosa nostra, ai suoi capi e ai loro amici. Una tesi che comporterebbe molti interrogativi ‘pratici’ su come votare quando un candidato sotto processo per mafia (per quanto presunto innocente dal punto di vista giudiziario sino al momento della sentenza) risulta, già in sede di dibattimento e per sua stessa ammissione, legato con molti fili a imprenditori, funzionari regionali, poliziotti, medici e amministratori d’indubbia affiliazione mafiosa.

Da queste due indicazioni scaturiscono altri punti qualificanti del documento preparatorio: per esempio che, nella realtà siciliana, “dove permangono gravissimi problemi, come la disoccupazione e la sottoccupazione, le disfunzioni nei servizi sociali e sanitari, l’infiltrazione in tutti i territori di poteri mafiosi”, l’annuncio e la testimonianza evangelica “non possono avvenire in astratto, ma – rivolgendosi all’uomo nel suo vissuto quotidiano – devono aiutarlo a relativizzare le sue autosufficienze e risanare le sue ferite, favorendo ogni impegno per il bene, ed in particolare per il bene comune, ravvivando la speranza”. Intento, aggiunge il testo, che è condannato a restare velleitario qualora “la comunità cristiana” nel suo insieme non si sforzi “di capire ciò che accade, di confrontarsi al proprio interno e con tutti gli uomini di buona volontà, di cercare strade nuove e occasioni di dialogo con tutti”.
Su altri passaggi ci sarebbe da porre qualche obiezione ma già sarebbe tanto se vescovi, preti e fedeli-laici della nostra Isola provassero a trarre le conseguenze operative di questi loro stessi desideri. E seguissero il suggerimento biblico da cui uomini e donne di ogni orientamento ideologico sembriamo ancora distanti: “Non essere rivoluzionario con la lingua e poi fiacco ed inerte nell’azione” (Siracide, 4, 29).

venerdì 13 ottobre 2006

Cosa nostra e così sia


“Centonove” 13.10.06
Cosa nostra e così sia.
Note in margine di un cristiano valdese.

Su un treno da Torino in Sicilia
Giovane ventenne accettai l’invito di un mio caro amico a fare un viaggio con lui in Sicilia. Partivamo rispettivamente da Torino e da Bergamo. Ci incontrammo sul treno che da Milano si faceva chiamare pomposamente “Treno del Sole” o “Trinacria” o “Peloritano”, non ricordo bene. Ma il nome nascondeva la realtà di scompartimenti stracolmi di gente e di corridoi anch’essi pieni. Sedili di skay marroncino e gabinetti utilizzati per trovare un posto a sedere tra una visita e l’altra degli utilizzatori. Era il finire degli anni Settanta.
Il mio amico, di origini siciliane, era entusiasta all’idea di potermi spiegare il mondo da cui proveniva la sua famiglia e voleva farlo prima che attraversassimo lo Stretto. Giovane studente di storia alla facoltà di Lettere della Statale di Milano, cercava di infarcire il più possibile di citazioni il suo racconto. La sua famiglia proveniva da un grosso borgo dell’entroterra siciliano, particolarmente attraversato da grossi fenomeni di mafia per merito di alcuni compaesani assurti a livelli molto alti nell’organigramma di Cosa nostra.

Durante tutto il viaggio, che sarà durato probabilmente un giorno intero, il mio amico riuscì a farmi il quadro completo della storia (di mafia) di quel paese. Un giorno di viaggio voleva dire anche un giorno vissuto in un ambiente di 4 metri quadri condividendo con altre 6 persone tutti gli aspetti pratici della vita: il cibo, il sonno, le andate in “ritirata”, la sveglia ecc. Il tutto condito dagli odori forti di ciascuno di questi momenti. Non conservo ricordi particolari di quel soggiorno nel paese d’origine del mio amico. Forse perché poi ci sarei tornato tante di quelle volte che i fatti incominciano a sovrapporsi e a fondersi. In quel paese condussi persino una ricerca tra i braccianti per la mia tesi di laurea e venivo da lì quando decisi di sfracellare la motocicletta, gambe comprese, su una Opel Corsa bianca nei pressi di Gela.
Un solo fatto di quei giorni mi rimase stampato nella memoria.
Probabilmente era domenica mattina, periodo di Pasqua, aria piacevolmente tiepida, sole sulla grande piazza rettangolare. Andammo a prenderci un cannolo in quello che forse si chiamava “Cin cin bar”, di sicuro il miglior caffè del paese. Mentre andavo alla cassa a pagare un individuo più basso di me mi acchiappa i baffi e tirandomeli a destra e a sinistra mi fa: “E’ piccolo il mondo, vero Velluto?” Stupore, disagio, quasi paura per il fatto che lo sconosciuto conoscesse il mio nome, mi mettesse le mani addosso e, soprattutto, usasse quel tono da avvertimento.
Improvvisamente davanti ai miei occhi si parò la visione dello scompartimento del treno. Il mio amico che fa nomi e cognomi dei mafiosi del suo paese, che mi parla dell’enfiteusi e di tutto il resto. E sempre con noi, nello stesso scompartimento per tutto il viaggio, un omino piccolo e insignificante, discreto, che sta sempre in silenzio e che - se non mi avesse avvicinato in quel modo nel bar del paese - sarebbe scomparso dai miei ricordi. Sul treno nemmeno una parola per avvisare il mio amico che stava parlando troppo. Tanto sapeva che il mondo è piccolo…
Questo il mio primo incontro con la cultura mafiosa.
Ancora oggi non saprei dire se l’omino di cui sopra fosse un uomo d’onore o soltanto un onorato cittadino di quel paese disturbato del fatto che due giovani del Nord, senza capire la complessità della realtà siciliana, avessero parlato di mafia e mafiosi a voce alta nello scompartimento di un treno, senza nemmeno preoccuparsi della gente che era con loro.

Un libro di educazione antimafia a Torino
Perché vi ho voluto raccontare questo episodio? Perché Augusto Cavadi mi ha chiesto di venire qui al “Salone del libro” a parlare di educazione antimafia. Io vivo qui a Torino e il mio ruolo più importante da quindici anni a questa parte è quello di padre. Padre di un giovane adolescente di Torino che è stato in Sicilia una volta sola in vacanza. E anche lui, come suo padre quando aveva vent’anni, ha bisogno di essere educato genericamente alla libertà ed alla democrazia, ma al tempo stesso deve sapere cos’è il fenomeno mafioso. Per non beccarsi una pallottola piuttosto che una tiratina di baffi per aver parlato troppo. Ma anche solo per saper distinguere le infiltrazioni mafiose nella realtà civile ed economica della sua Torino.
Ma basterebbe leggere quello che scrive Augusto Cavadi a proposito del codice mafioso per capire che la conoscenza di questo codice culturale è indispensabile per poter permettere ad un adolescente di decodificare tutti i messaggi da cui è bombardato dai media, televisione e cinema in particolare. Ecco, se non diciamo che i valori di cui parla l’autore - e che permeano gran parte della nostra vita culturale - sono parte fondante del codice mafioso (dogmatismo, conformismo, maschilismo, parassitismo economico…) non è possibile fare alcuna pedagogia alternativa.
Ma l’aspetto del libro che mi preme maggiormente sottoporvi è quello relativo al ruolo delle chiese: usare il termine al ‘plurale’ viene spontaneo a me che sono un protestante, più precisamente un valdese.
Ritengo che il principale merito di Cavadi sia quello di mettere sul tappeto la questione, ovvero di considerare le chiese nella lotta alla mafia allo stesso livello delle famiglie, della scuola e delle altre associazioni civili. Ma se lui ha fatto questa scelta, mi sembra di poter dire che – da parte mia - non mi posso sottrarre dal porre alcuni interrogativi.

Sulle chiese e la mafia
Sulla chiesa cattolica chiederei, innanzitutto, quale sia il ruolo della teologia ufficiale e del concetto di mediazione nella formazione di una cultura mafiosa.
Ancora: perché il legame – storicamente accertato - della chiesa cattolica ufficiale e dei suoi uomini col potere politico? Tra l’altro, con un preciso potere politico spesso colluso con la mafia.
E poi: perché ci sono i martiri come don Pino Puglisi? Forse perché sono episodi isolati?
Un’ultima considerazione riguarda il fatto che, in epoca di secolarizzazione, anche per quel che riguarda la formazione e la trasmissione di “valori positivi” la Chiesa Cattolica ha poca capacità di incidere sulla morale quotidiana degli italiani.
Qualche altra osservazione riguarda invece il mondo delle chiese evangeliche protestanti.
Mi pare che, storicamente, esse siano state meno inquinate dall’ideologia mafiosa. Mi chiedo, se ciò è vero, quanto questo dipenda da una differente tradizione teologica che - da Lutero e Calvino in poi – accentua la responsabilità del cristiano anche nei confronti del mondo, della storia umana. E mi piace cogliere l’occasione per ricordare ai presenti, che vivono in Piemonte, come noi valdesi siamo riusciti in questi decenni a realizzare una piccola ma significativa presenza in Sicilia. Penso all’esperienza, che dura tuttora, del Centro diaconale della Noce di Palermo (non per caso avviata dal pastore Pietro Valdo Panascia che è l’autore di un celebre scambio epistolare pubblico con il cardinale Ernesto Ruffini proprio a proposito della necessità che i cristiani non chiudessero gli occhi sui delitti di mafia). E penso alle varie iniziative (cui ho avuto la gioia di partecipare in giovane età) organizzate dal Centro valdese di Riesi, in provincia di Caltanissetta, fondato dall’infaticabile pastore Vinay. Penso, infine, ai tanti momenti di impegno delle comunità valdesi meridionali nel lavoro di studio e di educazione antimafia, in collaborazione - sin dagli anni Ottanta - col Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” di Palermo.
In merito a tutte queste problematiche ho trovato illuminante la chiave di lettura che Cavadi propone in tutto il libro: l’essenziale è sviluppare un contesto educativo effettivamente “democratico”. Egli insiste su questa prospettiva contestuale: non avrebbe senso una strategia educativa antimafiosa che si concentrasse su esperienze specifiche e circoscritte (la “giornata antimafia” a scuola o la parrocchia antimafia o il centro sociale antimafia…) dimenticando l’interconnessione con tutti gli altri ambiti dell’educazione. E, aggiungerei io, della vita.
La difficile coerenza democratica
Ma che significa, in concreto, creare un contesto di coerenza ‘democratica’?
Intanto è una questione di coerenza personale. Ogni soggetto, specie se ricopre ruoli di rappresentanza, ha la responsabilità morale di non abusare del proprio potere; di essere trasparente nelle scelte; di rendere conto alla base (i cittadini, i fedeli, i familiari…) di come usa il denaro e le altre risorse comuni.
Tuttavia, al di là dei modelli comportamentali individuali, non si possono trascurare i modelli organizzativi con particolare riguardo al linguaggio - verbale e figurato – adottato. Faccio due esempi tratti dai costumi della chiesa cattolica. Il primo è positivo: mi riferisco al messaggio che passa in televisione quando si vede il Papa che fa la lavanda dei piedi. E’ un chiaro messaggio di umiltà, di servizio a cui si sottopone la massima autorità, un paradosso tipicamente cristiano degli ultimi che saranno i primi. Ma - questo secondo esempio è meno confortante - che dire quando i Vescovi e i Cardinali si fanno baciare vistosamente l’anello? In un’ottica mafiosa che feedback genera questo messaggio di sottomissione all’autorità?
Più radicalmente, penso che una struttura organizzativa generale di tipo gerarchico - come la struttura ecclesiale cattolica - non può creare un contesto socioculturale della stessa valenza di una chiesa organizzata democraticamente (come è il caso delle chiese protestanti). E questo lo affermo sempre in un’ottica di educazione antimafia, ovviamente, senza entrare nel merito delle dispute teologiche.

Vocazione e testimonianza
In uno dei capitoli che preferisco, quello in cui si spiega come sia possibile combattere l’uso delle sostanze stupefacenti, Cavadi prova a schizzare i lineamenti di una cultura alternativa alla dominante (che, di fatto e non per caso, incoraggia l’uso delle droghe): una cultura dell’indipendenza di giudizio, dell’impegno responsabile, del piacere creativo, della diversità e della solidarietà.
In particolare, a proposito della cultura dell’impegno responsabile, chiede agli educatori di mostrare come solo gli uomini e le donne che hanno avuto una passione nella vita sono riusciti a evitare la banalità delle dipendenze psichiche e a lasciare una traccia di sé nella storia. Vorrei sottolineare questo passaggio: ci preoccupiamo abbastanza che nei nostri figli non venga meno l’amore alla vita?
Natalie Ginzburg, citata in proposito, l’ha saputo dire bene: avere amore alla vita significa scoprire la propria vocazione, lasciarsi afferrare da « una passione ardente ed esclusiva per qualcosa che non abbia nulla da vedere col denaro, la consapevolezza di poter fare una cosa meglio degli altri, e amare questa cosa al di sopra di tutto », sino al punto che questa passione possa «divorare tutto quanto è futile e provvisorio».
Se questo è vero per tutti, è ancora più vero per i cristiani che hanno da riscoprire la loro vocazione di credenti del Terzo millennio impegnati nella lotta alle idolatrie. E quale idolatria maggiore di quella che pone un “padrino” al centro della propria vita al posto di Gesù Cristo?
Ma la vocazione si esprime, prima o poi, in testimonianza pubblica. Secondo Cavadi, nella lotta alla mafia, l’informazione non basta. Da qui l’importanza della testimonianza come modello di vita alternativo: “Che, dopo anni di silenzio, nelle scuole o nelle associazioni, si cominci a parlare di mafia è certamente (purché si rispettino dei livelli minimi di ‘scientificità’) un passo avanti. Tuttavia, quando si ritiene di attuare educazione antimafiosa solo perché si informa sulla storia della mafia e sulla sua struttura, magari col tono misurato e compassato di chi ha studiato un oggetto strano ed estraneo, molto probabilmente ci s’illude soltanto. Da qui l’importanza della testimonianza come modello di vita alternativo a quello ‘incarnato’, con forza persuasiva, dai boss e dai loro gregari: una testimonianza che se resta isolata rischia di apparire, agli occhi dei giovani, velleitaria se non addirittura autolesionistica e che perciò sarà tanto più efficace quanto più ‘corale’ da parte degli adulti”.
Anche questo punto, valido per tutti, è risuonato in me valdese in modo particolare. Le chiese e i credenti hanno il dovere civile e religioso di riscoprire la propria vocazione e di rendere testimonianza, attraverso la propria vita, dell’amore di Gesù Cristo che paradossalmente si è fatto povero e si è fatto giudicare ed uccidere perché tutti noi potessimo vivere di una vita abbondante:
“Il ladro non viene se non per rubare e ammazzare e distruggere; Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (esuberanza)” (Giov. 10:10).

Sergio Velluto
(Collaboratore della rivista televisiva “Protestantesimo”)

martedì 10 ottobre 2006

SCAFFALE


STILOS
10.10.2006

Augusto Cavadi
E per passione la filosofia
pp. 187
Donzelli 2006

Sottotitolo provocatorio per il saggio di cavadi, docente di filosofia in un liceo di Palermo, “Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze”, ovvero la filosofia, una disciplina che non è al servizio di nulla e che pure “serve” alla poesia, alla mistica, alla politica, alla lettura. Oggi che poi è tornata di moda, dopo alcuni decenni di eclissi, è giusto spiegare come si “pensa” e perchè l’uomo e la donna della strada dovrebbero filosofare pur occupandosi abitualmente d’altro nella vita.