“Centonove” 13.10.06
Cosa nostra e così sia.
Note in margine di un cristiano valdese.
Su un treno da Torino in Sicilia
Giovane ventenne accettai l’invito di un mio caro amico a fare un viaggio con lui in Sicilia. Partivamo rispettivamente da Torino e da Bergamo. Ci incontrammo sul treno che da Milano si faceva chiamare pomposamente “Treno del Sole” o “Trinacria” o “Peloritano”, non ricordo bene. Ma il nome nascondeva la realtà di scompartimenti stracolmi di gente e di corridoi anch’essi pieni. Sedili di skay marroncino e gabinetti utilizzati per trovare un posto a sedere tra una visita e l’altra degli utilizzatori. Era il finire degli anni Settanta.
Il mio amico, di origini siciliane, era entusiasta all’idea di potermi spiegare il mondo da cui proveniva la sua famiglia e voleva farlo prima che attraversassimo lo Stretto. Giovane studente di storia alla facoltà di Lettere della Statale di Milano, cercava di infarcire il più possibile di citazioni il suo racconto. La sua famiglia proveniva da un grosso borgo dell’entroterra siciliano, particolarmente attraversato da grossi fenomeni di mafia per merito di alcuni compaesani assurti a livelli molto alti nell’organigramma di Cosa nostra.
Durante tutto il viaggio, che sarà durato probabilmente un giorno intero, il mio amico riuscì a farmi il quadro completo della storia (di mafia) di quel paese. Un giorno di viaggio voleva dire anche un giorno vissuto in un ambiente di 4 metri quadri condividendo con altre 6 persone tutti gli aspetti pratici della vita: il cibo, il sonno, le andate in “ritirata”, la sveglia ecc. Il tutto condito dagli odori forti di ciascuno di questi momenti. Non conservo ricordi particolari di quel soggiorno nel paese d’origine del mio amico. Forse perché poi ci sarei tornato tante di quelle volte che i fatti incominciano a sovrapporsi e a fondersi. In quel paese condussi persino una ricerca tra i braccianti per la mia tesi di laurea e venivo da lì quando decisi di sfracellare la motocicletta, gambe comprese, su una Opel Corsa bianca nei pressi di Gela.
Un solo fatto di quei giorni mi rimase stampato nella memoria.
Probabilmente era domenica mattina, periodo di Pasqua, aria piacevolmente tiepida, sole sulla grande piazza rettangolare. Andammo a prenderci un cannolo in quello che forse si chiamava “Cin cin bar”, di sicuro il miglior caffè del paese. Mentre andavo alla cassa a pagare un individuo più basso di me mi acchiappa i baffi e tirandomeli a destra e a sinistra mi fa: “E’ piccolo il mondo, vero Velluto?” Stupore, disagio, quasi paura per il fatto che lo sconosciuto conoscesse il mio nome, mi mettesse le mani addosso e, soprattutto, usasse quel tono da avvertimento.
Improvvisamente davanti ai miei occhi si parò la visione dello scompartimento del treno. Il mio amico che fa nomi e cognomi dei mafiosi del suo paese, che mi parla dell’enfiteusi e di tutto il resto. E sempre con noi, nello stesso scompartimento per tutto il viaggio, un omino piccolo e insignificante, discreto, che sta sempre in silenzio e che - se non mi avesse avvicinato in quel modo nel bar del paese - sarebbe scomparso dai miei ricordi. Sul treno nemmeno una parola per avvisare il mio amico che stava parlando troppo. Tanto sapeva che il mondo è piccolo…
Questo il mio primo incontro con la cultura mafiosa.
Ancora oggi non saprei dire se l’omino di cui sopra fosse un uomo d’onore o soltanto un onorato cittadino di quel paese disturbato del fatto che due giovani del Nord, senza capire la complessità della realtà siciliana, avessero parlato di mafia e mafiosi a voce alta nello scompartimento di un treno, senza nemmeno preoccuparsi della gente che era con loro.
Un libro di educazione antimafia a Torino
Perché vi ho voluto raccontare questo episodio? Perché Augusto Cavadi mi ha chiesto di venire qui al “Salone del libro” a parlare di educazione antimafia. Io vivo qui a Torino e il mio ruolo più importante da quindici anni a questa parte è quello di padre. Padre di un giovane adolescente di Torino che è stato in Sicilia una volta sola in vacanza. E anche lui, come suo padre quando aveva vent’anni, ha bisogno di essere educato genericamente alla libertà ed alla democrazia, ma al tempo stesso deve sapere cos’è il fenomeno mafioso. Per non beccarsi una pallottola piuttosto che una tiratina di baffi per aver parlato troppo. Ma anche solo per saper distinguere le infiltrazioni mafiose nella realtà civile ed economica della sua Torino.
Ma basterebbe leggere quello che scrive Augusto Cavadi a proposito del codice mafioso per capire che la conoscenza di questo codice culturale è indispensabile per poter permettere ad un adolescente di decodificare tutti i messaggi da cui è bombardato dai media, televisione e cinema in particolare. Ecco, se non diciamo che i valori di cui parla l’autore - e che permeano gran parte della nostra vita culturale - sono parte fondante del codice mafioso (dogmatismo, conformismo, maschilismo, parassitismo economico…) non è possibile fare alcuna pedagogia alternativa.
Ma l’aspetto del libro che mi preme maggiormente sottoporvi è quello relativo al ruolo delle chiese: usare il termine al ‘plurale’ viene spontaneo a me che sono un protestante, più precisamente un valdese.
Ritengo che il principale merito di Cavadi sia quello di mettere sul tappeto la questione, ovvero di considerare le chiese nella lotta alla mafia allo stesso livello delle famiglie, della scuola e delle altre associazioni civili. Ma se lui ha fatto questa scelta, mi sembra di poter dire che – da parte mia - non mi posso sottrarre dal porre alcuni interrogativi.
Sulle chiese e la mafia
Sulla chiesa cattolica chiederei, innanzitutto, quale sia il ruolo della teologia ufficiale e del concetto di mediazione nella formazione di una cultura mafiosa.
Ancora: perché il legame – storicamente accertato - della chiesa cattolica ufficiale e dei suoi uomini col potere politico? Tra l’altro, con un preciso potere politico spesso colluso con la mafia.
E poi: perché ci sono i martiri come don Pino Puglisi? Forse perché sono episodi isolati?
Un’ultima considerazione riguarda il fatto che, in epoca di secolarizzazione, anche per quel che riguarda la formazione e la trasmissione di “valori positivi” la Chiesa Cattolica ha poca capacità di incidere sulla morale quotidiana degli italiani.
Qualche altra osservazione riguarda invece il mondo delle chiese evangeliche protestanti.
Mi pare che, storicamente, esse siano state meno inquinate dall’ideologia mafiosa. Mi chiedo, se ciò è vero, quanto questo dipenda da una differente tradizione teologica che - da Lutero e Calvino in poi – accentua la responsabilità del cristiano anche nei confronti del mondo, della storia umana. E mi piace cogliere l’occasione per ricordare ai presenti, che vivono in Piemonte, come noi valdesi siamo riusciti in questi decenni a realizzare una piccola ma significativa presenza in Sicilia. Penso all’esperienza, che dura tuttora, del Centro diaconale della Noce di Palermo (non per caso avviata dal pastore Pietro Valdo Panascia che è l’autore di un celebre scambio epistolare pubblico con il cardinale Ernesto Ruffini proprio a proposito della necessità che i cristiani non chiudessero gli occhi sui delitti di mafia). E penso alle varie iniziative (cui ho avuto la gioia di partecipare in giovane età) organizzate dal Centro valdese di Riesi, in provincia di Caltanissetta, fondato dall’infaticabile pastore Vinay. Penso, infine, ai tanti momenti di impegno delle comunità valdesi meridionali nel lavoro di studio e di educazione antimafia, in collaborazione - sin dagli anni Ottanta - col Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” di Palermo.
In merito a tutte queste problematiche ho trovato illuminante la chiave di lettura che Cavadi propone in tutto il libro: l’essenziale è sviluppare un contesto educativo effettivamente “democratico”. Egli insiste su questa prospettiva contestuale: non avrebbe senso una strategia educativa antimafiosa che si concentrasse su esperienze specifiche e circoscritte (la “giornata antimafia” a scuola o la parrocchia antimafia o il centro sociale antimafia…) dimenticando l’interconnessione con tutti gli altri ambiti dell’educazione. E, aggiungerei io, della vita.
La difficile coerenza democratica
Ma che significa, in concreto, creare un contesto di coerenza ‘democratica’?
Intanto è una questione di coerenza personale. Ogni soggetto, specie se ricopre ruoli di rappresentanza, ha la responsabilità morale di non abusare del proprio potere; di essere trasparente nelle scelte; di rendere conto alla base (i cittadini, i fedeli, i familiari…) di come usa il denaro e le altre risorse comuni.
Tuttavia, al di là dei modelli comportamentali individuali, non si possono trascurare i modelli organizzativi con particolare riguardo al linguaggio - verbale e figurato – adottato. Faccio due esempi tratti dai costumi della chiesa cattolica. Il primo è positivo: mi riferisco al messaggio che passa in televisione quando si vede il Papa che fa la lavanda dei piedi. E’ un chiaro messaggio di umiltà, di servizio a cui si sottopone la massima autorità, un paradosso tipicamente cristiano degli ultimi che saranno i primi. Ma - questo secondo esempio è meno confortante - che dire quando i Vescovi e i Cardinali si fanno baciare vistosamente l’anello? In un’ottica mafiosa che feedback genera questo messaggio di sottomissione all’autorità?
Più radicalmente, penso che una struttura organizzativa generale di tipo gerarchico - come la struttura ecclesiale cattolica - non può creare un contesto socioculturale della stessa valenza di una chiesa organizzata democraticamente (come è il caso delle chiese protestanti). E questo lo affermo sempre in un’ottica di educazione antimafia, ovviamente, senza entrare nel merito delle dispute teologiche.
Vocazione e testimonianza
In uno dei capitoli che preferisco, quello in cui si spiega come sia possibile combattere l’uso delle sostanze stupefacenti, Cavadi prova a schizzare i lineamenti di una cultura alternativa alla dominante (che, di fatto e non per caso, incoraggia l’uso delle droghe): una cultura dell’indipendenza di giudizio, dell’impegno responsabile, del piacere creativo, della diversità e della solidarietà.
In particolare, a proposito della cultura dell’impegno responsabile, chiede agli educatori di mostrare come solo gli uomini e le donne che hanno avuto una passione nella vita sono riusciti a evitare la banalità delle dipendenze psichiche e a lasciare una traccia di sé nella storia. Vorrei sottolineare questo passaggio: ci preoccupiamo abbastanza che nei nostri figli non venga meno l’amore alla vita?
Natalie Ginzburg, citata in proposito, l’ha saputo dire bene: avere amore alla vita significa scoprire la propria vocazione, lasciarsi afferrare da « una passione ardente ed esclusiva per qualcosa che non abbia nulla da vedere col denaro, la consapevolezza di poter fare una cosa meglio degli altri, e amare questa cosa al di sopra di tutto », sino al punto che questa passione possa «divorare tutto quanto è futile e provvisorio».
Se questo è vero per tutti, è ancora più vero per i cristiani che hanno da riscoprire la loro vocazione di credenti del Terzo millennio impegnati nella lotta alle idolatrie. E quale idolatria maggiore di quella che pone un “padrino” al centro della propria vita al posto di Gesù Cristo?
Ma la vocazione si esprime, prima o poi, in testimonianza pubblica. Secondo Cavadi, nella lotta alla mafia, l’informazione non basta. Da qui l’importanza della testimonianza come modello di vita alternativo: “Che, dopo anni di silenzio, nelle scuole o nelle associazioni, si cominci a parlare di mafia è certamente (purché si rispettino dei livelli minimi di ‘scientificità’) un passo avanti. Tuttavia, quando si ritiene di attuare educazione antimafiosa solo perché si informa sulla storia della mafia e sulla sua struttura, magari col tono misurato e compassato di chi ha studiato un oggetto strano ed estraneo, molto probabilmente ci s’illude soltanto. Da qui l’importanza della testimonianza come modello di vita alternativo a quello ‘incarnato’, con forza persuasiva, dai boss e dai loro gregari: una testimonianza che se resta isolata rischia di apparire, agli occhi dei giovani, velleitaria se non addirittura autolesionistica e che perciò sarà tanto più efficace quanto più ‘corale’ da parte degli adulti”.
Anche questo punto, valido per tutti, è risuonato in me valdese in modo particolare. Le chiese e i credenti hanno il dovere civile e religioso di riscoprire la propria vocazione e di rendere testimonianza, attraverso la propria vita, dell’amore di Gesù Cristo che paradossalmente si è fatto povero e si è fatto giudicare ed uccidere perché tutti noi potessimo vivere di una vita abbondante:
“Il ladro non viene se non per rubare e ammazzare e distruggere; Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (esuberanza)” (Giov. 10:10).
Sergio Velluto
(Collaboratore della rivista televisiva “Protestantesimo”)