“Associazione maestri di speranza”
“Centro servizi di volontariato dei due mari”
Reggio Calabria 18 settembre 2009
“Filosofia di strada: il diritto di pensare appartiene a tutti”
Conversazione con Augusto Cavadi
Un titolo un po’ spiazzante
Forse sarete rimasti un po’ sconcertati del titolo della conversazione di oggi e mi pare un miracolo che, in tanti, vi siate lasciati convocare in una sera estiva ancora così tiepida e luminosa. Lo chiarisco dunque subito per evitare equivoci: la filosofia che vorrei presentarvi non ha quasi nulla in comune con la materia scolastica che qualcuno di voi ha studiato a suo tempo. A scuola, quando va bene, si studia la storia della filosofia, dunque la filosofia degli altri prima di noi; qui vorrei parlare della filosofia che ciascuno di noi possiede, più o meno consapevolmente, e in base alla quale dirige le proprie azioni quotidiane. Vorrei parlarvi non dell’utilità di studiare libri, nomi famosi, date (anche questo, in piccole dosi, può avere un senso); bensì della necessità di attivare la vostra testa per capire la vostra vita. Vorrei parlarvi di quella modalità di intendere la filosofia che, dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, in Germania, Gerd Achenbach ha chiamato Philosophische praxis e che in Italia un certo numero di filosofi chiamiamo filosofia praticata o filosofia-in-pratica. O, come mi ha suggerito un’amica salvadoregna che vive facendo l’artista di strada, filosofia di strada.
Questa modalità del filosofare vorrebbe liberare la filosofia dalla prigione dorata in cui la stragrande maggioranza dei filosofi degli ultimi tre secoli l’ha segregata. Mentre si studia medicina per curare i non-medici o architettura per progettare le case dei non-architetti, lo studio della filosofia non ha alcuna ricaduta - almeno diretta - sul mondo dei non-filosofi. C’è qualcosa di patologico o, per lo meno, di strano: i filosofi si autoriproducono di generazione in generazione senza che mai la società intorno a loro fruisca dei prodotti del loro mestiere. Ecco perché alcuni, sin dal giorno della laurea in filosofia, abbiamo pensato che i nostri interlocutori fossero sì i maestri che ci avevano introdotto alla filosofia, i colleghi, gli alunni…ma anche le donne e gli uomini della strada, che faticano dalla mattina alla sera impegnati in attività che non hanno nulla a che fare con lo studio della storia della filosofia. Essi hanno però domande, si pongono interrogativi: perché non offrire una sponda con cui interfacciarsi? Perché non mettere la propria esperienza di riflessione e di ragionamento a servizio di quelle persone che, sia da sole sia in gruppo, vogliono riflettere criticamente sui dilemmi che incontrano nel cammino dell’esistenza?
Il contesto storico-culturale
Questa sera forse possiamo provare a sperimentare una riflessione di gruppo di tipo filosofico, anche se non sarà facile per tutti superare timidezze e pudori sino al punto da esporsi con sincerità. E’ un modo per farvi vedere, in concreto, come potrebbe svolgersi una ‘pratica filosofica’ con non-filosofi di professione quali siete la stragrande maggioranza dei presenti.
Non conoscendo nessuno di voi prima di arrivare a Reggio, non ho potuto scegliere - come di solito preferisco - che sia il gruppo a individuare un tema che gli sta a cuore. Con un piccolo sforzo immaginativo, ho supposto che - trattandosi in genere di persone impegnate a vario titolo nel sociale - vi potesse interessare partire dalla fase storico-culturale che ci troviamo ad attraversare. Spero che non siate tra quelle persone che si spendono generosamente per gli altri, ma hanno paura di sostare; di fermarsi qualche volta in silenzio; di chiedersi il senso del loro agire. In fondo, sono venuto da Palermo essenzialmente per questo: mettervi una pulce nell’orecchio, farvi emergere il sospetto che pensiero e prassi devono intrecciarsi continuamente. Un pensare senza azione è sterile, lo sappiamo bene; non dobbiamo dimenticare, però, che un agire senza un pensiero progettante può essere non solo inefficace, ma addirittura controproducente. Moltiplichiamo gli impegni, le riunioni, le iniziative perché l’urgenza ce lo impone: ma qualche volta non è invece la nevrosi, la paura di scoprire che non abbiamo meditato abbastanza sulle motivazioni radicali del nostro donarci? Questa sera vogliamo regalarci una pausa: per verificare se agiamo per consapevolezza o per alienazione.
Tre paradossi
Solo come input iniziale, solo per offrire una base di partenza alla nostra discussione (che mi auguro con-divisa: per filosofare, come per fare l’amore, bisogna essere almeno in due!), proporrei di interrogarci sulla situazione spirituale della nostra epoca. E poiché una diagnosi completa, esauriente, non è neppure ipotizzabile, mi accontenterei di evidenziare tre paradossi.
Il primo paradosso l’ha espresso efficacemente ….”Siamo la prima generazione che non sa che ci sta a fare sulla terra”. Abbiamo perfezionato, con la tecnica, il come abitare il pianeta, ma abbiamo rinnegato ogni risposta riguardante il perché. Religioni, filosofie, ideologie politiche sfornavano risposte probabilmente false o inadeguate o distorte: abbiamo fatto bene a liberarcene, almeno per molti versi. Ma che cosa abbiamo in sostituzione? Quali criteri di conoscenza e quali principi di orientamento etico? Davvero riteniamo che si possa decidere di sposarsi o di militare in un sindacato o di fondare un partito politico senza una fondazione culturale, senza punti di riferimento ‘filosofici’?
Quando l’esistenzialismo ha messo in evidenza la difficoltà di trovare un senso alla vita - anche perché, secondo molti, questo senso non c’è e se mai dobbiamo inventarcelo - la società occidentale ha avuto dei sussulti, delle reazioni. Ma, in pochi decenni, è come se ci fossimo assuefatti a questa condizione inedita nella storia plurimillenaria dell’umanità. E’ in questa rassegnazione che vedrei un secondo paradosso:: accettiamo come ‘ovvio’ che l’esistenza dell’essere umano (come singolo e come specie) non abbia senso; che la felicità sia impossibile; che la giustizia e la libertà non possano caratterizzare gli assetti socio-politici del globo. Abbiamo imparato a convivere con l’assurdo.
Voglio essere chiaro: non sto dicendo che invece la vita ha senso, la felicità è possibile, la giustizia e la libertà si realizzeranno sulla terra. Non sono domande a cui si può rispondere con slogan in dieci minuti (ammesso che vi si possa rispondere…). Sto solo dicendo che mi pare grottesco accettare questa assenza di significati, questa eclissi di ‘valori’, senza battere ciglio. Su uno di noi è arrivato al nichilismo dopo aver letto qualcosa, riflettuto qualche ora, conversato con qualche amico, allora la sua posizione merita rispetto: non altrettanto se è nichilista per caso. Così come altri sono cattolici o musulmani o comunisti o fascisti per caso.
Ma chi avrebbe il dovere sociale di porre queste domande, di sollevare questi interrogativi di fondo? Tocco qui il terzo - ed ultimo - paradosso che mi è sembrato di osservare nella società attuale. Viviamo l’assenza di ‘punti fermi’, di costellazioni, di bussole come ovvia: e chi dovrebbe problematizzare l’ovvio o non lo fa o lo fa nei salotti esclusivi. Gli intellettuali (artisti, poeti, giornalisti, registi, filosofi…) siamo privilegiati, per doti di natura e per censo: abbiamo perciò dei debiti nei confronti dei concittadini che sudano otto ore al giorno, che producono, che ci mantengono materialmente. Come si giustifica questo privilegio se non perché siamo - dovremmo essere - i “funzionari dell’umanità“? Chi di noi è studente o insegnante o svolge qualche altra professione riflessiva dovrebbe avvertire la responsabilità sociale di mettere in discussione i dogmi del ‘pensiero unico’: invece ci dedichiamo, auto-referenzialmente, alla nostra carriera privata e, se mai, alla perpetuazione della casta cui apparteniamo.
Che fare?
Se ho accennato ad alcuni paradossi del nostro tempo non è per piangerci addosso né, tanto meno, per rimpiangere età dell’oro passate che, in realtà, non ci sono mai state. La diagnosi ha senso in vista di una terapia. Poiché non ho ricette né formule magiche, posso solo testimoniare alcune iniziative che - negli ultimi trent’anni - ho potuto attuare a Palermo con l’aiuto indispensabile di amiche ed amici meravigliosi. E’ una testimonianza che può servire non come ‘modello’ da copiare, ma come ipotesi di lavoro, spunto, stimolo alla vostra creatività.
Per inquadrare la serie di piccole realizzazioni cui farò cenno, è opportuno esplicitare l’idea di massima: la democrazia ‘formale’ (sulla carta) o diventa, gradualmente, anche democrazia ’sostanziale’ (nella realtà) o si espone al rischio che qualcuno la cancelli anche come pura formalità (”Vedete che le elezioni, i referendum, le manifestazioni di piazza non servono a nulla? Dunque aboliamoli!”).
Ma - e qui evoco l’insegnamento di Edgar Morin - non ci potrà mai essere democrazia ’sostanziale’, ‘compiuta’, ‘effettiva’ se non si attuerà una “democratizzare della conoscenza”. A che vale dare a uomini e donne, a giovani diciottenni, magari - come propone qualcuno a giovani sedicenni - il diritto di votare se tutti (anziani, adulti e giovani) restano nell’ignoranza della posta ogni volta in gioco?
Ho accennato sopra alla responsabilità degli intellettuali di professione che, quasi gelosi delle loro conoscenze, si guardano dal faticare per divulgarle e renderle accessibili al resto dei concittadini. Se accettano di parlare in televisione o alla radio è perché possono unilateralmente esprimersi, senza che il pubblico abbia - normalmente - diritto di replica. Ma questo (ci insegnava nei suoi seminari Danilo Dolci) rende falsa la definizione “mezzi di comunicazione di massa”: poiché non c’è reciprocità, bi-direzionalità, scambio paritetico, si dovrebbe piuttosto dire “mezzi di trasmissione di massa”.
Se gli intellettuali di mestiere non lavorano per la democratizzazione della conoscenza, non ci resta che una strada: rivalutare e valorizzare la dimensione intellettuale di ciascuno di noi. Riprendere la lezione di Antonio Gramsci là dove sosteneva che “non è l’intellettuale un tipo particolare di uomo, ma ogni uomo è un tipo particolare di intellettuale”. E’ per perseguire questo progetto - a mio parere urgentissimo, indilazionabile, preliminare rispetto a tutti gli altri progetti operativi - che dal giorno (ahimé lontano!) della mia laurea in filosofia ho cercato di promuovere “laboratori di consapevolezza” dove sia possibile esercitare sia la riflessione critica sia il confronto dialettico. La maggioranza è stata sempre alquanto passiva, ripiegata sul proprio interesse privato immediato: oggi, come in ogni epoca, tocca a quelle che Jurgen Habermas definisce “minoranze morali” il compito di auto-organizzarsi e mobilitarsi. “Molti” - è stato scritto infatti - “sono disposti a fare la rivoluzione, ma pochi a prepararsi per esserne degni”: a prepararsi mentalmente, ma anche eticamente.
Con questo spirito ho avviato già nel 1983 le “vacanze filosofiche per…non filosofi”; successivamente le “cenette filosofiche per…non filosofi”; i seminari di alfabetizzazione sulle ideologie del XX secolo e sul monitoraggio del sistema di potere mafioso con l’associazione di volontariato culturale “Scuola di formazione etico-politica ‘G. Falcone’ “; i corsi di avviamento al volontariato come cittadinanza consapevole e attiva con la “Università della strada” presso il Centro studi “Pedro Arrupe”; gli appuntamenti mensili delle “domeniche di spiritualità laica per chi non ha chiesa” e così via. Non mi pare il caso di soffermarmi sulle caratteristiche di ciascuna di queste iniziative (chi fosse interessato può chiedermi dettagli nel corso della discussione o leggere qualcuno dei libri che sono esposti all’ingresso in cui le racconto). Essenziale per me sarebbe mettere a fuoco il criterio di base che le illumina tutte quante: tutti abbiamo una nostra filosofia (nel senso che ciascuno di noi, se interrogato, scoprirebbe di avere una certa idea sull’uomo, sulla società, sullo Stato, sull’economia, sull’educazione, sull’etica, sulla religione…). La differenza apparente è fra chi ha una filosofia (una ‘visione-del-mondo’) e chi non ce l’ha. La differenza vera è invece fra chi ha una filosofia consapevolmente e chi inconsapevolmente. Di solito la migliore non è di chi non sa di averla.
Ma ho già parlato troppo rispetto ai propositi iniziali. E’ il momento di passare dalle parole sulla filosofia-in-pratica alla pratica della filosofia-in-pratica.
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Nota bibliografica
Per approfondire questi temi si può consultare il sito web www.augustocavadi.eu . Per chi volesse consultare delle pubblicazioni:
a) per introdursi alla filosofia partendo da zero (o quasi) è consigliabile il mio libro E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze (Di Girolamo, Trapani 2008).
b) Per saperne di più sulla “consulenza filosofica” e, in generale, sulle “pratiche filosofiche” sarebbe preferibile cominciare con uno di questi tre volumetti: Davide Miccione (La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007); Neri Pollastri (Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007); Autori Vari (Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo, Trapani 2008).
c) Racconti di esperienze di filosofia pratica per… non filosofi sono contenuti in due miei libri: Quando ha problemi chi è sano di mente. Breve introduzione al philosophical counseling (Rubbettino, Soveria Mannelli 2002); Filosofare dal quotidiano (www.ilmiolibro.it, Roma 2008).
d) Sulla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” e sulla “Università della strada” (cosa sono, come sono nate, che cosa offrono), nonché su alcuni ‘moduli’ di seminari effettivamente realizzati, cfr. il mio Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003).
e) Per una prima conoscenza del fenomeno mafioso ho pubblicato La mafia spiegata ai turisti (Di Girolamo, Trapani 2007; presso lo stesso editore disponibili le versioni in spagnolo, francese, inglese, tedesco, giapponese, russo, svedese e arabo). Gli aspetti storici e pedagogici sono approfonditi sia nel mio volume Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia alternativa (Di Girolamo, Trapani 2005) sia nel volume a più mani, da me curato, A scuola di antimafia (Di Girolamo, Trapani 2006). Gli aspetti culturali - e in particolare ‘teologici’ - del sistema mafioso li ho trattati in Il Dio dei mafiosi (San Paolo, Cinisello Balsamo 2009).