martedì 27 dicembre 2022

L'INVITO DI DOSTOEVSKIJ A "NON TOGLIERE LA GIOIA" AGLI ANIMALI

Dostoevskij ne I fratelli Karamazov pone sulle labbra dello starec Zosima queste raccomandazioni (che saranno veramente interiorizzate quando si capirà che la violenza antropocentrica contro gli altri animali, ridotti a merce di consumo, è la base e la palestra di ogni altro genere di violenza contro i nostri simili): 

"Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia.
Amate ogni foglia, ogni raggio di luce!
Amate gli animali, amate le piante, amate tutte le cose.
Se amerai tutte le cose, scoprirai in esse il mistero divino.
Una volta che lo avrai scoperto, comincerai a conoscerlo sempre meglio, ogni giorno più a fondo.
E alla fine amerai tutto l'universo di un amore totale, completo.
Amate gli animali: Dio ha dato loro un principio di pensiero e una gioia senza inquietudine.
Non li turbate, non li tormentate, non togliete loro la gioia, non andate contro l'intenzione di Dio.
Uomo, non ti esaltare al di sopra degli animali: essi sono senza peccato, 
mentre tu, con tutta la tua grandezza, insudici la Terra al tuo apparire,
lasci dietro di te la tua sudicia traccia,
e questo, purtroppo, è vero quasi per ognuno di noi".

 

venerdì 23 dicembre 2022

QUALE SUPPORTO SPIRITUALE ALLA PRASSI POLITICA ? A PARTIRE DA ERNESTO BUONAIUTI


NELL'EPOCA “POST-RELIGIONALE”, QUALE SPIRITUALITA' PER RIVITALIZZARE LE DEMOCRAZIE POLITICHE ?

Per circostanze varie, mi sono trovato a leggere – per la prima volta in vita mia – alcune opere di don Ernesto Buonaiuti (1881 – 1946), prete cattolico che, per aver tentato di rivisitare Bibbia e tradizione cristiana con gli strumenti della critica letteraria e storica, è stato scomunicato dalla sua Chiesa negli anni Venti del secolo scorso. Invano, sino a ora, un Comitato costituitosi nel 2014 (di cui fa parte anche “Adista”), ne ha chiesto la riabilitazione.

Tra le sue tesi, mi sono imbattuto in una di scottante attualità: la necessità di una linfa spirituale senza la quale ogni regime democratico è condannato al fallimento. Nel recente passato, scrive egli nel 1945,


Giuseppe Mazzini aveva predicato che al processo dell'unificazione italiana avrebbe dovuto presiedere, a costo di sboccare, altrimenti, in un immancabile naufragio, una visione religiosa della vita, un superamento spirituale del cattolicesimo”1.


Anche a causa della condanna dei gesuiti, questo programma “morale”, “sognato dal profeta genovese”, fu trascurato a tutto vantaggio del suo “programma politico-territoriale”2. E successivamente, dopo circa mezzo secolo di distanza, all'inizio del XX secolo, la Chiesa incoraggiò l'idea di un partito cattolico di cui servirsi come longa manus per condizionare la dialettica parlamentare nello Stato italiano. Ma Bonaiuti ricorda di aver protestato, ancor giovanissimo, con tempestività: 


non una democrazia cristiana si doveva creare in Italia, ma si doveva cercare unicamente e semplicemente di infondere nel socialismo un'anima religiosa e cristiana, che lo salvasse dall'abbominio [sic !delle abbrutenti e circoscritte preoccupazioni economiche” 3.

L'irrompere delle masse italiane, sotto il governo Giolitti nella vita politica nazionale e nel quadro delle vaste competizioni sociali, che avevano tutti i loro addentellati nel movimento fluttuante della democrazia internazionale”,


suscitava


il sentore della necessità assoluta e gravosa di un rinnovamento ab imis della spiritualità nazionale” 4.


Simile necessità emergeva anche nei più ampi scenari della politica internazionale:


E la nuova solidarietà umana che sorge all'orizzonte, per essere effettivamente una solidarietà degna di uomini, non deve tutta avvivarsi in un senso sacrale della vita e in una consapevolezza religiosa dell'origine e delle finalità soprannaturali dell'umana convivenza? ”5 .



La Chiesa cattolica sorgente essiccata di linfa spirituale


Da dove attingere tale linfa spirituale a garanzia delle conquiste democratiche?

Buonaiuti esclude due fonti e ne indica una terza.

La prima fonte che esclude è il Magistero cattolico dell'epoca (si riferisce all'inizio del Novecento, prima delle due disastrose Guerre mondiali):


La Chiesa si era troppo accostumata a fare ricorso, per il suo governo spirituale del mondo, a quelle astuzie della diplomazia che sono l'armamentario consueto della politica terrena, per arrogarsi legittimamente il diritto di scandire alle orecchie degli uomini la parola genuina di Dio. La rivelazione di Dio è per essenza negazione di ogni arte diplomatica.[...] Chi in coscienza da decenni e decenni potrebbe, senza offesa a Dio, riconoscere la Sua voce nei concordati della Segreteria di Stato o nelle sentenze della Sacra Romana Inquisizione? Il mondo si avviava, in una funesta e fatua inconsapevolezza, allo sfacelo della sua tradizionale spiritualità, alla perdita dei suoi millenari valori. E l'ultima espressione della sua aberrante corruzione non sarebbe stata altra cosa che la trasposizione in sede politica dei metodi invalsi nella Chiesa post-tridentina. Che cosa è infatti la concezione totalitaria dello Stato, se non il trasferimento, in sede politica, dei criteri disciplinari e dei metodi pedagogici praticati dalla Chiesa post-tridentina nella zona della sua economia e del suo regime spirituali?”6.


Le requisitorie contro la Chiesa cattolica da parte del prete perseguitato per le sue ricerche in campo storico-critico sono numerose nelle sue opere e tutte amaramente accorate. Lo stile dittatoriale e terrorizzante di questa istituzione così influente ha inciso, a suo parere, sulla mentalità e sui costumi dei popoli statisticamente più cattolici, inducendo all'ipocrisia, alla vigliaccheria, alla delazione, alla doppiezza morale:


I metodi del gesuitismo imperante nella Chiesa Cattolica Romana, dall'epoca del Concilio di Trento in poi, hanno esercitato l'azione più deleteria, l'efficacia più deformante, l'insidia più rovinosa, sul carattere degli Italiani”7.


Lo storicismo crociano spacciatore di spiritualità illusoria


La seconda fonte che Buonaiuti esclude è la filosofia idealistica tedesca trionfante in quei decenni in Europa e, grazie a Benedetto Croce e Giovanni Gentile, in Italia:


La filosofia hegeliana, di cui Benedetto Croce, continuando l'opera dell'ex canonico Bertrando Spaventa, si costituiva patrocinatore e divulgatore in Italia, è la celebrazione del fatto compiuto, è il dissolvimento dello spirito nella storia, è la negazione di qualsiasi male sussistente nella vita così dell'individuo come della collettività, è la negazione di qualsiasi Assoluto e di qualsiasi Trascendente, su cui si possano saggiare i valori della vita empirica e le forze costitutive dello Stato. La filosofia hegeliana è logicamente il presupposto ideale di ogni esaltazione inconsulta, illimitata e irriflessa della forza come forza, della sopraffazione come sopraffazione, della realtà storica come tale”8 .


Non è dunque per caso né per incoerenza logica che Croce, dopo aver 


già fatto altra volta l'apologia dell'Inquisizione, come espressione naturale e inalienabile di ogni verità sicura di sé”9,


alla pubblicazione dell'enciclica Pascendi domini gregis di Pio X (1907), mirata a sradicare il nascente movimento cattolico di rinascita teologica e morale – là denominato spregiativamente “modernismo” - , abbia sottoscritto


con cinico compiacimento, a due mani, all'infausto documento inquisitoriale, che era venuto a perpetrare uno dei più lacrimevoli infanticidi che la storia dei movimenti spirituali ricordi”10 .


Il cristianesimo originario come fonte di spiritualità autentica


Esclusi, per ragioni oggettive e abbastanza evidenti, Magistero cattolico coevo e filosofia idealistica, al docente di “Storia del cristianesimo” dell'Università statale di Roma sembrava inevitabile rivolgersi al messaggio evangelico originario (deformato dalle superfetazioni dogmatiche ecclesiastiche e frainteso da quasi tutta la cultura 'laica', ignara di discipline bibliche e più estesamente teologiche). Infatti, a suo meditato parere, 


il movimento religioso, scaturito dalla predicazione del Vangelo, rappresenta la perfezione soprannaturale nello sviluppo della religiosità umana”11.


In Buonaiuti questa convinzione di fede non si traduce, neppure velatamente, in pretese integralistiche. Sull'autonomia della sfera civile egli è intransigente: a suo avviso, infatti,


la suprema originalità della rivelazione neotestamentaria consiste tutta nell'avere una volta per sempre definito e portato, per così dire, a sublimazione quella che era stata l'aspirazione più tenace e più valida di tutta la spiritualità mediterranea precristiana: l'aspirazione ad un rapporto tra politica e coscienza religiosa, che facesse della religiosità il fermento invisibile della vita associata, e della politica la pura e semplice disciplina esteriore, economica, giuridica e legale dei rapporti fra gli uomini” 12.


Tuttavia, pur in questa modalità assai poco trionfalistica, clerico-centrica, per Buonaiuti l'obiettivo strategico di ritornare al cristianesimo originario non può sorvolare sulla necessità di una organizzazione ecclesiale istituzionale. Dal momento che


del cristianesimo, sigillato e consacrato dalla luce incontaminata di un divino afflato rivelatore, il cattolicesimo costituisce, in una completa identità sostanziale, la logica realizzazione nella storia”13,


occorre rivitalizzare la religione cattolica, non certo abolirla: essa sarebbe indispensabile, insostituibile, insurrogabile. Infatti


il contenuto metafisico dell'insegnamento cattolico, e l'apparato disciplinare che ne rappresenta la tutela concreta e la salvaguardia gelosa, corrispondono nella maniera più felice alle esigenze pregiudiziali della religiosità; e aderiscono, con rispondenza perfetta, ai bisogni della società umana nell'ambito dei suoi imperiosi doveri e dei suoi eterni destini, al di là dell'orizzonte mutevole e circoscritto della vita empirica e degli interessi materiali”14.


Riformulata in altri termini, la convinzione di Buonaiuti è che il cristianesimo (di cui il cattolicesimo sarebbe la versione più fedele e completa) non può essere né accantonato né superato perché rappresenta il massimo che ci si possa attendere nell'ambito della vita religiosa come della ricerca etica (e, di conseguenza, nella stessa compagine sociale):


Se lo sviluppo della moralità e della religiosità umane è lì a dimostrare, in maniera superiore ad ogni dubbio, che queste due attitudini primitive e originarie dello spirito, l'etica e la religiosa, tendono automaticamente a compenetrarsi e a saldarsi a vicenda per sostenersi a vicenda, «l' Evangelo» costituisce la forma assoluta così della religione come della morale, in quanto è riuscito a innestare la più alta forma concepibile di moralità sulla delineazione più perfetta dei rapporti fra Dio e l'uomo” 15.



La proposta di Buonaiuti riletta oggi


L'entusiasmo sincero di Buonaiuti verso la religione, di cui il cristianesimo e segnatamente il cattolicesimo costituirebbero la manifestazione più elevata, addirittura insuperabile, oggi non è facilmente condivisibile neppure negli ambienti cattolici istruiti. Si impone dunque, prepotente, un interrogativo: nella misura in cui – con tutti i 'distinguo' del caso – si assumano seriamente le istanze principali dell'attuale movimento “post-religionale” (più o meno strettamente connesso con il “post-teismo”)16, come valutare la proposta del teologo 'modernista'? Va abbandonata alla curiosità degli storici o può essere ripresa, e ri-tradotta, per la società contemporanea? 

Provo a proporre una risposta articolata quadruplicamente:


a) la democrazia 'formale' vive solo se conosciuta, apprezzata, praticata da consistenti maggioranze della popolazione. L'astensionismo di un numero crescente di elettori, sommato alla scarsa convinzione con cui i votanti esercitano il proprio diritto/dovere, non promette nulla di buono per il futuro. I luoghi della partecipazione politica attiva (partiti, sindacati, movimenti, associazioni...) saranno vieppiù monopolizzati da arrivisti e opportunisti se individui e piccoli gruppi non vi si infiltreranno per pretendervi un rispetto minimo delle regole e per testimoniare qualche sprazzo di motivazione etica. Quand'anche ciò avvenisse, comunque, non sarebbe ancora sufficiente: l'attività politica comporta un tale investimento di energie da poter essere esercitata solo per calcolo utilitaristico o per propensione passionale. Dunque animati o da tenace ambizione/avidità o dal gusto della creatività, dalla soddisfazione di vedere le situazioni più deprimenti trasformarsi sotto i propri occhi, dalla gioia incomparabile di contribuire a plasmare la polis in direzione dell'equità e della bellezza. In una parola: la prassi politica può attivarsi e perseverare, nonostante pesi e ostacoli, solo se alimentata da una intima, pregnante, contagiosa “spiritualità”. 

b) Dove attingere tale carburante indispensabile? Il tramonto (verosimilmente definitivo) della spiritualità 'religionale' (in generale) e 'cattolica' (in particolare) potrebbe fare spazio all'alba (alla rinascita) di una spiritualità 'mistica': essa è orientata a un vertice verso il quale tendono, e dal quale discendono, le esperienze 'religionali' di tutte le tradizioni, le confessioni, le organizzazioni religiose del pianeta. E' la proposta di molti teologi, appartenenti a famiglie religiose differenti, fatta propria e rilanciata dal generoso don Paolo Scquizzato:


E a noi sembra che l'ultima parola sensata, nel domandarsi quale nome per quale dio, sia quella propria della mistica. [] Il mistico è colui che chiude gli occhi e la bocca, e in questo modo diventa sempre più parte del Mistero di cui già partecipa, e lì cresce, emerge. Si è detto sopra che della divinità si può solo fare esperienza. Ora, se questo è vero, la questione è diventare sempre più quella realtà. Il mistico è dunque colui che fa esperienza del divino in cui è immerso. Si accorge che Ciò che cercava fuori di sé in realtà lo abita già. E' Ciò da sempre []. Noi siamo già nella divinità, siamo già salvi, non possiamo perderci, non possiamo finire, ma solo essere trasformati. [] Il mistico è perciò anti-idolatrico: non possiede Dio come un oggetto, ne è semplicemente immerso, partecipandone. E' in un certo senso ateo in quanto sempre al di là di ogni appropriazione del divino. Ha superato definitivamente e irrimediabilmente ogni forma di teismo17 .


Buonaiuti sembra talora attribuire alle personalità mistiche un atteggiamento non altrettanto apofatico (quando, ad esempio, afferma che esse avvertono, come “la fonte del più operoso ben fare”, “il senso più vivo della divina provvidente presenza nel mondo” 18); altre volte, invece, sembra essere approdato, nell'ultimo decennio della vita, a concezioni più 'problematiche':


Fede non è adesione ad un formulario dogmatico; la fede non è iscrizione nell'anagrafe di una comunità visibile; fede non è accettazione di un sistema speculativo. Fede è essenzialmente e inequivocabilmente un trasalire dello spirito al cospetto del mistero affascinante del tremendo che avvolge le forme e le finalità della vita universa. Si potrebbe dire che le fedi positive, le confessioni costituite, tralignano dalla loro natura quando vogliono portare alla massima e alla esauriente formulazione teoretica tutto quello che vi è di ineffabile e di inesprimibile nel senso iniziale della religiosità”19 .


In tutte le accezioni possibili, comunque, lo stesso pensatore italiano sottolinea la funzione fondativa della 'mistica' rispetto alla religione e alla morale: 


In tutti i secoli della sua storia i trionfi della morale cristiana sono stati sempre contrassegnati dalle reviviscenze della esperienza mistica”20 . 


Più precisamente, in una conferenza del 1935, egli distingue “due atteggiamenti del tutto diversi” in cui si declina “il misticismo, l'esperienza cioè dell'Assoluto e dell'Eterno basata sull'intuizione e sul sentimento, anziché sul ragionamento e sul processo dialettico”:


V'è un misticismo individualistico, che, schivo di ogni contatto con il mondo e con gli uomini, celebra nel raccoglimento dello spirito il proprio congiungimento con Dio. E, vi è un misticismo di tipo associato che trova il divino unicamente nella partecipazione fraterna alle medesime realtà carismatiche. []. Ed è storicamente il più efficace”21 .


  1. La 'mistica' è certamente un patrimonio comune a tante manifestazioni teologiche del mondo, ben al di là di confini istituzionali: ma lo è abbastanza da valere come fondamento universale delle pratiche politiche? O una spiritualità 'mistica' (ammesso che, priva di argini istituzionali e di vigilanze comunitarie, non conosca troppe deviazioni irrazionalistiche o comunque mistificanti) può costituire un “supplemento d'anima” (Henry Bergson) solo per minoranze 'illuminate', circoscritte a circoli privilegiati spiritualmente – come ad esempio alcune selezionate comunità monastiche - se non anche socio-economicamente?

Personalmente non posso non augurarmi che i germi di una mistica trasversale rispetto a tutte le tradizioni religiose, e vigile sui propri effetti liberatori nella storia, possano attecchire e fiorire. Ma non mi faccio molte illusioni. La situazione attuale nel pianeta – con Chiese fondamentaliste e governi teocratici che sfruttano la fame di sacro avvertita da miliardi di persone – non mi appare meno preoccupante di quando, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Buonaiuti, deluso dall'incontro sia con politici francesi di Sinistra (“Fronte popolare”) sia con prestigiosi intellettuali britannici (docenti a Oxford e Cambridge), avvertì 


la certezza che la funesta lacuna di tutte le ufficiali correnti democratiche, la lacuna che le avrebbe condotte ad un rovescio senza confronti, consisteva tutta nella mancanza di quel senso intimamente sacrale dell'universa vita del mondo, senza cui l'uomo cessa di essere tale, per ridursi alle condizioni di essere belluino, pronto solo alla sopraffazione o alla vendetta”22.


Una mistica autentica, o per lo meno una religiosità sincera, sarebbero ottime pre-condizioni per una convivenza civile equa e, perciò, pacifica. Ma, per una somma di elementi caratteriali e di condizionamenti culturali, tali pre-condizioni né si riscontrano in miliardi di concittadini né sarebbe giusto (ammesso che fosse possibile!) indurle dall'esterno. Non solo individui, ma intere civiltà sembrano vivere serenamente senza neppure il sospetto di una dimensione divina, o sacrale, “dell'universa vita del mondo”. Nè sembrano vivere peggio di quanti – individui o civiltà – sventolano simboli sacri e proclamazioni di fede solo per mascherare motivazioni inconfessabili di vario genere. Se infelicità avvertono gli a-religiosi non è certo più acuta e dolorosa dell'infelicità dei falsi religiosi. 


d) Che pensare, dunque, in questa prima metà del XXI secolo, a cento anni di distanza dagli scritti di Ernesto Buonaiuti ? Mi pare che emerga con chiarezza la necessità di soddisfare l'esigenza, da lui acutamente messa a fuoco, di una rivitalizzazione della democrazia tramite potenti iniezioni di spiritualità cercando di proporre una spiritualità che sia non tanto “al di là” e “al di sopra” della spiritualità cristiana (come sarebbe una autentica spiritualità mistica), bensì “al di qua” e “al di sotto” della spiritualità cristiana (che si auto-interpreta quale opzione donata da Dio stesso all'umanità dispersa e disperata): una spiritualità 'laica', nel senso di a-confessionale, naturale, 'semplicemente' antropologica. Che sarebbe più “in basso” delle spiritualità religiose/religionali e delle spiritualità mistiche non come in una scala il valore minimo, bensì come in una casa le fondamenta23.

Se posso ricorrere a una metafora, la religione è una sorta di prosa che non raggiunge più né le menti né tanto meno i cuori della gente. Si propone allora di trascenderla in direzione della mistica che starebbe alla religione come la poesia sta alla prosa. Ma siamo sicuri che ci siano le condizioni basiche per decollare verso una mistica autentica che non sia auto-inganno, solipsistico e deresponsabilizzante? O non sarebbe più opportuno ripartire dall'alfabeto, dalla grammatica elementare, dalla sintassi essenziale della vita umana evoluta, insomma da una spiritualità 'laica' già nell'accezione etimologica originaria di 'popolare'? Lo stesso Buonaiuti, scavando tra le radici della “rivelazione di Gesù” (che, per lui, restava un profeta inspirato da Dio, anzi divino egli stesso), scopre e evidenzia


la sua aderenza profonda a quelle che sono le esigenze prime e insopprimibili dello spirito umano, fin dalle prime albeggianti apparizioni della sua vita cosciente e dei suoi rapporti con i fratelli”24.


Quando si rinnegano, o addirittura si scavalcano allegramente senza neppure farci caso, queste “esigenze prime e insopprimibili dello spirito umano”, le religioni positive (e non di rado le mistiche che ritengono di trascenderle) si mostrano capaci di ogni orrore: dalle Crociate ai roghi dell'Inquisizione, dalla benedizione degli eserciti in partenza per guerre ingiustificabili alle più spericolate speculazioni finanziarie in borsa. 

Questo patrimonio 'spirituale' ecumenico è un dato fenomenologico che ognuno può interpretare a modo proprio. Chi crede in un'Intelligenza provvidente può anche ammirare con gratitudine devota


la sconfinata molteplicità dei mezzi attraverso cui Dio fa pervenire,a chi più imperiosamente sente il bisogno della sua assistenza, la linfa della sua grazia e il tepore del suo conforto”25,


ben al di fuori dei confini delle religioni istituzionali: l'essenziale è che riconosca il dato storico, 'oggettivo', che gli alimenti essenziali per la fioritura dell'esistenza umana non sono monopolio di nessuna organizzazione confessionale (né tanto meno filosofica o politica).

Tra gli innumerevoli ingredienti di tale spiritualità basica universale possiamo nominare la capacità del raccoglimento nel silenzio; il desiderio di conoscere veramente e di essere sempre sincero – dunque di non dire nulla che non si ritenga vero; la propensione al coraggio di non tacere ciò che in ogni circostanza è inevitabile affermare come all'ascolto attento di ciò che altri hanno da dire; il senso critico insofferente del tradizionalismo e del conformismo; il gusto della contemplazione del bello naturale e artistico; la misura nella ricerca delle sicurezze materiali; la sobrietà nei consumi e il piacere di condividere ciò di cui si dispone; la distanza ironica rispetto agli inciampi esistenziali, la compassione con tutti i viventi senzienti, la gentilezza nei modi di rapportarsi a persone e cose circostanti...26

Una spiritualità del genere non ha né dei né santi canonizzati. Ma non per questo è priva di modelli, figure esemplari, pionieri da cui lasciarsi svegliare, suggerire, infiammarsi: personalità, difettose come ogni essere umano, che – con tutti i limiti costitutivi e ambientali – hanno provato a 'incarnare' catacronisticamente ciò che tutte e tutti potremmo diventare in fasi evolutive future. La lista sarebbe troppo lunga, e in ogni caso troppo incompleta, per essere anche soltanto avviata: ognuna e ognuno di noi scoprirà nella sua esperienza di vita e nella sua ricerca storica quali sono i 'tipi' che si avvertono come più vicini – e più stimolanti – spiritualmente. 

Augusto Cavadi

“Adista-Documenti” n. 43 del 17.12.2022

***

1E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo, Alberto Gaffi Editore, Roma 2008, p. 100. L'edizione originale è del 1945. 

2Ibidem.

3 Ivi, p. 98. 

4Ivi, p. 112.

5Ivi, p. 117.

6Ivi, p. 107.

7Ivi, p. 126.

8Ivi, p. 99.

9Ibidem.

10Ibidem.

11E. Buonaiuti, Apologia del cattolicesimo, Edizioni La Zisa, Palermo 2021, p. 17. L'edizione originale è del 1923.

12E. Buonaiuti, Pellegrino, cit., p. 328.

13E. Buonaiuti, Apologia, cit., p. 17.

14Ibidem.

15E. Buonaiuti, Pellegrino, cit., p. 261.

16Per un primo approccio consultare i 5 volumi della Collana “Oltre le religioni” edita da Gabrielli a partire dal 2016. 

17P. Scquizzato, Il fiume e la cisterna, Prefazione in C. Fanti – J.M. Vigil (a cura di), Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2021, pp. 20 – 22.

18E. Pellegrino, Pellegrino, cit., p. 266.

19Ivi, pp. 460 – 461. La citazione è da una conferenza del 1937, nove anni prima della scomparsa. 

20Ibidem.

21Ivi, p. 381.

22Ivi, p. 385.

23In O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune, Algra Editore, Viagrande 2021 ho proposto l'immagine di una “piramide costituita da una base cilindrica (il livello della 'spiritualità' comune a credenti, atei e agnostici); da un cilindro poggiato sul primo e più circoscritto rispetto a esso (il livello della 'religiosità' comune a credenti e agnsotici); da un terzo cilindro, ancora più piccolo, che non avrebbe solida fondazione se non presupponesse 'religiosità' e, più basilarmente, 'spiritualità': il livello della 'religione' apecifica, confessionale (tipica di credenti che decidano di organizzarsi comunitariamente, di istituzionalizzarsi)” (p. 34). 

24E. Buonaiuti, Pellegrino, cit., p. 269.

25Ivi, p. 326.

26Ho provato a raccogliere dalla storia del pensiero, soprattutto occidentale, frammenti per delineare una spiritualità 'laica', universalmente condivisibile, in Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2015. Il testo è stato poi ristampato (quasi integralmente), in vari anni successivi, dalla medesima casa editrice in 3 volumi, leggibili sia separatamente che in sequenza logica: Voglio una vita spregiudicata. La filosofia come spiritualità per chi ritiene di non averne una; Tremila anni di saggezza. La spiritualità nella storia della filosofia; La filosofia come terapia dell'anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica. 

martedì 20 dicembre 2022

DON FRANCESCO MICHELE STABILE SULLA DIOCESI DI PALERMO DOPO IL VATICANO II

IL DOPO-CONCILIO VATICANO II NELLA DIOCESI DI PALERMO

Dopo vari testi più impegnativi (cfr. “Adista Notizie” n. 31 del 12.9.2020 e “Adista Segni nuovi” n. 29 del 6. 8. 2022) , don Francesco Michele Stabile ha pubblicato un volumetto, stampato in proprio - Il dopoconcilio a Palermo. Accoglienza creativa o passiva attuazione? (Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria 2022, pp. 164, s.p. ) - che, a mio avviso, merita di essere conosciuto da una cerchia più ampia dei suoi amici cui è stato originariamente destinato. In esso, infatti, egli si chiede che effetti abbia avuto il Vaticano II sulla vita delle diocesi siciliane (in particolare sulla diocesi di Palermo). E sarebbe davvero istruttivo se in ogni diocesi italiana ci fosse uno storico che riproponesse la stessa domanda per la sua chiesa locale.

Don Stabile risponde in maniera documentata e misurata. Segue, come criterio per la periodizzazione, gli episcopati che “si sono succeduti nella sede palermitana a partire da concilio: Ernesto Ruffini (1945 – 1967), Francesco Carpino (1967 – 1970), Salvatore Pappalardo (1970 – 1996), Salvatore De Giorgi (1996 – 2007), Paolo Romeo (2007 – 2015), Corrado Lorefice (2015 -....)” (p. 9).

La “ricezione” delle decisioni conciliari fu all'inizio (1965 – 1967), con Ruffini, piuttosto un rigetto. Già a Roma si era distinto come leader della corrente conservatrice di minoranza. Un prete a lui molto caro, mi raccontò una volta che – tornando da una sessione del concilio in cui era stata approvata la Costituzione Dei Verbum (sul primato della Scrittura rispetto al Magistero papale ed episcopale) - volle confidargli fra le lacrime: “E' la fine, è la fine. I vescovi hanno protestantizzato la nostra Chiesa”. Infatti a suo avviso “il Magistero sia ordinario che straordinario della Chiesa era regola prossima di fede, come regula regulans fidei et non regula regulata a Sacra Scriptura” (p. 14). Insomma, per lui, il cattolico avrebbe dovuto credere ciecamente qualsiasi dogma insegnatogli con autorità, sia che avesse sia che non avesse fondamento nella Bibbia.

Stabile sintetizza con un titolo efficace “il tempo del card. Ernesto Ruffini”: “un monologo pieno di opere di carità” (p. 10). Un “monologo” perché la sua ecclesiologia non prevedeva alcun dialogo paritario fra i membri della Chiesa: come scrisse egli stesso in una Lettera pastorale del 1955, in essa vige netta “la distinzione tra autorità ecclesiastica e laicato: spetta alla prima insegnare e governare, il secondo è discepolo e suddito” (cfr. p. 14). “Pieno di opere di carità” perché egli fu davvero infaticabile nell'impegno a favore delle fasce disagiate della popolazione. 

Stabile contesta “la vulgata secondo la quale l'arcivescovo avrebbe negato l'esistenza della mafia” che “va ricondotta a Leonardo Sciascia” nel suo La Sicilia come metafora (pp. 12 – 13): infatti Ruffini fu probabilmente il primo vescovo a inserire il termine mafia all'interno di una Lettera pastorale (precisamente per la Pasqua del 1964) definendola, citando il discusso magistrato-scrittore Giuseppe Guido Lo Schiavo, “Stato nello Stato” (p. 12). Il limite , enorme, di Ruffini sul tema è stato invece un altro: considerò la mafia solo come fenomeno criminale e, perciò, come “problema di ordine pubblico” (ivi). Non seppe vedervi un sistema di potere affaristico-politico più ampio e pervasivo, anche perché sviato dall'avversione per gli Stati e i partiti social-comunisti: i mafiosi erano nemici dei suoi nemici e, se non avessero sparato e ucciso, avrebbero giocato un ruolo utile per la difesa dei valori tradizionali dell'Occidente cristiano. 

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Come una meteora, Francesco Carpino passò da Palermo fra il 1967 e il 1971. Egli, “pur essendo di vecchia formazione teologica, mostrò apertura alle novità del concilio. Al monologo di Ruffini seguì il dialogo di Carpino” (p. 25). Nell'ottobre del 1970 diede le dimissioni, le cui ragioni restano oscure. Paolo VI le respinse ma Carpino fu irremovibile e il papa, infastidito, lo relegò nella sua cittadina d'origine, Palazzolo Acreide, senza dargli incarichi di rilevo nella Curia romana. Abbiamo tre versioni: Carpino sostenne di non avere le forze necessarie “a fare fronte con energia al rinnovamento in atto nella vita della Chiesa” (p. 29); altri ipotizzarono che gli furono imposte per punirlo di un'eccessiva indulgenza verso le Acli, la loro posizione critica nei confronti della DC e la scelta socialista; una terza versione sarebbe stata data da Carpino stesso in forma riservatissima. Una volta mi recai con alcuni amici a Palazzolo Acreide per visitarlo e ci accolse con molta gentilezza. Dopo il pranzo preparato dalla sorella, si appartò con uno di noi che, nel viaggio di ritorno, ci riferì uno sfogo accorato dell'ormai ex-arcivescovo: “Con quei delinquenti di preti palermitani non potevo proprio farcela più”. Evidentemente non si riferiva alla totalità del clero, ma a una consistente e perniciosa fetta. 


***

Al breve episcopato di Carpino successe il lungo 'governo' di Salvatore Pappalardo (1970 – 1996), “il mediatore” (p. 31). Don Stabile elenca i tanti meriti di Pappalardo, anche dal punto di vista del suo distanziamento dalla DC e dell'atteggiamento - “né si condanna né si appoggia” (p. 81) – verso quei tentativi di aggregazione politica, come “Una città per l'uomo”, al di fuori del partito cattolico di maggioranza. Ma l'autore inserisce sommessamente qua e là delle note critiche. Per esempio, a proposito di una Lettera dell'episcopato siciliano del 1978, egli nota: “Possiamo cogliere nel documento un primo lento distacco dalla concezione sacrale di una storia della salvezza parallela alla storia umana e una timida apertura a lasciarsi provocare da Dio attraverso gli eventi storici. La Chiesa deve fare opera di mediazione tra la vecchia concezione sacrale, immutabile, e la modernità che richiede l'accettazione della laicità, del pluralismo con capacità però di discernimento critico per cogliere il meglio che va emergendo. Però, nonostante affermazioni di buona volontà, la problematica della storia e della modernità, enunziata con la complicità di qualche teologo, credo rimanesse ancora nei vescovi un problema non pienamente risolto e che stesse ancora nella difficoltà di accettare la storia, i fatti, come luogo teologico attraverso cui Dio parla alla sua Chiesa, l'origine dell'ambivalenza di tante posizioni dei vescovi e dello stesso Pappalardo, che per un verso dicevano di accettare il nuovo, per altro riproponevano su alcune problematiche non l'apertura di un dialogo, come chiedeva Paolo VI, ma a volte una contrapposizione tra visione cristiana della vita e una visione non cristiana, accomunando in un unico fascio secolarizzazione, prassi marxista, umanesimo laicista, freudismo” (pp. 41 – 42). 

Comunque l'elezione di Giovanni Paolo II fece avvertire gli effetti 'normalizzatori' anche in Sicilia. “E fu in questo periodo che si allentò la convergenza tra l'arcivescovo e parte del clero e dei cattolici più impegnati nel campo religioso e sociale che non intesero seguirlo nella scelta della riservatezza e dell'avallo alla Dc” (pp. 116 – 117). 

L'espressione, trita, “senza infamia e senza lode” calza a pennello per sintetizzare gli 11 anni dell'episcopato del cardinale De Giorgi (1996 – 2007), un pugliese bonaccione determinato, per dirla con un'altra formula stereotipa, a vivere e a lasciar vivere. La fotografia della diocesi di quel periodo, scattata dal cattolico democratico Nino Alongi all'inizio del Terzo Millennio, è eloquente: “La Chiesa palermitana parla di poveri, ma non è povera, predica la solidarietà ma non è solidale, dice di volere dialogare con la società civile ma di fatto resta chiusa nell'integralismo di sempre. Al collateralismo partitico, devastante per la politica e per la religione, ha sostituito forme di integrazione con le istituzioni dagli effetti altrettanto perniciosi; al protagonismo politico clientelare ha fatto seguire quello civile, attraverso iniziative inedite di volontariato che, in molti casi, si sono rivelate non meno forvianti; al trionfalismo preconciliare si sono aggiunte manifestazioni di ostentazione ancora più mondane” (p. 144). 

Ovviamente De Giorgi non è l'unico responsabile di questa sorta di letargo intellettuale e sociale in cui l'intera Chiesa palermitana ristagna da un ventennio. Anzi, sarebbe scorretto non riconoscergli almeno il merito di aver istituito una Commissione di teologi per stilare una sorta di decalogo da seguire nel caso che un presbitero fosse chiamato da un latitante (mafioso) a celebrare i sacramenti nella cappella del covo segreto (come, ad esempio, fece il carmelitano scalzo Mario Frittitta su richiesta del boss Pietro Aglieri): un decalogo che prevedeva, dopo un primo incontro, che il latitante si costituisse alle autorità giudiziarie, chiedesse perdono per i danni provocati nel corso della sua carriera criminale, collaborasse per bloccare le attività illegali dei suoi colleghi di cosca. 

Non certo più brillante è stato l'episcopato di Paolo Romeo (2007 – 2015), un diplomatico di lungo corso che – proprio grazie alla nomina ad arcivescovo di Palermo – raggiunge, con qualche anno di ritardo, l'agognata porpora cardinalizia. Di lui don Stabile ricorda due informazioni: la prima, positiva, che portò felicemente a termine l'iter 'canonico' (avviato dal suo predecessore De Giorgi) del riconoscimento a don Pino Puglisi del titolo di “martire” e di “beato”; la seconda, meno positiva, di aver lasciato cadere nel 2012 la proposta di un “Osservatorio ecclesiale” sulla mafia da istituire presso la Conferenza episcopale siciliana. 

Con la nomina di don Corrado Lorefice (2015) siamo in piena attualità. La scelta di un semplice prete di provincia, in contatto con importanti centri di studi storici italiani, apparve subito in sintonia con lo stile di papa Francesco. Don Lorefice è una persona preparata culturalmente, onestissima, con viva sensibilità civica: presentandosi alla città, disse di arrivare con il Vangelo in una mano e la Costituzione italiana nell'altra ed ebbe modo di citare l'esempio non solo di don Pino Puglisi, ma anche di Peppino Impastato. Tuttavia -almeno sino a questo momento – non ci sono state svolte notevoli; perfino don Stabile, con tutta la sua delicatezza espressiva, non può fare a meno di notare che “l'impegno del nuovo arcivescovo, che si è richiamato allo spirito e al metodo sinodale per coinvolgere tutta la comunità, procede con lentezza” (p. 146). Facendo eco ad alcune denunzie della teologa Valeria Trapani (che, nel 2019, si chiedeva “se la Chiesa di Palermo non abbia semplicemente subito una battuta d'arresto negli ultimi anni, o forse addirittura una retrocessione di pensiero”, pp. 155 – 156), don Stabile aggiunge: “Le donne, e non solo le donne, lamentano che dai primi decenni del nuovo secolo qualcosa si perde dell'eredità conciliare e che la ministerialità delle donne, pur essendo la presenza delle donne elevatissima, rimane ancora subalterna nei ruoli istituzionali della diocesi” (p. 155).

D'altronde, di che meravigliarsi se la generazione dei preti formatisi nello spirito innovatore del Concilio Vaticano II è ormai in quiescenza (quando non al camposanto) e se la maggior parte del clero attuale (nella fascia tra i 30 e i 50 anni) ha scelto di diventare prete nel clima sostanzialmente reazionario di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ? Come a Roma non basta un papa per invertire rotta, così a Palermo non basta un arcivescovo.

Augusto Cavadi 

“ADISTA-SEGNI NUOVI”

24.12.2022



lunedì 19 dicembre 2022

ANCORA QUALCHE RIFLESSIONE SULL' «ASSURDISMO» DI JEAN-PAUL SARTRE

ANCORA IN DIALOGO CON J.P. SARTRE

Per Jean-Paul Sartre l'essere umano è tale in quanto titolare di una libertà assoluta, totale. Ma – come abbiamo visto in un intervento precedente (https://www.zerozeronews.it/sartre-e-il-punto-di-partenza-e-darrivo-di-dio/) - a suo avviso, se esistesse un Dio come lo propongono i tre grandi monoteismi mediterranei, l'uomo non sarebbe davvero libero. Anzi, addirittura, sarebbe “nulla”: « Se Dio esiste, l'uomo è nulla; se l'uomo esiste... » (Il diavolo e il buon Dio). Se vuole pensarsi come radicalmente libero, deve 'postulare' che Dio non c'è. Vivere come se Dio non ci fosse. L'ateismo è l'unica ipotesi che possa spiegare il desiderio umano di essere incondizionatamente liberi.

Ma questo ateismo ha un suo prezzo notevole. Infatti, eliminata l'ipotesi di un Dio cui attribuire il senso dell'universo, tale universo risulta senza fondamento e senza scopo. In una parola-chiave del vocabolario sartriano: assurdo. Secondo Sartre, la realtà, considerata nella sua globalità e senza veli pietosi, si rivela per ciò che è davvero: «ignobile marmellata», «larva strisciante», «porcheria appiccicosa» (La nausea). Ogni essere – non solo questo o quell'essere particolarmente insignificante - «nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» (ivi). 

Il filosofo francese Claude Tresmontant, impressionato come me dalla logica stringente dell'argomentazione sartriana, si chiede però se essa non costituisca – del tutto involontariamente – una “sesta” prova dell'esistenza di Dio (“sesta” rispetto alle celebri “cinque” vie di san Tommaso d'Aquino). Infatti: per Sartre è intuitivamente evidente che ogni cosa nell'universo, e l'universo nel suo insieme, esistono, ma non hanno in sé la ragione del proprio esistere (potrebbero benissimo non essere mai esistiti o cessare per sempre di esistere). In termini tecnici, si dice che sono contingenti : esistenti di fatto, ma non di diritto. Il mondo è dunque un quid di infondato, di superfluo, “di troppo” (La nausea). Se però capovolgiamo la prospettiva, partendo dal dato di fatto che il mondo – pur nella sua contingenza - c'è, ha una logica interna, un suo senso e una sua preziosità, perché non ipotizzare che abbia una ragion d'essere in qualcosa o qualcuno di necessario, di assoluto, di fondante (che nel linguaggio religioso si chiama Dio)? Perché non riconoscere che il mondo ha una propria verità e una propria consistenza e, su questa base incontrovertibile, non ipotizzare che esso riceva come dono continuo ciò che non possiede come proprietà intrinseca? Insomma: se – come ritiene Sartre - il mondo è inspiegabile in uno scenario ateo, perché non ipotizzare uno scenario teistico che ne renda intelligibile l'esistenza (per altro evidente)? 

L'ipotesi di un Principio divino è stata storicamente imbrattata da vari equivoci ad opera di molti dei suoi stessi sostenitori. Infatti il teismo più diffuso in Occidente ha rappresentato Dio come trascendente e personale. Esso va corretto in ciascuno di questi due aspetti. Infatti Dio non è trascendente se non in quanto anche immanente: come scriveva Joseph De Finance, dobbiamo trascendere la nostra idea di trascendenza per intravedere la trascendenza divina (che, potremmo specificare, non è distanza dell'Alto dal basso, bensì presenza del Profondo nel basso). Non è personale nell'accezione antropomorfica abituale: “Un'opera d'arte ha un autore, e tuttavia, se essa è perfetta, possiede qualcosa di essenzialmente anonimo. Essa imita l'anonimato dell'arte divina. Così la bellezza del mondo dà la prova di un Dio al contempo personale e impersonale, e né l'uno né l'altro” (Simone Weil). 

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venerdì 16 dicembre 2022

J. P. SARTRE : SE VOGLIAMO LA LIBERTA' ASSOLUTA, DOBBIAMO NEGARE L'ESISTENZA DI DIO


 «L'ateismo è un'impresa crudele e di lungo respiro: io credo di averla condotta in porto» scrive Jean-Paul Sartre nella sua autobiografia (Le parole). Attraverso quale percorso? A partire dalla gelosa consapevolezza di essere un essere libero. Intrinsecamente e irrinunciabilmente libero. Infatti, a suo avviso, se esistesse qualcuno o qualcosa di simile a ciò che siamo abituati (almeno nell'ambito delle tre religioni del Libro: ebraismo, cristianesimo e islamismo) a chiamare “Dio”, la nostra libertà sarebbe compromessa radicalmente. 

Infatti, prima di tutto e fondamentalmente, non saremmo i padroni della nostra vita: dovremmo limitarci a constatare che siamo (“esistenza”) e che siamo strutturati in una certa maniera (“essenza”). La nostra appartenenza alla specie umana - e non a una specie di vegetali o di minerali – non dipenderebbe da noi, ma da un Creatore che avrebbe scelto per noi un'essenza (umana) anziché un'altra (vegetale o minerale). In un breve, incisivo, scritto (L'esistenzialismo è un umanismo) spiega con efficacia questo punto cruciale della sua riflessione: «Se Dio non esiste, c'è almeno un essere presso cui l'esistenza precede l'essenza»: «l'uomo». Solo se Dio non c'è, io posso decidere – nel corso della mia vita – di darmi l'essenza di cavallo o di coltello. O di homo sapiens. Dunque, solo se Dio non c'è, io sono veramente e totalmente libero. E auto-conferirmi una determinata essenza o natura significa darmi anche le relative istruzioni per l'uso: le regole per rispettare e attuare e portare a pienezza quell'essenza o natura che ho scelto per me. Non le trovo in nessun manuale redatto da chi ha progettato la mia struttura e il mio funzionamento. 

Si potrebbe supporre che una libertà così radicale debba essere entusiasmante, ma Sartre non nasconde che è «molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori perché non c'è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire, e per questa precisa ragione: che siamo su di un piano dove ci sono solamente uomini. Dostoevskij ha scritto: “Se Dio non esiste tutto è permesso”. Ecco il punto di partenza dell'esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se Dio non esiste, e di conseguenza l'uomo è 'abbandonato' perché non trova, né in sé né fuori di sé, possibilità di ancorarsi» (ivi). Da questa scomoda libertà l'uomo non può evadere : «Noi siamo soli, senza scuse. E' ciò che esprimerei dicendo che l'uomo è condannato a essere libero. Condannato, perché non si è creato da se stesso, e tuttavia libero, perché una volta gettato nel mondo è responsabile di tutto ciò che fa» (ivi).

Questa esaltazione enfatica della libertà umana svolge certamente un compito prezioso di purificazione e approfondimento dell'idea di Dio (almeno del Dio comune ai tre monoteismi mediterranei): Egli è ammissibile solo se non è il Padre/Padrone dell'universo, ma il Fondamento/Principio che lo mantiene nell'esistenza conferendo a ogni essente la sua energia. Dunque, rispetto agli esseri liberi (come gli esseri umani e chi sa quanti altri nell'immensità dei pluriversi), Egli non è concepibile come Concorrente, bensì come Donatore di potenzialità. Lungi dal pensarlo come una minaccia (e non mancano né nella Bibbia né nel Corano pagine che lo rappresentano così), lo si deve pensare come una garanzia della libertà umana. 

E' evidente che una simile libertà non è totale, assoluta, come la ipotizza (o la sogna) Sartre: è una libertà condizionata, relativa, come condizionata e relativa è la nostra esistenza nell'universo. Ma una libertà finita è pur sempre libertà: perché Sartre la definisce come non-libertà? 

Indubbiamente, se Dio esiste, la libertà dell'essere umano consiste nell'attuare la propria essenza, nel realizzare la propria natura (e, in questo senso, nel tener conto di esigenze morali inscritte nella struttura antropologica, che tocca a noi scoprire e interpretare, non inventare arbitrariamente da zero). Ma questo riceversi come dono da una Fonte perenne (non solo più 'alta' di noi, ma anche e soprattutto più 'profonda') non è indice di servitù e prigionia: Dio – se c'è – , lungi dal limitare il raggio delle nostre iniziative più o meno libere, ne costituisce la Condizione di possibilità. 

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martedì 13 dicembre 2022

IO ESISTO VERAMENTE SOLO SE MI RICONOSCI

 



Le nuove frontiere della scuola”

n. 59 (Novembre 2022)


IO ESISTO VERAMENTE SOLO SE MI RICONOSCI

L’esigenza di essere riconosciuti dai propri simili – da almeno uno di essi – è fisiologica. Se è soltanto ai miei occhi che sono saggio, generoso, coraggioso… devo mettere in conto la possibilità d’illudermi. E’ quando l’altro mi conosce, mi ‘ri-conosce’, come tale che posso sperare di essere nella verità. In alcuni casi la conoscenza che l’altro ha di me conferma la conoscenza che io ho di me, più spesso mi fa scoprire delle qualità (virtuose o viziose) che misconoscevo. 

C’è una storiella - deliziosamente sadica – che condensa in poche battute la follia che rischieremmo in totale assenza di riconoscimento. Un paziente entra nello studio dello psicoterapeuta, si accomoda sulla poltrona e gli confida il suo problema: “Ho l’impressione che gli altri non mi prendano in nessuna considerazione, quasi non esistessi”. Ma il dottore, appena alzatosi e già affacciato alla porta della sala d’aspetto, chiede agli astanti con voce un po’ irritata: “Ho detto avanti un altro. Non avete sentito?”. E il paziente, entrato da nevrotico, ne esce da psicotico. Davvero, in assenza di uno specchio vivente, ci attendono le braccia della follia. 

I poeti, senza preoccuparsi troppo della precisione logica, l’hanno saputo

 dire con efficacia, come Bruno Lauzi nel testo della canzone 

L’appuntamento interpretata da Ornella Vanoni: “ Se tu non arrivi non 

esisto, non esisto, non esisto...”. Il filosofo preciserà: “Se tu non arrivi,

 non esisto davverointeramentedel tutto...”. Un principio generale che

 va poi analizzato, articolato e sviscerato in molte possibili implicazioni.


Riconoscere l’altro è un atto esistenziale

La prima: il riconoscimento non è una mera operazione cognitiva, mentale; ma neppure solo pulsionale, ‘primaria’ (nell’accezione freudiana del termine). E’ un atto ‘esistenziale’, potremmo esprimerci nel tentativo di recuperare quella circolarità che Piaget ha evidenziato studiando la formazione della personalità sin dai primi vagiti: non esistono “un’azione puramente intellettuale e neppure atti puramente affettivi, ma sempre e in ogni caso, sia nelle condotte relative agli oggetti, sia in quelle relative alle persone, intervengono entrambi gli elementi, giacché l’uno presuppone l’altro”1. Dunque, ri-conoscere l’altro/a è più di una constatazione mentale, è una sorta di approvazione (“è bene che tu sia”). 


Percepirsi riconosciuto è un atto complesso

Se il ri-conoscimento altrui - di cui siamo indigenti - è un atto esistenziale, globale, la nostra ricezione è altrettanto complessa, multidimensionale. Essere ri-conosciuto è sempre, anche, un avvertire d’essere percepito, accettato, incontrato, ‘patito’.

Questa seconda considerazione spiega perché in tante occasioni l’attestazione verbale non ci basta, ci lascia inquieti o, per lo meno, insoddisfatti. Sappiamo che la comunicazione dei contenuti concettuali è inscindibile dalla meta-comunicazione relazionale: e che la prima può essere falsificata, adulterata, dalla seconda. Sul registro verbale l’altro/a può dirmi “Piacere di conoscerti!”, “Condoglianze vivissime!”, “Benvenuto in questa classe!”, “Per te farei qualsiasi cosa!”…ma il messaggio di relazione – che passa per lo sguardo, il tono della voce, la postura del collo, la stretta della mano – può essere dissonante: può veicolare tanto accettazione quanto, invece, dis-conoscimento.


Il riconoscimento non può che essere reciproco

Una terza implicazione: il riconoscimento è un processo intrinsecamente reciproco. Il tuo riconoscimento di me è proporzionale al mio riconoscimento di te: attendibile è il tuo riconoscimento solo se io, per primo, ti ho riconosciuto come soggetto indipendente, lucido, autonomo (almeno rispetto a me). Solo a condizione che tu sia per me un esistente, un non-nihil. Che valore può vantare un riconoscimento proveniente da un altro che la paura, la debolezza, la viltà renda insincero? Il leader carismatico o il dittatore sanguinario devono rassegnarsi all’ignoranza su di sé. A non essere davvero ri-conosciuti. Intorno a loro soggetti non autonomi, ma ridotti a oggetti, a cose, a burattini inaffidabili. In una popolazione di schiavi, anche il sultano diventa schiavo dell’adulazione, della falsità, del mis-conoscimento.


Quando il riconoscimento è falsato

Una quarta considerazione: ho bisogno di essere riconosciuto da un altro, ma non ogni altro è in grado di farlo correttamente. Se mi ama troppo o troppo poco – se addirittura mi odia per invidia o per gelosia – l’immagine di me che può restituirmi non è necessariamente più realistica dell’immagine che posso farmi di me stesso. Indubbiamente un amore intensissimo o un odio altrettanto intenso possono svelare questo o quell’altro aspetto della mia personalità a me ignoto; tuttavia, se si tratta della personalità nella sua interezza, è più probabile che quei sentimenti eccessivi non facilitino la fotografia. La passione (benevola o malevola) acuisce la vista sui dettagli, ma l’offusca sull’intero.


Si è riconosciuti solo se “sognati”

Invece il riconoscimento che dagli altri ci attendiamo – o di cui, comunque, abbiamo bisogno – ci serve solo se si concretizza nella verità. Ma (e questa è una quinta considerazione) la verità più vera è data non dalla fotografia dell’apparenza, bensì dalla radiografia dell’invisibile: non dalla rappresentazione del dato di fatto, bensì dall’interpretazione di ciò che è possibile. Se è importante essere riconosciuti per ciò che si è in atto, non lo è di meno esserlo per ciò che si è in potenza. In prospettiva pedagogica, e con linguaggio poetico, era quanto esprimeva Danilo Dolci scrivendo: “C'è pure chi educa […] sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato”. Una riprova della necessità di essere “sognati”, di essere per lo meno pensati, visti – insomma riconosciuti – è costituita dalla constatazione di ciò che avviene se ciò non accade: diventiamo crudeli. (Purtroppo è una condizione necessaria ma non sufficiente: si può essere “sognati” migliori di come siamo, ma restare quello che siamo. O peggiorare).


Il riconoscimento che passa per il conflitto

In ogni caso (e siamo a una sesta considerazione) il riconoscimento ci è necessario – per costruirci una nostra identità, o per accorgerci di averla – al punto che l’avversione altrui, la critica feroce e ingiusta, l’attacco pretestuoso sono comunque preferibili all’essere ignorati. Non c’è conflitto tanto aspro da risultare peggiore dell’indifferenza. Se qualcuno mi offende, io esisto: non sono nihil. Non sono un ni/ente. Non sono solo i bambini a inventare capricci, a rendersi detestabili, pur di farsi notare. 


La patologia da non-riconoscimento delle offese subite

Non meno dolorosa dell’indifferenza altrui risulta il misconoscimento delle ferite che subiamo o che ci sono state inferte nel passato. La questione (siamo a una settima considerazione) è delicata e merita attenzione. Molti comportamenti sociopatici – che sbrigativamente attribuiamo a fattori genetici – sono invece spiegabili come reazione a un difetto di riconoscimento sociale dell’offesa attuale o pregressa. La psicologa Alice Miller, a proposito dei maltrattamenti subiti dai minori, ha sottolineato la disperazione in cui può versare una vittima di abusi se non trova un “testimone consapevole”: qualcuno/a che - prima ancora di confortarla o aiutarla – le confermi la fondatezza del suo dolore. “Hai ragione di soffrire: non sei in preda a paranoia, a manie di persecuzione. Ti riconosco come soggetto offeso”. Quando non si ha la fortuna di incontrare un “testimone consapevole”, l’unica alternativa alla disperazione è l’esercizio attivo della violenza: “Non mi vedete? Oppure mi vedete ma non mi prendete in seria considerazione ? Allora provo a farmi notare. Divento per altri – fossero pure i miei bambini – quel carnefice di cui sono stato la vittima”. 


Un’altra patologia del desiderio di riconoscimento

Una ottava considerazione è strettamente legata alla precedente: lo straordinario incremento dei mezzi di comunicazione – in particolare dei social media – ha provocato, o almeno favorito, quell’altra patologia del (fisiologico) desiderio di riconoscimento che è la ricerca ossessiva della notorietà. Nella “società dello spettacolo” - di cui ci ha parlato tra i primi Guy Debord – cresce l’esigenza di emergere dall’anonimato, fosse solo per il “quarto d’ora di celebrità” preconizzato da Andy Warhol. Sino al punto da sbandierare in TV le liti familiari, i dolori più intimi, i desideri più segreti: insomma, come è stato detto da altri, sino al punto da sacrificare la reputazione alla popolarità. Anche a questo proposito dovremmo sforzarci di essere sinceri, evitando ipocriti moralismi. Dunque dovremmo premettere che una certa misura di notorietà fa piacere, condisce la quotidianità alleggerendone gli inevitabili pesi: soprattutto se si vive in metropoli affollate, ricevere il saluto cordiale di uno sconosciuto spettatore di un tuo concerto o raccogliere una parola di gratitudine da un lettore di un tuo libro equivalgono alle boccate d’aria di un nuotatore che solitamente procede con la faccia sott’acqua. I guai cominciano quando questa “buona fama” , circoscritta, di cui godiamo il privilegio, non ci basta e – anziché fruirne come effetto secondario e desiderabile del nostro contributo spirituale al benessere sociale – la perseguiamo in sé stessa e in misura crescente. In preda a questo genere di bulimia, nulla ci sembrerà scorretto o ridicolo, purché la nostra ‘popolarità’ non si eclissi neppure per un giorno. Ma davvero questa condizione di personaggio ‘pubblico’ – costantemente oggetto di monitoraggio, di critiche, di maldicenze – è migliore di chi può condurre serenamente una vita ‘privata’, solo occasionalmente e con discrezione illuminata da qualche flash? Mi pare di capire che proprio le persone che hanno raggiunto livelli notevoli di notorietà (ma non sono già andate fuori di testa) sono le più propense a condividere il senso essenziale – se non proprio la lettera – del consiglio della filosofia ellenistica di “vivere nascosti”. 


Il conformismo come prezzo del riconoscimento

Il bisogno di essere ri-conosciuti è talmente prepotente da esporci al rischio del conformismo più umiliante (nona implicazione). Se sono un pulcino nero e gli altri, tutti uniformemente gialli, non mi riconoscono, m’ignorano, mi dis-conoscono, avverto forte la tentazione di nascondere (o addirittura cancellare) i miei tratti caratteristici, originali, per apparire (o addirittura diventare) come gli altri. Anche in questa ipotesi malaugurata il riconoscimento mi conferisce un’identità: ma falsa. M’inchioda all’inautenticità perpetua.


La riconoscenza come difficile riconoscimento

Vorrei chiudere con una decima considerazione (per così dire in calce). Ragionando in astratto si potrebbe ipotizzare che la forma di ‘riconoscimento’ più agevole sia la ‘riconoscenza’ per i benefici offerti. Ma l’esperienza quotidiana smentisce questa ipotesi aprioristica. Ogni dono – specie se offerto senza la delicatezza, la discrezione, il tatto necessari – arriva al donatario come oggettivo attestato di superiorità da parte del donante: il quale, dunque, deve godere di un’ampia auto-stima per poter accoglierlo. Solo chi è magnanimo conosce l’arte del donare; ma non minore magnanimità esige l’arte della riconoscenza. 


Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

1 J. Piaget, La nascita dell’intelligenza nel fanciullo, Giunti-Barbera, Firenze 1991, p.