venerdì 29 luglio 2022

ELOGIO DELLA FRAGILITA'


 “Le nuove frontiere della scuola”

n. 58, Maggio 2022


ELOGIO DELLA FRAGILITA’


Il desiderio di vincere – di azzerare o per lo meno di ridurre al minimo – la propria fragilità è antico quanto l’essere umano. Le correnti del post-umano sono la risposta attuale a quell’antico desiderio: immagazziniamo in un supporto magnetico i contenuti cerebrali di un soggetto e, dopo la sua morte biologica, lo trapiantiamo in un hardware indistruttibile. Non è un caso che la pandemia ha sconvolto più le popolazioni benestanti del pianeta, proiettate verso una sopravvivenza sempre più lunga e sempre più sana, che le restanti, ancora amaramente conviventi con le malattie, le sofferenze, la morte. 

Dico subito che -condividendo in prima persona questo desiderio di vivere a lungo e in condizioni dignitose – non farò finta di indignarmi per il desiderio di immortalità: in ogni caso, è il sintomo di una volontà di vita più forte del dissolvimento. E una convincente smentita delle retoriche nichilistiche imperanti: se l’esistenza umana fosse davvero così assurda e insignificante, perché ci saremmo tanto attaccati anche nei periodi più bui?


Sopperire alla propria fragilità, ma dopo averla cordialmente accettata

Ciò premesso per evitare equivoci, dobbiamo aggiungere che il rifiuto – o la sola dimenticanza – della propria fragilità è il primo passo verso la ybris, la tracotanza: quella che, secondo la parola di Sofocle, gli dei non amano (né tra i loro congeneri né tanto meno nei mortali). Il sogno della forza, della (sia pur relativa, parziale) invincibilità, deve dunque contemperarsi con la cordiale accettazione della propria fragilità. 

Tale accettazione ci sarà tanto più facile quanto più a fondo sapremo sondare tutti gli aspetti della fragilitas che è sì soggezione alla rottura, all’indebolimento, al frazionamento; ma non solo. E’ anche delicatezza, tenuità, gracilità che induce alla tenerezza e all’accudimento. Come è a molti noto, la tecnica giapponese kintsugi consiste nell’evidenziare con polvere d’oro le fratture incidentali in manufatti di ceramica: con ciò stesso tali manufatti si riparano e si impreziosiscono. Essa, infatti, aggiunge valore a ciò che si ripara. Il risultato è sorprendente: il manufatto rimane striato da linee d’oro che lo rendono diverso, pregevole. La ceramica prende nuova vita attraverso le linee delle sue “cicatrici” impreziosite e impreziosenti !

Un insegnante di chimica, rievocando una lezione in laboratorio, riferendosi agli alunni ha dichiarato una volta: “Hanno potuto apprezzare l’importanza delle impurezze: nessuno sapeva che i bellissimi colori dello smeraldo, come del rubino, dipendono da piccole impurezze ospitate negli spazi interstiziali dei cristalli, che altrimenti sarebbero incolori; nessuno aveva colto il paradosso della contaminazione della conchiglia da parte del granello di sabbia, che diventerà la sua perla preziosa grazie all’interazione che vi nasce. Esempi magnifici di come la vulnerabilità e l’esposizione alla contaminazione in natura diventino fonte e ragione di bellezza” (P. Bagni in P.Buondonno – P. Bagni , Suonare in caso di tristezza. Dialogo sulla scuola e la democrazia, PM edizioni, Varazze 2021, pp. 109 – 110).

Anche nella nostra esperienza esistenziale sappiamo che una relazione d’amicizia, un rapporto d’amore, una fase di creatività artistica…ci sono tanto più care quanto più acutamente ne percepiamo la fragilità. Quanta vita sprecheremmo – ancor più di quanto ne sprechiamo già – se sapessimo che fosse infrangibile? E quanta saggezza nelle persone che, invitate a nascondere con creme e altri trucchi le rughe del viso, si rifiutano di farlo affermando, con Anna Magnani, di essere affezionate a ciò che hanno tesorizzato gradualmente nel corso di un’intera esistenza !


Il dono della produzione simbolica

Alla fragilità dobbiamo anche il dono della poesia, della filosofia, della scienza, del diritto. Se infatti miti e ragionamenti speculativi nascono dal thaumazein, non si tratta di un innocuo ‘stupirsi’, bensì di un meravigliarsi angoscioso davanti a un mondo soverchiante e minaccioso: “Le forze scatenate della natura, un vulcano in eruzione, un terribile uragano, ci affascinano e ci spaventano perché possono smembrarci e inghiottirci in un attimo. In questa grandiosa rappresentazione il ruolo che giochiamo noi, piccoli esseri fragili, continuamente esposti alla sofferenza e alla morte, è totalmente irrilevante. Ecco che il racconto, la spiegazione, sia essa mitica o religiosa, filosofica o scientifica, mentre dà conto della meraviglia, in quel preciso momento ci conforta e rassicura; mette ordine nella sequenza incontrollabile degli eventi e così facendo ci protegge da angoscia e terrore. Questo racconto, in cui tutti hanno un ruolo e ciascuno gioca la sua parte, assegna un senso al ciclo grandioso dell’esistenza. Siamo rassicurati perché ci sentiamo protetti, e si attenua la nostra paura di morire” (G. Tonelli, Genesi. Il grande racconto delle origini, Feltrinelli, Milano 2019, pp. 208 – 209). 


Accettare la propria, non l’altrui fragilità 

Tra i paradossi della fragilità non va dimenticato che dobbiamo essere tanto più tolleranti con la nostra quanto intransigenti con l’altrui: abbiamo il diritto, e sino a un certo punto il dovere, di sopportare le nostre ferite, non le piaghe dolorose degli altri viventi. E’ sintomo di grandezza morale stringere i denti quando si soffre, ma ancor di più quando ci si commuove per il dolore altrui e ci si china a sollevare al proprio petto ‘materno’ chi è stato prostrato dalla durezza della storia. 

Dunque non sempre e in ogni caso, non in sé, la fragilità va elogiata, ma solo se, e quando, e nella misura in cui, essa suggerisca ‘umiltà’ e ‘accompagnamento’. Che splendide parole, di cui pure abbiamo dimenticato il significato etimologico sino a usarle banalmente, quando non spregiativamente! ‘Umiltà’: non codardia e servilismo, ma consapevolezza di essere humus, impastati di terra. E proprio perché siamo vasi di creta tra vasi di creta, non sopporteremo la prepotenza né in noi né in altri rispetto a noi. L’umiltà è maestra di dignità, di forza interiore e di coraggio relazionale. Ma è anche maestra di solidarietà, di condivisione: di ‘accompagnamento’, cioè di disponibilità a farsi compagni, a mangiare con (cum) gli altri il pane ( panis) quotidiano.


Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

lunedì 18 luglio 2022

MARIA D'ASARO RECENSISCE IL LIBRO SU MAFIA E ANTIMAFIA OGGI IN PRESENTAZIONE A MARSALA IL 19 LUGLIO 2022


Dopo la presentazione di mercoledì della scorsa settimana al "No mafia memorial" (vedi foto di Maria D'Asaro), la stessa Maria ha pubblicato una recensione del mio libro:

La recensione del volume (che sarà presentato a MARSALA martedì 19 luglio, alle ore 19, presso il Chiostro di Casa Damiani in via XI maggio, 106) la potete leggere con un semplice click qui:

domenica 17 luglio 2022

UN APPELLO COSTRUTTIVO: RISCRIVIAMO CON MINORE INCOMPLETEZZA I LIBRI DI STORIA PER LE NOSTRE SCUOLE


https://ilmanifesto.it/lettera-aperta-sui-manuali-scolastici-e-universitari?utm_medium=Social&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR0Zw7AZ3hBzqI_Rd2yUW5Q724zxUKibmYkBLzXNkXUv4R_AA_LaMqKcexA#Echobox=1656872734

Su vari siti e testate (fra cui "Il Manifesto" e "Adista") è stato ospitato un appello, redatto da Andrea Cozzo e co-firmato da alcuni di noi, sulla necessità di riscrivere i libri di storia in modo che la prospettiva patriarcale-maschilista e bellica NON sia l'unica da cui leggere personaggi ed eventi. 

Alcuni - che non desidero gratificare di una citazione forse particolarmente ambita - hanno commentato l'appello, su qualche quotidiano nazionale e sulla rete, in maniera pungente. Ovviamente tutte le obiezioni in questi casi sono preziose, ma se rivolte al testo autentico, non a qualche interpretazione caricaturale. In buona o in cattiva fede, infatti, si è scritto che l'appello vuole "cancellare" le guerre dai manuali scolastici con la stessa ingenuità di medici che volessero proporre di eliminare il cancro limitandosi a cancellarlo dall'elenco delle patologie. Chi ha occhi per leggere, e cuore abbastanza libero per intendere ciò che legge, potrà giudicare in prima persona se è questo il senso della nostra proposta pedagogico-didattica (accolta, per fortuna, anche da alcune case editrici e alcune scuole italiane con convinta adesione).





giovedì 14 luglio 2022

CI VEDIAMO A MARSALA, MARTEDI' 19 LUGLIO 2022, ALLE ORE 19, TRENT'ANNI DOPO VIA D'AMELIO?


 Dal 23 maggio al 19 luglio e, soprattutto, oltre...

Che cosa si è fatto, che cosa non si è fatto, che cosa si può fare - proclami altisonanti a parte - per non rendere vano il sacrificio di Falcone, Borsellino e delle persone che per amore (Francesca Morvillo) o per dovere (le due scorte) erano con loro trent'anni fa?

Non ci sono ricette sbrigative né indicazioni esaurienti. Ma alcuni punti fermi, chi è in buona fede, può trovarli:


Martedì 19 luglio 2022, alle ore 19, a Marsala, presso il Chiosco di Casa Damiani (via XI maggio 106), ci rifletteremo insieme con chi vorrà apportare un contributo serio, e sobrio, basato su esperienze effettivamente realizzate in questi tre decenni. L'incontro sarà avviato da una mia conversazione con Barbara Lottero e Renato Polizzi.

lunedì 11 luglio 2022

BARTOLOMEO SORGE : L'ILLUSIONE DI UN PROGRESSISTA 'CAUTO' CHE BASTI 'AGGIORNARE' IL LINGUAGGIO


Questo libro di Bartolomeo Sorge con Maria Concetta De Magistris (Un gesuita felice. Testamento spirituale, Edizioni Terra Santa, Milano 2021) non è di facile classificazione. Come spiega bene don Massimo Naro nella Prefazione, è un insolito “intreccio di biografia e autobiografia”; anzi, per essere più precisi, si potrebbe dire di “biografia” (del noto gesuita scomparso nel 2020) e di “autobiografie” al plurale (della teologa discepola di Sorge e dello stesso Sorge). Ma né l'una né le altre due seguono i canoni abituali: infatti, più che alla completezza cronologica delle vicende personali, mirano ad evidenziare alcuni tratti spirituali più salienti delle due esistenze. 

Così la De Magistris racconta il suo incontro giovanile a Palermo con il già celebre direttore de “La Civiltà Cattolica” trasferito (o esiliato ?) da Roma a Palermo perché, chiusa con l'elezione al soglio pontificio di Giovanni Paolo II l'era del Concilio ecumenico Vaticano II, anche l'organo ufficiale dei gesuiti italiani doveva mutare impostazione. E dunque direzione. 

L'autrice, negli anni di frequenza del 'padre' spirituale, ne individua tre “sogni” che egli ha avuto la fortuna di vedere, almeno in parte, avverarsi: la sua “santità” (ovviamente come aspirazione costante), “una città a misura d'uomo” e “una Chiesa rinnovata”. Raccontandoli per iscritto, con sincera ammirazione e delicatezza di tocco, la De Magistris realizza per così dire un quarto sogno di Sorge: “Un libro! Sì. Una testimonianza scritta che potrà continuare a ringraziare e lodare il Signore, anche quando la mia voce sarà spenta”. 

Infatti, affinché il libro sia meno incompleto possibile, nella seconda parte del “dittico” (o della “dilogia”) è lo stesso Sorge che confida al lettore i sette “segni” che, a suo parere, lo hanno illuminato e sostenuto: la “vocazione” al sacerdozio nell'Ordine dei gesuiti, il “cambiamento epocale” verificatosi nel mondo e nella chiesa cattolica, la Scrittura come “Parola di Dio”, l'assistenza dello “Spirito Santo”, la “preghiera del cuore”, l'Eucaristia e la devozione a Maria.

Come si vede, emerge il profilo di una personalità davvero rappresentativa di transizione: aperto alle novità teologiche, culturali e socio-politiche dell'era “post-cristiana”, comunque saldamente radicato nella spiritualità cattolica tradizionale. 

Per completare la lettura, basta un click qua:

https://www.zerozeronews.it/leredita-sempre-fertile-e-ispiratrice-di-padre-sorge/


sabato 9 luglio 2022

DOSSIER SPECIALE DELLA RIVISTA "LA VIA LIBERA" SUI TRENT'ANNI DALLE STRAGI MAFIOSE DEL '92

 "La via libera"   -  un bimestrale di "Libera" che si può leggere sia in cartaceo che in formato elettronico  ( https://lavialibera.it/) - ha inserito nell'ultimo numero (maggio 2022) un dossier a più mani sul trentesimo anniversario delle stragi mafiose. Rivista e dossier saranno presentati mercoledì 13 luglio 2022 (ore 18.00) al "No mafia memorial di Palermo" insieme al mio volume Quel maledetto 1992. L'inquietante eredità di Falcone e Borsellino (Di Girolamo, Trapani 2022):

Qui di seguito il mio contributo al dossier di "La via libera" (che contiene inoltre interventi di Rosy Bindi, Gian Carlo Caselli, Nando Dalla Chiesa, Enrico Deaglio, Federico Cafiero de Raho, Alessandra Dino, Carlo Lucarelli, Anna Puglisi, Enza Rando, Isaia Sales, Umberto Santino, Roberto Saviano, Rocco Sciarrone):

La via libera”

Maggio 2022

A PALERMO SI PAGA ANCORA IL PIZZO.

Il sistema mafioso è stato scalfito. Il bilancio è positivo nonostante i tradimenti di uomini delle istituzioni e privati che, in nome dell'antimafia, hanno guadagnato posti di potere e denaro.


Cosa è cambiato dal maledetto 1992 a oggi? Molto e poco.

E’ cambiato molto perché tra il maggio e il luglio di quell’anno eravamo prostrati dalla sensazione che davvero non ci fosse più nulla da fare; invece, adesso, sappiamo che Cosa Nostra – in quanto soggetto militare - non è invincibile. I suoi capi d’allora sono quasi tutti o sottoterra o sottochiave in una cella e questo destino costituisce – come risulta anche da intercettazioni telefoniche – il più efficace deterrente per le nuove generazioni che esitano a entrare in un’organizzazione che, per la prima volta nella sua storia quasi bicentenaria, non assicura più l’impunità da vivi né solenni funerali religiosi da morti. Questo mutamento giudiziario-repressivo va riconosciuto con nettezza: lo dobbiamo alla memoria di quanti lo hanno reso possibile col sangue e lo dobbiamo a noi stessi – i sopravvissuti – per non scoraggiarci, per continuare (soprattutto nel silenzio della quotidianità anonima) a erodere ai fianchi l’egemonia mafiosa.

Tuttavia se abbiamo un’idea adeguata del sistema di dominio mafioso – un sistema criminale pluridimensionale: militare, ma anche politico, sociale, culturale – dobbiamo riconoscere, amaramente, che in questi trent’anni è cambiato poco. Troppo poco. 

Mentre scrivo queste righe la mia città, Palermo, è tappezzata da manifesti elettorali con il simbolo della Democrazia cristiana e lo slogan “Siamo tornati. Tornate anche voi”. Chi è tornato? Tra i reduci, Salvatore Cuffaro, già presidente della giunta regionale siciliana. Da dove è tornato? Da una reclusione carceraria in seguito a una condanna a sette anni per favoreggiamento di mafiosi. Perché è tornato? Perché non è opportuno che a dispensare consigli sulle strategie elettorali sia soltanto Marcello Dell’Utri, anch’egli reduce dal carcere in seguito a una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Entrambi sono definiti su Wikipedia “ex politici”, ma – stando ai quotidiani – bisognerebbe cancellare il prefisso “ex”. 

Se consideriamo la mafia come soggetto non solo politico, ma anche economico, lo scenario non è più incoraggiante. Nonostante le associazioni anti-racket, nonostante i movimenti “dal basso” come Addiopizzo, nonostante i codici etici delle associazioni di categoria (agricoltori, industriali, commercianti), la maggior parte dei cittadini che lavorano e producono continua a ritenere conveniente, o meno oneroso, pagare il ‘pizzo’. Anzi, ho raccolto dai diretti interessati confidenze che non sospettavo: anche professionisti, anche avvocati, contribuiscono di tasca propria a mantenere le famiglie dei carcerati, pur di non avere fastidi di nessun genere per sé e per i clienti dei propri studi. A quanto sembra, anche in considerazione della pandemia, si paga di meno, ma si paga: alle cosche servono sì gli spiccioli, ma soprattutto serve un segno di riconoscimento della loro “signoria territoriale” (U. Santino). Senza contare la funzione erogatoria di denaro che le casse dei mafiosi sono in grado di esercitare quando le banche chiudono i rubinetti. E pazienza se i prestiti vengono concessi a tassi d’interesse usurari.

Perfino sul piano culturale – intendo della mentalità dominante, dei parametri di giudizio e di comportamento – il sistema mafioso, pur accusando indubbi regressi, può vantare un bilancio positivo. Meno di un anno fa ho appreso dalla stampa locale che un mio vicino di casa, in lite con l’inquilino, ha proposto una serie di incontri conciliatori pre-giudiziari nello studio di un noto commercialista. Le trattative sono andate a buon esito: il proprietario non ha affrontato le spese di riparazione richiestegli e il locatario potrà pagare la metà della mensilità a suo tempo concordata. Piccolo particolare: i due contraenti si erano presentati agli incontri accompagnati, ciascuno, da un boss di rilievo. Commento delle autorità giudiziarie: “Se nel 2021 la borghesia ricorre ancora a questo genere di intermediazione, che speranze abbiamo per l’immediato futuro?”

E’ cambiato molto, è cambiato poco. E’ cambiato comunque abbastanza per non demordere. Per superare lo scoramento provocato dai tradimenti attuati, in questi anni, da magistrati e prefetti, parlamentari e medici, professori universitari e imprenditori che, in nome dell’antimafia, hanno guadagnato posti di potere e accumulato denaro illecito. Per non scoraggiarsi leggendo, come in questi giorni, che alcuni funzionari pubblici (tra cui un vice-prefetto) hanno da tempo ottenuto “mazzette” in cambio dell’assunzione di giovani candidati nei ranghi dei vigili urbani, degli agenti penitenziari e della polizia di Stato. 

La volontà di persistere in questa faticosa battaglia, dall’esito certo ma dai tempi incerti, pulsa in molte città: a Torino come a Catania, a Milano come a Caserta. Da alcuni anni ha trovato a Palermo, a due passi dalla cattedrale, anche un luogo simbolico che migliaia di cittadini e di turisti hanno già visitato: il “No mafia memorial” (https://www.nomafiamemorial.org) , museo interattivo della storia della mafia e dell’antimafia e laboratorio di continue iniziative d’informazione e di formazione. Nient’altro che una delle tante piccole luci che, tra delusioni e sconfitte, l’Italia migliore ha provato ad accendere in questi tre decenni sulla scia della saggezza orientale secondo cui è meglio accendere una candela che maledire l’oscurità.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

giovedì 7 luglio 2022

LA MAFIA E L'ANTIMAFIA SPIEGATE AI RAGAZZINI (10 - 13 ANNI)



 

FALCONE E BORSELLINO RACCONTATI AI RAGAZZINI

(nella foto l'autrice Irene De Piccoli)

Sulle stragi mafiose del '92 gli adulti sanno molto: o perché trent'anni fa le hanno vissute in diretta o perché sono stati informati in questi mesi da una pubblicistica straripante. Ma i bambini che hanno dieci o dodici anni? Per loro si tratta di avvenimenti lontani nel tempo, un po' come per la mia generazione era la lotta partigiana contro il regime nazi-fascista. Dobbiamo dunque essere grati a Irene De Piccoli, veneziana, che – con la collaborazione di due illustratori esperti, Tiziana Longo e Vincenzo Sanapo – ha dato alle stampe il volumetto Falcone e Borsellino. Eroi che non muoiono mai, Buk Buk, Trapani 2022, pp. 79, euro 9,90. 

Il registro è, ovviamente, narrativo (come si addice a lettori così giovani) e prende il volo da una targa (effettivamente esistente) davanti al commissariato di P.S. di Muggia, cittadina in provincia di Trieste, dedicata al concittadino Eddie Walter Max Cosina. A notarla è una ragazzina dodicenne, Giada, che chiede a un signore in divisa di poliziotto lumi sul personaggio celebrato. Così apprende che si tratta di uno degli agenti di scorta del giudice Paolo Borsellino, caduto nell'attentato del 19 luglio 1992. A cerchi centrifughi, la narrazione si amplia alla vita dei giudici antimafia, alla storia della mafia, alle alterne vicende dell'antimafia da allora ad oggi. L'autrice persegue- come scrive in Prefazione lo storico Francesco Fait- “un riuscito equilibrio tra la cronaca documentata e drammaticamente avvincente delle vicende di mafia e il racconto spensierato della giornata di una famiglia in vacanza”. 

Un racconto letterario non è un saggio scientifico e qualche approssimazione concettuale è dunque scusabile.


PER COMPLETARE LA LETTURA, BASTA UN CLICK QUA: 

https://www.zerozeronews.it/falcone-e-borsellino-raccontati-ai-ragazzini/

lunedì 4 luglio 2022

CARLO ROVELLI: CONSIDERAZIONI SULLA GUERRA ATTUALE FRA RUSSIA E UCRAINA

 



Rilancio dal mio blog questo testo di Carlo Rovelli (accompagnato da una colomba di Bansky) perché ne condivido ogni parola. Sono convinto che ognuno è un'autorità nel proprio campo e Rovelli non è né uno storico né un politologo né un filosofo: ma, se un fisico dice cose giuste anche in ambiti differenti dalla fisica, meritano di essere conosciute.

"Amo l' America, ma..."

HO CAPITO IL MOTIVO DEL MIO TURBAMENTO


di Carlo Rovelli (*)


Poche volte mi sono sentito come in questo periodo, così lontano da tutto quanto leggo sui giornali e vedo alla televisione riguardo alla guerra ora in corso in Europa orientale. 


Poche volte mi sono sentito così in dissidio con i discorsi dominanti.  Forse era dai tempi della mia adolescenza inquieta che non mi sentivo così ferito e offeso dal discorso publico intorno a me.


Mi sono chiesto perché. In fondo, sono spesso in disaccordo con le scelte politiche e ideologiche dei paesi in cui vivo, ma questo è normale — siamo in tanti e abbiamo opinioni diverse, letture del mondo diverse.   Anche del mio pacifismo, poi, sono poi così sicuro?  Ho dubbi, come tutti.  Allora perché mi sento così turbato, ferito, spaventato, da quanto leggo su tutti i giornali, e sento ripetere all’infinito alla televisione, nei continui discorsi sulla guerra?


Oggi l’ho capito. L’ho capito proprio ritornando col pensiero al periodo della mia prima adolescenza, quando tanti anni fa la gioventù di tanti paesi del mondo cominciava a ribellarsi a uno stato di cose che le sembrava sbagliato. Cos’era stata quella prima spinta al cambiamento?   Non era l’ingiustizia sociale, non erano i popoli massacrati dal Napalm come i Vietnamiti, non era il perbenismo, la bigotteria, l’autoritarismo sciocco delle università e delle scuole, c’era qualcosa di più semplice, immediato, viscerale che ha ferito l’adolescenza di mezzo secolo fa e ha innescato le rivolte di tanti ragazzi di allora: l’ipocrisia del mondo adulto.


L’istintiva realizzazione da parte della limpidezza della gioventù che 


- gli ideali ostentati erano sepolcri imbiancati


- i nobili valori dichiarati erano coperture per un egoismo gretto


 - l’ostentato moralismo, la pomposa prosopopea della scuola, la pretesa autorità delle istituzioni erano coperture per privilegi, sfruttamento e bassezze.


Questo d’un tratto era insopportabile, per gli occhi limpidi di un ragazzo o una ragazza.


Sono passati tanti anni da allora. Il mondo mi appare infinitamente più complesso, difficile da decifrare, difficile da giudicare, di quanto non mi apparisse allora. L’illusione che tutto possa essere pulito e onesto nel mondo l’ho persa da tempo. Ma l’esplosione dell’ipocrisia dell’Occidente in questo ultimo anno è senza pari.


D’un tratto, l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori, il baluardo della libertà, il protettore dei popoli deboli, il garante della legalità, il guardiano della sacralità della vita umana, l’unica speranza per un mondo di pace e giustizia.   Questo canto a quanto l’Occidente sia buono e giusto e quanto gli stati autocratici siano cattivi è un coro in unisono ripetuto all’infinito da ogni articolo di giornale, ogni commentatore televisivo, ogni editoriale. La cattiveria feroce di Putin è additata, ostentata, ripetuta, declamata, all’infinito.  Ogni bomba che cade sull’Ucraina ci ripete quanto la Russia sia il male e noi il bene.


IO SAREI FELICE DI UNIRMI AL CORO SE ogni volta che condanniamo il fatto —del tutto condannabile— che una potenza militare abbia attaccato con futili pretesti un paese sovrano, mi aggiungerei al coro se ogni volta l’Occidente aggiungesse 


“E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto in Afghanistan, in Irak, in Libia, a Grenada, a Cuba, e in tantissimi altri paesi. Lo abbiamo fatto ma ora che lo fanno i Russi ci rendiamo conto di quanto sia doloroso, non lo faremo più.”


SAREI FELICE DI UNIRMI AL CORO SE ogni volta che condanniamo il fatto —del tutto condannabile— che i confini delle nazioni non sono rispettati, e la Russia ha riconosciuto l’indipendenza del Donbas, mi aggiungerei al coro se l’Occidente aggiungesse 


“E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto quando ho subito riconosciuto l’indipendenza della Slovenia e della Croazia, cambiando i confini dell’Europa, innescando una sanguinosissima guerra civile, e strappando terre alla Yugoslavia.”


SAREI FELICE DI UNIRMI AL CORO SE ogni volta che condanniamo il fatto —del tutto condannabile— che Mosca bombarda Kiev, ammazzando civili innocenti, adducendo come motivo che Kiev bombardava il Donbas, mi aggiungerei al coro se l’Occidente aggiungesse 


“E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto quando ho bombardato Belgrado, uccidendo cinquemila persone, donne e bambini innocenti, adducendo come motivo che Belgrado bombardava il Kossovo”.


SAREI FELICE DI UNIRMI AL CORO SE se ogni volta che condanniamo il fatto —del tutto condannabile— che la Russia pretende di cambiare il regime politico di Kiev perché questo regime le si ribella, mi aggiungerei al coro se l’Occidente aggiungesse 


“E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto quando ho bombardato la LIBIA, invaso l’IRAK, destabilizzato governi del mondo intero, dal MEDIO ORIENTE al SUD AMERICA, dal CILE all’ALGERIA, dall’EGITTO alla PALESTINA, ogni volta che un popolo votava per un governo troppo poco favorevole agli interessi occidentali, buttando giù governi democraticamente eletti come in Algeria in Egitto o in Palestina, per invece sostenere dittature come in Arabia Saudita quando  fa comodo, anche se i sauditi continuano a massacrare Yemeniti”.


SAREI FELICE DI UNIRMI AL CORO che si commuove per i poveri Ucraini, se questo coro si commuovesse anche per gli Yemeniti, i Siriani, gli Afghani e tutti gli altri, con la pelle di tonalità leggermente diversa, invece di lasciare fuori tutti gli altri a marcire.


O forse sarei in disaccordo, ma non così schifato, se semplicemente sentissi dire “siamo i più forti, vogliamo dominare il mondo con la violenza delle armi, per difendere la nostra ricchezza,  e lo domineremo.  Almeno non ci sarebbe l’ipocrisia, almeno potremmo discutere se questa sia o no una scelta lungimirante, e non sia più lungimirante smorzare lo scontro e cercare collaborazione.


E INVECE SIAMO IMMERSI NELLA PIÙ SFRENATA IPOCRISIA. Arriviamo a eccessi che rasentano il surrealismo. I nostri giornali parlano delle ambizioni “imperiali" della Cina e della Russia.  


Ma la Cina non ha praticamente un solo soldato al di fuori dei confini cinesi riconosciuti internazionalmente. La Russia ne ha solo a pochi chilometri dai suoi confini. I più lontani sono in Transnitzia, a poche decine di chilometri dai suoi eserciti. 


Gli Americani hanno cento mila soldati in Europa, hanno basi militari in centro America, in Sud America, in Africa, in Asia, nel Pacifico, in Giappone, in Corea, praticamente ovunque nel mondo. Eccetto in Ucraina, dove però le stavano iniziando. Hanno portaerei nel mare della Cina.  


Chi ha una politica imperiale?  


Dalle coste cinesi si vedono le navi da guerra americane, non credo che da New York si vedano navi da guerra Cinesi. Eppure i nostri giornalisti surrealisti riescono ribaltare la realtà fino a parlare della logica imperiale di Russia e Cina!


Si paventa l’uso della bomba atomica. Ma è l’Occidente l’unico ad aver usato la bomba atomica per affermare con l’estrema violenza il suo incondizionato domino, nessun altro lo ha fatto. 


Si dice che la Cina è aggressiva.  Ma non ha fatto una solo guerra dopo la Corea e il Vietnam, mentre l’Occidente ha fatto guerre in continuazione nel mondo intero.  


Chi è l’impero?


Il pentagono pubblica regolarmente liste di esseri umani uccisi in ogni parte del mondo dai suoi droni.  Riconosce pubblicamente che molti innocenti vengono uccisi per sbaglio. Il New York Times arriva all’orrore di scrivere un lungo articolo per denunciare il fatto che i poveri soldati americani che guidano questi droni da remoto non hanno abbastanza supporti psicologico per sopportare il duro lavoro e lo stress di dover spesso ammazzare innocenti!  Lo scandalo, per il paludato organo di stampa dei padroni del mondo, non è che siano ammazzati innocenti, è che i soldati che ammazzano non hanno adeguato supporto psicologico!


Neppure l’impero Assiro ricordato nell’antichità per la sua violenza era mai arrivato a una simile arroganza e disprezzo per il resto dell’ umanità!  Ma i nostri giornalisti ignorano felicemente che ogni settimana nel mondo qualcuno viene ucciso da droni americani, e ricordano piuttosto  indignatissimi di una persona uccisa dai russi a Londra.Come sono orrendi i Russi!  E via via così…


La Russia si è permessa di commettere anch’essa qualcosa degli orrori che l’Occidente continua a commettere. L’Irak e L’Afghanistan non avevano fatto male a nessuno: l’Occidente li ha invasi e ha fatto molte centinaia di migliaia di morti, nelle due guerre. E si permette di fare l’anima candida con la Russia?


Che lo faccia promettendo di non invadere più nessun paese, di non infilarsi più in nessuna guerra, di non voler dominare il mondo con la violenza.  Allora mi unirò anch’io al coro di condanna dei cattivi Russi.


Abbiamo sentito l’assurdo. Gli Americani invocare la corte internazionale di giustizia, che hanno sempre ostacolato e a cui non hanno aderito. Invocare la legalità internazionale, quando tutte le loro ultime guerre sono state condannate dalle Nazioni Unite e hanno fatto di tutto per esautorarle, compreso non pagare la loro parte.


Amo l’America.  Ci ho vissuto dieci anni. La conosco. La ammiro.  Ne conosco gli splendori e gli orrori. La brillantezza delle sue università, la vitalità della sua economia, la miseria infame dei ghetti neri e dei ghetti bianchi, le sue carceri dove tengono quasi un americano ogni cento, la violenza per noi europei inconcepibile delle sue strade.  


Amo anche l’Europa, dove sono nato. Ho amato quella che mi sembrava essere la tolleranza e la cautela ereditate dalla devastazione della Guerra Mondiale. Ma non posso non vedere come questa parte ricca e potente del mondo stia sempre più chiudendosi su se stessa in un parossismo di violenza contro il resto del mondo.  


Amo l’Occidente, ma per la ricchezza culturale che ha regalato al mondo intero, non per essere diventato dominante con la schiavitù e sterminando interi continenti, non per questa sfrenata violenza e ipocrisia che continuano gli orrori del passato.


Amo anche la Cina e l’India, di cui pure ho visto miserie e splendori.  È stupido discutere su chi sia migliore, come se dovessimo tutti fare la stessa cosa, o come se qualcuno dovesse necessariamente vincere sugli altri.  


Il problema del mondo non è chi deve comandare, che sistema politico dobbiamo adottare tutti.  Il problema del mondo è come convivere, tollerarsi,  rispettarsi, imparare a collaborare.


Il mondo ha diversi miliardi di abitanti. La maggioranza di questi sono fuori dall’Occidente. Ce ne sono in Cina, in India, in Russia, in Brasile, nel resto del Sud America, dell’Africa, dell’Asia. Sono la maggioranza dell’umanità.  Non hanno più simpatia per l’Occidente. Ne hanno sempre meno. Non partecipano alle sanzioni contro la Russia, molti si sono rifiutati perfino di votare la condanna della Russia all’ONU, nonostante fosse ovviamente condannabile. Non perché siano cattivi, perché amino la violenza, o abbiano biechi motivo.  Ma perché vedono la sfrenata ipocrisia dell’Occidente, che riempie il mondo dei suoi eserciti, si sente libero di massacrare, e poi fa l’anima candida se un altro si comporta male.


Il mondo, nella sua vasta maggioranza, vorrebbe che i problemi comuni dell’umanità, il riscaldamento climatico, le pandemie, la povertà, fossero affrontati in comune, con decisioni prese in comune. Vorrebbe che le Nazioni Unite contassero di più.  


È l’Occidente che blocca questa collaborazione, perché si sente in diritto di comandare, perché ha le armi dalla sua, la violenza dalla sua.


Ora l’Occidente si sente inquieto perché la Cina sta diventando ricca, per questo la stuzzica, la provoca, l'accusa di ogni cosa accusabile (e ce ne sono: scagli la prima pietra chi è senza colpe). L’Occidente cerca lo scontro con la Cina.  Vorrebbe umiliarla militarmente prima che cresca troppo e questo diventi impossibile. La classe dominante occidentale ci sta portando verso la terza guerra mondiale. I problemi dell’Ukraina si potrebbero risolvere come alla fine l’Occidente ha voluto risolvere la Yugoslavia: una guerra civile che si trascina da tempo, con interventi militari esterni, che ha portato a una separazione in parti diverse. Ma l'Occidente non vuole una soluzione, vuole fare male alla Russia. Non fa che ripeterlo.


Alla televisione sfilano le facce felici delle riunioni dei leaders occidentali, felici delle loro portaerei, le loro bombe atomiche, le loro armi innumerevoli, trilioni di dollari di armi, con cui si potrebbero risolvere i problemi del mondo, e invece sono usati per rafforzare un predomino violento sul mondo.


E tutto questo colorato delle belle parole: democrazia, libertà, rispetto delle nazioni, pace, rispetto della legalità internazionale, rispetto della legge.  Dietro, come zombi, i giornalisti e gli editorialisti a ripetere.   Sepolcri imbiancati.  Su una scia di sangue di milioni di morti straziati dalle nostre bombe negli ultimi decenni.  Da Hiroshima a Kabul, e continueranno.


(*) https://it.m.wikipedia.org/wiki/Carlo_Rovelli

sabato 2 luglio 2022

LA PEDAGOGIA "DELLA" SOFFERENZA SECONDO ORLANDO FRANCESCHELLI


LA PEDAGOGIA DELLA SOFFERENZA.

INDICAZIONI DA ORLANDO FRANCESCHELLI

Anche se – a giudizio di alcuni – la pandemia da Covid-19 è stata amplificata nel racconto pubblico, in ogni caso ha costituito un dato oggettivo nel biennio 2020 – 2021 (né, al momento in cui scrivo, sembra destinata a tramontare). Essa ha sottolineato anche agli occhi delle fasce benestanti dei Paesi occidentali ciò che in quasi tutto il resto del pianeta è esperienza quotidiana: l’esistenza umana è fragile, esposta a minacce di ogni genere. 

La sofferenza è una buona educatrice? Nei mesi più duri lo si è ripetuto, su un registro linguistico oscillante fra la previsione e l’auspicio: “Alla fine, ne usciremo. E migliori”. Ma il trascorrere del tempo conferma l’opinione più cauta di quanti supponevano – e suppongono – che, dove è in gioco l’essere umano, non scatta nessun automatismo. I fallimenti esistenziali, le malattie psichiche, i dolori fisici…tutto è intrinsecamente ambivalente: può migliorarci o peggiorarci a seconda del nostro atteggiamento di fondo (in genere migliora i migliori e peggiora i peggiori). 

E’ possibile individuare alcune condizioni favorevoli a una “pedagogia della sofferenza” , intendendo il genitivo sia come ‘soggettivo’ (la pedagogia esercitata su di noi dalla sofferenza) che come ‘oggettivo’ (o ‘di argomento’: la pedagogia che possiamo attivare, in noi prima che a vantaggio di altri,  in rapporto alla sofferenza)? Il filosofo Orlando Franceschelli ci prova nel suo Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza (con Prefazione di Telmo Pievani, Donzelli, Roma 2021, pp. 155, euro 18,00): 

Sopportare la sofferenza per quanto si deve, ridurla per quanto è possibile, conoscere-apprendere quanto di più prezioso essa può insegnarci: la pedagogia della sofferenza educa a non sottovalutare nessuno di questi aspetti della nostra interazione con i pathemata senza redenzione” (p. 111). 

Vediamo, più attentamente, di cosa si tratta.

Sopportare tutto, e solo, ciò che va sopportato

“Sopportare la sofferenza per quanto si deve”: già, infatti non tutte le sofferenze sono inevitabili e dunque da sopportare pazientemente. Molti mali vengono a noi mortali da altri mortali più forti fisicamente, più astuti, più spregiudicati, più prepotenti, più spietati, più egoisti: sono i mali che le strutture economiche, le istituzioni giuridiche, i meccanismi politici, le tradizioni culturali…cristallizzano e perpetuano nella storia. Sono quei mali a cui i grandi riformatori – dai profeti biblici a Gandhi, Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (per citare quasi a caso e comunque nel limitato orizzonte di un occidentale) – ci hanno insegnato a ribellarci, facendo leva sull’indignazione individuale e soprattutto sulla mobilitazione di più o meno ampi aggregati sociali. 

Tuttavia, al netto delle sofferenze che l’uomo-lupo infligge all’altro uomo (specie se agnello), l’esistenza umana rimane marchiata da limiti ontologici insuperabili, di cui il decesso fisico è sintesi e cifra. Lo aveva notato già Agostino d’Ippona: nasciamo e di questo moriamo (anche se, abitualmente, ci diciamo che l’uno è deceduto per un incidente sul lavoro, l’altra per un male inguaribile, l’altro ancora nel corso di una rapina in banca). Eppure, oggi, alcune correnti teorico-tecnologiche sembrano voler negare l’ineluttabilità di questi limiti costitutivi dell’esistenza umana. Franceschelli denomina, complessivamente, “futurismo dei vincitori” queste varie correnti che si presentano sia nella versione 

forte del controllo tecnocratico di esseri viventi e ambiente (bio- e geo-ingegneria)” (p. 114) 

sia nella versione

gentile che comunque predilige prospettare e promettere miglioramenti futuri invece di curare le attuali ferite e contrastare efficacemente ingiustizie e privilegi che ne sono la causa. Finendo così per favorire comportamenti individuali e strategie etico-politiche che sono l’esatto opposto teso a migliorare noi stessi e la società anche mediante un serio confronto col problema della sofferenza” (pp.114 – 115). 

Ci muoviamo, insomma, sul filo d’acciaio steso su un burrone: da una parte si può cadere nel “dolorismo” (p. 8) di cui non di rado le religioni monoteistiche – influenzate da certe correnti dello Stoicismo1 - sono state agenzie educative (contribuendo alla passiva e inerte rassegnazione di intere generazioni di fedeli davanti a situazioni di sofferenza che, con blasfema narrazione, attribuivano alla volontà divina stessa); dall’altra si può precipitare nel super-omismo di chi interpreta la nietzschiana volontà di potenza come ineluttabile processo di auto-divinizzazione del mortale (meglio: di alcune minoranze elette2) , anche mediante gli strumenti della tecnica, al di là di ogni finitudine biologica e psicologica3. E’ interessante notare come da premesse onto-teologiche così distanti si possa convergere su esiti pratici, etico-operativi molto simili, se non identici: “preferire la sofferenza a ogni sua possibile riduzione” dal momento che “il piacere, il benessere, la felicità come sono intesi dai sostenitori della civilizzazione umana, da Epicuro a Darwin” (p. 109) , sono “valori” meritevoli di essere perseguiti non dal santo/saggio/superuomo, bensì dalla gente mediocre inadatta a elevarsi sulle vette della vita intellettuale e spirituale. 

Ridurre, per quanto possibile, le sofferenze 

E’ proprio per evitare questo duplice, letale, pericolo che una pedagogia della sofferenza non può esimersi dall’indicare – subito dopo l’invito a sopportare le sofferenze davvero inevitabili, irredimibili – la necessità di impegnarsi a “ridurl[e] per quanto possibile” (p. 111). A tal fine è, innanzitutto, importante la completezza della diagnosi: i mali contro cui dovremmo schierarci non ci assediano in ordine sparso, ma in compagine compatta. In proposito Franceschelli tiene a

precisare che quella del Covid-19, più che una pan-demia, è stata una sin-demia. Questo termine infatti richiama, opportunamente, l’attenzione sul prefisso syn-, ossia sull’insieme dei problemi (sanitari, ambientali, psicologici, sociali, economici) e sulla relazione tra le varie malattie che hanno favorito e reso ancora più devastanti gli effetti della diffusione del coronavirus nella popolazione (demos). E’ per queste ragioni che ‘sindemia’ esprime meglio di ‘pandemia’ non solo la sofferenza comune (la syn-patheia) causata da Covid-19, ma anche il comprensibile timore che la stessa ricerca di una soluzione puramente bio-medica potrebbe rivelarsi fallimentare. Con conseguenze più gravi, com’è agevole capire, per le fasce della popolazione maggiormente svantaggiate ed esposte a disuguaglianze socio-economiche e inospitalità ambientale” (p. 66).

A una diagnosi così impegnativa non può non conseguire una terapia altrettanto complessa. L’autore la incentra sulla “sinergia pensare-fare” (p. 124) così come è ribadita nella tradizione filosofica occidentale da Goethe (“Pensare e fare, fare e pensare. Ecco la somma di ogni saggezza”, cfr. p. 11 ) sino a Wittgenstein e Williams: una sinergia che eviti la riduzione del ‘fare’ a “un attivismo incondizionato” e il ‘pensare’ a “una contemplazione di entità soprannaturali più o meno solitaria, apatica, separata dalla vita” (pp. 17 – 18)4. Ovviamente l’intreccio fra teoria e prassi non avrebbe senso se avessero ragione o gli idealisti negatori di una consistenza reale della natura extra-mentale, come Hegel e Croce (perché operare su un “fantasma”?) o i materialisti negatori di una qualche trascendenza del pensiero rispetto alle sue radici biologiche e socio-economiche (e dunque votati a un pragmatismo del “fare senza pensare”)5, tra i quali ha rischiato, salvandosi solo  in extremis , di ascriversi Marx. Rettamente intesa, al di là della depistante opposizione fra “interpretare” e “trasformare” il mondo6, la “sinergia di pensare e fare” può alimentare “il concreto perseguimento” di quel “rapporto ragionevole e lungimirante tra ambiente naturale e storia della nostra specie” che “costituisce il nostro primo bene comune” (pp. 41 – 42). Al di là dell’illusione antropocentrica – se non antropoteistica – di poter disporre della “sovrumana storia dell’universo” come si trattasse di una delle “nostre umanissime creazioni storiche” (p. 42), ma anche della tentazione di “rifugiarsi in determinismi (genetico, socio-economico, geo-ambientale) o in fatalismi, spesso invocati nel tentativo di legittimare il proprio non assumersi responsabilità appellandosi a riduzionismi biologici o ad argomentazioni sostanzialmente metafisiche su necessità sovrannaturali” (p. 43). 

Accrescere sapere e saggezza

Sopportare i mali inevitabili e impegnarsi a ridurne al minimo l’impatto doloroso, su noi e gli altri viventi, sarebbero frutti pedagogici incompleti, per quanto preziosi, se non integrati da - o forse meglio: radicati in - un accrescimento di sapere e di saggezza. Di questa evoluzione cognitivo-etica fanno parte alcune acquisizioni. 

La prima: non si può vivere alla giornata, senza una propria interpretazione della vita, Senza “maturare liberamente e criticamente anche una «propria concezione del mondo» (Gramsci)” grazie, innanzitutto, a un costante “dialogare socraticamente e laicamente con gli altri con-filosofanti” (p. 47). Le trasformazioni storico-sociali sono sì effetto di mobilitazioni collettive, ma tali movimenti macroscopici originano nella “coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea” (Gramsci, cit. a p. 47). 

La seconda acquisizione è una specificazione/esplicitazione della precedente: l’attività filosofica a cui sono chiamati non solo i professionisti della storia della filosofia, ma i cittadini e le cittadine in quanto esseri pensanti, va intesa come indagine critica sui fenomeni illustrati dalle scienze empiriche e finalizzata a “vivere come si deve” (per dirla con Montaigne citato a p. 3) o a fare degli “uomini”, non dei “libri” (per dirla con Feuerbach citato a p. 11) . Dunque una filosofia scevra da complessi di superiorità rispetto alle “scienze naturali e umane, la conoscenza storica, la cultura umanistica nel senso più ampio (arte, teologia, antropologia, diritto, economia)” e immune dalla tentazione del teoreticismo aristocratico (secondo cui si vivrebbe per filosofare, dimenticando che, invece, si filosofa per dare il proprio contributo alla “crescita individuale e civile”, p. 6). 

Si potrebbe aggiungere una terza acquisizione ‘sapienziale’: un simile modo di praticare la filosofia, per quanto concentrato sul presente e aperto alla progettazione del futuro, non si sottrae a 

l’inquietudine e la pena che nascono dal passato: da comportamenti e fatti su cui grava il peso dell’irrevocabilità. E talvolta del rimpianto. Il conoscere-apprendere attraverso la sofferenza - ammoniva Eschilo – è un dono che costa travaglio: fa scendere nel nostro cuore, anche durante il sonno, qualche goccia di tormentoso ricordo del male” (p. 116).

Una filosofia che non ripiega in una sorta di “anti-pedagogia della dimenticanza” pur di evitare il pungolo dell’interazione con

le testimonianze più significative delle sofferenze patite sulla Terra: quelle dei sommersi” (p. 115). 

Una quarta lezione che potremmo trarre dalla “sindemia” in corso riguarda l’ampliamento del nostro orizzonte di preoccupazioni:

alle sofferenze che hanno sempre accompagnato la vita e la storia si stanno affiancando ferite ecologiche che ormai coinvolgono l’intero pianeta” (p. 122).

Alla globalizzazione dei mali non si può reagire frammentariamente, secondo la logica tribale, ma convertendosi – gradualmente – a “un cosmopolitismo all’altezza dell’Antropocene” (p. 59) consapevole del fatto che “nessuno si salva da solo” (p. 77); che “le frontiere che contano ormai sono solo quelle del pianeta” (p. 60), tra i cui cittadini vanno inclusi gli “altri «agenti animati » che vivono sulla Terra” (ivi).

Siamo entrati, infatti, nell’

Antropo-cene, un’era geologica di cui è artefice l’agire umano (Anthropos) e che è del tutto nuova (come ci ricorda il suffisso -cene, dal greco kainos) rispetto ai precedenti Olocene e Pleistocene , durati rispettivamente migliaia e milioni di anni” (p. 53)7.

Possiamo far finta di niente oppure – seguendo il pressante invito già di Jonas – assumerci la “responsabilità” di questa nuova condizione dell’uomo nel cosmo: attrezzarci di un’ “etica dell’eco-appartenenza” (p. 50).

Una quinta lezione, infine, potrebbe riguardare più direttamente la consapevolezza dei rischi intrinseci alle nostre attuali risorse scientifico-tecniche:

gli odierni rampolli di Homo sapiens dispongono di conoscenze scientifiche e capacità tecnologiche davvero formidabili, ma stentano a utilizzare con moderazione, solidarietà e lungimiranza la potenza che esse mettono nelle loro mani, e che in precedenza l’umanità non ha mai posseduto. Spesso infatti questa potenza viene finalizzata non tanto a una più giusta estensione di beni comuni quali cibo, salute, istruzione, liberazione di tempo da dedicare alla fruizione di cultura e bellezza, bensì agli interessi economici, politici, militari dei paesi e dei gruppi sociali più influenti” (pp. 122 – 123). 


PER COMPLETARE LA LETTURA BASTA UN CLICK QUA:

http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lesperienza-della-sofferenza-tra-filosofia-e-pedagogia/


NOTE

1 Si pensi alla “rigida avversione per ogni «positiva gioia di vivere […] e un disprezzo per il corpo e per la vita dei sensi» (M. Pohlenz) che rendono a dir poco problematiche non solo la benevolenza cosmopolitica e la sopportazione dei mali care agli stoici, ma anche lo stesso, concreto vivere secondo natura da essi perseguito” (pp. 100 – 101). 

2 “E’ al servizio della volontà di potenza che egli [Nietzsche] ha suggerito di mettere l’umana – anzi: sovrumana – capacità di sopportazione, spingendosi perfino a chiedere ai propri discepoli di essere disponibili non solo a soffrire, ma anche a infliggere sofferenze” (p. 105) : “ai più deboli – al gregge degli uomini allevato dalle moderne democrazie” (p. 107). 

3 Ci si riferisce ovviamente all’ “uso delle biotecnologie” “volto a produrre superuomini post- o trans-umani” (p. 41). Alcuni passaggi di testi stoici (ad esempio l’esortazione di Seneca: “Sopportate da forti [ferte fortiter]. In questo superate anche Dio: egli è esente dalla sopportazione dei mali [patientia malorum], voi siete superiori alla sopportazione”, p. 101) suggeriscono l’idea che non siamo proprio all’opposto dell’antropocentrismo nietzschiano e che l’invito di Epitteto a darsi pensiero solo di occupare il proprio posto nel mondo “con disciplina e sottomissione a Dio” (p. 103) non riesce a occultare del tutto l’orgoglio che sospinge a una “apatia” sovrumana, al di là del ‘bene’ e del ‘male’ (intesi, questa volta, in senso fisico e socio-economico, non morale come sarà per Nietzsche).

4 Secondo Franceschelli, dunque, “l’attività filosofica è ben lungi dal coincidere con lo «staccarsi da tutte le cose esteriori» e con «l’abbandonarsi alla contemplazione di Lui»: con l’entrare in conversazione con Dio o «indiarsi» , come secondo Plotino accadrebbe sempre «a chi abbia molto contemplato»” (p. 19). La filosofia non coincide con la mistica, insomma (e concordo); ma neppure – noterei sommessamente -la esclude. Ovviamente, per dirimere la questione, bisognerebbe preliminarmente convenire sul significato del vocabolo ‘mistica’ che per qualcuno significherebbe, da Meister Eckhart a Hegel, “l’approfondimento spirituale, in senso assolutamente razionale” (M. Vannini, Escatologia e/o mistica in AA.VV., Sulle cose prime e ultime, Augustinus, Palermo 1991, p. 27) e, di conseguenza, addirittura il nucleo essenziale e irriducibile sia della fede cristiana che della filosofia occidentale. 

5 La circolarità dialettica pensare-fare necessita di almeno due condizioni. La prima (inficiata, come si è visto, dall’idealismo post-kantiano) è che la soggettività ‘spirituale’ non sia tutto; che si riconosca alla realtà naturale extra-umana una consistenza su cui operare. La seconda condizione è che il soggetto non sia in tutto e per tutto omologo all’oggetto; che possegga una qualche forma di trascendenza ‘critica’ verso la materia di cui pure impastato. Franceschelli rivendica, legittimamente, la presenza in Marx della prima condizione, il realismo gnoseologico e ontologico, difendendolo (sulla scia di Lukács) dall’accusa di un pragmatismo che eliminerebbe “tanto dalla teoria che dalla prassi ogni rapporto con la realtà oggettiva” (p. 33). Non altrettanto forte mi è sembrata la sua preoccupazione di rivendicare, i Marx, la seconda condizione: a mio avviso, infatti, Marx supera i materialismi settecenteschi non solo perché “teorici” (poco attenti alla dimensione attiva, pratica, dell’essere umano), ma anche perché troppo unilateralmente…materialisti. Dietro la facciata del suo attivismo (non perdiamo più tempo in dispute teoretiche, filosofiche, interpretative del mondo: cfr. qui p. 46) mi viene da sospettare che celasse il dubbio che l’uomo, pur non essendo solo ‘spirito’, fosse anche tale. Non era così ingenuo da ignorare che recepire la lezione degli idealisti sul “lato attivo” della soggettività umana significasse, inseparabilmente, mutuarne l’istanza meta-materialistica: se sono esclusivamente un aggregato di materia, perché non dovrei beatamente accontentarmi di essere trascinato nel suo flusso perenne? Lo stesso Franceschelli cita passaggi dei Grundrisse in cui Marx tratta del rapporto tra le “forze della natura e dello spirito” (p. 36): egli li cita per segnalare “il rischio di sopravvalutare l’attività dell’uomo e svalutare la naturalità del mondo” (ivi), ma potrebbero essere anche indici a favore del mio sospetto. Il nodo teoretico resta comunque la identificazione o meno di ‘natura’ e ‘materia’: la materia è certamente natura, ma non tutta la natura. Si potrebbe azzardare: la materia è la natura prima che attui, e manifesti, alcune delle sue numerose (forse innumerevoli) potenzialità

6 Engels si dichiarava “convinto che col marxismo la filosofia sarebbe stata «cacciata dalla natura e dalla storia». Non a caso invece, per un interprete delle Tesi su Feuerbach dell’importanza di Gramsci la filosofia «in quanto filosofia della prassi non è abolita e sostituita dalla pratica, come parrebbe dalla tesi XI e dalle sue consuete interpretazioni». Appunto: da cacciare dalle nostre visioni dei rapporti tra realtà naturale e storia umana non è la filosofia, ma la prassi senza filosofia, il fare e l’attivismo senza pensare” (pp. 40 – 41).

7 “Il dibattito sulle cause, sulle conseguenze e sulle potenzialità di questa nuova epoca […] è indubbiamente arricchito dal contributo degli studiosi propensi a definire non Antropo-cene ma Capitalo-cene il periodo storico in cui viviamo, visto che il «deragliamento geologico» del sistema Terra è stato causato non tanto dall’agire di un’indifferente umanità (dall’Anthropos) quanto dal saccheggio capitalistico delle risorse naturali […], anche nella versione sovietica e cinese” (p. 53).