venerdì 22 aprile 2005

MA GIOVANNI PAOLO II HA DAVVERO CAPITO LA MAFIA?


“Centonove” 22.4.05
Augusto Cavadi

Il rispetto e l’ammirazione per i grandi personaggi della storia implicano necessariamente cecità o silenzio rispetto ai loro limiti, errori e omissioni? 
A giudicare dalla marea massmediatica scatenatasi, con dubbio gusto, molte ore prima del decesso di Giovanni Paolo II, la risposta sembrerebbe affermativa. Qualche rara voce in dissonanza col coro conformistico degli addolorati si è, timidamente, affacciata; ma per essere subito sommersa dai rimpianti altisonanti a trecentosessanta gradi. 

Eppure questa ‘papalatria’ esplosa come una sorta di epidemia dovrebbe incontrare ben altra reazione da parte di ‘laici’ e ‘cattolici’. I primi potrebbero avere qualcosa da obiettare sulla rilevanza straripante che le vicende dolorose di un uomo, per quanto insigne, hanno conquistato sulla scena pubblica: niente di paragonabile alle ultime ore di presidenti della Repubblica, leaders politici, intellettuali influenti, artisti geniali. Senza contare che tanta attenzione alle sofferenze di una persona umana stride con la sovrana, costante indifferenza davanti alle sofferenze quotidiana di milioni di altre persone che agonizzano per mancanza di cibo, di acqua, di medicine, di cure mediche, di protezione da armi intelligenti e da strateghi stupidi.
Ma anche i cattolici – e più in generale i credenti nel vangelo cristiano – dovrebbero con forza ricordare che a morire alla veneranda età di 84 anni non è stato (come ho sentito ripetere a più di qualcuno)il “rappresentante di Dio” in terra, anzi neppure di Gesù Cristo: bensì – se ci si vuole attenere alla dottrina teologica ufficiale -  “il servo dei servi di Dio”, un successore di Pietro, il vescovo di una città che per ragioni storiche ha finito con il conquistare una supremazia morale sulla chiesa cattolica. Ogni enfatizzazione in casi simili oscura il primato della Trascendenza rispetto ai suoi poveri segni storici, minaccia la centralità dell’annunzio evangelico rispetto alla relatività dei canali istituzionali.
Comunque, al di là delle esagerazioni dettate dall’emotività di alcuni e dal calcolo strumentale di altri, un bilancio critico di questo pontificato è tanto doveroso quanto congeniale alla statura effettiva di un uomo intelligente e onesto.
Una traccia, opinabile quanto si voglia ma fondata su dati oggettivi, l’ha offerta il noto teologo Hans Kung in un articolo tradotto in italiano dal “Corriere della sera” del 26 marzo. La sua tesi essenziale è che “egli non è il Papa più grande ma il più contraddittorio del XX secolo. Un Papa dalle molte, grandi doti, e dalle molte decisioni sbagliate! La sua «politica estera» ha preteso da tutto il mondo conversione, riforma, dialogo. Però, in tutta contraddizione, la sua «politica interna» ha puntato alla restaurazione dello status quo ante Concilium, a impedire le riforme, al rifiuto del dialogo intra- ecclesiastico e al dominio assoluto di Roma”. 
Altre sono le sedi adatte per ripercorrere gli “undici ambiti problematici” in cui, secondo il teologo svizzero, si è concretizzata la contraddittorietà di questo pontefice. Qui, più limitatamente, mi sembra opportuno riflettere su un aspetto della sua pastorale particolarmente significativo per la storia siciliana: la sua denunzia del fenomeno mafioso.
Giovanni Paolo II viene a Palermo una prima volta nel novembre del 1982 e i suoi collaboratori distribuiscono alla stampa – fra gli altri – l’unico testo in cui egli parla esplicitamente di ‘mafia’. In realtà, nel momento della proclamazione verbale del discorso, quel passaggio così innovatore ‘salta’. Mancanza di tempo, distrazione dovuta a stanchezza o ripensamento su consiglio di persone ben informate? Gli storici devono limitarsi a constatare che quella visita pastorale, che sembrava destinata a dare una spinta decisiva alla coscienza ecclesiale anti-mafia, segnò in realtà l’inizio di una lunga sordina. Alcuni dei preti più vicini al cardinale si allontanano o vengono allontanati da posti di rilievo: li sostituiscono persone più ‘prudenti’, alcune delle quali riconoscono volentieri che “ormai di mafia si parla troppo e la gente è stanca”. Il silenzio dura circa 10 anni. Nel 1991 papa Wojtyla, ricevendo i vescovi siciliani a Roma,usa finalmente la parola ‘mafia’ per evidenziare l’incompatibilità tra adesione a Cristo e sudditanza nei confronti dei boss terrestri. Alcuni di noi, sul trimestrale “Una città per l’uomo”, non mancammo di segnalare la novità: ma anche i limiti di questa novità. La sua condanna ci apparve ferma, provvidenziale, ma poco lucida. Egli trattava la mafia come un fenomeno criminale ma senza vederne la specificità originale: i suoi nessi con il potere politico né, più in generale, con un tessuto sociale corrotto. Per questo, alla notizia che sarebbe tornato in Sicilia nel 1993, gli indirizzammo una lettera aperta invitandolo a gridare la condanna non solo della mafia militare che uccide e ferisce, ma anche della mafia come sistema di potere politico –economico – culturale (il testo è stato riprodotto anche nel secondo dei due volumi da me curati che le Dehoniane di Bologna pubblicarono nel 1994 col titolo Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia). I giornali e le televisioni nazionali riportarono soprattutto i passaggi più duri di quella lettera, là dove lo invitavamo a denunziare, insieme agli assassini, i loro complici nel mondo della politica, dell’economia, delle professioni e della stessa organizzazione ecclesiastica. Quali effetti ha avuto la lettera pubblica sottoscritta da una trentina di preti e laici impegnati? A livello locale alcuni vescovi, politici e intellettuali reagirono in maniera severa, talora rabbiosa. Il papa -  come era facile aspettarsi da un leader spirituale abituato a parlare molto e ad ascoltare poco - non ci diede nessun riscontro. L’urlo dalla valle dei templi di Agrigento fu suggerito più dall’incontro con il dignitoso dolore dei genitori del giudice Livatino che dai nostri fogli. Il suo fu un gesto simbolicamente eloquente (tanto eloquente che dopo pochi mesi fu ucciso don Pino Puglisi ed esplosero  le bombe presso le chiese romane): ma ancora una volta un gesto scagliato contro il volto sanguinario e stragista dei mafiosi individualmente considerati, inadeguato a denunziare la complessità strutturale, sistemica del dominio mafioso. Le vicende successive, sino ai nostri giorni, hanno tristemente confermato la parzialità e l’insufficienza di questa visione della mafia. Con conseguenze pratiche davvero perniciose: ancora oggi la chiesa siciliana prende le distanze dai mafiosi che sparano, ma non altrettanto drasticamente dai mafiosi che falsano le gare d’ appalto, drogano i concorsi pubblici, inquinano le competizioni elettorali, boicottano la magistratura, deturpano le coste, ammorbano l’aria, riciclano denaro sporco. 

L’ECOLOGIA DEL CIBO


Repubblica – Palermo 22.4.05 


LA MORALE DEL CONSUMATORE NEL MONDO DI “FATA ZUCCHINA” 

Autostrada per Messina, svincolo di Castelbuono. Poco prima di arrivare nella capitale della manna di frassino, imbocco lo stradale per Isnello e pochi chilometri avanti posteggio. Se si vuole proprio raggiungere i ruderi di Lanzeria c’è solo un sentiero sterrato: per fuoristrada o per gambe pazienti. Avevo già conosciuto le tre giovani coppie che da due anni sperimentano una comunità “agricolo – circense”: lavoro nei campi alternato ad animazione di strada (gratuita o su progetti finanziati dalle istituzioni). Mi avevano spiegato che la loro decisione nasceva da una duplice delusione: verso la vita delle metropoli europee (vengono da Parigi, da Milano, da Roma) e verso la vita dei centri sociali spontanei (troppo schiacciati sulla dimensione ludica e, dunque, falsamente alternativi agli stili di vita borghesi). In qualche loro amico di passaggio non erano neppure mancati gli accenni polemici nei confronti dei “professori universitari che parlano parlano ma non realizzano mai nulla di effettivo” (nonostante uno studente si sia già laureato a Palermo in Scienze della comunicazione con una tesi di sociologia proprio dedicata a questo esperimento di autogestione).
Ci torno adesso, dopo alcuni mesi, perché per qualche giorno vi si sono radunati, un po’ da tutta Italia, persone impegnate in iniziative del genere che si riconoscono in una sorta di coordinamento informale sin dalla denominazione: “Corrispondenza Informazioni Rurali”. Discutono di nuove biotecnologie, di etica del consumo, di energie rinnovabili. Seguendo i lavori, mi confermo nell’idea che le questioni affrontate non sono per nulla d’interesse settoriale. Le si potrebbe raccogliere in tre domande principali.La prima – se ci si possa alimentare senza avvelenarsi – è davvero comprensibile anche al pubblico più vasto. Se le statistiche confermano il moltiplicarsi di tumori, di malformazioni genetiche, di nuove patologie legate a tecniche di coltivazione dei vegetali e di allevamento degli animali sempre più artificiose, ritornare ad un rispetto dei cicli naturali sarebbe non soltanto auspicabile, ma necessario. Lo aveva notato già nel XVII secolo Francis Bacon: la natura non la si possiede se non obbedendole. Lo sfruttamento dissennato dell’ambiente è solo una forma inconscia di lento suicidio.Anche la seconda domanda – se ci si possa alimentare senza farsi fregare soldi – è di rilevanza generale. Grazie ad eccellenti servizi televisivi, quasi tutti ormai sappiamo in seguito a quali rocambolesche traversie il pomodorino di Pachino viene venduto dal produttore a pochi centesimi e acquistato dal consumatore ad alcuni euro.  Da qui la diffusione, anche a Palermo, dei “gruppi di acquisto”    come “Fata zucchina” (via E. Albanese 19, e-mail: luigimennella@libero.it) che provano ad abbassare il prezzo a dettaglio azzerando le intermediazioni parassitarie fra  aziende agricole e cittadini.Forse meno persone hanno ancora la maturità civica e morale per avvertire con la stessa incisività una terza questione dibattuta in questi giorni a Lanzeria: se ci si possa alimentare senza fregare i poveri. Sia vicini che lontani. Si tratta di utilizzare la globalizzazione non per costringere i contadini ad una concorrenza reciproca sempre più spietata (minacciando di comprare le stesse arance o le stesse banane a prezzi sempre più stracciati man mano che ci si allontana dal Nord del mondo), ma per aprire nuovi mercati anche ai produttori della periferia; non per omologare le colture secondo gli standard e gli obiettivi speculativi delle multinazionali, ma per preservare la biodiversità e le tradizioni locali a rischio d’estinzione. Su quest’ultimo tasto ha insistito nel suo intervento Moffo Schimmenti, un contadino che guida con passione un complesso giovanile di musica popolare: ha raccontato il suo progetto (recepito con attenzione dal Comune di Polizzi e dall’Istituto agrario di Castellana) di creare una “scuola di formazione” per operatori locali in grado sia di preservare alcune nostre varietà di ortaggi e di legumi che costituiscono un unicum nell’intero pianeta sia di organizzare una sorta di “banca delle semenze” da custodire, ma per farne dono a chi ne facesse richiesta.

Augusto Cavadi

venerdì 8 aprile 2005

IL CONFRONTO ISLAM-OCCIDENTE


Repubblica – Palermo 8.4.05

Augusto Cavadi


“PRIMA LE LEGGI, POI LA FEDE” 

Nel 1992, a nove anni, ha raggiunto a Parma, con mamma e fratellino, il papà marocchino. Nella città emiliana ha studiato all’istituto magistrale, poi si è iscritto all’Università di Bologna in scienze politiche. L’amore e il lavoro lo portano infine a Napoli dove attualmente si guadagna da vivere come pubblicista (fra l’altro è direttore editoriale del portale  www.musulmaniditalia.com) e, nelle scuole, come mediatore culturale. Sino a poco tempo fa è stato il presidente dell’associazione dei Giovani musulmani in Italia. Oggi, a Palermo, presso i Valdesi di via Spezio 43, alle 17.30 presenta il suo primo libro (Salaam, Italia! dell’ Aliberti di Reggio Emilia).
E’ il suo primo viaggio nella nostra isola?Sono già venuto in occasione di convegni e riunioni. Ma la Sicilia ha giocato un ruolo tutto particolare nella mia vita. Mio padre ha lavorato dal 1989 al 1991 come operaio a Misilmeri: ho trascorso vari periodi di vacanze presso di lui prima di lasciare l’Africa. Palermo e il suo territorio sono stati la porta del mio ingresso in Europa. In Salaam Italia! Lei racconta l’esperienza di un giovane immigrato   su cui  pesa una doppia ragione di sospetto: nero di pelle, islamico di religione. Aveva in mente qualche obiettivo preciso?L’obiettivo principale di questa mia testimonianza è innanzitutto far conoscere realtà dei musulmani in Italia, una realtà plurale, molto complessa e variegata. Tramite la mia esperienza personale, ho voluto trasmettere al lettore la dimensione umana dei musulmani d’Italia, con i suoi lati
positivi ma anche negativi. Un altro obiettivo è sicuramente quello di
costruire un ponte di dialogo tra musulmani e società autoctone, fondato
su un confronto sereno ma allo stesso tempo sincero e capace di dare delle
risposte sui problemi reali riguardo la nostra società multiculturale. Per noi occidentali è difficile distinguere, nel blocco degli immigrati islamici, la pluralità di cui parla. La tendenza, o la tentazione, è di non andare troppo per il sottile e di distinguere due versanti principali dell’islamismo: quello ‘buono’, che
 accetta la Costituzioneitaliana e i codici giuridici che su di essa sono fondati; quello  ‘cattivo’, che non transige sulla fedeltà alla Sharìa  su nessuno dei molti punti in cui essa non è conciliabile col diritto occidentale.
Credo che la realtà sia  ben più complessa. In Italia particolarmente abbiamo
un Islam  sociologicamente giovane: la presenza dei musulmani in
Italia in forma massiccia e organizzata è un dato dell’ultimo decennio, in
altri Paesi europei si parla di quarta e quinta generazione dei figli dell’immigrazione islamica. Questo comporta sicuramente una gradualità nei
processi di integrazione nella società italiana che passa tramite la conoscenza della cultura autoctona in senso lato dalla lingua parlata
 alle leggi vigenti. Un fetta minoritaria invece di musulmani in Italia hanno
optato per una formula ghettizzante, la scelta di una formula identitaria
che vede nell’Islam l’unica prospettiva di confronto con la  società italiana, dimenticando che la vera sfida odierna è una piena cittadinanza nelle parole e nei fatti.Ma cosa possono fare le istituzioni statali e la società civile per agevolare l’ala moderata, o meglio progressista, degli islamici?Dopo l’11 settembre gli italiani hanno paura. E non hanno torto. Spetta a noi musulmani spezzare questa cappa di diffidenza che ha portato alcuni governi a risposte folli come la guerra in Iraq. Dobbiamo mostrare, coi fatti, di accettare la logica occidentale per cui prima si è cittadini e solo secondariamente musulmani, cristiani, buddisti o atei. L’opinione pubblica europea può favorire queste strategie evitando di interloquire solo con gli imam (che spesso riducono le moschee a centri di potere politico) e cercando il dialogo anche con le mille associazioni culturali, religiose e sociali in cui gli islamici italiani si organizzano. L’islamismo non è una confessione clericale, gerarchica. Spesso voi vi rapportate direttamente con l’imam perché pensate che sia il pendant del parroco o del vescovo, ma non è così. Nella nostra concezione la moschea dovrebbe essere non la casa  del pastore, ma un luogo di culto aperto a tutta la cittadinanza: dovrebbe essere un luogo di crescita anche civile.Ad essere sinceri, dalle nostre parti, non è facile trovare questi interlocutori islamici ‘laici’ che non siano legati a governi stranieri come quello libico o tunisino. E’ vero, in Sicilia – ma si potrebbe aggiungere da Napoli in giù – non ci sono sezioni delle associazioni islamiche italiane. Forse perché molti musulmani vivono il soggiorno nel Sud come provvisorio, transitorio. Essi rimangono invisibili perché o vivono nell’anonimato o si chiudono in un ghetto. Spero di contribuire a invertire la tendenza, a far uscire i miei fratelli di fede dalla moschea. La vostra terra, in particolare, per la sua storia e per la sua collocazione proprio nel cuore del Mediterraneo, sarebbe un luogo ideale per il confronto costruttivo fra le nostre diverse tradizioni culturali. Negli ultimi giorni i massmedia hanno seguito l’agonia e la morte di Giovanni Paolo II con un’attenzione quasi ossessiva. La sensibilità di un cittadino italiano di confessione islamica può restare disturbata da questa enfasi?Per favore, non tocchiamo questo papa. In un recente articolo ho scritto che è stato il papa di tutti, anche di noi musulmani. E’ stato il primo a incontrare nel 1985 i giovani musulmani a Casablanca; a organizzare nel 1986 l’incontro di Assisi con i leaders delle grandi religioni mondiali; a visitare una moschea a Damasco nel 2001. Nello stesso anno, quando furono sganciate le prime bombe sull’Afghanistan, invitò i cristiani a digiunare in segno di solidarietà con i popoli colpiti dalla guerra. Questo papa merita il tributo che sta ricevendo. Ben altri sarebbero i cristiani su cui sollevare obiezioni…

Augusto Cavadi

sabato 2 aprile 2005

LE BEATITUDINI


Dal sito “www.santamariadellapace.it”

Le Beatitudini
Riflessione tenuta da Augusto Cavadi presso il Santuario di Sant’Anna
nella notte del venerdì santo della pasqua 2005.
(Testo sbobinato non rivisto dall’autore)

Le persone che ci hanno visto questa notte si sono chieste: “Ma a questi chi glielo fa fare?” Anzi penso che qualcuno di noi se lo sarà chiesto in queste ore: “Chi me lo ha fatto fare? Chi mi ha spinto a venire questa sera qua?”. Almeno io me lo sono chiesto. Io avrei una risposta per me, non so se è la stessa per voi. Io credo che siamo venuti, e non da posti vicinissimi, perché cerchiamo la felicità. Per mestiere faccio il filosofo e ci sono molti filosofi che concordano su questo: quando si chiedo perché l’uomo fa quello che fa, qualunque cosa faccia scava scava, infondo, alla radice delle sue scelte c’è questo desiderio di essere felici. Addirittura un filosofo francese, Pascal, ha detto che persino un suicida, che si sta alzando per andarsi ad ammazzare, anche lui in quel momento sta cercando la felicità, felicità che ritiene possibile, la felicità del non dolore, del non soffrire più.

Ma la felicità è possibile? Io non so il fatto che abbiamo sempre tradotto dal greco beatitudini ci ha aiutato o non ci ha aiutato a capire che queste parole che sono state lette sono la risposta del vangelo proprio a questa domanda perché noi abbiamo sempre tradotto beatitudini veramente in greco la stessa parola di solito la si traduce, dal greco in italiano, felicità. Noi abbiamo ascoltato la risposta di Gesù, della prima tradizione evangelica, alla domanda che cosa è la felicità, che significa essere felici, e siccome, come diceva don Rino, questa è la magna carta del vangelo, l’atto costitutivo del cristianesimo, questo significa che il cristianesimo è essenzialmente risposta a questa domanda di felicità. Qua siamo di fronte a un punto centrale, nel caso che non avessimo capito questo punto non abbiamo capito il cristianesimo. Per i primi 30 40 anni della mia vita non avevo capito niente di questo brano del vangelo e vi confesso che il fatto di aver frequentato gli scouts, le parrocchie, i movimenti, la FUCI, non mi ha aiutato per nulla a capire veramente che cosa intendesse dire questa pagina del Vangelo. Voi potete fare la prova, domani o dopodomani, quando siete riposati, vi mettete in piazza, fate finta di fare un sondaggio e chiedete alle persone: secondo te il cristianesimo cosa propone a proposito della felicità? Credo che il 99% delle persone che incontrate per strada, che siano cattoliche, atee, protestanti, indifferenti, tutte vi risponderanno che secondo il cristianesimo, proprio sulla base di questa pagina che abbiamo ascoltato, tutte vi risponderanno: il cristianesimo propone di essere sofferenti in terra in modo da poter aver poi, nell’altra vita, una ricompensa. Cioè la maggior parte delle persone che è cristiana, o non è cristiana, non ha dubbi su questa interpretazione, Gesù sarebbe venuto a dirci che sono beati quelli che muoiono di fame, che sono beati gli immigrati, che sono beati i disoccupati, perché lui dice a queste persone state buoni, state calmi, sopportate in pace, perché tanto questa vita è breve, nell’altra vita poi i conti torneranno, cambieremo i giochi.
Ebbene io per tanti anni avevo capito che era questo il cristianesimo e molta gente che ha lasciato il cristianesimo è convinta che questo sia il messaggio di Gesù ma è veramente così? L’abbiamo senti: Beati voi che avete fame perché sarete saziati; beati voi che avete sete perché sarete dissetati; beati voi che .. perché sarete… Tutto al futuro ma qual è questo futuro? Ecco, chi ha studiato la Bibbia in maniera scientifica, che ha approfondito, che ha cercato di capire che cosa veramente vuole dire qui il Vangelo, è arrivato ad una conclusione che secondo me è sconvolgente ed è la conclusione che per tanti secoli siamo riusciti a nascondere: il sarete di Gesù, il futuro di Gesù è un futuro immediato. Gesù dice a quelli che soffrono siete felici perché da questo momento, con questo annunzio, la vostra vita cambierà. Siete felici non perché in un’altra vita ma in questa vita avrete il pane e le carezze, avrete il pane e il lavoro, avrete il pane e l’affetto, avrete il pane e le rose (come dice un bel film di questi anni), avrete il pane e le rose … in questa vita.
Ecco il cristianesimo annunzia una felicità ETERNA dunque o comincia qui o non comincia mai. Ma se è così Gesù ha sbagliato, se è così Gesù ha detto guardate che son finiti i tempi duri, son finite le vacche magre, adesso comincia il Regno di Dio, cioè adesso comincia la fratellanza, la condivisione, comincia la cura dell’ultimo, e invece che cosa è successo in questi 2000 anni.
Qualche anno fa è morto Sergio Quinzio che era un operaio, un ferroviere, che poi si è messo a scrivere dei libri, si è messo a studiare la Bibbia ed è considerato una dei maggiori scrittori cristiani del XX secolo. Sergio Quinzio, laico, operaio, autodidatta, ha scritto un libretto bellissimo “La sconfitta di Dio”, è tutto centrato su quello che vi sto dicendo: Gesù annunzia che da quel minuto Dio avrebbe in Gesù cambiato le cose e le cose non sono cambiate. Dice Sergio Quinzio, se siamo onesti dobbiamo cominciare con l’ammissione che il cristianesimo è un fallimento; altro che trionfalismi, altro che senso di superiorità nei confronti degli altri, noi abbiamo un Maestro, un fondatore, un profeta che ci ha detto, da questo minuto chi piange deve essere felice perché in questa vita troverà chi lo consola e invece che piange continua a piangere, chi soffre continua a soffrire. Siamo gli eredi di un fallito. Penso che se dobbiamo meditare seriamente dobbiamo partire dalla verità oggettiva, da come stanno veramente le cose. Allora, che cosa ci resta di fare, qual è il compito di quelli che ci diciamo cristiani … quello di capovolgere il fallimento di Dio, far si che le parole di Gesù diventino verità, diventino realtà. Che significa che il Regno di Dio è venuto, dov’è?
Una volta lo hanno chiesto ad un rabbino, secondo un grazioso aneddoto della tradizione cassidica, gli hanno detto: “Maestro è arrivato il Regno di Dio”. Lui si è alzato, è andato alla finestra, ha guardato, è tornato, si è seduto in poltrona … “Non è vero!”. “Come non è vero?”. “No, ho visto che c’è ancora chi piange, c’è ancora chi è povero, c’è ancora chi è affamo, c’è chi è disoccupato. Non è vero che è arrivato il Regno di Dio”. Perché se il Regno di Dio fosse reale non ci sarebbe più la sperequazione tra chi è ricco e chi è povero, non ci sarebbe più la prepotenza delle mafie, non ci sarebbe più il senso di disprezzo della giustizia, della libertà, dentro il nostro paese in Italia, in Europa, nel Mondo.
A me questa pagina inquieta, è una pagine che mi dice: tu che cosa stai facendo affinché questa pagina sia vera, che cosa stai facendo affinché il Regno di Dio diventi reale, affinché la sconfitta di Dio cambi di segno e diventi vittoria, diventi attuazione, diventi realizzazione del Regno di Dio in terra. E tutto questo ci interroga come comunità, ci interroga come società, cosa stiamo facendo per cambiare le cose in maniera profonda, radicale. La signora che ci ha parlato giù, a San Giovanni (Cettina Giannone dell’associazione Venti del Sud N.d.R.) ha concluso il suo breve intervento dicendo che cosa stiamo facendo per superare la logica dell’elemosina. Io rimango un privilegiato, tu rimani un emarginato però io la domenica, per Pasqua, per Natale, mi ricordo di te e ti faccio l’elemosina. Passare dalla logica dell’assistenza a una logica della progettualità politica, dell’impegno duraturo, dell’impegno metodico, dell’impegno sistemico perché le cose cambino e cambino davvero, che cambino per tutti e che cambino possibilmente per sempre. Tutto questo ci interroga come comunità, la Chiesa sta facendo questo? Noi, i nostri gruppi, le nostre parrocchie, ci stiamo interrogando su che cosa significhi che qui, subito, adesso chi ha fame venga sfamato e chi soffre ingiustizia venga immediatamente soddisfatto nella sua esigenza di vedere riconosciuta la propria identità, i propri diritti. Tutto questo non ci interroga solo come gruppo, come comunità come chiesa, ci interroga anche come persone, perché beatitudini significa felicità, siamo felici. Questa pagina ci ha dato una risposta, se siamo felici lo siamo nella misura in cui ci stiamo preoccupando del Regno di Dio in terra, se non siamo felici, se siamo ancora inquieti, se siamo ancora insoddisfatti, se siamo allegri quando siamo in compagnia e diventiamo tristi e depressi quando siamo soli, è perché forse non abbiamo preso sul serio questa proposta di Gesù: la tua beatitudine, cioè la tua felicità, sta nella felicità degli altri. Tu puoi rispondere a questo desiderio, a questa nostalgia di felicità, se smetti di pensare a te stesso, al tuo successo, alla tua famiglia, al tuo gruppo, se allarghi gli orizzonti fino alle dimensioni del Regno di Dio che coincidono con il bene di tutta l’umanità, di tutti e di ciascuno. Ecco perché le beatitudini ci inquietano ma ci aprono anche ad una prospettiva di speranza.

venerdì 1 aprile 2005

PADRE MAGGI A PALERMO


Augusto Cavadi

“Centonove”, 1.4.05

Miracolo a Palermo

Anche in Sicilia lo si può notare: mentre le chiese si spopolano, tendoni e teatri vengono gremiti da predicatori infuocati. Le religioni tradizionali, cattolica in primis, perdono adepti a favore di aggregazioni extra-istituzionali dagli orientamenti teologici disparati. Persino le vie dell’etere, grazie al moltiplicarsi dei canali televisivi, registrano questo fenomeno di dimensioni ormai mondiali.

Per questo pochi si saranno stupiti nel constatare, qualche settimana fa, che l’aula magna della facoltà di Economia e commercio sia stata affollata – per tre giorni di seguito, da un venerdì sino alla celebrazione liturgica conclusiva  domenicale -  da centinaia di persone accorse ad ascoltare un frate che spiegava brani biblici.

Chi ha voluto varcare la soglia  - e mettere il naso dentro l’assemblea di gente tanto diversa per età ed estrazione sociale - ha potuto però constatare un dato spiazzante. Questa volta non si trattava del solito convegno di uno dei movimenti fondamentalisti, integralisti, neoconservatori che riescono a mobilitare le masse sfruttando paure ancestrali e minacce recenti. Protagonista è stato, infatti, un prete cattolico noto nel mondo degli specialisti, dotato di eloquio efficace, ma misurato nei toni e nei gesti. Un prete che, sfogliando un’edizione critica in greco, ha proposto, senza fanfare né rullo di tamburi, di provare a leggere – “se ciò non dovesse riuscire di turbamento” – la Bibbia con gli occhiali della moderna scienza esegetica.

Come mai il pubblico è uscito tanto entusiasta dall’esperimento?  Che cosa può esserci di tanto rivoluzionario nell’applicare all’interpretazione della Scrittura i metodi che, già da qualche secolo, sono collaudati nella lettura di Omero o di Virgilio?

Padre Alberto Maggi ha basato le diverse spiegazioni evangeliche su un dato a suo avviso evidente: che Gesù di Nazareth non è venuto a fondare una nuova religione ma a “strappare le radici fradicie di ogni religione per aprire nuove possibilità alla fede”. Karl Barth e altri rinomati teologi lo hanno sostenuto ormai da decenni: ogni religione è, per essenza, un apparato repressivo che instilla sensi di colpa, angoscia davanti ai propri errori, sentimenti di inadeguatezza morale. Il Cristo è vissuto, ed è morto, per spezzare questa cappa di oppressione; per annunziare un Dio che dona e perdona senza condizioni; per ridare a ogni creatura “la consapevolezza della propria dignità e delle proprie risorse nascoste”. Fede è nient’altro che accettazione di questo annunzio liberante. Non si tratta quindi di chiudere gli occhi sui propri difetti e sulle proprie imperfezioni, ma di evitare che qualche altro li strumentalizzi. E, soprattutto, si tratta di relativizzarli in nome di un progetto di vita molto più ampio e costruttivo: il progetto di chi vive cercando la propria felicità nella responsabilità per il benessere altrui.

Il biblista non ha voluto sorvolare sulle conseguenze politiche del primato della fede sulla religione e si è chiesto, senza troppi giri di parole, come mai le autorità religiose alimentino nei fedeli un costante sentimento di inferiorità. Altrettanto netta la sua risposta: perché così, da che mondo è mondo, possono dominare con più facilita le masse. E proprio questo effetto narcotizzante fa delle autorità religiose le alleate naturali di ogni autorità politica. Entrambe, infatti, si spalleggiano a vicenda per ottundere le capacità critiche della gente, per prevenire eventuali ribellioni e per perpetuare situazioni sistemiche di ingiustizia.

A differenza della fede, tipica di chi crede senza voler vedere prodigi, la religione si basa sui miracoli. Maggi ha sottolineato, in proposito, come non sia un caso che i vangeli abbiano accuratamente evitato questo vocabolo tanto ambiguo ed ha evidenziato, con soddisfazione, che la più recente traduzione ufficiale dei vescovi cattolici ha corretto l’uso precedente e finalmente sostituito ‘miracolo’ con ‘segno’. Dire che Gesù è stato operatore di ‘segni’ significa, tra l’altro, affermare che il credente è uno che né riceve né opera miracoli: in quanto destinatario di ‘segni’ di solidarietà è piuttosto chiamato a diventare, nella fedeltà quotidiana,  protagonista di ‘segni’ altrettanto efficaci a favore degli altri.   

Se di miracolo si volesse parlare, dunque, a tutti i costi, si dovrebbe dire che è consistito proprio in questo: che, nell’epoca dei Padri Pii ubiqui e delle Madonnine in pianto, centinaia di persone abbiano seguito con intensa partecipazione interiore l’invito – non proprio usuale -  a vivere la dimensione spirituale della vita senza aspettarsi miracoli da nessuno e senza prometterne a nessuno, nella convinzione che non c’è nulla di più alto che fare della gioia altrui la misura della propria autorealizzazione.