“Centonove” 22.4.05
Augusto Cavadi
Il rispetto e l’ammirazione per i grandi personaggi della storia implicano necessariamente cecità o silenzio rispetto ai loro limiti, errori e omissioni?
A giudicare dalla marea massmediatica scatenatasi, con dubbio gusto, molte ore prima del decesso di Giovanni Paolo II, la risposta sembrerebbe affermativa. Qualche rara voce in dissonanza col coro conformistico degli addolorati si è, timidamente, affacciata; ma per essere subito sommersa dai rimpianti altisonanti a trecentosessanta gradi.
Eppure questa ‘papalatria’ esplosa come una sorta di epidemia dovrebbe incontrare ben altra reazione da parte di ‘laici’ e ‘cattolici’. I primi potrebbero avere qualcosa da obiettare sulla rilevanza straripante che le vicende dolorose di un uomo, per quanto insigne, hanno conquistato sulla scena pubblica: niente di paragonabile alle ultime ore di presidenti della Repubblica, leaders politici, intellettuali influenti, artisti geniali. Senza contare che tanta attenzione alle sofferenze di una persona umana stride con la sovrana, costante indifferenza davanti alle sofferenze quotidiana di milioni di altre persone che agonizzano per mancanza di cibo, di acqua, di medicine, di cure mediche, di protezione da armi intelligenti e da strateghi stupidi.
Ma anche i cattolici – e più in generale i credenti nel vangelo cristiano – dovrebbero con forza ricordare che a morire alla veneranda età di 84 anni non è stato (come ho sentito ripetere a più di qualcuno)il “rappresentante di Dio” in terra, anzi neppure di Gesù Cristo: bensì – se ci si vuole attenere alla dottrina teologica ufficiale - “il servo dei servi di Dio”, un successore di Pietro, il vescovo di una città che per ragioni storiche ha finito con il conquistare una supremazia morale sulla chiesa cattolica. Ogni enfatizzazione in casi simili oscura il primato della Trascendenza rispetto ai suoi poveri segni storici, minaccia la centralità dell’annunzio evangelico rispetto alla relatività dei canali istituzionali.
Comunque, al di là delle esagerazioni dettate dall’emotività di alcuni e dal calcolo strumentale di altri, un bilancio critico di questo pontificato è tanto doveroso quanto congeniale alla statura effettiva di un uomo intelligente e onesto.
Una traccia, opinabile quanto si voglia ma fondata su dati oggettivi, l’ha offerta il noto teologo Hans Kung in un articolo tradotto in italiano dal “Corriere della sera” del 26 marzo. La sua tesi essenziale è che “egli non è il Papa più grande ma il più contraddittorio del XX secolo. Un Papa dalle molte, grandi doti, e dalle molte decisioni sbagliate! La sua «politica estera» ha preteso da tutto il mondo conversione, riforma, dialogo. Però, in tutta contraddizione, la sua «politica interna» ha puntato alla restaurazione dello status quo ante Concilium, a impedire le riforme, al rifiuto del dialogo intra- ecclesiastico e al dominio assoluto di Roma”.
Altre sono le sedi adatte per ripercorrere gli “undici ambiti problematici” in cui, secondo il teologo svizzero, si è concretizzata la contraddittorietà di questo pontefice. Qui, più limitatamente, mi sembra opportuno riflettere su un aspetto della sua pastorale particolarmente significativo per la storia siciliana: la sua denunzia del fenomeno mafioso.
Giovanni Paolo II viene a Palermo una prima volta nel novembre del 1982 e i suoi collaboratori distribuiscono alla stampa – fra gli altri – l’unico testo in cui egli parla esplicitamente di ‘mafia’. In realtà, nel momento della proclamazione verbale del discorso, quel passaggio così innovatore ‘salta’. Mancanza di tempo, distrazione dovuta a stanchezza o ripensamento su consiglio di persone ben informate? Gli storici devono limitarsi a constatare che quella visita pastorale, che sembrava destinata a dare una spinta decisiva alla coscienza ecclesiale anti-mafia, segnò in realtà l’inizio di una lunga sordina. Alcuni dei preti più vicini al cardinale si allontanano o vengono allontanati da posti di rilievo: li sostituiscono persone più ‘prudenti’, alcune delle quali riconoscono volentieri che “ormai di mafia si parla troppo e la gente è stanca”. Il silenzio dura circa 10 anni. Nel 1991 papa Wojtyla, ricevendo i vescovi siciliani a Roma,usa finalmente la parola ‘mafia’ per evidenziare l’incompatibilità tra adesione a Cristo e sudditanza nei confronti dei boss terrestri. Alcuni di noi, sul trimestrale “Una città per l’uomo”, non mancammo di segnalare la novità: ma anche i limiti di questa novità. La sua condanna ci apparve ferma, provvidenziale, ma poco lucida. Egli trattava la mafia come un fenomeno criminale ma senza vederne la specificità originale: i suoi nessi con il potere politico né, più in generale, con un tessuto sociale corrotto. Per questo, alla notizia che sarebbe tornato in Sicilia nel 1993, gli indirizzammo una lettera aperta invitandolo a gridare la condanna non solo della mafia militare che uccide e ferisce, ma anche della mafia come sistema di potere politico –economico – culturale (il testo è stato riprodotto anche nel secondo dei due volumi da me curati che le Dehoniane di Bologna pubblicarono nel 1994 col titolo Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia). I giornali e le televisioni nazionali riportarono soprattutto i passaggi più duri di quella lettera, là dove lo invitavamo a denunziare, insieme agli assassini, i loro complici nel mondo della politica, dell’economia, delle professioni e della stessa organizzazione ecclesiastica. Quali effetti ha avuto la lettera pubblica sottoscritta da una trentina di preti e laici impegnati? A livello locale alcuni vescovi, politici e intellettuali reagirono in maniera severa, talora rabbiosa. Il papa - come era facile aspettarsi da un leader spirituale abituato a parlare molto e ad ascoltare poco - non ci diede nessun riscontro. L’urlo dalla valle dei templi di Agrigento fu suggerito più dall’incontro con il dignitoso dolore dei genitori del giudice Livatino che dai nostri fogli. Il suo fu un gesto simbolicamente eloquente (tanto eloquente che dopo pochi mesi fu ucciso don Pino Puglisi ed esplosero le bombe presso le chiese romane): ma ancora una volta un gesto scagliato contro il volto sanguinario e stragista dei mafiosi individualmente considerati, inadeguato a denunziare la complessità strutturale, sistemica del dominio mafioso. Le vicende successive, sino ai nostri giorni, hanno tristemente confermato la parzialità e l’insufficienza di questa visione della mafia. Con conseguenze pratiche davvero perniciose: ancora oggi la chiesa siciliana prende le distanze dai mafiosi che sparano, ma non altrettanto drasticamente dai mafiosi che falsano le gare d’ appalto, drogano i concorsi pubblici, inquinano le competizioni elettorali, boicottano la magistratura, deturpano le coste, ammorbano l’aria, riciclano denaro sporco.