mercoledì 29 giugno 2022

23 MAGGIO - 19 LUGLIO 1992: LA RECENSIONE DI D. FADDA AL LIBRO DI A.CAVADI SU MAFIA E ANTIMAFIA OGGI

(La foto proviene dalla Libreria Macaione di v. Marchese di Villabianca 102,     Palermo. Da oggi il libro è acquistabile anche in tutte le librerie fisiche italiane).

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DAVIDE FADDA RECENSISCE

  QUEL MALEDETTO 1992. L'INQUIETANTE EREDITA' DI FALCONE E BORSELLINO

(Di Girolamo editore, Trapani 2022, pp. 140, euro 15,00)


«Di vero c’è solo il botto. Ancora oggi. Di vero c’è solo il botto, e nulla più». Comincia così, con questa citazione da Giacomo Di Girolamo, l’ultimo libro di Augusto Cavadi, Quel maledetto 1992. L'inquietante eredità di Falcone e Borsellino, Di Girolamo Editore, Trapani 2022. Lo scrittore siciliano in questo saggio si focalizza sull’eredità etica che le stragi del 1992 ci hanno lasciato e su quanto siano decisivi - in questo senso - i nostri comportamenti quotidiani al fine di attuare una vera “antimafia” del fare a scapito delle sole parole (cfr. p.98). Ripercorrendo le note vicende storiche di quei giorni, l’autore sottolinea quanto «la situazione sia per certi versi identica ma anche, per fortuna, incomparabilmente diversa» (p.15), rispetto a trent’anni fa.

La peculiarità della narrazione di Cavadi è data dalla prospettiva emotiva che egli adotta inizialmente dinnanzi ai fatti del ’92. La logica è infatti di mostrare al lettore quanto l’indignazione personale metta in moto tutta una serie di meccanismi che possono essere l’arma vincente nella strada del cambiamento sociale. Il primo capitolo Tragedia storica, angoscia privata ben sintetizza questo intento. Raccontandoci la sua esperienza personale egli ci invita, come ben argomentato dalla giudice Franca Imbergamo nella Prefazione, a utilizzare questo dolore, e la relativa indignazione, come molla per una maggiore consapevolezza del proprio diritto/dovere di essere cittadini: «Gli ho chiesto – a Giovanni Falcone – perdono. Perdono a nome di quei palermitani che si erano lamentati perché il suono delle sirene disturbava la pennichella pomeridiana. […] Perdono a nome di quel politico (amico!) che, in tv, lo aveva accusato di essere ingiustificatamente cauto nell’incastrare gli amici potenti dei mafiosi. […] Perdono a nome del poliziotto che, in coda con me al panificio, prometteva al collega che l’avrebbe ammazzato lui quel giudice se non l’avesse fatto prima la mafia: troppe lavate di capo per chi veniva sorpreso a leggere la Gazzetta dello sport quando avrebbe dovuto controllare ingressi ed uscite del portone» (p.10).

Nel secondo capitolo, Trent’anni dopo, l’autore mette in evidenza cosa è cambiato e cosa invece è, per certi aspetti, addirittura peggiorato nel contrasto alle mafie. Pur sottolineando come la situazione attuale sia profondamente diversa rispetto al periodo delle stragi, Cavadi ci spiega che, nonostante la sconfitta dell’apparato militare di Cosa Nostra, il rapporto politico tra mafie e istituzioni non soltanto non è morto, ma è rigoglioso; all’ala militare, insomma, si è sostituita, in termini di importanza, l’ala politica delle mafie. Sul piano del cambiamento, invece, si sottolinea come la mancata vittoria di Cosa Nostra non sia da attribuire esclusivamente ai martiri civili più noti, di cui dobbiamo certamente custodire la memoria, ma anche a tutti quegli eroi silenziosi, che fortunatamente non sono morti e di cui spesso non conosciamo il volto, «che hanno perseverato nel fare, molto semplicemente, il proprio mestiere» (pp. 21-22).

Nel terzo capitolo, E domani?, vengono poste le basi di una proposta civica che tenga in considerazione sia la celebrazione dei martiri laici in senso stretto, attraverso la commemorazione, pur sempre necessaria, sia le azioni che quotidianamente debbono poterci distinguere in questo senso. Come fattore primario Cavadi evidenzia la conoscenza del fenomeno, di cui tratta nel capitolo quarto: Anzitutto conoscere. Pur sottolineando che la sola conoscenza del “sistema criminalità” non ne provoca, in automatico, il rifiuto, egli ritiene che questo sia il passaggio iniziale in grado di «abbattere gli stereotipi sul sistema mafioso e focalizzarlo nella sua vera identità: un’associazione gerarchica di cosche i cui membri mirano al dominio e al denaro mediante un consenso sociale ottenuto con proposte di corruzione e, se necessario, con minacce violente» (p.36). Enigmatica, in tal senso, la formula da lui rilanciata: la forza della mafia sta fuori dalla mafia (p. 38). L’approfondimento sul tema della criminalità organizzata è mal sostenuto, secondo l’autore, da «una preoccupante superficialità intellettuale», la quale troppo spesso edulcora nelle sue opere queste organizzazioni al punto da renderne al pubblico una visione per certi aspetti apologetica. Non basta, quindi, la sola forza repressiva messa in atto contro le consorterie mafiose, ma urge una rivalutazione sociale e antropologica del fenomeno. Per far questo bisogna decostruire la narrazione delle mafie come cancro per approcciarci ad esse, invece, come ad «un modello diffuso di relazioni tra le parti della società» (così V. Sanfilippo citato a p. 61). Bisogna cioè riconoscere che siamo inseriti in un sistema in continua trasformazione di cui tutti siamo un tassello a suo modo determinante. È proprio questo infatti il tema del quinto capitolo Inventare strategie di opposizione nonviolenta: l’autore sottolinea come i giudici Falcone e Borsellino avessero ben chiaro questo aspetto e come tale approccio non fosse solo più umano eticamente, ma anche più efficace professionalmente. L’approccio nonviolento di Falcone è restituito con le sue stesse parole: «Perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti, perché sono sicuri che non li inganno […] e che non provo timore reverenziale nei confronti di nessuno. E soprattutto perché sanno che, quando parlano con me, hanno di fronte un interlocutore che ha respirato la stessa aria di cui loro si nutrono. […] Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi» (p. 65).

Nella parte finale del saggio, Boicottare gli affari illeciti e Riscoprirsi animali politici, ci viene mostrata la questione più scottante della tematica, e cioè i rapporti tra le mafie, l’economia e la politica. Il sotto-sistema mafioso immette nel sistema economico ingentissime somme di denaro che sono, a tutti gli effetti, risorse del (e nel) mercato bancario. Questa ricchezza “illegale”, determinata anche dal coinvolgimento attivo di colletti bianchi, innesca un effetto-domino anche nel mercato “legale” creando un cortocircuito per cui moltissime attività lecite sono finanziate da soldi sporchi. Se quindi l’attività giudiziaria dovrà cercare di stroncare questi meccanismi, il singolo cittadino, nel suo piccolo, può partecipare attivamente al contrasto dei medesimi, attraverso il boicottaggio di attività notoriamente in mano a mafiosi e di prodotti illegali o di dubbia provenienza. Un’ulteriore inversione di tendenza avverrebbe se i cittadini, soprattutto i migliori, si impegnassero nella cosa pubblica in modo attivo così da contrastare le cosche le quali non vogliono essere l’anti-Stato ma, attraverso i propri rappresentanti, farsi Stato: «Si perpetua un circolo vizioso per cui i cittadini più degni non vogliono compromettersi nella gestione della cosa pubblica perché inquinata dalla mafia; le amministrazioni pubbliche corrotte e corruttibili sono sempre più manovrate da boss mafiosi; e ciò allarga il fossato tra esse e i cittadini onesti che si confermano nella decisione di astenersi dall’impegno nelle istituzioni» (p.89).

Nella conclusione del saggio, Rovesciare la pedagogia mafiosa, l’autore illustra come è esercitata l’egemonia culturale mafiosa e come essa abbia primariamente dei risvolti pedagogici importantissimi nella trasmissione dei valori e dei comportamenti all’interno della comunità: «Per questo un’educazione mirata alla prevenzione e al contrasto della mentalità mafiosa è necessaria, ma non deve presentarsi con questa etichetta. La stessa parola – mafia – sulla bocca dell’educatore significa una cosa, all’orecchio del ragazzo di quartiere popolare significa un’altra cosa. Per certi versi l’opposto. La metodologia deve invece fare leva sulla sostanza, sui contenuti effettivi. […] Poi eventualmente da adulto il ragazzo potrà scoprire che i principi ispiratori che aveva gradualmente abbracciato, man mano che abbandonava la filosofia di vita assorbita passivamente da bambino, erano principi frontalmente contrari ai dettami mafiosi» (p.98).

La priorità di un’antimafia del fare rispetto a un’antimafia delle sole parole è un tema di stretta attualità che è stato trattato con originalità dall’autore. Se la via è quella del 'fare' - nella risoluzione un problema plurisecolare - allora non possiamo che interrogarci sulla nostra condizione di individui, sia come esseri umani sia come cittadini. E se la sofferenza dei primi, anche espresso come sentimento di angoscia così ben descritto da Augusto Cavadi, sarà funzionale alla rivalutazione del senso civico dei secondi, allora potremmo dire di esserci avvicinati, forse, successo.

Davide Fadda

https://www.girodivite.it/Quel-maledetto-1992-L-inquietante.html 

lunedì 27 giugno 2022

18 DONNE DI TUTTA ITALIA S'INTERROGANO SUL LORO RAPPORTO CON IL SISTEMA MAFIOSO

(Foto di Gaetano Ceraulo)

DONNE DENTRO E FUORI IL SISTEMA DI DOMINIO MAFIOSO

Una scrittrice (Gisella Modica) e una sociologa (Alessandra Dino) hanno chiesto a 16 donne di varie parti d'Italia un contributo sul loro rapporto con le tematiche delle mafie meridionali. Ne è risultato un testo – Che c'entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni (Mimesis, Milano – Udine 2022, pp. 270, euro 24,00) - intessuto di registri comunicativi non omogenei: infatti il linguaggio descrittivo scientifico si intreccia con il narrativo-biografico e questo, ancora, col linguaggio inventivo della creazione letteraria. Questa varietà di registri non è un difetto perché, anzi, rende la lettura ‘sorprendente’: completato un capitolo appartenente a un certo genere letterario, te ne trovi innanzi un successivo di genere letterario completamente diverso. 

Un limite, se mai, potrebbe individuarsi nella preponderanza di dati, esperienze vissute, rispetto a una griglia interpretativa complessiva del ruolo delle donne nel mondo delle mafie. Comunque, anche se fosse metà dell’opera, sarebbe già una metà preziosa: infatti, se esiste qualcosa come un sapere mafiologico, esso può progredire solo in quanto intreccio epistemico di categorie scientifiche e di vissuti esistenziali.

In questo ricco magma di testimonianze e di invenzioni poetiche mi limito a qualche spunto.

Un primo tema è costituito dalla relazione fra violenza mafiosa e violenza di genere. In qualche mia pubblicazione sula “gabbia del patriarcato” ho avanzato delle somiglianze che in più di un passaggio di questo testo vedo ribadite. 

  • Come il sistema mafioso è oppressivo anche quando non uccide (anzi, forse soprattutto quando non ha bisogno di ricorrere alla violenza esplicita, esercitata) così il sistema patriarcale-maschilista è oppressivo anche quando non uccide (anzi, l’intensificarsi dei femminicidi è la spia di una crescente resistenza femminile alla ‘normalità’ della subordinazione di genere). Ma l'opinione pubblica (pur essendone essa stessa vittima ordinaria e quotidiana) si accorge della mafia e della violenza strutturale ai danni delle donne solo quando vede il sangue. Da qui la necessità, nell’uno e nell’altro caso, di acquisire “una visione non emergenziale del fenomeno” (Sara Pollice, p. 145); di “costruire una visione delle cose che consenta alle ragazze” – nel caso della mafia: ai cittadini – “di liberarsi da gabbie che loro stesse considerano normali, anzi, necessarie” (Clelia Lombardo, p. 91);

  • come il sistema mafioso mortifica e avvilisce l’umanità non solo delle vittime ma anche dei carnefici, così “la mentalità patriarcale” impoverisce e rattrappisce la personalità degli stessi maschi che la riproducono passivamente . In entrambe le situazioni – per dirlo con Simone Weil citata da Maria Livia Alga a p. 164 – “la violenza pietrifica, diversamente, e ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano”. La riprova: i maschi evoluti sono al di là tanto del sistema mafioso quanto del maschilismo, come Peppino Impastato che “nel corso della sua breve vita cercherà di emanciparsi, alimentando un nuovo modo di relazionarsi tra i generi” (Evelin Costa,p. 52)

  •  un altro aspetto della questione mafia-donne riguarda non più solo le analogie fra sistema mafioso e sistema maschilista, ma proprio la violenza esercitata contro le donne all’interno del sistema mafioso: il caso di Lia Pipitone, uccisa dai killer del padre mafioso nel 1983, raccontato anche da Clelia Lombardo nel suo contributo, è solo uno dei tanti evocati lungo tutto il volume (per esempio nei contributi di Sara Pollice Il filo che ci unisce, pp. 143 – 153, di Floriana Coppola, Storia di Anna, pp. 171 – 185, di Chiara Natoli, Trent’anni dopo. L’eredità di chi non c’era, pp. 215 - 217).

Un secondo tema è l’intreccio fra legami affettivi, familiari, e distanziamento cultuale, etico-politico, da soggetti decisamente mafiosi. Gisella Modica racconta il travaglio nei confronti della figura del nonno materno, per anni ammirato, poi 'scoperto' come boss. Sul piano dei vissuti esistenziali non è facile districarsi, ma concettualmente dovrebbe essere evidente la possibilità che un affetto familiare sincero co-esista con una presa di distanza pubblica, serena ma ferma, dall’universo dei propri cari. Non c’è contrasto fra i due atteggiamenti, anzi la forma più matura e costruttiva di amore potrebbe manifestarsi come invito a rinnegare un passato indecente: ti amo al punto da chiederti di liberarti, sino a che sei in tempo, dalla zavorra che sinora ti ha appesantito e infangato. E’ l’esperienza che racconta di sé un nipote di Matteo Messina Denaro grazie alle cui sollecitazioni il padre ha finito con l’abbandonare pubblicamente l’appartenenza alla cosca di Castelvetrano. 

Qui sfioriamo, e in un certo senso sforiamo su, un terzo tema che mi sta a cuore: la postura nonviolenta come co-essenziale, rispetto ai metodi giudiziari, per scardinare il sistema mafioso. Maria Di Carlo non solo ricorda lo stile di Giovanni Falcone (che è stato efficace proprio come inquirente grazie alla sua “capacità di trattare l’altro (anche un mafioso!) con rispetto umano, avendo cura di creare con lui un sentimento di empatia” (pp. 73 – 74), ma racconta anche la storia di Maria Luisa Javarone che, madre di una giovane vittima di violenza da parte di una gang, cerca (purtroppo invano) di solidarizzare con la madre di uno degli assassini del figliolo. 

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https://www.zerozeronews.it/donne-dentro-e-fuori-il-sistema-di-dominio-mafioso/


giovedì 23 giugno 2022

SIAMO ANCORA IN REGIME DI PATRIARCATO MASCHILISTA?


 PERCHE' IL PATRIARCATO ROVINA LE STORIE INDIVIDUALI, MA ANCHE COLLETTIVE


Dopo un secolo di lotte femministe, a che punto in Occidente è oggi il patriarcato? Esso è “allo stesso tempo sotto assedio e al potere” rispondono Carol Gillican e Naomi Snider in Perché il patriarcato persiste? (Vanda Edizioni, Milano 2021, p. 133). Per spiegare questa formula paradossale (che andrebbe benissimo anche per illustrare lo stato della mafia nel Meridione italiano) sono necessari tre o quattro passaggi.

Il primo, ovviamente, è intendersi sulla definizione di “patriarcato” che, secondo le autrici, è “una cultura fondata su una struttura binaria e gerarchica di genere” per la quale:

  1. le capacità umane” sono o “mascoline” o “femminili” e le mascoline sono da privilegiare;

  2. alcuni uomini” sono al di sopra di altri e tutti gli uomini al di sopra delle donne”;

  3. si perpetua “una separazione tra il sé e le relazioni”, con la conseguenza (dannosa sia per gli uomini che per le donne) che gli uomini vengono obbligati ad “avere un sé senza relazioni” e le donne ad “avere relazioni senza avere un sé” (p. 32).

Un secondo passaggio consiste nel distinguere (senza separarle !) la dimensione istituzionale-politica dalla dimensione psicologico-soggettiva: dal punto di vista delle leggi pubbliche e persino del costumi privati e familiari, il patriarcato maschilista ha subito seri colpi, ma dal punto di vista dei meccanismi psicologici esso perdura e si perpetua inossidabilmente. Trasformare le teorie politiche, giuridiche, sociali è necessario, ma – se non si trasforma anche la psicologia della gente – risulta insufficiente. 

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https://www.zerozeronews.it/il-maschilismo-che-altera-i-rapporti-sociali-e-personali/


sabato 18 giugno 2022

I QUATTRO MAESTRI IN UMANITA' SECONDO VITO MANCUSO



Dalla rivista (on line, scaricabile gratis) "Phronesis",

n. 5, seconda serie, maggio 2022

REPERTORIO:

Vito Mancuso
I quattro maestri
(Garzanti, Milano 2020, pp. 528)

di Augusto Cavadi

I quattro maestri di Vito Mancuso possono interessare il mondo della consulenza filosofica, e più ampiamente delle pratiche filosofiche, per diversi aspetti.

Il primo, più rilevante, è un filo rosso che lega la lettura di Socrate, Buddha, Confucio e Gesù: si tratta di personaggi considerabili come “maestri” (e non solo come “istruttori” o “dottori”) in cui il pensiero e la vita sono stati inseparabilmente intrecciati (un po’ come è avvenuto ai nostri tempi – nota l’autore – con «quattro donne ebree: Hannah Arendt, Etty Hillesum, Edith Stein, Simone Weil», p. 19). Di loro si può dire che abbiano realizzato l’invito di Kant: «Non si tratta di speculare sempre, ma bisogna una buona volta pensare di passare alla pratica» (pp. 19 - 20). Con un’importante precisazione di Mancuso: quando si dice “pratica” non si intende qualcosa che “vale meno”; al contrario, «vale di più rispetto a una domanda solo teoretica: vale di più perché suppone l’impianto teorico ma lo verifica a contatto con l’esistenza reale giungendo a toccare la vita nella sua concretezza» (p. 20). Esemplare, ma non esclusivo, il caso di Socrate che «non era per nulla interessato a fondare la filosofia morale, nel senso di istituire una nuova disciplina accademica; egli piuttosto intendeva praticare la filosofia come morale e la morale come filosofia»: infatti, da una parte, egli trasformò la filosofia «in un esercizio della propria interiorità, paragonabile agli esercizi ginnici», in un «esercizio spirituale»; dall’altra parte, la morale divenne in lui filosofia perché cessò di «essere conformazione a regole tradizionali» per farsi capacità di «capire cosa è giusto in ogni specifica situazione concreta, evitando prescrizioni dogmatiche che piovono dall’alto senza rispettare la singolarità della situazione e di chi la vive», in nome del primato dell’ “autocoscienza” (p. 84). Significativa, in proposito, è una notazione sul criterio con cui Socrate sceglieva i temi della sua indagine: trascorreva le giornate discutendo con “pittori, scultori, calzolai, fabbri, muratori, cuochi, medici, fabbricanti di corazze, una volta anche con un’etera (oggi si direbbe una escort) di nome Teodote. Da queste conversazioni ricavava immagini per tradurre in linguaggio quotidiano i problemi della filosofia e ancor prima individuava gli stessi problemi della filosofia” (pp. 51 – 52), che dunque venivano da lui – più che ‘dedotti’ secondo un ordine sistematico- ‘indotti’ dagli imprevedibili incontri con i non-filosofi (di professione). 

Vediamo un secondo aspetto per cui questo voluminoso, ma fruibilissimo, testo di Mancuso può incuriosire il mondo della consulenza filosofica. Sulla valenza “pratica” del filosofare sono possibili – e rilevabili di fatto – molti equivoci. Tra questi la possibilità di intendere la pratica come il fine cui subordinare la teoria così ridotta a mezzo. Personalmente non vedo nulla di male a che si utilizzi il “filosofato” a scopi estrinseci rispetto al “filosofare”: è quanto hanno sempre fatto gli ideologi (utilizzando le idee in funzione della prassi politica) e, più di recente, fanno alcuni psicoterapeuti (utilizzando categorie, intuizioni, scenari filosofici in funzione della salute complessiva del paziente). Veramente importante è chiarire in maniera netta che questa (legittima) strumentalizzazione della filosofia non è ciò che va inteso come “pratica filosofica”. Il libro di Mancuso offre vari esempi. Il filosofare di Socrate ha – consapevolmente e intenzionalmente – degli effetti “politici”, ma non si tratta di effetti estrinseci: egli fa politica non solo da filosofo, ma in quanto filosofo. «Egli rifiutò sempre di appartenere a un partito prendendo attivamente parte alla vita politica. Affermava di esserne impedito da una voce divina», ma «il suo rifiuto di assumere una posizione determinata nella competizione politica non equivale in nessun modo a un disinteresse per la vita politica: come sarebbe stato possibile per uno come lui che viveva nella polis e per la polis?». Egli si dedica infatti, più che ai frutti e ai rami, alle radici della vita politica: a stimolare la ricerca di «ciò che oggi chiamiamo competenza, preparazione, merito» (p. 58) e, soprattutto, della “statura morale” (tipica del governante che ragiona «in base a ciò che è giusto in sé» e non «a ciò che piace ai più» (p. 59). Coltivare questa ricerca che Gramsci avrebbe chiamato “intellettuale e morale” è un’attività filosofica e, inscindibilmente, politica.

Qualcosa del genere la si può rinvenire in Buddha a proposito del rapporto fra teoria e pratica terapeutica: sarebbe impreciso e riduttivo sostenere che, per lui, la conoscenza è funzionale alla guarigione. Questa affermazione sarebbe solo la metà di una circonferenza: se, infatti, la conoscenza «non è mai fine a se stessa ma sempre finalizzata alla guarigione» (p. 126), è anche vero che «si guarisce solo conoscendo, cioè risanando la mente dall’ignoranza» (p. 127). Insomma: non basta dire che «conoscenza e guarigione» costituiscono «una specie di circolo» perché, più precisamente, la conoscenza è la guarigione.

Questi “maestri” – ecco una terza valenza che interseca la professione del filosofo pratico – non hanno lasciato nulla di scritto. Hanno preferito nettamente l’oralità. «Vi sono individui» – nota l’autore – «il cui esercizio del pensiero richiede compagnia e che danno il meglio di sé nelle conversazioni improvvisate nelle case e nelle strade; e ve ne sono altri che invece necessitano di solitudine e raccoglimento e che quando sono chiamati a conversare risultano spenti, a volte persino bloccati»: non solo Socrate, ma anche Buddha, Confucio e Gesù sembra «appartenessero alla prima categoria». Ciò ovviamente senza né escludere che gli stessi “maestri” in questione «avessero momenti di solitudine volontaria» né che il fatto di non avvertire «mai l’esigenza di scrivere» li abbia posti, per ciò stesso, su un livello superiore rispetto ai «pensatori della seconda categoria», per i quali scrivere è «tipico, direi essenziale» (p. 52).

Più propensi a decostruire che a fornire sistemi belli-e-fatti: ecco una quarta caratteristica di questi “maestri” che, per riecheggiare Nietzsche, più che idee offrono «metodi» (p. 97). Nel caso di Socrate - maestro di ironia e di maieutica - sarebbe sin troppo facile mostrarlo. Ma vale anche per Confucio. Commentando uno dei detti a lui attribuiti – «Possiedo io forse la conoscenza? Non la possiedo. Allorché una persona, per quanto semplice, mi pone un problema, lo esamino sotto tutte le angolazioni, abbandonando ogni idea preconcetta» – Mancuso osserva: «per Confucio era soprattutto decisivo il metodo» (p. 257). E aggiunge: «Egli procedeva empiricamente, per lo più privo di presupposti dogmatici che gli anticipassero a priori cosa fosse bene e cosa male» (pp. 257 - 258).

Anche in Gesù ritroviamo la tendenza a smontare le convinzioni dominanti: «Avete in- teso che fu detto... ma io vi dico» (p. 352). Al posto della precettistica rabbinica, articolata e dettagliata, egli propone un criterio di fondo (l’amore di Dio attraverso l’amore del prossimo) che – in ciò dissentendo da Vito Mancuso – a me pare simile a un “metodo” filosofico: infatti costituisce sì «un ben preciso contenuto da comunicare» (p. 353), ma di tipo “formale” (come l’imperativo categorico kantiano) e non “materiale” (come una casistica gesuitica).

Una quinta, conclusiva, caratteristica trasversale ai quattro maestri prescelti da Man- cuso è la consapevolezza di essere insufficienti, limitati, più che uomini perfetti – come ha detto Ortensio da Spinetoli di Gesù – perfettamente uomini. Come ogni filosofo- consulente di orientamento achenbachiano, essi sanno di poter pronunziare solo la penultima parola perché l’ultima è riservata alla responsabilità del soggetto interlocutore. Infatti «il lavoro effettivo lo deve compiere ognuno nella propria interiorità facendo scaturire dentro di sé il maestro più importante di tutti: il maestro interiore, il quinto maestro, o magari la quinta maestra, facendo del femminile la nuova sorgente della vita etica e spirituale» (p. 440). 

giovedì 16 giugno 2022

DEFICIT DI ACQUA IN SICILIA: COLPA DELLA NATURA O DELLE CLASSI DIRIGENTI ?

 

“Il Gattopardo”

(edizione cartacea Sicilia)

Aprile 2022

DEFICIT DI ACQUA IN SICILIA: COLPA DELLA NATURA O DELLA CLASSE DIRIGENTE?

“Ma in Sicilia avete tutto: sole, mare, montagne, arte…!” osservano spesso i visitatori. “Proprio tutto no” – obietta il siciliano ‘tipico’. “Purtroppo, scarseggia l’acqua: piove troppo poco”. (Ricordate, nel capolavoro di Roberto Benigni Johnny Stecchino, il personaggio che elenca le tre piaghe della Sicilia: l’Etna, il traffico e – appunto – la siccità ?).

Che si tratti di un luogo comune lo attestano le statistiche: nell’isola, infatti, piove certamente meno che sulle Alpi, ma non in misura mediamente insufficiente. Se l’acqua nelle case scarseggia, le responsabilità, passate e presenti, sono esclusivamente da attribuire a noi siciliani. Non alla Natura.

Gli incendi che deforestano ogni estate montagne e colline (provocati da criminali che, incredibilmente, rimangono impuniti nell’era dei droni e dei satelliti-spia) amputano la millenaria funzione di trattenimento dell’acqua piovana esercitata da alberi e arbusti. Là dove, nonostante tutto, il prezioso liquido viene raccolto in bacini, si spreca per malfunzionamento delle dighe che – per difetti strutturali o per guasti temporanei – non riescono a conservarlo sino ai mesi estivi.

L’acqua che sopravvive a tanta dispersione viene, almeno, distribuita razionalmente? Purtroppo no. Soprattutto nel passato, il controllo dell’elemento necessario all’irrigazione dei campi era in mano alle cosche mafiose che potevano così condizionare la vita economica e sociale di vasti territori; ai nostri giorni – in cui il dominio mafioso nel settore agrario sembra in declino – ci pensano la miopia dei politici e la corruzione dei burocrati a impedire che la rete di distribuzione dell’acqua venga inficiata da tubature fatiscenti (come, per altro, avviene in tante altre regioni italiane). 

Un romanzo di Anna Li Vigni di alcuni anni fa, intitolato Da bere agli assetati e ricco di riferimenti alla pasticceria siciliana, fa comprendere perché dalle nostre parti si preferisca ottemperare ad altri inviti evangelici. Come dare da mangiare agli affamati.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

martedì 14 giugno 2022

1980 - 2022: QUARANT'ANNI DOPO L'OMICIDIO MATTARELLA, COSA E' CAMBIATO A PALERMO?


 “Infiniti mondi”

Maggio 2022


Il caso Sicilia. Bilancio critico di 40 anni di antimafia “dal basso” 


Il 1980 si è aperto (6 gennaio) con l’assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella. Non era il primo né sarebbe stato l’ultimo dei “cadaveri eccellenti”. Nella lista, incredibilmente lunga, degli attentati per mano mafiosa ce ne sono almeno tre che hanno scosso – in maniera singolare – l’opinione pubblica: 3 settembre 1982 (generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa)1, 23 maggio 1992 (giudice Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta), 19 luglio 1992 (giudice Paolo Borsellino, con le persone – tra cui una poliziotta – della scorta)2. Che cosa abbiano significato nell’immaginario collettivo di noi siciliani queste tre stragi è difficile esprimerlo in parole: si rischia o di dire troppo poco o di cadere nella retorica più trita. Quando, nel 2012, mi fu chiesta una testimonianza a venti anni esatti da Capaci e via D’Amelio, non sono stato capace di scrivere altro: “Raramente capita che le tragedie della storia ci tocchino quasi fossero vicende private. A me è capitato pochissime volte. Due di queste, a meno di un mese di distanza, fra il 23 maggio e il 19 luglio del maledetto ’92 ” 3.


  1. Radici sentimentali della reazione antimafia

Perché rievoco queste risonanze soggettive, affettive, morali ? Perché – per ragioni che mi sfuggono: altre vittime non meno “illustri” sono cadute da un secolo e mezzo a oggi – senza questi effetti nell’animo di molti di noi non si spiegherebbe un dato storico indubitabile: che in Sicilia la reazione popolare, o per lo meno sociale, al dominio mafioso è stata di una consistenza e di una durata incomparabili rispetto ad altre regioni italiane, anche meridionali. In Calabria, in Campania, soprattutto in Lombardia con la fondazione del Circolo “Società civile” ad opera di Nando dalla Chiesa – senza contare l’attività di sensibilizzazione e di collegamento sull’intero territorio nazionale, da Torino, con “Libera” di don Luigi Ciotti 4 – non sono mancate associazioni, organizzazioni, aggregazioni; nulla, però, di confrontabile con la mobilitazione in Sicilia. 

A quarant’anni di distanza dalla data-simbolo (un po’ arbitrariamente) prescelta, che bilancio si può fare di questo che – approssimativamente – possiamo denominare “movimento antimafia dal basso” ?


  1. Il coinvolgimento attuale dell’osservatore-partecipante

Innanzitutto deve premettere una preoccupazione: siamo troppo vicini, anzi ancora immersi nel flusso degli eventi, per guadagnare quel minimo di distacco emotivo necessario ai consuntivi storici. L’osservatore-partecipante è stato sottoposto in questo lungo periodo cronologico a sommovimenti da ”montagne russe” o da “saune svedesi”: prostrazioni strazianti (“Qui è morta la speranza dei siciliani onesti” ha scritto una mano ignota sul luogo dell’omicidio di dalla Chiesa), balzi di entusiasmo per risultati enfatizzati (pensiamo a quando non si trovava in nessun angolo del Paese un teatro abbastanza ampio da contenere le presentazioni di libri come Delitto imperfetto 5 di Nando della Chiesa o Palermo 6 di Leoluca Orlando), di nuovo momenti di sconforto senza fondo (Antonino Caponetto, capo del pool antimafia avviato da Rocco Chinnici, che dopo via D’Amelio, tra le lacrime confida alle telecamere: “E’ finito tutto, è finito tutto…”) e così via sino ai nostri giorni, in cui – quando sei invitato in giro per portare la tua testimonianza di cittadino schierato – non sai più se considerarti orgoglioso di far parte del “movimento antimafia” siciliano o vergognarti di troppi compagni di strada indegni. 


  1. A che punto, in generale, con la lotta alla mafia?

Dopo la premessa sul coinvolgimento diretto dell’osservatore nelle vicende di cui si vorrebbe rendere conto, va subito aggiunto che qualsiasi bilancio sul “movimento antimafia dal basso” va inscritto all’interno del più ampio scenario della lotta alla mafia condotta anche dalle autorità giudiziarie, dalle istituzioni politiche, dai mezzi di informazione e dagli esponenti apicali delle chiese più numerose (dunque, in primis, dai vertici della chiesa cattolica). Cominciamo dunque dalla domanda suggerita da uno sguardo complessivo, d’insieme: a che punto siamo con il contrasto alla criminalità organizzata?

Per quanto strano possa sembrare, non si registra un accordo fra le risposte a questa domanda. Non sono forse i dati oggettivi ? Non dovrebbero imporsi a tutti? Le divergenze non dovrebbero iniziare quando dai dati oggettivi si passi alla loro interpretazione soggettiva? Sì, è vero: i dati sono oggettivi. Ma se non vengono considerati tutti, se si opera una selezione, il giudizio conseguente muta. Se, ad esempio, consideriamo eventi e numeri riguardanti il contrasto giudiziario a Cosa Nostra, non sarebbe né corretto né psicologicamente consigliabile negare i risultati molto incoraggianti raggiunti. Per la prima volta nella sua storia più che centenaria, la mafia siciliana è stata decapitata: i suoi capi storici, infatti, sono stati quasi tutti catturati, processati, condannati e hanno chiuso in carcere le loro infami esistenze. 

Tutto bene, dunque? Così sarebbe se Cosa Nostra, oltre ad essere un soggetto ‘militare’, non fosse anche un soggetto politico, economico e persino culturale-pedagogico. Poiché, invece, lo è, i dati da tenere in conto sono anche altri: quali rapporti fra mafiosi e politici? Quali i condizionamenti mafiosi nel mercato ? Quale la condivisione della tavola-dei-valori mafiosi da parte di frange consistenti della società? Con questi nuovi dati alla mano, il quadro ottimistico muta di segno. I colori sbiadiscono, le ombre si allungano. Ed è in questo panorama chiaroscurale che va inserita la questione, più specifica e circoscritta, del ruolo dell’antimafia sociale nell’ultimo quarantennio.


  1. Il bilancio dell’antimafia “dal basso”

E vediamo, all’interno di questo scenario più ampio, che bilancio possiamo tratteggiare del movimento antimafia ‘sociale’. Per precisione analitica distinguerò cinque punti di vista principali.

Dall’angolazione culturale il movimento siciliano ha prodotto dei materiali davvero interessanti che hanno focalizzato molte facce del poliedrico fenomeno mafioso. Si sono indagate le vicende storiche pre- e post-unitarie (Umberto Santino7, Giuseppe Carlo Marino8, Salvatore Lupo9, Amelia Crisantino10sono solo alcuni nomi tra numerosi, e non meno meritevoli, altri); si sono tematizzati i profili giuridici e giudiziari (ad es. Rocco Chinnici11, Giovanni Falcone12, Giovanni Fiandaca13, Roberto Scarpinato14, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino15), i nessi con il sistema politico (ad es. Francesco Forgione16), il ruolo delle donne (ad es. Anna Puglisi17), i rapporti con la chiesa cattolica (ad es. Francesco Michele Stabile18, Cosimo Scordato19, Cataldo Naro20, Alessandra Dino21, Augusto Cavadi22), gli aspetti psicologici e psicopatologici (Girolamo Lo Verso23).

Dall’angolazione politica i risultati sono stati decisamente deludenti. Il movimento antimafia ha sì tentato di proiettarsi, con formazioni elettorali, sul piano istituzionale e amministrativo (per esempio con il Movimento “Una città per l’uomo”, con “La Rete” di Leoluca Orlando, con “L’Altra Sicilia” di Rita Borsellino), ma tali tentativi si sono rivelati, alla fine, fallimentari. Anche il popolo dell’antimafia, come il resto della popolazione, ha dimostrato di essere disposto – nel migliore dei casi – a firmare deleghe in bianco a capi carismatici, non ad assumersi responsabilità permanenti in prima persona. Né ad esito migliore ha condotto la strategia di appoggiare la candidatura in vari partiti di singole personalità del movimento antimafia: anche quando tali esponenti hanno effettivamente raccolto consistenti consensi elettorali, o hanno validato la profezia di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”24 o – nei casi meno gravi, come il presidente della giunta regionale Rosario Crocetta – hanno dato prova di limitatissime capacità di governo. 

Dall’angolazione economica il bilancio registra una certa parità fra successi e fallimenti. Nella colonna delle ‘entrate’, dei guadagni, dobbiamo segnalare il movimento “Addiopizzo” attivato da giovani palermitani che hanno tappezzato la città di manifesti artigianali con su scritto “Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Sinora hanno aderito centinaia di commercianti e di consumatori, anzi si sono create organizzazioni simili per i professionisti (“Professionisti liberi”) e per gli imprenditori (“Libera impresa”). Intercettazioni telefoniche hanno confermato la validità della mobilitazione popolare: “Evitate” – ha raccomandato qualche boss ai suoi scagnozzi – “di chiedere soldi a questi che espongono il cartellino «Io non pago il pizzo». Non si sa mai: potrebbero avere qualche telecamera nascosta che si può vedere dalla Questura”. Purtroppo c’è anche una colonna di ‘uscite’, di perdite: il sistema bancario continua a prestare denaro a chi ne ha meno bisogno, o addirittura a chi è in grado di esercitare pressioni varie perfino ambigue, negandolo a chi è davvero nei guai. Da qui il sistema creditizio parallelo di Cosa Nostra fondato sull’usura e, in prospettiva, sull’acquisizione delle imprese insolventi. E’ notizia confermata da più fonti che la pandemia del covid-19 ha moltiplicato e accentuato i casi di indebitamento da parte di operatori onesti nei confronti di finanziatori sporchi. 

Dall’angolazione pedagogica i risultati raggiunti sono incoraggianti ma non soddisfacenti. Rispetto agli anni della mia adolescenza, è finalmente crollata l’ambiguità per cui nelle scuole e nelle altre agenzie educative ci si attardava nel duplice dibattito se la mafia esistesse e, nel caso affermativo, se fosse davvero un danno per la Sicilia. Oggi sempre più raramente ‘mafioso’ è un complimento e ‘sbirro’ un’offesa. Tuttavia la presa di distanza da certi luoghi comuni non ha significato il radicamento di una formazione organica adeguata: un po’ succintamente, si potrebbe dire che la pedagogia “mafiosa” non è stata ancora sostituita da una pedagogia “alternativa” perché imperniata sulla conoscenza, e più ancora sull’esperienza quotidiana, di princìpi come l’esercizio del pensiero critico, la partecipazione democratica, il rispetto delle norme costituzionali, la solidarietà verso le fasce impoverite e emarginate, la sensibilità per le bellezze naturali e artistiche e così via.

Trasversalmente rispetto alle quattro angolazioni evocate (culturale, politica, economica e pedagogica), ma anche a titolo fondativo di condizione di possibilità, non si può tacere sull’angolazione etica. Tra coloro che, celebrati perché martiri civili o rimasti sconosciuti perché sopravvissuti allo scontro sanguinario, si sono schierati con fermezza dalla parte della giustizia e della vera libertà, ce ne sono stati di privi di motivazioni etiche? O non è possibile rintracciare, all’origine della loro insubordinazione alla dittatura mafiosa, una riserva di energie morali alimentate ora da fede religiosa ora da convincimenti politici ora da una solida spiritualità laica? Da questo punto di vista il bilancio della lotta al sistema mafioso si presenta particolarmente preoccupante. Casi eclatanti particolarmente vergognosi (come la giudice Silvana Saguto, il presidente di Sicindustria Antonello Montante, il presidente di Confcommercio Roberto Helg) sono solo alcune punte di iceberg che emergono su un mare di corruzione, collusioni, scambi di favore, appropriazioni indebite, abusi. Ciò che preoccupa ancora di più, comunque, è una prognosi derivante da una panoramica più ampia. Fino ad oggi, infatti, ad ogni mafioso o para-mafioso ha fatto da pendant un cittadino onesto o addirittura impegnato attivamente contro il sistema mafioso: forse perché è stato beneficiato dall’incontro contagioso con personalità eticamente luminose incontrate in ambienti scolastici o sindacali o partitici o ecclesiali o associativi…Ma le generazioni affacciatesi sulla scena sociale nel periodo che stiamo esaminando in queste pagine – diciamo dai micidiali anni Ottanta a oggi – in quali ambienti hanno potuto avvertire, sperimentare, interiorizzare delle tensioni morali? Nelle scuole (essenzialmente palestre per allenarsi a ottenere più successo dei compagni) ? Nei sindacati (macchine burocratiche dove imparare l’arte del privilegio e del clientelismo) ? Nei partiti (caserme per soldati proni al leadervincente, ma abili a saltare sul carro del successivo)? Nelle comunità di tipo religioso (dove – in ambito cristiano e non meno in ambiti orientali - vigoreggia la tentazione di declinare la vita di fede in chiave più intimistica e egocentrica che attivamente solidale)? Nell’associazionismo laico (dove le lotte per l’occupazione dei ruoli apicali sono tanto più animate quanto meno consistente è il potere effettivo che vi si può esercitare)? 


  1. Per (non) concludere

Non formulo queste domande oppresso dallo scoraggiamento né tanto meno per indurre altri a scoraggiarsi, ma solo per desiderio di realismo dettato da onestà intellettuale. Solo se saremo capaci di diagnosi per quanto possibile lucide potremo azzardare delle terapie per quanto possibile efficaci. Soprattutto libere da enfasi retoriche, ormai neppure in grado di consolare sé stessi o gli altri.

Molti episodi, personaggi, ambienti che non sono stati chiamati in causa nelle mie righe precedenti sono stati rievocati, invece, in un libro del giovane e coraggioso giornalista marsalese Giacomo di Girolamo dal titolo inequivoco: Contro l’antimafia. Indubbiamente alcune espressioni sono (volutamente) esagerate, per esempio là dove, proprio come ouverture, scrive: “Io non ho mai avuto paura” (della mafia), “adesso sì” (dell’antimafia), perché quest’ultima si sarebbe trasformata in “un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere” 25. Tuttavia, nel complesso, il libro - scritto senza reverenze bigotte – è privo di acredine26 e avrebbe meritato un più ampio dibattito proprio all’interno del movimento passato ai raggi X27.

Come negare che uno dei limiti più gravi dell’antimafia militante è stato, ed è, l’incapacità di “coinvolgere altre persone al di fuori di questa élite che noi rappresentiamo, questo ceto medio impegnato, informato e itinerante, che si sposta, ascolta, applaude, inorridisce e ride. E si vede e si rivede, registrato, e ripetuto. Poi, quasi sempre, torna a pensare agli affari suoi”28 ? O anche l’approssimazione tuttologica con cui i sedicenti mafiologi “parlano di tutto, ognuno mette quintali del proprio ego a disposizione della folla plaudente, si calca sul pedale dell’emotività e alla fine ce ne andiamo privi di informazioni nuove ma con i lucciconi negli occhi”29 ? Non meno grave l’alto tasso di litigiosità interna alle organizzazioni nate in nome della legalità (democratica): “Ognuno pensa a se stesso; dietro l’ideologia di facciata e i proclami e le marce, ognuno pensa sé. E a volte odia il compagno di battaglia più di quanto odi i mafiosi” 30. Alle base di queste e altre distorsioni cova forse l’illusione che la mafia sia un’infiltrazione malata in un tessuto istituzionale e sociale sano e che dunque si possa fare lotta alla mafia senza, contestualmente, lavorare per un altro modello complessivo di società. Illusione che ne implica un’altra, logicamente anteriore: che si possa lavorare per una società nuova rimanendo persone ‘vecchie’, attaccate a quelle stesse ambizioni di dominio incontrastato e di arricchimento indefinito che caratterizzano l’orizzonte mentale del mafioso.

Gli ultimi quarant’anni di movimento antimafia siciliano, con le sue luci e le sue ombre, potrebbe insegnarci – se avessimo orecchie per intendere – essenzialmente questo: non c’è contrasto alla mafia senza politica (strategica), non c’è politica senza etica (rinnovata). 


Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

a.cavadi@libero.it

1 Sul quale resta attualissimo N. dalla Chiesa, Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana, Melampo, Milano 2007.

2 Per inquadrare nel contesto storico le due stragi cfr. U. Santino, Breve storia della mafia e dell’antimafia, Di Girolamo, Trapani 2011, pp. 145 – 149.

3 A. Cavadi, Tragedia storica, angoscia privata in D. Gambino – E. Zanca ( cura di), Vent’anni, Coppola, Trapani 2012, p. 33.

4 Cfr. N. della Chiesa (in collaborazione con L. Ioppolo, M. Mazzeo e M. Panzarasa), La scelta Libera. Giovani nel movimento antimafia, Gruppo Abele, Torino 2014.

5 N. dalla Chiesa, Delitto imperfetto, cit.

6 L. Orlando, Palermo, Mondadori, Milano 1990.


7 U. Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti University Press, Roma 2009 e U. Santino, La mafia dimenticata. La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento. Le inchieste, i processi. Un documento storico, Melampo, Milano 2017. A. Crisantino, Breve storia della Sicilia. Le radici antiche dei problemi di oggi, Di Girolamo, Trapani 2012 e A. Crisantino, Capire la mafia. Dal feudo alla finanza, Di Girolamo, Trapani 2019.

8 G. C. Marino, Storia della mafia. Dall’ «Onorata società» a «Cosa nostra», la ricostruzione critica di uno dei più inquietanti fenomeni del nostro tempo, Newton Compton, Roma 2006 e G. C. Marino, Globalmafia. Manifesto per un’Internazionale antimafia, con un contributo di A. Ingroia, Bompiani 2011.

9 S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 2004 e S. Lupo, Potere criminale. Intervista sulla storia della mafia, a cura di G. Savatteri, Laterza, Roma – Bari 2010.

10 A. Crisantino, Breve storia della Sicilia. Le radici antiche dei problemi di oggi, Di Girolamo, Trapani 2012 e A. Crisantino, Capire la mafia. Dal feudo alla finanza, Di Girolamo, Trapani 2019.

11 R. Chinnici, L’illegalità protetta. Le parole e le intuizioni del magistrato che credeva nei giovani, Glifo, Palermo 2017.

12 G. Falcone, Interventi e proposte (1982 – 1992), Sansoni, Milano 1994.

13 G. Fiandaca (con S. Lupo), La mafia non ha vinto. Il labirinto della Trattativa, Laterza, Roma-Bari 2014.

14 R. Scarpinato (con S. Lodato),  Il ritorno del principe , Chiarelettere, Milano 2008.

15 G. Pignatone – M. Prestipino, Modelli criminali: Mafie di ieri e di oggi, Laterza, Roma- Bari 2019.

16 F. Forgione, Amici come prima. Storie di mafia e politica nella Seconda RepubblicaPrefazione di N. Tranfaglia, Editori Riuniti, Roma 2004.

17 A. Puglisi, Storie di donne. Antonietta Renda, Giovanna Terranova, Camilla Giaccone raccontano la loro vita, Di Girolamo, Trapani 2007 e A. Puglisi, Donne, mafia e antimafia, Di Girolamo, Trapani 2012.

18 Don Francesco Michele Stabile ha dedicato molti capitoli dei suoi libri di storia della chiesa cattolica in Sicilia, e molti saggi e articoli su riviste culturali, ai rapporti fra mondo cattolico e mafia. In maniera più diretta e organica affronta la tematica in Chiesa madre, ma cattiva maestra? Sulla “bolla” di Andrea Camilleri, Di Girolamo, Trapani 2020.

19 C. Scordato, Dalla mafia liberaci o Signore. Quale l’impegno della chiesa ?, Di Girolamo, Trapani 2014.

20 Cataldo Naro ha toccato in numerose occasioni la questione dei rapporti fra la chiesa cattolica e la mafia (vedi soprattutto La speranza è paziente. Interventi e interviste (2003-2006), Sciascia, Caltanissetta-Roma 2007), ma non ha fatto in tempo a produrre un’opera organica in proposito. Il fratello Massimo (autore, tra molto altro, di Contro i ladri di speranza. Come la Chiesa resiste alle mafie, Dehoniane, Bologna 2016) ha curato una raccolta - che sarà presto pubblicata - degli scritti del defunto arcivescovo di Monreale sulla tematica in questione.

21 A. Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Laterza, Roma-Bari 2008.

22 A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009 e A. Cavadi (ed.), Il vangelo e la lupara. Documenti e studi su chiese e mafie, Di Girolamo, Trapani 2019 (contiene saggi di Francesco Michele Stabile e Cataldo Naro).

23 G. Lo Verso – G. Lo Coco, La psiche mafiosa. Storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, Franco Angeli, Milano 2013 e G. Lo Verso, La psicologia mafiosa. Un fondamentalismo nostrano, Di Girolamo, Trapani 2017.

24 I bersagli (Leoluca Orlando e Paolo Borsellino) erano sbagliati (soprattutto il secondo), ma la questione sollevata dallo scrittore siciliano era fondata.

25 G. Di Girolamo, Contro l’antimafia, Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 13 – 15.

26 E non vorrebbe correre “il rischio di travolgere tutto, appiattendo nello stesso panorama storie diverse, la generosità e la buona fede di tanti, di un’antimafia operosa e sincera” (Ivi, p. 141).

27 A Palermo lo abbiamo presentato e discusso con l’autore presso la sede operativa dell’associazione di volontariato culturale “Scuola di formazione etico-politica G. Falcone”, ma con poche decine di partecipanti e soprattutto senza alcuni esponenti di associazioni criticate nel testo e da me invano invitati a esporre le proprie contro-considerazioni. Ignorare, evitare il regalo di un contraddittorio, lasciar dimenticare…vecchie tecniche, mai abbandonate. 

28 Ivi, p. 46. 

29 Ivi. 

30 Ivi, p. 147. 

giovedì 9 giugno 2022

UN ESTREMO APPELLO AGLI ELETTORI PALERMITANI TENTATI DALL'ASTENSIONISMO


 PERCHE’ ANDRO’ A VOTARE

La politica è un incrocio complesso di idee, di valori etici, di interessi economici. Tranne in rarissimi casi (per esempio alle elezioni regionali siciliane del 2005 in cui si fronteggiavano Salvatore Cuffaro per il centro-destra e Rita Borsellino per il centro-sinistra) non è facile decidere né se votare né come votare. 
Alle imminenti elezioni comunali di Palermo si candidano, ad esempio, nelle varie liste (per i consigli di circoscrizione e per il consiglio comunale) non solo alcune decine di pregiudicati, tanto presuntuosi quanto ignoranti, ma anche centinaia di donne e di uomini che conosco personalmente e che stimo: se l’elenco non fosse troppo lungo, sarei tentato di nominare queste persone una per una, lista per lista.
Anche le 6 persone che si candidano a sindaco sono, considerate soggettivamente, oneste e, sia pur a livelli differenziati, di accertate capacità organizzative e amministrative: questo è un dato che deve confortarci. In altri tempi i nostri sindaci si chiamavano Vito Ciancimino e Salvo Lima (e ritengo che, se quei tempi sono alle nostre spalle, lo si debba in particolare a Leoluca Orlando, nonostante le grandi delusioni che ci ha riservato sia come leader nazionale della “Rete” sia sul piano dell’amministrazione effettiva quotidiana). 
In questo scenario abbastanza confortante, spicca una nube oscura dal punto di vista simbolico: uno di questi candidati (il professore Roberto Lagalla) non ha minimamente rifiutato, anzi ha vistosamente accettato, la sponsorizzazione di due politici (Salvatore Cuffaro e Marcello Dell’Utri) che sono stati inquisiti, processati, condannati e incarcerati per reati di mafia. Per settimane ho atteso invano dall’ex Rettore dell’Ateneo palermitano una dichiarazione del genere: “Non posso certo impedire a nessun elettore di votare per me, ma si sappia che io non ho chiesto né gradisco il sostegno elettorale né dei mafiosi né dei loro complici”. Se, come i sondaggi sembrano prevedere, dovesse riuscire eletto il professore Roberto Lagalla, nell’immaginario mondiale la città di Palermo tornerebbe indietro di mezzo secolo. Un danno simile, con le conseguenze anche economiche che comporterebbe, non sarebbe compensato neppure dai più incredibili miracoli amministrativi. 
Se queste considerazioni sono fondate, ognuno/a di noi dovrebbe vincere lo scetticismo e recarsi alle urne per votare uno dei 5 candidati alternativi a Lagalla : Franco Miceli o Rita Barbera o Fabrizio Ferrandelli o Ciro Lomonte o Francesca Donato. Come si sa, il voto per il sindaco è ‘disgiunto’ dal voto per i 2 consiglieri comunali e i 2 consiglieri di circoscrizione che si possono scegliere all’interno di una stessa lista: dunque si possono votare candidati in liste di centro-destra afferenti a Lagalla, ma con la scheda apposita un sindaco diverso da Lagalla. 
Quest’anno in particolare, votare – e invitare a votare il 50% circa di palermitani astensionisti - è un minimo gesto d’amore per Palermo che dobbiamo a noi stessi e a quelle concittadine e a quei concittadini che son state/i massacrate/i dal sistema politico-mafioso pronto, come spiegava in un’intercettazione telefonica l’ultimo arrestato per mafia, a rialzare la testa dopo questo periodo di forzato inabissamento.

Augusto Cavadi

mercoledì 8 giugno 2022

LA DECRESCITA FELICE: A COLLOQUIO CON MAURIZIO PALLANTE




 E' ON LINE L'ULTIMO NUMERO (scaricabile gratuitamente) della rivista "Phronesis" ,(n. 5, seconda serie, maggio 2022), organo ufficiale dell'Associazione nazionale omonima per la consulenza filosofica.

Tra i contributi una mia Intervista a Maurizio Pallante, teorico della decrescita felice.

Augusto: Sei laureato in Lettere e svolgi una vasta attività divulgativa nell’ambito delle tecnologie am- bientali. Quando ti ho invitato nell’estate del 2021 sulle Madonie, al Festival Una montagna di filosofia, per introdurre una “colazione col filosofo” sul tema portante della tua missione – la “decrescita felice” – sei rimasto stupito? E, comunque, come ti sei trovato nel ruolo per te insolito di ‘maieuta’ filosofico?

Maurizio: Poteva stupirmi la tua richiesta di partecipare a un convegno di filosofia? Mi ha fatto pensare che tu avessi percepito la valenza filosofica delle mie riflessioni sulla decrescita. Mi sono preoccupato soltanto per la mia inadeguatezza a trasformarle da intuizioni in un sistema di pensiero organico. Io ho solo risposto a un imperativo etico che mi ha indotto a cercar di capire le cause della crisi epocale – ecologica, economica, sociale, culturale e politica – in cui l’umanità sta sprofondando e a tentare di individuare una via per evitare che si trasformi in una catastrofe irrecuperabile. Ho maturato la convinzione che la ricerca scientifica e tecnologica sono indispensabili per percorrerla, ma solo se non saranno più usate come strumenti di dominio della specie umana sulle altre specie viventi. Solo se muteranno le finalità con cui verrà utilizzato il loro enorme potere e i loro progressi saranno misurati con la capacità di rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale. Quando gruppi di persone che non si sono lasciate irretire dalla demonizzazione della decrescita felice ad opera del pensiero dominante, e intuiscono le prospettive che può aprire, mi chiedono di aiutarle a capire le sue implicazioni, la mia relazione con loro tu chiamala, se vuoi, maieutica.

Augusto: In effetti, sin da quando ti ho ascoltato e poi anche letto – ormai quasi venti anni fa – ho intuito la preziosità della tua riflessione per chi, come me e i colleghi di “Phronesis”, siamo molto attenti alla valenza ‘pratica’ (dunque esistenziale ed etico–politica) del filosofare. E questo non solo quando gestiamo incontri di piccoli gruppi, ma anche nei colloqui a due: riteniamo infatti che molte sofferenze individuali originino da contesti socio–culturali ed economici ingiusti e che sia dunque da miopi tentare di perseguire il benessere soggettivo ignorando il malessere collettivo. È illusorio cercare di essere felici – o per lo meno sereni e in grado di convivere con tante sofferenze che ci assediano da ogni lato – in una società ingiusta, inquieta, priva di riferimenti valoriali minimi condivisi. Se tu dovessi individuare un centro cruciale, una radice decisiva, degli errori e degli orrori della società attuale, cosa nomineresti?

Maurizio: Probabilmente, la matrice di tante perversioni operative è nella prospettiva filosofica (di cui si ha per giunta scarsa consapevolezza collettiva) dell’antropocentrismo.

Augusto: Puoi illustrare meglio il nesso fra critica (filosofica) all’antropocentrismo – che secondo Hans Jonas accomuna i sistemi liberalcapitalisti e i sistemi socialcollettivisti – e proposta (economico–politica) della decrescita?

Maurizio: Per risponderti in maniera argomentata, devo chiederti un po’ di pazienza e partire da una premessa all’apparenza troppo remota: non tutti coloro che sostengono la necessità di una decrescita economica attribuiscono lo stesso significato a questa parola. Io penso che per definire cosa sia la decrescita occorre innanzitutto ripristinare la distinzione tra il concetto di beni e il concetto di merci. I beni sono oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio. Le merci sono oggetti e servizi che si comprano. Si tratta, pertanto, di due concetti diversi, ma non contrari. Il contrario di beni non è merci, ma oggetti che oggettivamente non rispondono ad alcun bisogno e non soddisfano alcun desiderio: gli sprechi di energia termica negli edifici non ben coibentati, il cibo che si butta, l’acqua che si disperde nelle reti idriche ecc. Il contrario di merci non è beni, ma oggetti e servizi che non sono in vendita: o autoprodotti per autoconsumo, o scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo nell’ambito di rapporti comunitari: l’economia vernacolare, secondo la definizione di Ivan Illich.

L’indicatore della crescita economica, il prodotto interno lordo, si calcola sommando i prezzi di vendita degli oggetti e dei servizi a uso finale scambiati con denaro nel corso di un anno. Pertanto cresce se cresce la quantità delle merci vendute e comprate, anche se non hanno alcuna utilità, o creano danni; mentre non cresce se cresce la produzione di beni vernacolari, che sono per definizione utili. Il Pil non può pertanto essere considerato un indicatore di ben-essere. La decrescita, secondo la definizione che io ne do, è la riduzione della produzione di merci che non sono beni e l’aumento della produzione di beni che non assumono la forma di merci. Non si identifica col segno meno davanti al Pil, ma col meno quando è meglio. Non è la recessione, ovvero la diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci, quelle utili e quelle inutili, che crea una disoccupazione crescente. Al contrario la diminuzione degli sprechi non solo richiede l’adozione di tecnologie più evolute, che comportano una riduzione dell’impatto ambientale (minor consumo di risorse naturali e di emissioni di scarti per unità di pro- dotto), ma contribuisce a creare un’occupazione utile che paga i suoi costi con i risparmi che consente di ottenere. La decrescita così intesa utilizza criteri di valutazione qualitativi del fare umano. Propone di sostituire il fare bene al fare sempre di più.

La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci utilizza la scienza e la tecnologia come strumenti di dominio della specie umana su tutte le altre specie viventi, considera la biosfera un serbatoio illimitato di risorse a sua disposizione, con una capacità illimitata di metabolizzare le sostanze di scarto derivanti dai processi produttivi e dalla trasformazione degli oggetti in rifiuti al termine della loro vita utile. È la realizzazione più compiuta dell’antropocentrismo. La decrescita, nella definizione che io ne do, è il capovolgimento di questa concezione.

Augusto: Si può dunque affermare che la tua teoria della decrescita non ha solo una valenza economica, ma veicola una concezione delle relazioni, sia tra gli esseri umani, sia tra la specie umana le altre specie viventi e la biosfera?

Maurizio: Certo. Aggiungerei che questa concezione della posizione dell’uomo nel cosmo da me condivisa è totalmente diversa rispetto alla concezione del mondo che caratterizza il modo di produzione industriale. Uso questo concetto per definire la fase della storia che si è aperta nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale e ha avuto due varianti: la variante vincente del capitalismo e la variante perdente del socialismo “scientifico”, sconfitta definitivamente con l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989. Le due varianti erano unite dalla concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio della specie umana sulla natura per accrescere la sua capacità di estrarne quantità crescenti di risorse da trasformare in quantità crescenti di merci. Si dividevano sulla scelta dei modi più efficaci di organizzare la società per raggiungere il fine che le accomunava – il mercato e la democrazia parlamentare da una parte, la pianificazione economica e i soviet dall’altra – e sui criteri di distribuzione tra le classi sociali dei profitti derivanti dalla crescita della produzione di merci – ad opera del mercato da una parte e dello Stato dall’altra. Il giorno dopo l’abbattimento del muro di Berlino si sono formate file di 40 chilometri di Trabant su cui i tedeschi dell’est andavano ad appiccicare il naso sulle vetrine dei negozi dell’ovest, che contenevano maggiori quantità di merci e merci tecnologicamente più evolute di quelle disponibili nei negozi dell’est. La variante capita- lista aveva fatto crescere l’economia più della variante socialista scientifica.

Augusto: Come giudichi questa vittoria della variante capitalista (sia quando è totale, o quasi, come nel mondo occidentale sia quando è parziale, ibridata, come in Cina)?

Maurizio: La fase storica aperta dal modo di produzione industriale ha apportato grandi benefici a una parte limitata dell’umanità, ma ha accresciuto le diseguaglianze tra gli esseri umani e ha superato le capacità della biosfera sia di fornirle le quantità crescenti di risorse di cui ha bisogno, sia di metabolizzare gli scarti che produce. L’overshoot day ...

Augusto: Scusa, come si potrebbe tradurre in italiano questo inglesismo?

Maurizio: L’overshoot day è il giorno in cui l’umanità arriva a consumare le risorse rinnovabili che la fotosintesi clorofilliana rigenera nel corso dell’anno. Nel 2021 è sceso il 29 luglio. Le emissioni di anidride carbonica, che eccedono le capacità della vegetazione di assorbirle con la fotosintesi e si concentrano nell’atmosfera, hanno raggiunto le 418 parti per milione rispetto alle 270 dell’epoca pre-industriale. Di conseguenza la temperatura media della terra è aumentata più di 1,1 gradi centigradi. Per invertire questa tendenza non basta abbandonare la finalizzazione dell’economia alla crescita perché non basterebbe per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, occorre diminuire il consumo delle risorse e l’emissione di sostanze di scarto. Occorre una decrescita, che, per non essere devastante soprattutto per le fasce più deboli della popolazione mondiale, deve essere selettiva e governata. Si deve realizzare come diminuzione della produzione di merci prive di utilità e aumento della produzione di beni autoprodotti e scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo.

Augusto; Sarebbe difficile contestare il rigore logico, basato su dati empirici, della tua proposta. Ma altrettanto difficile negare che la sua traduzione in scelte quotidiane individuali e in politiche economiche governative comporterebbe la rinunzia a troppi privilegi, a troppe comodità. Proprio a questa difficoltà di fornirsi di motivazioni etiche, talmente forti da superare le spinte egoistiche di segno contrario, ha dedicato l’ultimo libro Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, 2019).

Maurizio: Bisogna riconoscere che tra il dire – o il pensare – e il fare resta sempre di mezzo il mare... Affinché questo cambiamento trovi il consenso sociale necessario alla sua attuazione, occorre anche un cambiamento del sistema dei valori. Da laico ho voluto dedicare uno dei miei testi più recenti alla valorizzazione della ‘spiritualità’, declinandola in una maniera che, poi, ho constatato vicina alle tue riflessioni su una spiritualità a-confessionale, ‘filosofica’: Spiritualità, dono del tempo, contemplazione. Un approccio laico (Edizioni Messaggero Padova, 2021).

Augusto: Già, mentre il materialismo come teoria filosofica, ontologica, da Democrito e Lucrezio sino ai nostri giorni, ha una sua altissima dignità, non altrettanto può dirsi di quel materialismo pratico, agito inconsapevolmente, di cui parlò Pier Paolo Pasolini all’inizio degli anni Settanta.

Maurizio: In effetti, Pasolini denunziava l’appiattimento materialistico come una vera e propria mutazione antropologica. La sfida in atto è di una gravità largamente sottovalutata dai ceti dirigenti, dai cosiddetti intellettuali, dai professionisti dell’educazione... Non si tratta di opporre – vanamente – slogan a slogan. Piuttosto di promuovere, anche con esperimenti concreti, la riscoperta dell’economia del dono e la sostituzione dei rapporti sociali basati sulla competizione con rapporti sociali basati sulla collaborazione; la lentezza al posto della frenesia; la conoscenza disinteressata al posto del sapere per utilizzare; la contemplazione della bellezza alla distruzione dell’ambiente e del patrimonio artistico.

Augusto: Critica dell’ antropocentrismo , critica della società industriale (nella sua duplice versione di ‘destra’ e di ‘sinistra’), rivalorizzazione di una spiritualità basica... In realtà le tue considerazioni si inanellano formando una collana con una sua coerenza logica, filosofica, che potrebbe sfuggire a chi ti legge sul piano meramente socio–economico e, al massimo, politico-istituzionale.

Maurizio: Hai ragione e sono contento che tu lo sta evidenziando: il paradigma culturale della decrescita che io sostengo non si limita all’ambito dell’economia e della tecnologia, ma ha una valenza filosofica. Si fonda sulla convinzione che l’epoca storica iniziata nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale è arrivata al capolinea. Se non si costruiscono i tasselli di un paradigma culturale alternativo capace di accompagnare la nascita di una nuova epoca storica, l’esito non potrà che essere l’estinzione della specie umana.