sabato 22 luglio 2006

UN PANE CHE CREA SCANDALO


ADISTA
22.7.06

UN PANE CHE CREA SCANDALO
Anno B, XXI del t.o. Gv 6, 60-69

I preti sogliono ricattarci con una sorta di aut-aut davanti ai “discorsi duri” attribuiti a Gesù di Nazareth: prendere o lasciare, accettare per fede o voltare le spalle. Molto spesso questa radicalità è solo la parodia dell’originale. “Duro” il parlare dell’Inviato lo è: ma in che senso? Perché incomprensibile, sideralmente lontano dalle categorie umane, intrinsecamente assurdo – o piuttosto perché accettarlo, interiorizzarlo, comporterebbe degli sconvolgimenti esistenziali a cui non siamo disposti? Già nel XVIII secolo Leibniz osservava con fine ironia che gli uomini trovano convincenti le argomentazioni che non implicano mutamenti pratici: se condividere il teorema di Pitagora ci costringesse a modificare il comportamento abituale, anche la geometria diventerebbe tutto a un tratto opinabile…

Prendiamo proprio la provocazione della lettura odierna (ben sapendo che si tratta di una costruzione teologica dell’evangelista più che di un resoconto storiografico fedele). Gesù, nei versetti precedenti, si era presentato come “il pane disceso dal cielo” e ciò in funzione di una promessa: “Chi si ciba di questo pane, vivrà per sempre” (6,58). Ebbene: sono queste espressioni a “scandalizzare” gli ascoltatori. Come mai? Perché non ammettono come vero un ‘mistero’ sovrarazionale (la possibilità che, in qualche maniera sacramentale, ci si possa cibare, nonostante le apparenze, della vera carne e del vero sangue del Messia)? Non pochi commentatori suggeriscono questa interpretazione. Ma, se fosse vera, l’autore del vangelo secondo Giovanni mostrerebbe scarso rispetto per l’intelligenza dei primi discepoli. Infatti, a scanso di equivoci così eclatanti, fa dire a Gesù stesso: “Lo Spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla. Le parole che vi ho detto sono spirito e sono vita” (6, 63). Tirarsi indietro perché si era intesa la proposta messianica su un registro errato scambiandola con una sorta di cannibalismo mistico – e per giunta senza comprendere l’avvertimento di spostarsi su un registro diverso, metaforico, ‘spirituale’ - sarebbe stato da persone doppiamente stupide. I “molti” che “non andarono più con lui” (6,66) lo decidono per motivi più seri: non se la sentono di mettere “la buona notizia” del Cristo al centro dei loro interessi vitali. Se ne vanno non perché hanno capito male, ma perché hanno capito troppo bene: è chiesto loro di sostituire alla quotidiana, affannosa ricerca del proprio ‘pane’, la fruizione del “pane di vita” (6,35). Dunque: il Figlio di Dio (cioè il Messia) e il “regno di Dio” di cui egli è rivelatore. Questo sì che è “duro” da accettare! Le certezze economiche e le garanzie per il futuro: ecco altrettante aspirazioni, in sé legittime, su cui concentriamo la stragrande maggioranza delle nostre energie. Ma qualcuno ci avverte che l’assidua preoccupazione per il “pane quotidiano” può perdere i connotati dell’innocenza e diventare alibi per non preoccuparsi di altro: meno che mai dell’Amore che Dio è per noi. L’attenzione alla propria sopravvivenza diventa, allora, indifferenza nei confronti della fame dei fratelli: e il pane consumato nel chiuso della propria casa, per quanto guadagnato col sudore della fronte, cessa di essere vivificante. Non è più il pane della festa, della convivialità: degrada a pane mortale che toglie alla breve esistenza mondana il suo sapore più autentico. Non resta che la tristezza di necrologi involontariamente autodenigratori: “Dopo una vita interamente dedicata al lavoro e alla famiglia, si è spento il signor Tal dei Tali”. E una domanda impertinente: “Ma, prima, si era mai acceso davvero?”

venerdì 21 luglio 2006

LA TEORIA DI LATOUCHE


Centonove
21.7.06

COM’È TOSSICO LO SVILUPPO

“Lo ‘sviluppo’ è stato ed è l’occidentalizzazione del mondo. Ci sono parole dolci, che rinfrancano il cuore, e parole-veleno, che si infiltrano nel sangue come una droga, pervertono il desiderio ed oscurano il giudizio. ‘Sviluppo’ è una di queste parole tossiche” . Così Serge Latouche nel suo Si può sopravvivere allo sviluppo? tradotto recentemente in italiano dalla Bollati Boringheri di Torino. Come sfida, intellettuale e politica, non c’è male. Al tribunale del teorico della “decrescita” sono convocati in giudizio imprenditori, sindacati, governi (anche ‘progressisti’) e associazioni di volontariato internazionale. Per tutti uno stesso capo d’accusa: “Se si è a Roma e si vuole andare a Torino, e si è preso per sbaglio un treno per Napoli, non basta rallentare la locomotiva, frenare o anche fermarsi, bisogna scendere e prendere un treno nella direzione opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli non ci si può limitare a moderare le tendenze attuali, ma bisogna decisamente uscire dallo sviluppo e dall’economicismo”.

Ai responsabili della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” è sembrato che la sfida teorica e pratica fosse meritevole d’essere accolta, soprattutto dal punto di vista ‘meridiano’: dove la retorica dello ‘sviluppismo’ serve a legittimare i programmi elettorali più fumosi e inconsistenti e a giustificare le pratiche clientelari più spartitorie. Ormai da anni, d’altronde, intellettuali come Franco Cassano insistono sulla necessità che il Sud smetta di interpretarsi come il luogo “dove ancora non è successo niente e dove si replica male e tardi ciò che celebra le sue prime altrove”.
Da qui l’idea di invitare Latouche ad un seminario di quattro giorni ad Erice - dalla sera del 3 al pranzo del 6 agosto (per informazioni e prenotazioni tf. 338.6132301-091.587437) - per provare a discutere con lui in maniera meno frettolosa di quanto consentano i dibattiti radiofonici o televisivi a base di slogan.
Dopo la relazione iniziale dell’economista francese, la discussione sarà avviata di volta in volta da alcuni esperti (Umberto Santino del Centro “G. Impastato”, Salvo Vaccaro dell’Università di Palermo e Santo Vicari della “Università etica per la condivisione della conoscenza” di Bruxelles) che, pur muovendosi in un’ottica analoga, hanno maturato perplessità, riserve e critiche rispetto alle tesi di Latouche. Non è difficile, infatti, che esse - acute nella diagnosi del modello capitalistico dilagante, con le buone e con le cattive, su quasi tutto il pianeta – risultino meno convincenti quando si tratta di controproporre delle terapie. E’ vero, infatti, che - “di fronte alla mondializzazione” – bisogna reagire con “una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario e una deeconomizzazione degli spiriti, necessarie per cambiare il mondo prima che il cambiamento del mondo ci condanni a vivere nel dolore. Bisogna cominciare a vedere le cose diversamente perché possano diventare diverse, perché si possano concepire soluzioni veramente originali e innovative ”. Ma, in concreto, come attuare una “decrescita conviviale” ed un “localismo” virtuoso che restituisca alla gestione democratica dal basso la governance? Il professore parigino non è prodigo di indicazioni operative (anche perché le strategie di coinvolgimento dei partiti, dei sindacati, degli stessi governi nazionali e regionali, vanno calibrate secondo il contesto specifico delle aree del pianeta). D’altronde non si può pretendere da un intellettuale che - oltre ad indicare la méta - preconfezioni i mezzi per raggiungerla. Latouche stesso sembra esserne convinto quando scrive: “l’alternativa allo sviluppo” non può “prendere la forma di un modello unico. Il doposviluppo è necessariamente plurale”. Sarebbe un passo importante se all’appuntamento di Erice si sentissero convocati non solo rappresentanti del volontariato e del mondo scolastico-universitario, ma anche delle istituzioni locali: non sarebbe tempo di uscire dalla logica della navigazione a vista, tra una tornata elettorale e l’altra, per provare a progettare sul lungo periodo un futuro diverso?

mercoledì 12 luglio 2006

CRESCITA? NO GRAZIE!


“Repubblica – Palermo”
12.7.06

NEW GLOBAL: IL GURU NELL’ISOLA

Come il movimento del Sessantotto, anche i new-global attuali hanno i loro guru intellettuali. Tra questi Serge Latouche, sostenitore nomade e brillante della teoria della “decrescita”. Come recita il titolo di uno dei suoi ultimi libri tradotti in italiano, l’economista francese è preoccupato del rischio - molto concreto ed immediato – che l’umanità non riesca a “sopravvivere allo sviluppo”. Per quanti della mia generazione hanno individuato nello sviluppo dei Sud del mondo (dal Meridione italiano ai Paesi del Terzo mondo) una mèta politica per cui spendersi, anche a costo di qualche sacrificio personale, la tesi suona abbastanza provocatoria. Né Latouche fa nulla per attenuarne l’impatto choccante: “Lo ‘sviluppo’ è stato ed è l’occidentalizzazione del mondo. Ci sono parole dolci, che rinfrancano il cuore, e parole-veleno, che si infiltrano nel sangue come una droga, pervertono il desiderio ed oscurano il giudizio. ‘Sviluppo’ è una di queste parole tossiche” (pp. 28 – 29).

Ai responsabili della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” è sembrato che la sfida teorica e pratica fosse meritevole d’essere accolta, soprattutto dal punto di vista ‘meridiano’: non insiste, ormai da anni, Franco Cassano sulla necessità che il Sud smetta di idolatrare i modelli di sviluppo nordici e – senza presunzione, ma neppure complessi di inferiorità - elabori piste alternative? Che cessi di interpretarsi come il luogo “dove ancora non è successo niente e dove si replica male e tardi ciò che celebra le sue prime altrove”? Da qui l’idea di invitare Latouche ad un seminario di quattro giorni ad Erice - dalla sera del 3 al pranzo del 6 agosto (per informazioni e prenotazioni tf. 338.6132301-091.587437) - per provare a discutere con lui in maniera meno frettolosa di quanto consentano i talk-show televisivi o le sintetiche interviste giornalistiche.
Dopo la relazione iniziale dell’ospite francese, la discussione sarà avviata di volta in volta da alcuni esperti (Salvo Vaccaro dell’Università di Palermo, Santo Vicari della “Università etica per la condivisione della conoscenza” di Bruxelles e Umberto Santino del Centro “G. Impastato”) che, pur riconoscendosi negli stessi scenari di sfondo, hanno maturato perplessità, riserve e critiche rispetto alle tesi di Latouche. Non è difficile, infatti, che esse - acute nella diagnosi dei difetti del modello capitalistico imperante, con le buone e con le cattive, su quasi tutto il pianeta – risultino meno convincenti quando si tratta di controproporre delle terapie. E’ vero, infatti, che - “di fronte alla mondializzazione” – bisogna reagire con “una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario e una deeconomizzazione degli spiriti, necessarie per cambiare il mondo prima che il cambiamento del mondo ci condanni a vivere nel dolore. Bisogna cominciare a vedere le cose diversamente perché possano diventare diverse, perché si possano concepire soluzioni veramente originali e innovative ” (p. 95). Ma, in concreto, come attuare una “decrescita conviviale” ed un “localismo” virtuoso che restituisca alla gestione democratica dal basso la cabina di regia della storia? Il professore parigino non è prodigo di indicazioni operative (anche perché le strategie di coinvolgimento dei partiti, dei sindacati, degli stessi governi nazionali e regionali, vanno calibrate secondo il contesto specifico delle aree del pianeta). D’altronde non si può pretendere da un intellettuale che - oltre ad indicare la méta - preconfezioni i mezzi per raggiungerla. Latouche stesso sembra esserne convinto. “Se si è a Roma e si vuole andare a Torino, e si è preso per sbaglio un treno per Napoli, non basta rallentare la locomotiva, frenare o anche fermarsi, bisogna scendere e prendere un treno nella direzione opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli non ci si può limitare a moderare le tendenze attuali, ma bisogna decisamente uscire dallo sviluppo e dall’economicismo” (pp. 84 – 85): tuttavia “l’alternativa allo sviluppo” non può “prendere la forma di un modello unico. Il doposviluppo è necessariamente plurale” (p. 74). Se – grazie alla sinergia delle istituzioni e dell’associazionismo culturale - anche in Sicilia si configurassero, con maggior precisione e consistenza rispetto al passato, delle ipotesi in tale direzione, l’appuntamento ericino avrebbe raggiunto il suo obiettivo primario. La politica è soprattutto previdenza del futuro: al contrario di ciò che constatiamo, l’amministrazione del presente - con la sua routine spesso grigia - dovrebbe costituirne soltanto il risvolto inevitabile.

venerdì 7 luglio 2006

UN’ESTATE DIVERSA



CENTONOVE
7.7.06

VACANZE FILOSOFICHE

Anche quest’anno, per chi cerca modi alternativi di trascorrere l’estate, c’è la possibilità (come da più di venti anni) delle “vacanze filosofiche per…non filosofi”. Appuntamento sulle Alpi piemontesi, a Macugnaga (1400 metri), dal 21 al 28 agosto per riflettere sul posto dell’uomo nell’universo e sul suo ruolo nella storia (per i dettagli tecnici e il modulo d’iscrizione vedi “news” in web.neomedia.it/augustocavadi).

Un’esperienza quindicinale
“Ma tra un’estate e l’altra restiamo a bocca asciutta?” - mi ha chiesto Pietro, qualche anno fa, al termine delle vacanze filosofiche in Umbria – “Chi di noi si occupa d’altro professionalmente, in dodici mesi rischia di arrugginirsi dal punto di vista filosofico”. Da qui l’idea di incontrarsi, ogni tanto, per un week-end in un agriturismo e là focalizzare l’attenzione su qualche tema di rilevanza esistenziale come la felicità o la morte. Ma ad alcuni, proprio come Pietro, non sembrava sufficiente neppure questo. Così ha deciso di mettere a disposizione, ogni quindici giorni, il suo studio di avvocato per sperimentare le “cenette filosofiche”. Di che si tratta?

Dal Simposio platonico in poi, la mensa è stata culla e metafora dello scambio filosofico: luogo in cui si conviene da parti diverse, ci si alimenta per fortificarsi, si passano di mano in mano pietanze che ciascuno è libero (ma sempre con sorriso di gratitudine) di accettare o rifiutare. Anche Lutero, all’alba della modernità europea, mette per iscritto -a un certo punto – i suoi Discorsi a tavola.
Se, nel nostro caso, lo spirito è lo stesso delle “vacanze” estive, le modalità metodologiche sono diverse: non si parte dall’input che un ‘facilitatore’ propone all’inizio sul tema prescelto, ma dal testo ‘classico’ adottato di ciclo in ciclo. La volta precedente si concordano i capitoli che ognuno si impegna a leggere (è l’unico requisito per essere ammesso alle ‘cenette’, frugali e di bassissimo costo) e, quando ci si rivede, si dà per scontato che siano stati letti per davvero.
La parola è subito ai non-filosofi presenti che, se lo desiderano, possono chiedere a qualche filosofo di mestiere dei chiarimenti esegetici sulle pagine in esame o, se preferiscono, possono senz’altro proporre le proprie considerazioni personali. L’intento è chiaro: si interviene non per mettere in mostra la propria erudizione né per chiacchierare un po’ a ruota libera, ma per aiutarsi reciprocamente a far luce sui problemi della vita individuale e sociale.

Breve bilancio
A conclusione del terzo ciclo annuale consecutivo, si può provare a riflettere sui risultati positivi e sulle note dolenti.
Per quanto l’assetto sia stato molto informale - senza nessun’altra regola che evitare di monopolizzare l’attenzione del gruppo intervenendo a mitraglia su ogni possibile intervento altrui – si è riusciti ad evitare il clima ‘salottiero’ che si crea in altri contesti ‘intellettuali’. E’ stata, per così dire, tangibile l’autenticità esistenziale di persone che s’incontrano – dopo una giornata di duro lavoro - non per riempire spazi vuoti ma per sostenersi a vicenda in una riflessione filosofica. Dunque: ragionata e meditata.
Anche quando si sono toccati argomenti afferenti alla propria sfera intima - come gli effetti deleteri dell’educazione religiosa repressiva o i fallimenti sentimentali – si è mantenuta una distanza prudenziale rispetto ai gruppi interessati ai risvolti psicologici e psicoanalitici: non sono scattate dinamiche difficili da controllare senza la presenza di uno psicoterapeuta. Insomma: si è avuta conferma del fatto che la filosofia può essere “valida per l’individuo non solo come disciplina teorica accademica, ma come mezzo per la crescita e lo sviluppo personale” (R. Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004, p. 104). Che essa non mira (né principalmente né direttamente) al “benessere psicologico dell’individuo”, per esempio alla sua “autosoddisfazione” o ad “alleviare una particolare angoscia” (anche se qualcuno del gruppo ha sperimentato – come effetti collaterali – sentimenti di alleggerimento emotivo) , ma ad “una meta molto più ambiziosa, vale a dire quella della filo-sofia: lo sviluppo della capacità dell’individuo di approfondire ed allargare il suo approccio alla vita tramite un atteggiamento più critico, più ricco e onnicomprensivo, cioè l’incremento di saggezza” (ivi, p. 103).
Queste voci in attivo sono state, però, bilanciate da alcune ‘sofferenze’.
Un dato di fatto, indiscutibile e preoccupante, è che non tutti chiedono la parola o, per lo meno, non tutti la chiedono con la stessa frequenza. E’ superfluo notare che, sino a un certo punto, si tratta di un fenomeno fisiologico: solo in nome di un artificioso, ed astratto, egualitarismo di principio ci si potrebbe opporre alla considerazione di semplice buon senso che c’è chi preferisce intervenire più spesso e chi, invece, gradisce ascoltare. Né c’è nulla di deplorevole nel fatto che un principiante impari a filosofare proprio seguendo la conversazione di due o tre soggetti - che hanno maggiore familiarità con gli studi del settore – con un certo stile ed un certo metodo. Eppure, oltre una certa misura, la sperequazione nel numero e nella durata degli interventi cessa di essere fisiologica (in dipendenza, anche, della libera determinazione di ciascuno) per configurarsi, patologicamente, come conseguenza di qualche deformazione da contrastare (senza drammatizzare, ma con fermezza).
Ci sono deformazioni attribuibili, innanzitutto, ai ‘professionisti’ – ed anche dei ‘cultori’ da lunga data – della filosofia. Ad essi non sempre è presente la differenza fra una ‘cenetta’ ed un seminario. In un seminario, per esempio universitario, è normale che qualcuno debba guidare gli altri verso una determinata teoria o, semplicemente, verso una determinata interpretazione di un testo. In una ‘cenetta’, al contrario, il ruolo dei tre o quattro filosofi di professione dovrebbe essere (nello spirito della ‘consulenza filosofica’) puramente di servizio: offrire, se richiesti, chiarimenti esegetici o ermeneutici o storici che favoriscano una comprensione corretta delle pagine lette da ciascun partecipante lungo le due settimane precedenti. E’ essenziale, perciò, non solo (come è già avvenuto) evitare che l’interlocutore ‘profano’ si senta ‘giudicato’ dai ‘maestri’ in sala ed avverta la libertà interiore di proporre a voce alta le risonanze suscitategli (anche alla luce della sua esperienza di vita) nella mente e nella sensibilità; ma anche far sì che lo stesso ‘profano’ si senta ‘accolto’ nella discussione, se necessario delicatamente ‘invitato’, senza dover faticare per trovare l’interstizio in cui inserirsi.
Altre insufficienze dell’esperienza vanno attribuite alla responsabilità dei partecipanti non-filosofi: la loro scarsa partecipazione, quando è riscontrabile, può dipendere da un’insufficiente preparazione all’incontro quindicinale. A sua volta, però, tale disattenzione va decifrata: un conto è che il singolo individuo non abbia trovato il tempo e la voglia di leggersi le pagine assegnatesi la volta precedente, un altro che a disincentivare la lettura sia stata l’ardua leggibilità dei libri adottati. Nella nostra breve storia abbiamo, infatti, constatato che i sintomi della demotivazione sono apparsi più evidenti quando ci si doveva confrontare con i Manoscritti economico-filosofici di Marx o con Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche di Löwith, mentre si sono fortemente attenuati quando ci si era auto-assegnati titoli come Il simposio di Platone o La lettera sulla tolleranza di Locke o Il concetto di Dio dopo Auschwitz di Jonas.

giovedì 6 luglio 2006

DISCUTENDO CON FIANDACA


REPUBBLICA - PALERMO
6.7.06

Gli elettori siciliani e il Partito Democratico

Intervenendo sull’edizione di sabato, Giovanni Fiandaca ha avuto la cortesia di avanzarmi delle considerazioni critiche molto precise e molto acute.
La prima: sostenere che i siciliani siano politicamente più ignoranti della media degli italiani, anzi dei cittadini occidentali, è falso. Su questo concordo al cento per cento. Lo spaventoso analfabetismo in campo giuridico-economico-politico che registro girando per le scuole e i centri di aggregazione sociale nella nostra regione non è dissimile da quanto ho rilevato a Padova, a Firenze e a Parigi (almeno nell’ambito della comunità italiana in cui ho avuto un’esperienza di lavoro). Ma il dibattito sulle pagine palermitane di “Repubblica”, in cui ho provato ad inserirmi, concerneva il futuro del “Partito democratico” in Sicilia, non nel resto del pianeta.

La seconda obiezione: non è fondato sostenere che gli elettori di Cuffaro siano manipolati (a meno che non si voglia arrivare a duplicare la stessa accusa nei confronti degli elettori di sinistra siciliani). Su questo punto ritenevo di essere stato abbastanza sconfortante ribadendo, in più di un passaggio, che superficialità di giudizio e leggerezza nelle opzioni politiche sono fenomeni bipartisan. Se, per ragioni di spazio, due frasi consecutive non fossero rimaste sul computer della redazione, la mia opinione sarebbe risultata più intelligibile: “D’accordissimo: gli elettori di centro-destra non vanno demonizzati ed, anzi, vanno moltiplicate le occasioni per ascoltarne le ragioni. Evidente che non si tratti di una massa famelica abilmente pilotata da astuti mafiosi (anche se, come e forse un po’ più che nel centro-sinistra, non mancano i famelici né i mafiosi)”. Dunque: a mio parere la manipolazione non investe l’intero corpo elettorale siciliano; investe elettori presenti in tutti gli schieramenti partitici; investe elettori di orientamento conservatore in misura più massiccia rispetto ad elettori progressisti.
Terza obiezione: quale che possa essere (in Sicilia come in tutto l’Occidente) il deficit di preparazione e di onestà degli abitanti, dobbiamo partire dalla “presunzione generale che ogni cittadino adulto sia capace di autodeterminazione responsabile”. Su questo punto il mio disaccordo con Fiandaca è netto. Come giurista, egli deve presupporre in astratto un cittadino ‘ideale’: come cittadino preoccupato della polis, devo guardare negli occhi i miei concittadini reali. E, guardandoli, arrivo alla convinzione non di una (qualunquistica) “presunzione generale di incapacità”, ma che la figura di un elettore-tipo che voti consapevolmente e onestamente è, purtroppo, una (inevitabile) fictio giuridica. Quando Berlusconi afferma che “l’elettore medio va considerato un dodicenne e neppure molto intelligente” fa un’affermazione tipicamente di destra. Ma (spesso, non sempre) ha ragione. Essere democratico non significa negare il dato sociologico evidente: significa impegnarsi a modificarlo. Il conservatore tratta l’elettore da eterno minorenne e fa’ di tutto perché tale resti; il progressista ne constata a malincuore l’immaturità civica approntando gli strumenti necessari ed utili affinché cresca e diventi adulto non solo sulle carte costituzionali (ed è già tanto!) ma anche nella realtà effettiva. La grande missione dell’Illuminismo, da Kant in poi, è stata e rimane di aiutare ogni soggetto ad emanciparsi da una minorità non anagrafica o di natura, ma dovuta a pigrizia e paura. Mi pare sia stato Wiesengrund Adorno (rielaborando a modo suo sant’Agostino) a formularlo nel Sessantotto: chi ama l’uomo com’è, odia l’uomo come dovrebbe essere.
Ma con questo siamo arrivati alla quarta, e ultima, obiezione di Fiandaca: “le democrazie concrete così come funzionano di fatto” (ben distinte dal modello ideale che avremmo in testa gli intellettuali utopisti) non hanno alternative e sarebbe assurdo affidare ad una commissione di saggi il diritto di distribuire, ai capaci e meritevoli, la patente per votare. Qui il mio accordo con il cortese interlocutore ritorna ad essere completo: tanto da stupirmi che, sia pure implicitamente o ipoteticamente, abbia potuto attribuirmi una simile terapia. La cura che proponevo e che propongo è un’altra ed è così poco originale da essere stata praticata dai partiti politici di ogni schieramento prima dell’implosione - morale, quando non anche organizzativa - degli ultimi venti anni: istruirsi ed istruire. Non si tratta di rinunziare alla democrazia solo perché è un metodo imperfetto, ma - dal momento che ancora non si è inventato nulla di meglio - di restituirle un po’ di ossigeno. Per dirla con Edgar Morin, la democrazia delle istituzioni non può sopravvivere senza una “democratizzazione della conoscenza”. E’ sensata (e può continuare nel futuro, senza capovolgersi in qualche forma di dittatura, magari mediaticamente camuffata di populismo) una situazione come l’attuale in cui risulta determinante il voto di una maggioranza di cittadini (privi della quinta elementare, ma anche con due lauree e quattro masters) che abitualmente non leggono il quotidiano, non sfogliano nessun settimanale, non acquistano neppure un libro di saggistica l’anno e, se – per caso – intercettano un dibattito televisivo semiserio su questioni politiche , si spostano velocemente su altro canale? La mia risposta - sofferta, ma meditata e pacata – è: no. Questo non significa che si debba togliere il diritto di voto agli irresponsabili: sarebbe la (troppo comoda) scorciatoia dei totalitarismi di ogni colore. Significa che chi ritiene (più o meno presuntuosamente) di essere un cittadino responsabile debba viversi questa convinzione non come privilegio ma come dovere civico: e non darsi tregua finché non abbia fatto il possibile per responsabilizzare i concittadini più distratti. Se i soggetti interessati alla formazione di un “Partito democratico” non assumeranno, anche collettivamente e programmaticamente, tali ampiezza e serietà di prospettive, non accadrà nulla di veramente nuovo. Le ingegnerie giuridiche potranno produrre utilissime macchine organizzative: ma senza una cultura politica diffusa dove si troveranno i piloti atti a guidarle e, soprattutto, il carburante che alimenti il viaggio nella quotidianità?
Potrei aggiungere - se ciò non ci portasse lontano – che insieme alla conoscenza va contagiata una sorta di affezione alla cosa pubblica. In queste settimane sarà capitato a molti di confrontarsi con amici e conoscenti che, incapaci di scandalizzarsi per le annose magagne di deputati nazionali e regionali, si dichiarano invece sconcertati dalle notizie che provengono dal mondo del calcio. Uno di loro, interpellato, ha dato una risposta illuminante quanto sincera: “Ma alla squadra del cuore ognuno di noi ci è davvero affezionato. Come si fa a restare indifferenti?”. Ecco i termini della tragedia etico-politica: l’elettore ‘medio’ ha a cuore le sorti del proprio club calcistico più che della propria città. E’ coinvolto emotivamente, sentimentalmente, dal campionato di foot-ball più che da qualsiasi battaglia per la democrazia. Chi ha adottato come nome del proprio partito-azienda uno slogan sportivo e ha rubato i colori alla nazionale di calcio lo sapeva bene: vince chi trasforma la realtà in spettacolo e il gioco in questione seria. Ma qualcuno lo deve pur dire: il giorno in cui nessuno più tiferà per la trasparenza delle istituzioni, il miglioramento dei servizi sociali e sanitari, la difesa dell’istruzione pubblica… la partita decisiva sarà definitivamente perduta.

IL FESTINO SECONDO UMBERTO SANTINO


REPUBBLICA
6.7.06

ROSALIA: LA SANTA SENZA STORIA

Fervono i preparativi per il festino. Quest’anno si spenderà meno, ma si cercherà di non abbassare i toni. Ogni città non si costruisce intorno ad un mito fondatore - o rifondatore – la cui graduale estinzione costituirebbe una seria minaccia all’identità collettiva? C’è però un problema: il mito va accettato, coltivato e perpetuato come mito. Se si spaccia come fatto storico, si espone a tutte le curiosità scientifiche e le analisi critiche del caso: e allora s’incrina, scricchiola e – prima o poi- si accascia. Nonostante la buona volontà e i molti soldi pubblici.

Il fatto che Rosalia sia venerata dalla Chiesa cattolica rende maledettamente complicate le cose. Se non lo fosse, la sua figura (come Ettore per i Greci o Enea per i Romani) varrebbe come icona senza tempo e senza luogo; ma, dal momento che è considerata una santa, c’è la tendenza a difenderne – come presupposto di ogni possibile devozione – la effettiva esistenza storica.
Allora le questioni inaggirabili sono almeno due: possiamo dare per scontato che sia vissuta una ragazza palermitana dalle vicende biografiche attribuite alla santa canonizzata? E - esistita o meno come personaggio storico – la sua figura simbolica è così eloquente da poter parlare al cuore dei nostri contemporanei?
A queste, e a simili, domande ha provato a rispondere Umberto Santino in un saggio del 1999 che, orami esaurito, viene adesso ripubblicato (in versione aggiornata e ampliata) col medesimo titolo (I giorni della peste. Il festino di santa Rosalia tra mito e spettacolo) e con un nuovo editore (Di Girolamo, Trapani 2006). E le risposte – sia pur modulate su un registro linguistico discorsivo, sottilmente ironico, gradevolmente erudito – sono entrambe negative.
Da fonti scritte sappiamo infatti che nel Medioevo era davvero venerata una santa dal nome Rosalia ma “non sappiamo, da questi documenti, niente di più su chi era, cos’ha fatto, perché è stata fatta santa. Così pure la documentazione iconografica, che comincia con una tavoletta del XIII secolo (…), non ci dice niente di preciso su questa Santa Rosalia. Anzi ci dice più cose, e tutte molto imprecise, vestendola una volta da monaca basiliana, un’altra da benedettina, un’altra ancora da francescana, e poi da laica e poi in cento altre fogge, a seconda delle mode del tempo e del perenne mutare del modello devozionale o femminino”. Non è un caso che monsignor Paolo Collura, dopo aver studiato con strumenti appropriati la questione, ha definito “fantasioso” l’albero genealogico che – sino al 1974, sulla facciata del santuario di Monte Pellegrino - la voleva discendente di Carlo Magno. Né maggior conforto viene allo storico dal culto delle reliquie iniziato nel XVII secolo: nella montagna che sovrasta la città si era per secoli praticata la religione della fecondità, con al centro la dea punica Tanit, “una dea-madre sanguinaria, che chiedeva sacrifici ai bambini”. Nessuna meraviglia, dunque, “se scavando siano affiorate delle ossa”; ma nessuna certezza che siano della santa che sarebbe vissuta quattro-cinque secoli prima.
In epoca di secolarizzazione galoppante, si potrebbe rinunziare a fondare storicamente la devozione alla Santuzza e fruirne solo come modello atemporale di vita umanamente e cristianamente significativa. Ma, almeno secondo Santino (che osserva per così dire dall’esterno le problematiche teologico-religiose), neppure da questa angolazione simbolica, allegorica, si è colto nel segno. Rosalia, la Rosalia della leggenda, ha dalla sua non poche ragioni di successo: “incarna due mondi: nobiltà e povertà (la ricca patrizia che sceglie la grotta e una vita di stenti) e due modelli di santità : l’orientale e l’occidentale (l’eremita antiistituzionale e il santo-nobile)”. Senza contare che può inserirsi felicemente in un’area geografica in cui era diffusissimo il culto della dea Madre e, poi, della Madonna, figure di un sacro più ‘fascinoso’ che ‘tremendo’. Tuttavia l’immagine di donna che veicola non può costituire un modello valido anche per oggi: una che si ritira dall’impegno sociale e persino dal contesto civile; rinunzia ad una relazione affettiva per mortificare la propria sessualità, non – se mai - per sublimarla nella prospettiva di un’esistenza dedicata alla cura dei fratelli più sfortunati. Insomma, si direbbe un tipo di donna ‘datata’, lontana dalla creatività delle esperienze femminili sia nelle prime comunità cristiane (pullulanti di profetesse e diaconesse) sia in alcune organizzazioni delle chiese cristiane contemporanee (dove, pur fra resistenze d’ogni genere, si va riconoscendo l’insostituibilità dell’altra metà del cielo quando si tratta di insegnare teologia o di attuare strategie di promozione umana).
L’opinione di Vincenzo Consolo (che riconosce nella vittoria di questa patrona rispetto ad un concorrente, san Benedetto il Moro, una radice culturale della “mostruosa e infestante pianta che si chiama mafia”) appare, francamente, un po’ eccessiva. Più calzante mi è sembrata, anni fa, l’osservazione di Amelia Crisantino nel corso di una conversazione pubblica sull’argomento: “La peste inizia a Palermo perchè un mercante tunisino compra con doni il permesso del viceré spagnolo e, secondo la convinzione popolare, smette solo quando si aggancia l’ intercessione della santa più adatta. Insomma: per una raccomandazione entra e per un’altra ne esce. Una cifra della storia della città?”.