venerdì 29 novembre 2019

CALENDARIO CASA EQUITA' E BELLEZZA DICEMBRE 2019


·     CASA DELL'EQUITA' E DELLA BELLEZZA
Via Nicolò Garzilli 43/a – Palermo
Care amiche e cari amici della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo,
eccovi l’aggiornamento per dicembre del 2019:
·      Domenica 1 dicembre ore 10,00 – 13,00Laboratorio su “Lettura filosofica e psicologica dei Tarocchi” a cura di Giorgio Gagliano. Per informazioni e prenotazioni : tarocchifilosofici@gmail.com 
·      Martedì 3 dicembre ore 18,30 – 20,00: Conversazione su “Il vangelo secondo Star Wars, Harry Potter e i Beatles. Esemplificazioni del rapporto fra Bibbia e cinema”con Peter Ciaccio, pastore della Chiesa Valdese di Palermo. Ingresso libero e gratuito.
·      Mercoledì 4 dicembre dalle ore 18,30 alle ore 20,00Meditazione filosofica dialogata con Maurizio Muraglia sul tema: “Quando il peccatore è un maestro: Brunetto Latini fra i sodomiti” (Inferno, canto XV). Interventi musicali di Laura Mollica. (Chi non è sostenitore mensile della Casa è cortesemente invitato a lasciare un contributo di euro 5,00). La Casa aprirà mezz’ora prima (alle ore 18) per accogliere i partecipanti: alle 18,30 in punto si spegneranno i citofoni. 
·      Giovedì 5 dicembre dalle ore 18,30 alle 20,00: Incontro sugli allevamenti rispettosi dei bovini con Antonio Siragusa (allevatore a Montemaggiore Belsito). Ingresso libero e gratuito. 
·      Per informazione: lo stesso giorno, fra le 13,30 e le 16,30, la Scuola “Falcone” ospiterà nella Casa degli alunni di Rosalba Leone per la visione didattica e l’esame critico di un film sul fenomeno del ‘pentitismo’.
·      Domenica 8  dicembre dalle ore 11,00 alle ore 13,00: Incontro di spiritualità laica. Dopo la prima mezz’ora di accoglienza reciproca, dalle 11,30 alle 13,00 una meditazione condivisa. Alle 13,00 pranzo con ciò che ciascuno desidera offrire in tavola. (Chi non è già sostenitore mensile della Casa è invitato a versare 5,00 euro per le spese di gestione della stessa). 
·      Lunedì 9 dicembre  dalle 19,30 alle 22,30, incontro quindicinale del “Gruppo noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne”. Nel corso della serata  è previsto un momento conviviale autogestito. 
·      Mercoledì 11 dicembre dalle ore 18,00 alle ore 19,15Meditazione filosofica dialogata con Augusto Cavadi. (Chi non è sostenitore mensile della Casa è cortesemente invitato a lasciare un contributo di euro 5,00). La Casa aprirà mezz’ora prima (alle ore 17,30) per accogliere i partecipanti: alle 18,00 in punto si spegneranno i citofoni.
·      Sabato 14 dicembre dalle ore 17 sino a mezzanotte, Festa autogestita dei soci e dei simpatizzanti della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”. Chiacchiere, musica, balli e quanto ognuno voglia proporre… si mangia e si beve ciò che verrà offerto dai partecipanti alla festa. Ingresso gratuito ma solo su prenotazione mediante e-mail (roleone63@yahoo.it ) o sms o w’app (320.7733596 ).
·      Domenica 15 dicembre ore 10,00 – 13,00Laboratorio su “Lettura filosofica e psicologica dei Tarocchi” a cura di Giorgio Gagliano.Per informazioni e prenotazioni : tarocchifilosofici@gmail.com 
·      Mercoledì 18  dicembre dalle ore 18,00 alle ore 19,15 Meditazione filosofica dialogata con Adriana Saieva. (Chi non è sostenitore mensile della Casa è cortesemente invitato a lasciare un contributo di euro 5,00). La Casa aprirà mezz’ora prima (alle ore 17,30) per accogliere i partecipanti: alle 18,00 in punto si spegneranno i citofoni.
          Con un affettuoso augurio natalizio e per il nuovo anno
                                                                  Augusto Cavadi 
                                                                (a.cavadi@libero.it)

·      Abbiamo un blog della Casa (grazie ad Adriana che ci ha lavorato!): iscrivetevi e potrete essere informati in tempo sulle iniziative che vi si svolgono.
    poi cliccate su “Iscriviti”, 
    compilate il brevissimo modulo
   e infine date conferma quando vi arriverà l’avviso nella casella elettronica

lunedì 25 novembre 2019

VERSO UN CONCILIO ECUMENICO VATICANO III ?


  VERSO UN TERZO CONCILIO ECUMENICO VATICANO  III  ? 
  Gli anni Sessanta del XX secolo hanno costituito una cesura netta tra “prima” e “dopo” per almeno due eventi: il Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965) e la contestazione giovanile (1968 – 1969). Il primo avvenimento riguardava l’ambito teologico-religioso della Chiesa cattolica, il secondo l’ambito più ampio della società occidentale: probabilmente i due eventi non si sono svolti su piani paralleli perché il Concilio – come è stato notato da più voci – ha avviato movimenti tellurici che si sono ripercossi, a onde centrifughe, su vari strati sociali.
    Eppure quel Concilio ecumenico, per quanto storicamente rilevante, ha segnato una tappa ambigua: tutti i suoi documenti sono stati soggetti a interpretazioni  opposte, da prospettive progressiste ma anche da prospettive conservatrici.  Probabilmente una delle cause di questa ambiguità è da ricercarsi nelle dichiarazioni di papa Giovanni XXIII che convocò l’unico concilio ecumenico del suo secolo sostenendo che si sarebbe preoccupato solo di aggiornamenti “pastorali” e non avrebbe modificato di una virgola la dottrina “teologica” (da lui ritenuta valida e assodata). Tradotta nel linguaggio ‘laico’, la convinzione espressa da papa Roncalli era che la Chiesa cattolica fosse dotata di un’ottima teoria e che avrebbe dovuto soltanto adeguare ad essa la prassi etico-politica e pedagogica.
   Le discussioni aperte a Roma fra vescovi ed esperti di tutto il mondo dimostrarono subito che la valutazione del papa fosse stata errata: la Chiesa cattolica, per riformare la sua predicazione e la sua liturgia, doveva prima rivedere profondamente la sua visione di Dio, dell’uomo, del cosmo, della storia…Non era, prioritariamente, una questione di modi di esprimersi bensì, più radicalmente, di contenuti da esprimere. E’ comprensibile che, di fronte a questa prospettiva, molti settori della gerarchia episcopale si siano angosciati: come facciamo a cambiare dogmi che per secoli abbiamo dichiarato immutabili? Questo travaglio si è manifestato in maniera clamorosa in campo sessuale. Paolo VI, successore di Giovanni XXIII, convocò una commissione di esperti (vescovi, preti, teologi, filosofi, medici…) per un parere sul controllo farmaceutico della fertilità femminile. 
La maggioranza dei membri si espresse a favore della “pillola” anti-concezionale. Il papa si ritirò per meditare e pregare, poi dopo giorni emanò l’enciclica Humanae vitae dove il ricorso al metodo chimico fu tassativamente vietato. La ragione decisiva? Non poteva un papa assumersi la responsabilità di smentire i papi precedenti senza mettere in gioco il principio generale dell’infallibilità pontificia in questioni di fede e (come in questo caso) di morale. 
     L’enciclica provocò un terremoto inedito nella storia bimillenaria della Chiesa cattolica: molti episcopati nazionali pubblicarono documenti ufficiali in cui, in maniera più o meno diplomatica, si diceva il contrario di ciò che aveva scritto il vescovo di Roma. Molti preti, nelle prediche e in confessione, incoraggiarono le coppie a decidere in base alla propria coscienza. Un prestigioso filosofo cattolico, Pietro Prini, parlò – in un celebre volume – di un vero e proprio “scisma sommerso”: ufficialmente tutti d’accordo con l’insegnamento del papa, di fatto ognuno si comporta come ritiene più logico. 
     Giovanni Poalo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno  cercato - ognuno a suo modo e per il tempo a disposizione –di gestire l’ambivalenza dei documenti conciliari, con la tendenza a sottolineare soprattutto la continuità fra il Concilio ecumenico Vaticano I (1869 – 1870, anche se ufficialmente chiuso solo nel 1960) e il Concilio ecumenico Vaticano II. Ma questa prospettiva ha lasciato scontenti, in questo mezzo secolo, vescovi e teologi, preti e suore, laici e laiche credenti: per tutti questi, infatti, il Vaticano II andava interpretato solo come una tappa evolutiva verso più ampie e più profonde riforme. Da qui le pressioni dal basso per chiedere la convocazione di un Concilio ecumenico Vaticano III che, sciogliendo le riserve e le timidezze del Vaticano II, portasse a compimento il processo avviato.
    Queste minoranze critiche sono state emarginate, quando non silenziate del tutto con condanne e licenziamenti, da papa Wojtyla e da papa Ratzinger. Ma oggi ? Il loro successore, papa Bergoglio, sembra più figlio della Chiesa aperta al futuro che della Chiesa nostalgica del passato. O, forse meglio, più figlio del cristianesimo delle origini (fraternità evangelica, libertà nel pluralismo, primato dell’ortoprassi…) che del cristianesimo “tridentino” (forgiato, cioè, dal Concilio di Trento del XVI secolo) imperante nella Chiesa cattolica negli ultimi cinque secoli (organizzazione gerarchica, infallibilità del papa, gelosa custodia dell’ortodossia…). Francesco, pur non avendone l’intenzione, si è configurato come “segno di contraddizione”. La Chiesa cattolica è manifestamente spaccata fra i suoi sostenitori (numerosi soprattutto fra la base dei preti e dei laici) e i suoi avversari (numerosi soprattutto fra i quadri dirigenti e i vertici istituzionali). Come finirà questo conflitto?
In questo nostro spazio editoriale (cfr. https://www.zerozeronews.it/papa-scoop-nuovo-concilio/) si è riportata già nel 2015 la voce della convocazione da parte di papa Francesco di un nuovo concilio ecumenico, un possibile Vaticano III (e sottolineo ‘possibile’ perché potrebbe essere un Berlino I o un Lione II o un Nairobi I…); ma, quasi cinque anni dopo, non è ancora successo nulla. Ciò non significa, ovviamente, che non possa succedere qualcosa di nuovo nei prossimi anni, forse anche nei prossimi mesi. Se è vero, come recitava un vecchio adagio, che l’onniscienza divina non è in grado di penetrare tre enigmi soltanto: quante sono davvero le congregazioni di suore nel mondo; da dove prendano tutti i soldi per le loro opere i salesiani; che cosa ha in mente davvero un gesuita.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

sabato 23 novembre 2019

LE SARDINE: E' VERA GLORIA ?


LE SARDINE: E’ VERA GLORIA ?

La mia generazione ha vissuto – sia pur con diverso grado di adesione -  il Sessantotto, poi il Settantasette, poi l’esplosione della Rete di Leoluca Orlando, poi i Girotondi, poi… E’ strano, dunque, che non ci si appassioni particolarmente alle Sardine (nonostante siano una boccata d’ossigeno a un paziente in coma)? L’indignazione  ci porta in piazza, accanto ai giovani, per non lasciarli soli; ma, inesorabile, la ragione ci proietta già davanti agli occhi i titoli di giornali che tra qualche anno ne parleranno come un episodio di cronaca quasi dimenticato.
 C’è qualche probabilità che, questa volta, la ragione non contraddica la passione? Non so se per motivi razionali, o per impulso passionale, direi di sì. A confortarmi è stata la lettura del Manifesto dei promotori del movimento. Infatti, in  “Benvenuti in mare aperto”, si esordisce con l’ammissione dei propri errori o, per lo meno, dei propri limiti: “Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita.
[…] Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare.
Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara.
Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete.
Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare.”
   Si aggiunge un biglietto di auto-presentazione che, nella sua sobrietà, mi ha commosso: “Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”. Ma ciò che più mi incoraggia è la scelta di evitare i toni anti-partitici e anti-parlamentari che, oggettivamente (dunque indipendentemente dalle intenzioni soggettive) sono fascisti. Una cosa, infatti, è criticare in particolare questo o quell’esponente politico, questa o quella formazione partitica; e tutta un’altra cosa affastellare tutti nello stesso mucchio e dargli fuoco: “
Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie”.
Non meno rilevante mi pare la dichiarazione d’intenti a diventare volontari della politica buona o, come si diceva anni fa, militanti a tempo pieno:
“Siamo già centinaia di migliaia, e siamo pronti a dirvi basta. Lo faremo nelle nostre case, nelle nostre piazze, e sui social network. Condivideremo questo messaggio fino a farvi venire il mal di mare. Perché siamo le persone che si sacrificheranno per convincere i nostri vicini, i parenti, gli amici, i conoscenti che per troppo tempo gli avete mentito. E state certi che li convinceremo”.
 Il Manifesto si chiude con l’ultima strofa della canzone di Lucio Dalla “Com’è profondo il mare”: E' chiaro, che il pensiero dà fastidio
anche se chi pensa è muto come un pesce.
Anzi è un pesce.
E come pesce è difficile da bloccare
Perché lo protegge il mare”. E’ un passaggio decisivo. “Pensare” è essenziale, ma non sufficiente: dobbiamo imparare a pensare bene.  Al di là delle vicende elettorali, siamo di fronte a sfide epocali per le quali, palesemente, ci troviamo tutti impreparati. La spocchiosità  con cui si finge di avere le risposte in tasca è più arrogante a Destra, ma non è certo assente né al Centro né a Sinistra. Ognuno secondo le sue possibilità, i suoi compiti istituzionali, la sua collocazione sociale – dunque ognuno in maniera differente, ma nessuno esonerato – deve iniziare, o riprendere, a leggere, documentarsi, riflettere, confrontarsi con gli esperti, proporre ipotesi di lavoro. Il vero nemico non ha il volto di un ragazzotto assetato di potere, di denaro e di mojto, ma è l’ignoranza che ci assedia all’esterno e ci tarla all’interno. Per battere questo nemico non basta rinunziare a qualche ora di riposo serale per partecipare a un corteo: occorre impegnarsi con costanza, con determinazione, con dedizione per dare un’anima di consapevolezza alla prassi politica. Solo così potremo sperare di uscire dalla logica dello slogan contro lo slogan, del post contro il tweet e proporre difficili vie d’uscita a tragedie storiche che toccano la vita quotidiana di quegli strati sociali – dal bottegaio di città al pastore di provincia – che hanno il diritto di votare esattamente come i docenti liceali o i bancari in pensione. Solo così potremo spezzare l’incantesimo di un’Italia in cui tutti parlano male di alcuni leader e di alcuni partiti, ma molti li votano e li rivotano fedelmente. 
 Le Sardine non si sono mobilitate per questa o quella bandiera di partito: e ciò, evidentemente, è una lezione che dovrebbe essere meditata. Ma in democrazia ci sono i cortei e ci sono le elezioni: sarebbe un’ennesima disdetta avere, ancora una volta, piazze piene e urne vuote. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

giovedì 21 novembre 2019

FILOSOFIA E POLITICA: UN NESSO INEVITABILE, MA PROBLEMATICO

                                                AGNES    HELLER

APPUNTI PER UNA CONVERSAZIONE SU FILOSOFIA E POLITICA

Come è noto,  ogni anno il 21 novembre è la “Giornata Mondiale della Filosofia”. L’UNESCO ha istituito questo anniversario nel 2002 perché “la filosofia è una disciplina che incoraggia il pensiero critico e indipendente e in grado di favorire una migliore comprensione del mondo, promuovendo la pace e la tolleranza” e ha invitato i governi, le istituzioni che svolgono funzioni educative e le organizzazioni che operano sul territorio a realizzare iniziative che coinvolgano la popolazione in attività di carattere filosofico. 
       In sintonia con questo invito dell’Unesco la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo, che dirigo, ha deciso di dedicare un incontro odierno a un tema di particolare attualità, almeno in Italia: il nesso fra filosofia e politica. Ogni filosofia, infatti,  ha conseguenze politiche (volute o preterintenzionali): pensiamo, solo per fare un esempio classico, a Platone che immagina la sua Res pubblica (= Stato) in un poderoso “dialogo” e per ben tre volte, a rischio dell’incolumità personale, si reca a Siracusa per tentare di realizzarla, almeno parzialmente. Non solo ogni filosofia comporta effetti politici, ma ogni politica implica presupposti filosofici (consapevoli o irriflessi): mi sono quasi divertito, nel mio Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2012), a estrarre dai documenti della Lega e da varie dichiarazioni di suoi esponenti la visione-del-mondo (concezione dell’uomo, della società, dello Stato, del divino, della morale, del partito, della famiglia, dell’impegno politico, del lavoro, dello straniero, della donna, degli omosessuali, del popolo, dell’istruzione, della religione…) di questa formazione partitica apparentemente così poco filosoficamente attrezzata. 
       Se questo nesso fra filosofia e politica è davvero così inscindibile, ogni filosofo che si dichiari “a-politico” o è un ingenuo o è un disonesto.
       Tuttavia la filosofia può interagire con la sfera politica in almeno due maniere radicalmente differenti (che, l’opinione comune, tende a identificare).
       In un primo senso – il più diffuso – la filosofia è “usata” per dare alla politica una fondazione culturale e per renderla più efficace operativamente. Per intenderci, in questo caso la filosofia si adatta al ruolo di “ideologia”, non solo nel senso svalutativo di mascheramento di interessi inconfessabili (in cui Marx bollava come “ideologie” le teorie politiche diverse dalla propria), ma anche nel senso propositivo in cui anche il marxismo ha costituito la base teorica, dottrinaria,  del socialismo ‘reale’ e dei tentativi (sinora abortiti) di comunismo moderno. Per evitare fraintendimenti, dico subito che la funzione dell’ideologia (in senso positivo, esplicito, costruttivo) non ha nulla di disprezzabile: secondo una formula cara a un mio docente universitario di filosofia, “nelle cose pratiche di somma importanza la cosa più pratica di tutte è una buona teoria”. Solo che – dev’essere chiaro – se è ideologia, non è filosofia (in senso proprio).
      Invece la filosofia può interagire con la sfera politica anche in una seconda maniera che ne preserva  l’ originarietà autentica. E’ quando la filosofia rinunzia a voler essere “utile” per concentrarsi esclusivamente sulla ricerca del “vero” (qualsiasi cosa significhi per un filosofo la “verità”). In questa angolazione, la filosofia esercita il ruolo di riserva critica (delle ideologie e dei sistemi politico-sociali ad esse legati) e di produzione utopica (di nuovi, possibili, ipotetici scenari). Quando si configura così, la filosofia risulta inutile (l’utopia non è realizzabile da nessun partito organizzato, da nessun movimento storico: indica una direzione verso cui procedere), anzi fastidiosa (perché individua e addita le contraddizioni interne e le lacune nei vari sistemi ideologico-politici su cui riflette).  Il filosofo in quanto tale sguscia come un’anguilla dalle mani di chi prova a impossessarsene con la seduzione del potere: per questo non di rado dev’essere soppresso con la violenza. Egli vive ai margini, sulla linea di confine del mondo della polis: abbastanza ‘dentro’ per osservare, soffrire, partecipare, abbastanza ‘fuori’ per avere la libertà di contestare l’esistente e di immaginare l’improbabile.  Ma è proprio se è dentro/fuori la polis che egli può servire davvero i concittadini e, come Socrate, riconoscere nella sua attività di indagatore molesto l’apporto più urgentemente politico di cui essi hanno bisogno. Insomma, la filosofia può porsi a servizio dei cittadini, specie nei tempi oscuri della politica, quando riesce a percorrere lo stretto sentiero fra i due abissi dell’indifferenza rispetto alle cose del mondo, da una parte, e della prostituzione ai progetti di questo o di quell’atro schieramento partitico, dall’altra parte. Fuor di metafora: quando resta fedele al suo compito costitutivo di andare oltre i “veli” dell’apparenza evitando tanto di mostrarsi sdegnosamente estranea alla storia quanto ideologicamente asservita ai poteri dominanti in un determinato periodo storico.

Augusto Cavadi
 www.augustocavadi.com

domenica 17 novembre 2019

GIOVEDI' 21 NOVEMBRE GIORNATA MONDIALE DELLA FILOSOFIA

ANCHE A PALERMO SI CELEBRA 
                            LA GIORNATA MONDIALE DELLA FILOSOFIA 

Come è noto ad alcuni di voi,  ogni anno il 21 novembre è la “Giornata Mondiale della Filosofia”. L’UNESCO ha istituito questo anniversario nel 2002 perché “la filosofia è una disciplina che incoraggia il pensiero critico e indipendente e in grado di favorire una migliore comprensione del mondo, promuovendo la pace e la tolleranza” e ha invitato i governi, le istituzioni che svolgono funzioni educative e le organizzazioni che operano sul territorio a realizzare iniziative che coinvolgano la popolazione in attività di carattere filosofico. 
    In questa occasione lo Studio di consulenza filosofica di Augusto Cavadi, ospitato nella “Casa dell’equità e della bellezza” di via N. Garzilli 43/a (Palermo),
invita amiche e amici della filosofia a un momento di riflessione e di festeggiamento.
    Lo Studio aprirà le porte alle ore 16,00 di giovedì 21 novembre 2019 e ci si scambierà quattro chiacchiere a vicenda.  
     Dalle ore 16,30 alle ore 17,30  Adriana Saieva terrà una sessione di “Filosofare con i bambini” (dagli otto ai dieci anni) : saranno ammessi i primi 10 iscritti a adriana.saieva@alice.it che riceveranno conferma mediante lo stesso mezzo. Durante il laboratorio Augusto Cavadi intratterrà i genitori, in un’altra stanza, illustrando gli scopi statutari della Casa ospitante. 
    Dalle 18,00 alle 19,00  Giorgio Gagliano terrà con i presenti una conversazione sul tema

                      “La filosofia nei Tarocchi”

 Dalle 19,30 alle 20,00 Augusto Cavadi proporrà una riflessione sul tema :

               “La filosofia a servizio dei cittadini 
                    nei tempi oscuri della politica: 
               né sdegnosamente estranea 
                       né ideologicamente asservita” 

Ovviamente alle brevi riflessioni di Augusto seguiranno gli interventi critici di quanti vorranno interloquire dialetticamente.

Alle 20,30 un sobrio brindisi alla salute della filosofia e, soprattutto, di questa stordita e disorientata umanità con cui ci è toccato in sorte di attraversare la breve avventura terrena.
    
La partecipazione è libera e gratuita.
(Per chi comunque volesse lasciare un piccolo contributo, per la gestione della Casa dell’equità e della bellezza, è disponibile una bottiglia di vetro all’ingresso).

venerdì 15 novembre 2019

FRANCESCO E' UN PAPA ERETICO O ORTODOSSO ?

“Poliedro”
Novembre 2019


QUALE SAREBBE LA VERA FEDE DA CUSTODIRE E PROMUOVERE?

Ho trovato molto interessante, nel numero di ottobre del Poliedro,  la replica di Salvatore Muscolino all’intervento precedente di don Francesco Conigliaro sui giudizi, contrastanti, che vengono espressi, già all’interno della stessa Chiesa cattolica, su papa Francesco. Il professore dell’Università di Palermo, evitando le secche della contrapposizione un po’ da stadio tra fan e avversari di Bergoglio, formula con lucidità il cuore della preoccupazione dei più onesti fra i molti critici dell’attuale papa: “Se la collegialità è senza dubbio un valore da coltivare altrettanto lo dovrebbero essere la chiarezza e l’assunzione di responsabilità da parte di chi è il custode del Depositum fidei. Penso che oggi ancor più di ieri, la chiarezza sia importante considerato il compito principale del successore di Pietro sia <<confermare nella fede>> il popolo cristiano” (p. 58). 
  Personalmente trovo ineccepibile questo principio: un papa è papa, prima di tutto ed essenzialmente, perché guida e incoraggia i fedeli a seguire la fede – la retta fede: ‘ortodossia’ – e non perché è un abile politico capace di far crollare imperi o un dotto teologo in grado di scrivere volumi ponderosi. La questione cruciale è questa: cosa intendere per fede, per retta fede (‘ortodossia’)?
 Qui inizia una biforcazione che segna, radicalmente, due diversi (e a mio avviso incompatibili) “paradigmi”.
  Se la fede è accettazione di una dottrina che rivela il Mistero divino e prescrive dettagliatamente le norme morali che ogni fedele deve seguire per unirsi a tale Mistero, allora custodire il Depositum fidei significa individuare le eresie, avallare alcune interpretazioni bibliche e condannarne altre, prescrivere ciò che è giusto e ciò che non è giusto dalla culla alla tomba (passando soprattutto per il letto). Se l’ortodossia è questa, papa Bergoglio non è un buon papa; se non cattivo, è almeno “ambiguo”.
  Ma questa concezione della fede non è l’unica possibile. Ci sono alcuni che la ritengono troppo moderna, troppo recente, poco tradizionale. Per costoro – sulla base della Scrittura, della storia dei primi Apologeti e dei Padri della Chiesa (dal I secolo sino al VI-VII) – la fede, secondo la mentalità ebraica ereditata e rilanciata da Gesù e dai suoi apostoli, non è accettazione di dottrine sovrannaturali ma accoglienza dell’Amore assoluto e traduzione in gesti, in opere, di tale Dono incondizionato. In questa ottica, l’ortodosso si riconosce non dalla correttezza formale delle sue tesi, ma dalla generosità oblativa delle sue azioni. Non si tratta di contrapporre all’ortodossia l’ortoprassi: si tratta di capire che, per il filone profetico ebraico-cristiano, di cui Gesù costituisce una tappa decisiva, non c’è altra ortodossia pensabile fuori dall’ortoprassi. “Non chi dice: Signore, Signore ! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Matteo 7,21 in parallelo con Luca 6,46). E fare la volontà di Dio non significa “profetare” né “scacciare demoni” né “compiere molti prodigi”, (così Matteo nelle righe immediatamente successive), ma dare da mangiare agli affamati (di pane e di giustizia) e vestire gli ignudi (privi di abiti, di casa, di terra dove vivere in pace, di difese d’ogni genere).
   Non sono così pavido da nascondere la mia profonda, sofferta, appassionata adesione alla seconda delle due concezioni della “fede”, ma neppure così stupido da presumere di poter argomentare in poche pagine la mia preferenza. Mi limito a una constatazione che mi sembra inoppugnabile: se per caso avessero ragione non gli innovatori dal XVI secolo in poi (dal Concilio di Trento in poi), ma – come propendo a ritenere - i tradizionalisti radicali (dal I al VII secolo), allora papa Bergoglio non sarebbe un papa incerto e criticabile, ma uno dei pochissimi che in questi due millenni ha capito la sua missione. Immerso nel pluralismo dialettico delle chiese dei primi secoli, ne respira a pieni polmoni la libertà interpretativa e creativa. Non una libertà libertina né liberista, ma la libertà dei figli di Dio che riconoscono nella gioia di dare ciò che ricevono dalla Vita l’unico comandamento davvero “non negoziabile”. Dunque una libertà che fa paura perché è molto più comodo avere una famiglia da cui allontanarsi (trasgredendone le norme) e a cui far ritorno nei momenti forti (battesimi, matrimoni e funerali) che doversi assumere, giorno dopo giorno, l’onere di capire cosa sia bene e di operarlo davvero. Forse ha ragione l’attuale vescovo di Palermo quando scrive nella sua seconda Lettera ai giovani: “Papa Francesco sta donandoci la chiave per leggere il Vangelo al di là di ogni pregiudizio, di ogni chiusura. E per questo il suo magistero incontra resistenze così forti, perché le strutture che abbiamo creato tolgono al Vangelo la sua forza rivoluzionaria”.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

   

lunedì 11 novembre 2019

I SICILIANI ALL'ESTERO FRA COMPLIMENTI E DERISIONI

“Il Gattopardo”
Ottobre 2019

ELIMINARE I COMMENTI SGRADEVOLI O LE RAGIONI CHE LI PROVOCANO?

Ai siciliani il compito di “spiegare” sé stessi tocca non solo in Sicilia, ma anche quando vanno in giro per il mondo. Infatti, quando gli si chiede da dove provengano, difficilmente lasciano senza commenti chi apprenda la regione italiana di residenza. E si tratta di commenti di segno opposto.
Da una parte, infatti, è facile sentire apprezzamenti sulla bellezza dell’isola: sole, mare, templi greci. E’ vero che Venezia, Firenze, Napoli sono più famose di Palermo o di Catania: ma in quanto città, non in quanto appartenenti a una certa regione. Invece la Sicilia, anche grazie alla configurazione geofisica,  ha una fisionomia propria: non è come dire Calabria, Umbria o Piemonte.
Dall’altra parte, però, è altrettanto frequente il riferimento – magari attenuato da un sorriso ironico – alla mafia: padrino, corleonesi, bombe. Che ciò avvenga a Berlino o a Mosca mi stupisce sino a un certo punto; un po’ più quando mi capita nella penisola dello Yucatan (come l’anno scorso) o nell’Uzbekistan (come quest’anno). In ogni caso è uno stupore ingiustificato: film e sceneggiati televisivi di successo vengono tradotti e trasmessi, ormai, a livello planetario.
Ogni volta questi commenti, non proprio lusinghieri, provocano - nelle piccole comitive di siciliani con cui preferisco viaggiare – reazioni variegate. Qualcuno (più spesso: qualcuna) risponde piccata: “Ma non vi siete stancati di questi vecchi stereotipi? Davvero pensate ancora che Sicilia sia sinonimo di mafia?”. Qualche altro si rammarica della situazione, ma riconosce ai siciliani stessi la responsabilità di non saper modificare – attraverso opportune campagne promozionali – i luoghi comuni persistenti nell’immaginario collettivo e si conforta all’idea che, in anni più recenti (e dunque con effetti ancora in corso), i romanzi di Andrea  Camilleri e le relative trasposizioni sceniche possano invertire la tendenza. 
Personalmente capisco l’indignazione, capisco la speranza di un’immagine diversa, ma resto convinto che si debba penetrare sino alla radice della questione: la persistenza del sistema di dominio mafioso in Sicilia. Un sistema – intreccio di corruzione, clientelismo, abuso di potere, utilizzazione privata dei beni pubblici, racket a danno degli imprenditori onesti e attivi – che è stato certamente intaccato e smussato, ma non ancora estirpato. Grandi, grandissimi siciliani hanno dato la vita per liberare l’isola e l’Italia dal cancro mafioso: ma nessun eroe potrà sostituire, in ultima analisi, la decisione di un intero popolo di non subire più né le minacce né soprattutto le lusinghe delle associazioni mafiose e para-mafiose. Solo allora letteratura, cinema, stampa potranno raccontare convincentemente un’altra Sicilia. Senza comunque illudersi : da che mondo è mondo, il male è sempre più affascinante del bene.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


sabato 9 novembre 2019

DIMINUIRE L'EMIGRAZIONE DEI LAUREATI? SEMPLICE: EMIGRINO PRIMA DELLA LAUREA


“Repubblica – Palermo”
8.11.2020

PER GI STUDENTI UNIVERSITARI  NEPPURE I POSTI-LETTO

Per molte circostanze l’esodo dei laureati – spesso proprio i più brillanti – dalla Sicilia verso altre regioni e altre nazioni è diventato un tema di attualità. La dizione prevalente (“fuga di cervelli”) non mi entusiasma per almeno due ragioni. La prima è che può insinuare il sospetto che a restare siano i soggetti meno brillanti, meno promettenti: e ciò farebbe torto a quei coraggiosi che restano non per pigrizia, ma perché nonostante tutto vogliono provare a cambiare le cose.  La seconda ragione di perplessità è che a fuggire non sono solo “cervelli”, ma persone in carne e ossa: volti concreti, unici, di figli, alunni, amici costretti a lacerare relazioni affettive, sociali, etiche, politiche… faticosamente costruite negli anni dell’adolescenza e della giovinezza. 
 Comunque la si denomini, l’emigrazione intellettuale è un fatto statistico che da eccezionale si è ormai trasformato in ordinario. Mentre ne discutiamo, però, sta accadendo qualcosa di altrettanto grave: l’età della fuga si abbassa e a lasciare l’isola sono costretti ragazzi ancora impegnati nel corso di studi. 
Il fenomeno mi è stato evidenziato da un gruppetto di studenti dell’Università di Palermo che si sono costituiti in questi giorni in “Comitato Spontaneo di Mobilitazione Studentesca per il diritto allo studio”. Ognuno di loro ha motivi di disagio e di protesta differenti, ma il nucleo più consistente è costituito da giovani fuorisede che – pur versando in condizioni economiche precarie – non sono riusciti a ottenere il “posto letto” nei pensionati gestiti dell’Ersu (Ente regionale per il diritto allo studio universitario). 
Sulla carta, infatti, la legge prevede che si abbia diritto a richiedere l’ospitalità gratuita se la certificazione fiscale (ISEE) non attesta una cifra superiore ai 23.508.78 euro (per reddito familiare). Di contro, però, la generosità della previsione teorica viene smentita dalla prassi. Il 17 Ottobre scorso sono uscite le graduatorie: i richiedenti  ritenuti idonei sono stati 1343, mentre gli assegnatari effettivi solo 232:  il 17% del totale. Per misurare la gravità della situazione bisogna sapere che il primo idoneo non assegnatario ha presentato un ISEE non di 20.000 o di 10.000 euro, ma di 2.870,69 euro l’anno. Detto in soldoni: al figlio di una famiglia il cui reddito è di 250 euro al mese (!) , l’amministrazione risponde che non c’è posto per lui. E – si badi a questo particolare – tra gli studenti esclusi vi sono ragazzi che hanno ottenuto buoni risultati sia alla fine delle scuole medie superiori (se richiedono l’iscrizione al primo anno della Triennale) sia alla fine della Triennale (se richiedono l’iscrizione al primo anno della Specialistica).
Può darsi che in alcuni casi la dichiarazione dei redditi sia falsa: e sono casi in cui la nefandezza morale dovrebbe essere accompagnata da una severa condanna penale. Ma è logico supporre che la media statistica sia di certificazioni fraudolenti? Così non è di certo per alcuni casi di miei ex-alunni, orfani di padre, la cui madre disoccupata vive con la pensione di reversibilità del marito di 480 euro al mese.
Allo stato attuale, dunque, all’83% degli idonei di primo anno non verrà garantito un tetto sopra la testa nella città dove hanno deciso di studiare: solo una piccola percentuale – se avrà modo di resistere durante i  primi mesi di lezione in condizioni difficilissime, ottenendo qualche letto in abitazioni private pagate in nero  – potrà essere recuperata in proporzione alle rinunce degli attuali assegnatari. 
Questo scenario, già doloroso in sé, diventa ancora più rattristante se si considerano due dati. Innanzitutto che esiste un edificio, l’ex Hotel Patria, da alcuni anni pronto ad accogliere vari studenti: c’è del personale assegnato per la guardiania e per la pulizia, ma manca un collaudo per attivarlo (pare per un disaccordo fra Assessorato regionale e Università di Palermo, nonostante l’assessore attuale sia proprio un ex-rettore dell’Ateneo). Un secondo elemento di sconforto è costituito dal confronto con la situazione in altre città. Mentre da noi si arriva a fatica a soddisfare le richieste di circa il 20% degli aventi diritto, in Italia vi sono Atenei che riescono a raggiungere il 100%.  Al danno, insomma, si aggiunge la beffa della discriminazione territoriale. Che resta, allora, se non tentare di emigrare in Emilia Romagna o in Veneto ancor prima di ottenere la laurea? 
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

martedì 5 novembre 2019

FILOSOFARE SECONDO BRENIFIER

www.istitutoeuroarabo.it/DM/
1.11.2019 

                         FILOSOFARE FUORI DAI RANGHI

Quando ero ragazzo, la filosofia era una “disciplina” scolastica riservata agli alunni dei licei e – in dosi ridotte – degli istituti magistrali. Anzi, per essere ancora più precisi, la filosofia non era neppure filosofia, ma storia delle filosofie occidentali: raccontata ora in maniera manualistica (imperava il testo appena decente di Eustachio Paolo La Manna) ora con qualche punta di erudizione supplementare, comunque su un registro comunicativo noiosamente soporifero.
Alcuni studenti della mia generazione – e delle generazioni più giovani – si sono chiesti se l’attività che aveva dato senso all’esistenza di Platone e di Epicuro, di Agostino e di Cartesio, di Spinoza e di Kant, di Croce e di Maritain…meritasse la fine ingloriosa di un pacchetto di “tesi” che un docente consegnava agli allievi disposti a diventare, a loro volta, docenti per consegnarlo ad allievi disposti, a loro volta, a diventare docenti. Si sono chiesti, insomma, se non potesse avvenire come con i medici o i geometri o gli idraulici che diventano tali per relazionarsi, soprattutto, con non-medici; con non-geometri; con non-idraulici. 
Così, in Germania prima, in molti Paesi dei vari continenti dopo, la filosofia ha deciso di diventare sempre più un’attività a servizio dei non-filosofi (di professione). A tale scopo ha dovuto ristrutturarsi almeno da due angolazioni. 
La prima: senza cessare di essere memoria storica delle filosofie precedenti, riscoprire e accentuare il carattere esplorativo, creativo, originale di cui parlava già la VII Lettera attribuita a Platone là dove si sosteneva che filosofare è sfregare due pietre (due interlocutori) sino a quando, ogni tanto, scocchi una scintilla inedita. Dunque: filosofare è essenzialmente dialogo, confronto, dialettica (e solo preliminarmente e strumentalmente bibliofilia, esegesi).
La seconda: senza cessare di essere ricerca rigorosa tra specialisti, ritrovare il coraggio di lasciare le zone protette (aule scolastiche e universitarie) e ritornare nelle piazze e nei mercati come ai tempi di Socrate e di Diogene il Cinico. Non solo per condividere – come  Gramsci e Simone Weil – la vita degli operai nelle fabbriche e dei braccianti agricoli nei campi, pensando per loro, ma anche e soprattutto pensando con loro: con-filosofando con chi ne ha tanto più necessità quanto meno opportunità. Dunque, senza rinunziare alla propria identità professionale, non appiattirsi sul ruolo di maestro che insegna ma imparare a farsi interlocutore paritetico: al di là della stessa figura (letteraria, se non storica) di Socrate - che faceva finta di essere più ignorante di quanto si ritenesse effettivamente per guidare l’altro a “partorire” idee vere – mettersi davvero alla ricerca insieme al non-filosofo (di professione) per capire questa o quella tematica prepotentemente imposta dalle tragedie della vita individuale e collettiva.
Ma dove va, e come si veste, la filosofia quando esce dai ranghi istituzionali-accademici?
Una risposta (articolata, anche se inevitabilmente incompleta: il mondo – non solo occidentale – pullula in questo settore di sperimentazioni anche fantasiose) si trova nel libro di Oscar Brenifier, Filosofare come Socrate. Teoria e forme della pratica filosofica con i bambini e con gli adulti, Ipoc, Milano 2015, pp. 159.

La struttura del volume
Un primo capitolo ha carattere fondativo, o epistemologico, su cosa intendere in generale per “pratica filosofica”. Nell’ottica dell’autore, si tratta di ripartire dall’ <<essenza del filosofare>> secondo Platone (o secondo una certa interpretazione problematica di Platone): “andare al di là della nostra stessa opinione personale” (p. 26), spezzare la doxa privata per aprirsi a idee più ampie e comprensive. Su questa base, ogni “pratica filosofica [] consiste nell’esercitare il pensiero nel senso dello sdoppiamento, come un dialogo con se stesso, con l’altro, con il mondo, con la verità” (p. 29). Tale “processo filosofico” necessita della “alterità per costituirsi come pratica” e, in concreto (ma qui, senza che sia citato, Hegel sembra subentrare a Platone come lume di riferimento), si articola in “tre operazioni: l’identificazione, la critica e la concettualizzazione” (ivi). “Se identificare significa pensare l’altro a partire da se stesso e criticare significa pensarmi a partire dall’altro, concettualizzare significa pensare simultaneamente a me stesso e all’altro” (p. 30).  Forse l’orizzonte così evocato appare troppo soggettivo, coscienziale, o, nell’ipotesi migliore, appena inter-soggettivo: ma, se la mia impressione è corretta, non ci sarebbe da stupirsene. I filosofi moderni siamo ancora, quasi tutti, condizionati dalla paternità cartesiana e dal suo “Cogito” fondativo.
   Come prima esemplificazione di una “pratica filosofica” Brenifier sceglie – opportunamente – la consulenza filosofica (in assetto duale) e le dedica per intero il secondo capitolo. L’approccio è tanto originale quanto rischioso: aprire uno studio di consulente filosofico e rendersi disponibile ad accogliere consultanti significherebbe, innanzitutto e radicalmente, disporsi a “consolare” (sia pure con modalità e tonalità specifiche della filosofia rispetto alla religione, all’arte o alla psicologia). Consolare di che? Di dover morire. L’ipotesi, che spiega l’identificazione di questo scopo, è che “ogni schema metafisico, cosmologico, sociologico o di qualsiasi altro tipo non è altro che il tentativo di fornire un significato all’esistenza umana e placare il dolore morale connesso alla coscienza e al sentimento della finitezza” (p. 34). Si tratta di una prospettiva molto opinabile: se la consulenza filosofica è un’attività filosofica, come attribuirle una finalità che non sia la ricerca spassionata della verità? Di conseguenza: come stabilire a priori che filosofando arriverò a conclusioni confortanti e non, piuttosto, alla disperazione qualora dovessi convincermi dell’assurdità radicale e globale del Tutto in cui sono immerso? Brenifier parla di “fornire un significato all’esistenza umana”: ma si tratta di fornirlo nel senso di produrlo, inventarlo, attribuirlo o nel senso di scoprirlo al di là dei veli dell’insensatezza della natura e soprattutto della storia? In questo secondo caso, la filosofia mi sarebbe di conforto; nel primo, per nulla. In ogni ipotesi, vige a mio parere l’ammonimento hegeliano che la filosofia non debba essere consolatrice a tutti i costi. Essa preferisce la più amara delle verità alle più dolci delle menzogne.
    Non minori perplessità suscitano i modi ‘bruschi’ con cui Brenifier suggerisce al consulente di condurre un colloquio di consulenza: mettere in crisi il consultante, mostrargli la debolezza delle sue opinioni, l’infondatezza dei suoi presupposti, l’insostenibilità delle sue contraddizioni logiche…Come scrive - nel saggio (al solito acuto) che chiude, a mo’ di post-fazione,  il volume - Davide Miccione (I lineamenti di una tassonomia possibile nell’ambito della consulenza filosofica), “il dialogo in Brenifier non è quello empatico e rotondo del counseling, quello morbido post-psicoterapeutico, post-ermeneutico, post-buberiano a cui siamo abituati, quanto quello indagatorio e privo di riguardi del Socrate giovanile, quello del parresiasta, che ha molto dell’interrogatorio o della disputatio o persino della, seppur pacifica, inquisizione” (pp. 156 – 157). 
    Inoltre – come è stato notato in uno scambio proprio su questo testo fra Vesna Bijelic e Luca Borrione – nella prospettiva di Brenifier, nonostante “la fondamentale centralità del negativo” da lui enfatizzata, “il consulente interroga e l’ospite risponde, ma dei due solo quest’ultimo è in effettiva ricerca filosofica ed esistenziale. L’idea che permane, infatti, è che il filosofo consulente sia già risolto e ben sicuro della propria verità, per nulla desideroso di una propria trasformazione. Il negativo sembra, insomma, segnare solo l’ospite. Non il filosofo” (“Phronesis”, anno XIII, numero 23-24, pp. 99 – 100). Laddove, invece, “il filosofare comincia nella ricerca delle verità nuove ed, eventualmente, delle conferme di quelle vecchie. Questo vuol dire che il filosofo consulente ha più strumenti di ricerca, non che è più vicino alla verità” (ivi, p. 101). 
   Il colloquio “a due” – entrambi accomodati su due poltrone, nessuno steso su un lettino ! – non è l’unica “pratica filosofica” possibile. Perciò l’autore dedica il terzo capitolo ai “caffè filosofici” che vertono o su un tema preannunziato o su un tema che qualcuno dei presenti, in apertura, propone agli altri ricevendone approvazione. Dopo averne elencato le poche e semplici regole di funzionamento (ogni partecipante parla dopo aver chiesto e ottenuto il permesso dal filosofo-animatore; nessuno è autorizzato a interrompere chi sta parlando; il filosofo-organizzatore può “limitare il tempo dei singoli discorsi, o tornare a centrare lo sviluppo del dibattito, o spiegare una proposizione troppo contorta ecc., ma non dovrà mai tentare di usare la posizione di relativa autorità che il gruppo gli ha concesso per imporre una qualsiasi visione personale”, p. 58). Tra le molte osservazioni che Brenifier espone in proposito, ne sottolineo due.
 La prima riguarda le qualità del filosofo che si incarica di gestire un caffè filosofico: “Da un lato deve possedere una grande ampiezza di sguardo, dall’altro una certa cultura filosofica e una certa capacità di mettersi al posto dell’altro, tanto da interpretare le problematiche che vanno esprimendosi o da esplicitare i temi che vanno nascendo, o per dar loro una elaborazione più pedagogica, legando il concetto a cui si fa riferimento alle esperienze vivide dei presenti. In questo senso non sono molto sicuro che la formazione tradizionale dei professori di filosofia sia sufficiente per soddisfare tutte queste condizioni. Coloro che sono capaci di realizzare tutti questi compiti in forma soddisfacente lo riescono a fare per ragioni che solo loro conoscono” (pp. 61 – 62).
La seconda osservazione del filosofo francese riguarda la elasticità del modulo “caffè filosofico”, per cui esso si lascia reinventare in versioni disparate: “Alcune varianti più particolari del caffè filosofico utilizzano il ricorso a un film. [...] E lo stesso si può organizzare in teatro, dopo un’opera teatrale, in cui si invitano gli attori e il regista a partecipare a un dibattito successivo. Oppure si possono invitare altre persone perché, a partire dal proprio campo professionale specifico (come l’ambito della giustizia, dell’arte o dell’insegnamento) tentino di iniziare un dibattito filosofico con i partecipanti” (pp. 62 – 63). Più arduo “promuovere dibattiti con giovani con difficoltà educative e sociali”; “infine, sempre dentro l’ambito di influenza dei caffè filosofici, poiché ne condividono lo spirito, si sono creati intorno a essi un certo numero di riviste, scritte dai loro lettori, e una serie di programmi radiofonici in emittenti locali” (p. 63).
Mentre la trama del caffè filosofico è costituita da una libera discussione – libera ma, se i partecipanti sono maturi, con una certa connessione fra un intervento e l’altro, altrimenti scade a chiacchierata da caffè – un “laboratorio filosofico” è più strutturato. Come spiega Brenifier nel capitolo quarto, dedicato a quest’altro format di pratica filosofica, esso si differenzia da una conversazione in cui “il movimento della riflessione scivola” senza una méta perché mira a qualcosa di preciso: “come in un laboratorio di pittura, si tratta di produrre. Intendiamo per <<produrre>> il processo di confronto con una materia per conseguire un risultato. Solo che la materia dell’attività filosofica non è il colore né l’ordito ma il pensiero individuale, tanto orale quanto scritto” (p. 71). Innumerevoli le conseguenze, prima fra tutte che – laddove in un assetto di libera discussione si può adottare il ruolo di osservatore o di mero ascoltatore – “ogni persona che partecipa a un laboratorio filosofico deve tenere conto che va a partecipare a un gioco, dunque non si assiste a un laboratorio semplicemente per vedere come giocano gli altri. L’animatore, chiaramente, sarà responsabile del fatto che i partecipanti si impegnino o meno nel laboratorio e, pertanto, dovrà comportarsi in maniera sufficientemente sottile da non intimidire coloro che mostrano una certa reticenza a <<toccare la palla>> ” (pp. 70 – 71).
  Sinora è stato sottinteso che le “pratiche filosofiche” illustrate coinvolgano o adulti o adolescenti istruiti. Ma, pertinentemente, Brenifier ricorda che da decenni c’è tutto un fiorire di esperienze di filosofia con bambini dalla scuola materna (4-5 anni) alla scuola elementare (10 – 11 anni). Troppo presto? La domanda andrebbe, a suo parere, capovolta: “Non è troppo tardi per cominciare a filosofare quando uno ha già diciassette o diciotto anni?” (p. 89). Ovviamente non si tratta di spiegare agli innocenti, incolpevoli,  minori l’Enciclopedia dello Spirito Essere e tempo, ma di proporre loro delle attività in cui la filosofia venga spogliata dagli “elementi specificamente culturali ed eruditi che ne costituiscono l’<<occasione>> o <<l’eccipiente>>” e concepita come “uno strumento per mettere alla prova noi stessi” (p. 90) da almeno tre punti di vista:
a)    intellettuale “comprendere che il pensiero e la conoscenza non sono qualcosa che cade dal cielo già compiuto, ma che sono gli individui  coloro che lo producono esprimendo le proprie idee. Il pensiero è una pratica, non una rivelazione. Al contrario, se abituiamo i bambini fin da piccoli a credere che il pensiero e la conoscenza consistano fondamentalmente nell’apprendimento e nella ripetizione delle idee dell’adulto (idee già fatte), è assai poco probabile che un giorno apprendano a pensare per conto proprio, se non per puro caso” (p. 92);
b)   esistenziale : essere messi in condizione di sperimentare, sin da piccoli, che si può “rischiare di emettere giudizi senza sapere con certezza o sicurezza se sono la risposta corretta che l’insegnante si attende da noi; arrischiarsi a confrontarsi con gli altri senza sapere chi abbia ragione; accettare che l’altro (nostro simile) possa avere qualcosa da insegnarci senza che nessuna istituzione gli abbia conferito alcuna autorità in tal senso” (p. 96). Insomma essere avviati sul sentiero che segna il confine tra due baratri: l’altezzosa svalutazione degli altri e la profonda disistima di sé stessi;
c)    sociale: destrutturare la “tendenza intellettuale individualista che la scuola promuove in modo naturale, spesso senza che gli insegnanti ne siano pienamente coscienti, e che tende ad esacerbarsi con il passare degli anni, provocando numerosi problemi e amplificando il punto di vista competitivo del processo <<io vinco, tu perdi>>. Al contrario, la pratica che noi descriviamo promuove la dimensione del <<pensare insieme con gli altri>>. Pretende di introdurre l’idea che noi si pensi non contro l’altro o per difenderci dall’altro (perché ci incute timore o perché siamo in competizione con lui) ma grazie all’altro e per mezzo dell’altro” (p. 97). 
Il volume si chiude con due capitoli extra-vagantes rispetto alle tematiche annunziate: sia il sesto (Filosofare con i racconti, incentrato sulla figura semi-leggendaria del turco medievale Nassredin) sia ancor più il settimo (Filosofare sulla vita). 

Alcune riserve critiche
Il retrogusto che resta sul palato del lettore somiglia all’agrodolce della tradizione culinaria siciliana: un misto di ammirazione per l’originalità di alcuni spunti e di diffidenza verso un autore per il quale – sembrerebbe – le “polemiche” costituiscono (secondo la felice osservazione di Miccione) non solo “un prezzo da pagare senza battere ciglio”, come ben sanno i filosofi autentici, ma addirittura, alla Diogene il Cinico, “qualcosa da inseguire” (p. 159) programmaticamente.
Non minore perplessità nasce dalla constatazione che in centoquarantuno  pagine il filosofo francese riesce a non citare neppure una sola teoria ‘epistemologica’ della consulenza filosofica, scivolando nella palude denunziata da Miccione: “La consulenza viene purtroppo da anni presentata come se nascesse sempre adesso, come se colui che la presenta l’avesse anche appena fondata. E’ questo un gravissimo peccato originale (un peccato contro il senso del ridicolo, tra l’altro) dei teorizzatori della consulenza filosofica (oltre a una non comune dimostrazione di egotismo teoretico e umano): Questo peccato è stato presente sin dall’inizio in coloro che (con rare eccezioni, per esempio Ruschmann e soprattutto Pollastri) hanno costruito proposte teoriche della disciplina autoeleggendosi sempre a Talete della consulenza e senza molto curarsi  di dare conto, per demolirle o comunque per mostrare la preferibilità della loro proposta, delle altre teorie presenti” (p. 145). Miccione denuncia questa “sorta di monoteismo teoretico” nel caso dei consulenti in generale (che “hanno tenuto presente un solo modello di consulenza filosofica (di solito il proprio)” (p. 144) , ma Luca Borrione rivolge direttamente e esplicitamente questa critica a Brenifier, notando che questi “nel praticare la sua filosofia non si metta in discussione, né che, d’altro lato, ritenga di doverlo fare. Questa osservazione mi pare piuttosto evidente anche dalla lettura del libro che fa tabula rasa di ogni riferimento bibliografico della letteratura critica sulla consulenza filosofica” (“Phronesis”, cit., p. 102). Un atteggiamento non del tutto logicamente coerente, mi pare, per un autore che vede nel confronto dialettico, persino spietato, con l’alterità l’anima di ogni “pratica filosofica”. 


Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com