sabato 29 marzo 2008

Capire la mentalità cattolica: impresa non facile…(I)


“Rassegna di teologia”
2007, 5

E. LOMBARDI VALLAURI, Capire la mente cattolica, Le Lettere, Firenze 2007, pp. 116, euro 12,00.

Ai teologi cui piace dialogare non solo con i laici che si occupano di teologia da un punto di vista ‘esterno’ alla fede (alla Cacciari o alla De Luca), ma anche con i laici che se ne occupano dall’interno della vita ecclesiale, risulterà estremamente interessante - starei per dire: ineludibile - raccogliere le intelligenti e documentate considerazioni del linguista Edoardo Lombardi Vallauri (figlio del filosofo del diritto Luigi) in questo agile, ma non superficiale, saggio Capire la mente cattolica. Considerazioni in parte teologiche, in parte filosofiche, ma - soprattutto - sociologiche: una fotografia del cattolicesimo contemporaneo scattata da un ‘obiettivo’ disincantato, senza zeli apologetici né furie polemiche. Il quadro di riferimento è, sostanzialmente, lo “scisma sommerso” di cui ha scritto qualche anno fa Pietro Prini: tra i cattolici cresce, in maniera impressionante, il numero di coloro che sarebbero disposti a seguire la chiesa in asserzioni cruciali (il mondo visibile non è Tutto, sulla scia del Nazareno dovremmo solidarizzare fra noi anziché fregarci a vicenda e soprattutto fregare i più deboli etc.) ma non in tante credenze e norme secondarie (da alcuni dogmi mariani a vari divieti di etica sessuale), eppure questo dissenso resta sotterraneo. Anzi, si autocensura in radice, prima ancora di configurarsi come dissenso: “non si adeguano nella prassi ai dettami della chiesa, ma nemmeno li contestano. Non è esatto dire che non li condividono: piuttosto li ignorano senza discuterli” (p. 8). Sui cattolici pesa dunque la responsabilità, per pigrizia e amore di quieto vivere, di erigere a sistema una sorta di schizofrenia comportamentale: “stanno buoni, glissano, non sollevano problemi, praticano l’ossequio nei confronti delle gerarchie, e intanto si regolano come gli pare. Insomma, si disinteressano delle questioni di verità” (p. 116). Il che, per i seguaci di un vangelo che presenta il Cristo come “Via, Verità e Vita”, non è il massimo della coerenza auspicabile. Tra di loro circola “un autentico spirito di servizio” sì che, complessivamente, costituiscono indubbiamente “una forza buona e onesta” (p. 7): perché non promuovere, dunque, in tutti gli ambiti della chiesa un clima di confronto franco, sereno, che renda tutti i fedeli altrettanto onesti intellettualmente, capaci di una “ricerca consapevole della verità” (p. 11) che li porti ad accettare con serietà ciò che ad un esame coscienzioso risulterà accettabile e a problematizzare, con altrettanta serietà, ciò che non li convince?

Augusto Cavadi

Capire la mentalità cattolica: impresa non facile…(II)


“Centonove”
28.3.08

COM’E’ DEBOLE QUESTA CHIESA

Luigi Lombardi Vallauri è un noto filosofo del diritto proveniente da una famiglia che da generazioni gode di prestigio negli ambienti cattolici. A un certo punto della sua strada ha ritenuto, per onestà intellettuale, di dover abbandonare la propria appartenenza ecclesiale e di raccontare in un libro (Nera luce, Le Lettere, Firenze 2001) il suo passaggio dal cattolicesimo all’apofatismo. Anche il figlio Edoardo, di professione linguista, ha avvertito - strada facendo - l’esigenza di interrogarsi criticamente sulla propria confessione religiosa e di sondare la fondatezza di tutta una serie di dogmi, norme e costumi che, nell’opinione comune, viene ritenuta irrinunciabile per un cattolico. Così, in Capire la mente cattolica (Le Lettere, Firenze 2007), l’autore si chiede su quali basi la Chiesa romana nel XXI secolo continui a proclamare l’infallibilità del suo pontefice, attaccare il relativismo, a minacciare l’inferno eterno e via di seguito, pur constatando che, ormai, di solito, i suoi fedeli “fanno finta di niente”, “non litigano con sé stessi, e nemmeno con la chiesa”, “si comportano come pare loro più sensato, di fatto non si lasciano dire da nessuno come devono agire” (p. 8). La conclusione cui perviene Edoardo Lombardi Vallauri è che i fondamenti sia biblici sia razionali di questo complesso di insegnamenti siano debolissimi, tanto deboli che la stessa “chiesa docente” ne è consapevole. Essa però, invece di ammettere a lettere chiare e tonde che in questi venti secoli si è sbagliata su tanti punti e invece di concentrarsi sulle poche ma essenziali verità del vangelo, preferisce assumere “un comportamento quasi schizofrenico”: degli insegnamenti tradizionali più improbabili, si preferisce, dalla “maggior parte dei sacerdoti e in genere di chi ha funzioni di catechesi, parlarne il meno possibile. Si sorvola più che si può. Ma se qualcuno ha l’ardire di parlarne in modo critico, le reazioni sono di solito molto energiche. Non tanto contro le idee, perché questo comporterebbe appunto di parlarne , quanto contro la persona, che si cerca nei limiti del possibile di mettere a tacere” (p. 110).

Nella disamina delle “credenze” opinabili, un’attenzione specifica non poteva non meritarla la dottrina cattolica nell’ambito dell’etica sessuale e della bioetica. Tra le tante osservazioni in proposito, a scopo puramente esemplificativo possiamo segnalarne due o tre.
La prima è di carattere generale: come mai il vangelo parla così poco di sesso e il magistero cattolico attuale sembra, invece, ossessionato proprio dalla morale sessuale? L’autore ha una teoria, o per lo meno un sospetto: “Quando uno dei valori della sua scuderia è socialmente in ribasso, la chiesa mette il massimo impegno per difenderlo. (…) Capisce che se cede su quello, l’emorragia potrebbe diventare inarrestabile. E allora, finisce per anteporre quel valore ad altri che necessitano di minor difesa perché sono meno minacciati. Ma spesso l’opinione comune si muove in direzioni giuste, e i valori che cadono in ribasso sono quelli meno importanti o addirittura ormai sbagliati. Quindi, paradossalmente, quanto più un valore è sbagliato, marginale, anacronistico, tanto più energicamente la chiesa finisce per scendere in campo a sua difesa” (p. 84).
Una seconda osservazione: è proprio vero che il sesso fuori dal matrimonio (tesi cattolica) e/o da una relazione d’amore esclusiva (tesi romantica) non possa “essere felice” né “fonte di qualche felicità“? La tesi che Lombardi Vallauri prova ad argomentare è che “quando due si amano veramente, ogni altro sesso, con ogni altra persona, diventa una prospettiva pallida che non attira più″ (”la vera fedeltà scaturisce da questo, e ogni altra fedeltà è posticcia”). Tuttavia non ci sono motivazioni logiche né esperienziali per negare che “il sesso è bello anche quando non ci si ama così infinitamente, cioè quando ci si ama molto, abbastanza, un pochino, pochissimo e perfino per niente. Naturalmente a seconda di quanto amore si mescola, il sesso si colora di più o di meno della grande dolcezza che dà il sentire la propria vita legata alla vita dell’altro. Ma anche senza quella infinita dolcezza, il sesso è piacevole e può essere molto divertente. E fino a prova contraria, se non fa del male a qualcuno, ciò che è piacevole e divertente contribuisce a rendere un po’ più felici” (pp. 73 - 74).
E’ vero comunque che, in tanti casi personali, “il sesso fatto decisamente a freddo e per puro divertimento” provoca “un istintivo disagio, un senso di non-bello, di fuori posto”. Ma - e questa è una terza considerazione - è probabile che la causa principale di queste esperienze individuali vada ricercata “nella pressione ideologica che esercita sulle persone, nella nostra civiltà, il modello romantico - cattolico” di amore. Se, invece, “si sono rimossi questi condizionamenti, se entrambi gli interessati concepiscono fin dall’inizio l’incontro come qualcosa che sarà semplicemente divertente, emozionante, eccitante, piacevole, anche tenero, ma non impegnativo, allora si può star bene insieme, scherzare, giocare, e non sentirsi assolutamente in colpa. Proprio come due persone che giocano a tennis o fanno volentieri windsurf insieme ” (pp. 75 - 76). Aggiungerei un’avvertenza: l’eros è più furbo di quanto non sospettiamo. In molti casi una relazione inizialmente leggera, negoziata come tale dai due partners, si trasforma in qualcosa di più esigente. Se questo avviene per entrambi, è l’inizio di un rapporto di coppia fortunato. Ma se avviene per uno solo dei due (non ci sono regole fisse: non è più vero, se mai lo è stato, che la donna impara a fare sesso man mano che ama di più e l’uomo impara ad amare facendo più sesso con una persona), è l’anticamera dell’inferno.

Augusto Cavadi

giovedì 27 marzo 2008

Due preghierine pre-elettorali (non proprio…ortodosse!)


Un amico a me molto caro, molto convinto di cercare ad ogni elezione il centro del centro degli schieramenti, ha ricevuto da un prete un sms. Non so quanto il mittente del messaggio fosse convinto o scherzasse né se lo stesso messaggio sia risultato convincente al destinatario, ma sta di fatto che il mio amico lo ha passato a me, ben sapendo che - riconoscendomi dall’altra parte - non avrebbe certo fatto breccia nella mia mente.
Un effetto però lo ha avuto, e doppio: mi ha fatto divertire sia quando l’ho letto sia quando, con l’aiuto di un’amica, ho provato a riscriverlo da un’ottica opposta.
Né il testo originario - né il testo redatto come eco un po’ distorta - brillano per carità cristiana. Anzi, neppure buddista. Anzi, neppure…umana! Ma, si sa, i poeti - specie se autori di liriche raffinate come queste - godono di molte licenze…
Augusto (Cavadi)

PREGHIERA DA RECITARE TRE VOLTE AL DI’:

O Gesù dagli occhi buoni
fa’ tornare Berlusconi
e se puoi, alzando un dito,
fa’ tornare anche Benito.
O Gesù dagli occhi tristi
fa’ sparire i comunisti!
Se risolvi ’sto problema,
fa’ sparire anche D’Alema!
Canteremo le tue lodi
se schiattasse pure Prodi
e se morisse Bertinotti
una festa con i botti!
Tu col cuore sempre aperto
fa svanire Diliberto
e con gli angeli tuoi belli
porta in cielo anche Rutelli!
O mio caro e buon Gesù,
non farli nascere mai più!

PREGHIERA DA RECITARE ANCHE UNA SOLA VOLTA NELLA VITA
(PURCHE’ CON SINCERA E PROFONDA CONVINZIONE)

O Gesù dagli occhi buoni
fa’ sparire Berlusconi;
se hai pietà dei cittadini
chiama in ciel anche Fini.
O Gesù dagli occhi tristi
fa’ sparir tutti i fascisti
e se pur non è un granché
porta via la Santaché.
Fa’ un favor di quelli grossi:
fa’ tacer per sempre Bossi.
E se vuoi tanti bacini
libera nos pur da Casini.
Sii per noi un vero faro:
manda a Lourdes il buon Cuffaro.
Nello spazio, come un dardo,
spediscici anche Lombardo.
Non mi chieder il perché,
ma togli i voti a Miccichè.
E se vuoi un grazie eterno,
in estate come in inverno,
lascia friggere in padella
quel grassone di Mastella.
Ma perdona la sua moglie
quando cede a certe voglie:
da fedele praticante
marachelle ne fa tante.

martedì 25 marzo 2008

Intervista a Tania


“Una città”
Febbraio 2008
n° 153

INTERVISTA A TANIA
di Augusto Cavadi
San Salvador 20.10.2007

Tania Molina. Perché Tania?
Perché mio padre è comunista e nella decade in cui sono nata c’era una forte effervescenza nel processo rivoluzionario salvadoregno, il popolo stava surfeggiando l’onda rivoluzionaria. I modelli di riferimento erano altri fratelli che avevano lottato in altre zone del Continente, come Che Guevara e la sua compañera Tania: da qui la decisione di un trentatreenne che era al colmo del suo entusiasmo quasi romantico. Non so se lo sapeva, ma in qualche modo segnava il mio destino.
Tania la guerrillera: quando hai iniziato a seguire questa vocazione?

Da che ho memoria, mi accompagna la coscienza di un mondo diseguale, ingiusto e non di rado assassino. Già quando avevo tre anni fummo mandati in esilio dal Salvador in Nicaragua (mio padre era gravemente minacciato di morte, il partito gli ordinò di espatriare per organizzare dall’estero il sostegno alla lotta rivoluzionaria e la nostra famiglia fu la prima ad essere accolta come “rifugiata politica” dai sandinisti ) e a cinque anni mi iscrissi nei “pioneros” (l’organizzazione dei bambini figli dei membri del partito comunista salvadoregni in esilio) e nel gruppo analogo dei bambini sandinisti. Anche alle scuole superiori partecipavo alle attività parallele dei giovani comunisti e dei giovani sandinisti. Nel 1990, a poco meno di tredici anni, tornammo in Salvador e qui fui contattata da un dirigente: mi comunicò che ero stata designata dal partito per ricostituire il movimento studentesco. Così mi incorporai nella cellula, incominciai a ricevere i rudimenti della preparazione politico-militare, a lavorare clandestinamente per appoggiare il lavoro della guerriglia urbana. Poi fu quasi naturale passare nelle file dei guerriglieri che vivevano nelle montagne circostanti. Per fortuna, questo genere di lotta durò poco: nel 1992 fu stipulata la firma degli accordi di pace.
Finita la fase ufficiale della guerra civile (dico la fase ufficiale perché non passa mese - tuttora - che non venga assassinato un militante di sinistra), mi sono concentrata sull’obiettivo di non diventare pazza. Infatti dovetti fare i conti con la sproporzione fra il mio idealismo e le situazioni storiche effettive, fra la mia coscienza abbastanza immaginaria di far parte della banda dei buoni alla Robin Hood e la constatazione che non tutto nella militanza del partito era altrettanto puro. Mi sono accorta che il carattere rivoluzionario del nostro partito - per me sacrosanto - era stato messo fortemente in crisi da alti dirigenti e da quadri medi: il poeta Roque Dalton era stato assassinato, per esempio, da Joaquin Villalovos, il capo dell’ ERP, cioè a dire dell’esercito rivoluzionario del popolo. Sul piano più ordinario, fui sconcertata dall’atteggiamento della maggioranza dei militanti: quando arrivarono i dollari dell’AID (un organismo di sostegno finanziario internazionale supportato certamente dal governo statunitense), si pensò prima di tutto a salvare se stessi e i propri cari. La delusione per me fu traumatica: all’inizio dell’adolescenza, il crollo dei miei idoli mi fece sentire come sperduta nel mondo. Per quasi due anni fuggii in Nicaragua, quasi per cercare conforto psicologico nell’ambiente amicale che mi aveva accolto da piccola bambina profuga politica. Ma i miei genitori mi vennero a riacciuffare quasi per i capelli e mi riportarono in Salvador.
Questa delusione ha comportato il tuo allontanamento dal partito?
Sì, abbandonai il mio posto nella direzione nazionale della gioventù dell’FMLN (Fronte “Farabundo Martì” per la liberazione nazionale), ma sono rimasta a collaborare ad ogni progetto concreto: purché non vada contro i miei principi. Intanto mi sono avvicinata a quegli ambienti intellettuali, soprattutto artistici, che mi hanno aiutato a individuare i metodi e gli strumenti più idonei alla mia personalità per continuare l’impegno rivoluzionario. Avevo già quindici, sedici anni: ero assetata di cultura, di conoscenza. Un ottimo biglietto di presentazione fu per me il conseguimento del primo premio del settore ‘poesia’ nel Certame centro-americano di letteratura femminile giovanile. Ideai e organizzai, nel 1996, la prima mostra nazionale di arte erotica - “Erotismo versus necrofilia” - cui parteciparono ottanta fra i più apprezzati artisti del Salvador: per quindici giorni di seguito conferenze di sociologi ed altri accademici si alternarono con mostre di pittura, di scultura, di fotografia, di film. In vista di quell’appuntamento, un gruppo di pittori della mia città mi chiese di prestarmi come modella: accettai con orgoglio.
Ma anche questa fase della tua vita ha comportato le sue delusioni?
Veramente sì. Entrai nel giro degli artisti, ancora una volta con una grande fiducia nei loro discorsi sulla pratica rivoluzionaria dell’artista e ne uscii abbastanza delusa, non senza aver acquisito molti loro vizi. Imparai ad ubriacarmi, a fumare marihuana, a scopare con chi capitava, ma - peggio di tutto - imparai l’egolatria: come loro, più di loro, mi affezionai ai complimenti e agli applausi, alle adulazioni. La pubblicazione della mia raccolta di poesie El espejo del àngel (in edizione bilingue spagnolo-italiana) segnò l’apice della mia carriera come poetessa, ma anche l’abbandono della scena pubblica. Avevo bisogno interiore di esperienze più autentiche, più vere. Così mi decisi a partire e alcuni operatori italiani che lavoravano in Salvador per conto del Cric (”Centro regionale di intervento per la cooperazione”) fecero da ponte per il mio sbarco a Reggio Calabria. Veramente, più che uno sbarco mi sembrò un naufragio: avevo sognato di arrivare nella culla del Rinascimento, mi ritrovai nel covo della ‘ndrangheta, in una città che era passata dal feudalesimo al consumismo senza conoscere l’Umanesimo. Mi trovai in un contesto urbanistico brutto, deturpato: non capivo se fosse costruita a metà o distrutta per metà. Per fortuna, però, ho trovato delle bellezze naturali e antropologiche affascinanti: lo stretto di Messina, l’Aspromonte, le tradizioni etniche, la musica. Per non parlare del dialetto, anzi dei dialetti meridionali in genere (ho percorso in bicicletta, con una sorta di circo di strada, tutte le coste della Sicilia - isola di cui mi sono innamorata senza scampo - e sono arrivata sino in Grecia): i dialetti sono di una sonorità e di una varietà da provocarmi veri e propri orgasmi linguistici. Conobbi anche un bel esemplare di calabrese e rimasi incinta: Athos, il bambino bello e intelligente che è nato, è stato poi affidato dalle autorità italiane al padre ma io posso ospitarlo qui in Salvador per alcuni mesi ogni anno.

Come mai non sei rimasta in Italia?
Devo dire innanzitutto che attraversare l’Atlantico mi ha regalato la coscienza che l’ingiustizia del sistema capitalistico è molto complessa proprio perchè costruisce nel tempo un modello di società nel quale il soggetto diventa un acomodador della realtà - uno che manipola e aggiusta le cose - in funzione del proprio apparente benessere individuale. Dunque, mi resi conto che non potevo rimanere in una regione che, per quanto arretrata, fa parte del Nord del pianeta: fa parte, cioè, di quella porzione del mondo che sfrutta le grandi maggioranze per permettersi il lusso di avere tre automobili o di gettare il cibo superfluo. Una porzione del mondo che, pur sapendo che esiste una enorme disuguaglianza con il resto dell’umanità, preferisce conservare il proprio status quo e non ha nessuna intenzione di ribellarsi e di lavorare per il cambiamento. Nel tuo Paese ho iniziato la mia attività di artista di strada, in particolare ho imparato a fare circo di strada e ad adottare metodi di educazione attiva secondo l’indirizzo del CEMEA del Lazio (”Centro di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva”, di matrice francese) la cui presidente è Paola Della Camera. Ma ho avvertito l’esigenza di tornare in Salvador per costruire qualcosa di più consistente e di più duraturo rispetto a ciò che mi poteva permettere una vita nomade. Qui ho ritrovato le mie radici: non per regresso nostalgico, ma come linfa vitale. Una mia nonna era irlandese, ma un’altra - la madre di mio padre - india: camminava scalza ed era molto attaccata alla sua lingua e ai suoi costumi. Sai che le donne nahuat hanno sofferto, sino ad anni recenti, per resistere al divieto di indossare el refajo, la loro gonna tradizionale? Ho scoperto nella mia terra varie mie progenitrici morali, come una donna india, Prudenzia Ayala, sprezzantemente chiamata Prudenzia la pazza perché nel 1932, per la prima volta nell’Ispanoamerica, osò candidarsi - lei donna e per giunta india e ragazza madre- alla presidenza della Repubblica salvadoregna. Anch’io, nel mio piccolo, sono considerata pazza, sia quando vengo marchiata per le mie trasgressioni sia quando vengo complimentata per qualche frutto della creatività. In vista di uno spettacolo sto approfondendo il mito della Siguanaba, una donna apparentemente bella condannata - dopo una relazione con un figlio di Dio - a trasformarsi in figure orribili: il nostro popolo è naturalmente religioso. Chiese e sette proliferano perché il divino, dalle nostre parti, non è una questione cerebrale: lo sentiamo nelle viscere. Io stessa, la sera, non vado a dormire senza prima concedermi una lunga pausa di orazione: cosa che faccio secondo la mia tradizione, ben diversa da quella cattolica. Adesso sto lavorando ad una scuola per artisti di strada in modo da promuovere la formazione di operatori sociali attraverso le arti che possano distribuirsi nel mio Paese, soprattutto per rinforzare l’auto-organizzazione delle comunità locali. E’ chiaro che questa azione avrebbe delle conseguenze positive sia, in prospettiva, per la costruzione di una coscienza rivoluzionaria (e dunque per la tensione verso una società più giusta) sia, nell’immediato, per contrastare il fenomeno della delinquenza giovanile e dell’abbandono minorile.

Dunque la tua è ormai una battaglia senza idoli e senza eroi?
In un certo senso sì, perché so che la rivoluzione è un processo sociale. Però mantengo chiari i miei due fari nella vita. Il primo: la mia cosmovisione, secondo la quale gli esseri umani facciamo parte della grande piramide dell’universo e la lotta interiore è vera solo se è contro l’orgoglio, l’ambizione, l’egoismo, la menzogna, l’ignoranza e l’ingratitudine. Ho vissuto anni molto intensi, ma adesso mi pare di avere raggiunto un certo equilibrio. Non vivo solo di slanci emotivi, cerco di pensare e soprattutto di tornare sui miei pensieri. Mi sento liberata da molti attaccamenti e, perciò, da molte paure. Non temo di perdere né beni materiali né affetti, credo di non temere neppure la morte. Ma, intendiamoci, non significa che vivo senza passioni (mi piacciono quasi tutti i maschi, almeno quelli che hanno un cuore generoso); solo che non sono più governata dalle mie passioni. Sarà questa gioia di vivere intensamente la giornata, momento per momento, la vita eterna di cui ha parlato Gesù nei vangeli? Il secondo: l’impegno morale verso tutte e tutti coloro che sono morti lungo la storia fedeli alla lotta per un mondo migliore.

TURISMO


“Repubblica - Palermo”
martedì 25 marzo 2008

LA RETE SICILIA - TUNISIA

Nel 2010 il Mediterraneo diventerà, per dirla sommariamente, una zona di libero scambio. Come ogni passo verso la globalizzazione, sarà una lama a doppio taglio: potrà arricchire proporzionatamente le popolazioni coinvolte, ma anche favorire lo strapotere dei forti sui deboli. Al di là dell’entusiasmo di facciata, le prospettive non sono le più rosee: gli amministratori siciliani, troppo impegnati in risse da cortile pre-elettorali, non stanno predisponendo nessuna strategia complessiva in vista della scadenza e tutto lascia presagire che saranno soltanto le imprese del Nord (italiano ed europeo) ad approfittare - del tutto legalmente - dei nuovi mercati.

Fedele all’ispirazione originaria, il Cresm di Gibellina (il Centro di ricerche economiche e sociali per lo sviluppo del Mediterraneo fondato da Lorenzo Barbera, uno dei più creativi collaboratori di Danilo Dolci) va progettando - e mettendo in esecuzione - strategie che possano enfatizzare i vantaggi e ridurre al minimo i risvolti negativi di questo processo attivato dall’Unione europea. “Partecipare”, rivista reperibile gratuitamente in internet (www.cresm.it) ed anche su carta, aggiorna periodicamente sui progetti dell’associazione senza fini di lucro: ma almeno le vicende di uno di questi progetti meritano d’essere segnalate.
L’idea originaria è, nella sua semplicità, geniale: sconvolgere l’assunto (dato per ovvio) che debbano essere solo gli europei a visitare da turisti l’Africa e promuovere una corrente inversa. Più precisamente: favorire il turismo tunisino in Sicilia alla riscoperta delle radici arabe. Ma questa è, per così dire, la seconda fase. Per renderla possibile è opportuno, come spiega l’attuale presidente del Cresm Alessandro La Grassa, realizzare una prima fase di interventi in Tunisia mirati alla “attivazione di processi di sviluppo sostenibile e di cooperazione solidale, attraverso il riconoscimento delle diversità culturali, la conoscenza e il rispetto della dimensione locale, lo studio dell’impatto sociale del turismo di massa, spesso invasivo e distruttivo”. A tale scopo è fondamentale attrezzare le popolazioni tunisine sia dal punto di vista logistico (incrementando la disponibilità di letti anche attraverso i Bed & Breakfast gestiti da famiglie) sia, ancor più, dal punto di vista mentale: diffondendo la convinzione che “il turismo - se turismo consapevole, responsabile e sostenibile - rappresenta il primo strumento per far incontrare, interagire e conoscere realtà socio-culturali diverse, in un’atmosfera gioiosa, rilassante, piena di curiosità da un lato, e di ospitalità dall’altro, quale può essere quella di un viaggio”. In questa direzione si sono attuate le prime iniziative nella regione di Medenine (e, in particolare, nel capoluogo Zarzis, cittadina della costa meridionale della Tunisia, al confine con la Libia, di fronte all’isola di Djerba), provando a costruire i primi nodi di una rete turistica capace di interconnettere realtà produttive (olivocoltura, pesca, artigianato) e patrimoni culturali (siti archeologici, luoghi di rilevante bellezza naturale, tradizioni gastronomiche a rischio di estinzione).
Purtroppo le idee migliori arrivano di solito troppo presto rispetto ai tempi della politica e della burocrazia. Secondo la testimonianza degli operatori siciliani, l’Ambasciata italiana a Tunisi risponde raramente al telefono, obbliga a recarvisi di persona, fa addirittura pagare per la prenotazione e, alla fine, non rilascia i visti d’ingresso ai turisti tunisini per via dell’applicazione della Bossi - Fini. E’ lo spreco di un’occasione di sviluppo economico per il nostro Paese - per le regioni meridionali in particolare - che potrebbe costituire una meta per l’emergente ceto medio nordafricano; ma anche di un’occasione di tessitura di relazioni culturali ed umane con fasce sociali significative di popolazioni di religione ed etnia diverse dalla nostra ma la cui storia millenaria si è tanto spesso intrecciata (non sempre polemicamente) con la storia della nostra isola.

lunedì 17 marzo 2008

La mafia spiegata ai turisti

L’accoglienza del mio tascabile “La mafia spiegata ai turisti” (Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 54, euro 5,90) è stata sinora davvero incoraggiante. Dopo la presentazione con Salvatore Cusimano, direttore della sede RAI di Palermo, sono stato intervistato da TV e Radio siciliane varie; poi dall’ANSA che ha lanciato la notizia a livello nazionale, provocando una bella intervista su “Libero” (15 marzo 2008), una intervista al secondo canale radiofonico della RAI (”L’altrolato” del 16 marzo), due interviste a due radio irlandesi, un’intervista radiofonica alla BBC di Lonfra, un’intervista sul “Daily Mirror” (14 marzo) e sul “The Guardian” (15 marzo), un’intervista su un quotidiano di New York (di cui non ho capito bene il nome) e un’intervista sul telegiornale nazionale de "La7" (domenica 16 marzo).

martedì 11 marzo 2008

DON NUNZIO PRETE - EDITORE


Repubblica - Palermo 11.3.2008

MARIO TORCIVIA
Don Nunzio Russo
San Paolo
Pagine 189
euro 11

Dal 1841 al 1906 visse a Palermo un prete di eccezionale operosità sul piano religioso, ma anche culturale e assistenziale, don Nunzio Russo, di cui è in corso il processo di canonizzazione. Un personaggio ricco, molteplice, ovviamente condizionato dalla mentalità dell’epoca e non privo di aspetti oggi discutibili. Storici della chiesa siciliana (Lo Manto, Vacca, Stabile) e teologi sistematici (Conigliaro, Scordato) ne hanno lumeggiato il profilo biografico e il pensiero in un convegno di cui don Mario Torcivia raccoglie qui gli atti. Una curiosità: convinto del ruolo della stampa, si preoccupò di aprire una tipografia e fondò un settimanale popolare (”Letture Domenicali”). Per meglio gestire tante iniziative, don Russo fonda un’associazione religiosa, un movimento di donne consacrate e una congregazione di preti. L’arcivescovo non capisce tanto attivismo né apprezza la novità di taglio e di metodi per cui, dopo una fase interlocutoria, interviene per sopprimere le nuove organizzazioni. Un’occasione perduta per la qualificazione ecclesiale e civile della città.

CUFFARO E I VALORI DELLA CHIESA CATTOLICA


“Repubblica - Palermo” 11.3.08

CHI RAPPRESENTA I VALORI CATTOLICI

Sinistra arcobaleno e Lega Nord non sono certo strumenti affidabili per difendere i valori cattolici. A ben vedere, però, né il PD né quella cosa in perpetua mutazione di etichetta che è il settore “affari politici” dell’azienda berlusconiana offrono garanzie assolute: c’è sempre qualche aspetto della dottrina sociale della Chiesa che i laici, presenti in entrambi i partiti, non riescono - con la migliore volontà - a digerire. In questo scenario, dunque, c’è posto per “un braccio armato” (come lo definisce polemicamente Elio Rindone) che si faccia rappresentante semi-ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche all’interno delle istituzioni statali. Benedetto XVI, che certamente non pecca nelle sue esternazioni per eccesso di sottigliezza diplomatica, lo ha spiegato - per così dire papale papale - il 21 settembre 2007, nel corso dell’udienza ai partecipanti all’incontro promosso dall’Internazionale Democratica di Centro e Democratico-Cristiana (IDC), presieduta dall’On. Pier Ferdinando Casini. In quella occasione il pontefice romano ha chiesto, pubblicamente, ai presenti di adoperarsi “a far sì che non si diffondano, né si rafforzino ideologie che possono oscurare o confondere le coscienze e veicolare una illusoria visione della verità e del bene”.

A pochi mesi da quella raccomandazione - se non vogliamo intenderla come una investitura - non pochi sono gli interrogativi che frullano nel cervello sia dei laici non-cattolici sia di quei laici cattolici per i quali l’aggettivazione confessionale non cancella né attenua il sostantivo.
Su alcuni di questi interrogativi - che riguardano il dibattito pubblico in Europa e che ritornano sulla stampa nazionale e internazionale - non è il caso di soffermarsi in questa sede. Basti osservare, ad esempio con lo stesso Rindone, che si tratta di “parole davvero inquietanti” perché non solo ribadiscono che “nell’ottica vaticana non ci siano concezioni filosofiche, religiose, morali differenti, che possono reciprocamente arricchirsi in un cordiale confronto o che possono almeno convivere all’interno di una società pluralistica”, ma spostano i paletti ancora più avanti (o indietro): esprimono infatti “la pretesa che non siano messe in circolazione idee erronee, cioè non gradite al Vaticano”. E poiché si rivolge non a studiosi che possano combattere con le armi della logica, della parola e della scrittura, ma proprio a politici, è legittimo dedurne che il papa si riferisca alle armi del potere: “togliere i finanziamenti ad istituzioni culturali e dirottarli verso altre, oscurare siti internet, rafforzare la censura televisiva, intimidire i giornalisti, privare della cattedra professori non allineati e controllare i libri di testo…”.
Altre considerazioni, però, sono suggerite dall’angolo di osservazione della nostra isola. Chi sono, nelle liste dell’UDC, i candidati più in vista e dunque destinati - con l’attuale meccanismo che inviterei a non chiamare porcellum per rispetto dei nostri innocenti fratellini minori - a sicura elezione negli scranni parlamentari? A chi il papa sta affidando, di fatto, la difesa dei principi evangelici di fraternità, di giustizia, di nonviolenza, di solidarietà cooperativa?
Un discorso sulle liste UDC per Camera dei deputati, Senato della Repubblica e Assemblea regionale siciliana sarebbe troppo lungo se analitico, ingiusto verso alcuni candidati se sommario. Ma come tacere sulla scelta di Salvatore Cuffaro a capolista della lista per il Senato? Come non chiedersi che razza di normativa è attualmente in vigore in Italia se un cittadino, condannato per favoreggiamento di mafiosi a cinque anni di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici, può legittimamente rappresentare l’intero popolo italiano? La funzione di senatore non è un ufficio pubblico ma una manovalanza privata? Come non chiedersi - al di là delle condanne penali e delle carenze della legislazione vigente - se è moralmente accettabile riconoscere il ruolo di paladino dei valori cristiani a un cittadino che (per fama pubblica e adesso anche per risultanze emerse durante il dibattimento processuale) è da anni al centro di una fitta rete di relazioni pericolose fra imprenditori corruttori, amministratori corrotti, mafiosi di denominazione di origine controllata e professionisti variegatamente collusi ? Come spiegare il silenzio tombale dei vescovi siciliani e dei fedeli davanti allo scandalo di un confratello così poco esemplare e che, tuttavia, non ha perso e non perde occasione per fare della sua appartenenza ecclesiale una bandiera propagandistica ? E’ anche a personaggi come lui che le gerarchie ecclesiastiche, fidandosi di volti da eterno boy-scout alla Casini, stanno di fatto consegnando (a meno che non ci spiazzino con una clamorosa presa di distanza) la missione di combattere una crociata contro i nemici del vangelo: cioè, per intenderci, contro persone come Rita Borsellino o Beppe Lumia che non sono certo accusabili di proclamata mancanza di fede in Dio, di speranza nel futuro e di amore per il prossimo. A differenza di questi, Casini e i suoi sodali (siciliani o comunque paracadutati in Sicilia in occasione delle elezioni politiche), invece, rassicurano dall’alto dei megamanifesti elettorali che continueranno a difendere le famiglie. C’è da credergli: sinora con molte di Cosa nostra l’intesa è stata perfetta.

mercoledì 5 marzo 2008

UNA MATTINA ALL’ALBA


Repubblica - Palermo 5.3.2008

LA BELLEZZA ASSEDIATA DAI RIFIUTI

Quando riesco a svincolarmi dalla stretta della pigrizia, mi piace aprire la giornata con una passeggiata da Vergine Maria all’Addaura. Esco da casa prima dell’alba, cammino a piedi per un’ora lungo la strada che si snoda fra le falde di Monte Pellegrino e il mare. L’aria è tersissima. Il silenzio intenso è rotto, di tanto in tanto, da qualche cane da guardia allarmato per i passi (evidentemente non frequenti) del passante. Non sono un sentimentale. Eppure quando i primi raggi illuminano la montagna, svelandone il rosso dolomitico, e penetrano nel mare, accentuandone il blue profondo, difficilmente riesco ad restare freddo. I gabbiani - che disegnino arabeschi con voli eleganti o che si fermino su una roccia a osservare le onde - fanno il resto: mi assestano, per così dire, il colpo di grazia. Scivolo, infatti, in uno stato d’animo insolito: un intreccio di calma intima e di intima inquietudine. Sono momenti in cui certe righe del taccuino di viaggio in Italia di Goethe - convinto di ammirare “il più bel promontorio del mondo” - mi si rivelano di schietta sincerità, al di qua di ogni esagerazione letteraria.

Mentre la mente divaga senza guinzaglio, lo sguardo si posa ora su una caletta sabbiosa ora sul ciglio della strada carrozzabile ora su un boschetto dalla vegetazione assortita: e non può evitare di notarvi brutture d’ogni genere. Non manca quasi nulla: dalle casupole abusive perennemente incompiute (ci siamo ma, se qualche tutore dell’ordine pubblico dovesse accorgersene, saremmo in grado di sparire in poche ore) alle lattine di coca-cola e alle bottiglie di birra svuotate; dalle carcasse di automobili arrugginite ai sacchi di immondizia maleodoranti. E frigoriferi spalancati, divani orrendamente sventrati, sedie mutilate. Persino cerchioni di ruote d’automobile di varie marche, smarriti e ancora utilizzabili, che nessuno raccoglie. Naturalmente carte, cartoncini e cartoni d’ogni tipo, colore, condizione: squadernati e svolazzanti come aquiloni o accartocciati nervosamente o tagliuzzati sadicamente… Un po’ dappertutto, equamente distribuite per evitare spiacevoli disparità, cacche di cani.
Questa vista insistente, fastidiosa, ti sottrae con prepotenza dall’ammirazione estatica. La corteccia neocerebrale rientra dalla sospensione momentanea, si riattiva e produce interrogativi quasi scontati: perché la gente può sfregiare gli spazi comuni sapendo che nessuno - né privato cittadino né pubblico ufficiale - gliene chiederà conto? Perché gli uffici comunali, provinciali e statali straripano di “lavoratori socialmente utili” che devono inventarsi, giorno dopo giorno, i passatempi per vincere la noia mentre i tesori naturali sono lasciati in abbandono? Che impressione provano i turisti, transitando da Villa Igea a Mondello, al cospetto di questo sconcio? Ma soprattutto e radicalmente: perché noi meridionali ci vogliamo così poco bene e così poco bene vogliamo al contesto naturale ed urbano in cui abbiamo visto la luce? Tutto avviene come se un malessere psichico interiore, per mascherarsi ai propri stessi occhi, si manifestasse come aggressione verso l’esterno; e lo spettacolo delle ferite da noi provocate all’esterno - a uomini e a cose, a animali e a piante - , ritorcendosi a sua volta verso di noi, ci facesse stare ancora peggio. In questo circolo infernale, come fare a capire se siamo avversi alla bellezza perchè siamo infelici o se siamo infelici perché avversiamo la bellezza?
Ma non possiamo lasciarci paralizzare dagli interrogativi filosofici. Da qualche parte dobbiamo pur cominciare. Senza miracolismi, ma con determinazione. Forse sarà un prete che deciderà di inserire nella catechesi ordinaria l’esortazione a rispettare la Terra come madre se si vuole ardire di invocare Dio per padre. Oppure un funzionario dell’Amia , in un sussulto deontologico, proverà a infrangere l’omertà clientelare fra assunti per padrinaggio e a pretendere che tutti gli operatori ecologici diventino ecologicamente operativi. Oppure il consiglio di quartiere chiederà formalmente che si moltiplichino i contenitori per la raccolta - meglio se differenziata - dei rifiuti: e che vengano effettivamente svuotati con ritmi adeguati. Oppure il questore incaricherà due pattuglie di alternarsi in zona per convincere - con le maniere più opportune, cortesi o dure a seconda dei casi - gli abitanti a non imbrattarsi da soli l’habitat vitale. Quel che è certo è che nessuna di queste strategie, da sola, potrà innescare un’inversione (virtuosa) di tendenza: la pedagogia, la professionalità, la politica, la repressione - così come l’arte, i mass-media o il volontariato ambientalista - possono mutare il quadro complessivo solo se si attivano in sequenza e, una volta a regime, in contemporanea. Nell’introduzione ad un dialogo fra l’architetto Mario Botta e lo psichiatra Paolo Crepet, Giuseppe Zois scrive che la vita è un pendolo ininterrotto fra le “emozioni dell’abitare” (espresse dal primo nelle sue costruzioni) e le “emozioni da abitare” (che l’altro cerca di decifrare negli animi). Che il nesso sia stretto, lo conferma la risposta di Botta alla domanda se sia possibile evitare certe angosce davanti al brutto chiudendo, almeno a tratti, gli occhi: “Le brutture purtroppo ci accompagnano. Sarebbe illusorio credere che si può avere un buon habitat in una cattiva società. Non può esserci una bella città fisica in un brutto contenitore sociale”.
La strada è, dunque, tutta in salita. Una passeggiata lungo le nostre coste splendide sarà ancora per molti anni un mix inestricabile di gratificazione e di amarezza. Quando accenno a queste problematiche con amministratori locali, o con altri professionisti della politica , mi fissano come se fossi un ritardato mentale: se si occupassero di bene comune, distraendosi dalla cura quotidiana delle richieste private degli elettori, chi li voterebbe alla tornata successiva (a parte me e qualche altro alieno paracadutato per caso su quest’isola)? L’unico motivo per loro di cambiare stile, sarebbe che tra i cittadini si andasse contagiando a macchia d’olio la consapevolezza dell’assurdità di questa situazione. E, per riprendere Arthur Schnitzer, la conseguente convinzione che un contributo a tale assurdità lo diamo tutti: o con l’agire o con l’astenerci dall’agire.