martedì 31 luglio 2012

Filosofia e agire politico: qualche nota autobiografica


Dal volume Autori vari, Sofia e polis. Pratica filosofica e agire politico, a cura di S. Zampieri, Liguori, Napoli 2012, pp. 193 – 203.

(Il volume è acquistabile anche come e-book e, se si vuole, solo per singoli capitoli).

La dimensione politica del filosofare.
Qualche esemplificazione autobiografica

Filosofia e politica: una falsa dicotomia 
La riflessione senza vita è vuota, la vita senza riflessione è cieca. Cosa può significare, in concreto, questa parafrasi della celebre formula kantiana? Ogni filosofo-in-pratica (direi meglio: ogni filosofo tout court) può dare la propria risposta. Anzi le proprie: perché ogni risposta va declinata e adattata a seconda dei luoghi e dei tempi. La varietà delle versioni è, comunque, attraversata e unificata dal filo rosso di un’idea centrale: al cuore delle crisi epocali (ma ci sono crisi non epocali? Ed epoche che non siano critiche?) cova la divisione del lavoro schizofrenica fra chi studia, pensa, elabora teorie e chi agisce, produce e condiziona la quotidianità. Una divisione di ruoli, di funzioni, che in una certa misura rispetta attitudini naturali e necessità sociali; ma che, oltre un certo limite, diventa patologica. La cura di questa schizofrenia - la riconciliazione di questa frattura - è un anfibio che, visto da un lato, si chiama politica e, dall’altro, si chiama filosofia.
Uso la metafora dell’anfibio per nominare qualcosa che un hegeliano o un marxista (quando queste specie filosofiche non si erano ancora estinte) avrebbero trovato ovvio e che ovvio non è per quanti (come me) non sono né hegeliani né marxisti: che solo l’intreccio di pensiero e azione merita (hegelianamente) il nome di filosofia o (marxianamente) il nome di prassi. Dico subito che non intendo sprecare energie in polemiche: chi vuole continuare a chiamare filosofia una delle molteplici valenze che essa ha dispiegato lungo il corso del pensiero (non solo occidentale), accontentandosi metonimicamente di tecniche logico-argomentative o di raffinate ricostruzione storico-filologiche, è liberissimo di perseverare. Purché non neghi ad altri il diritto di ritenere irrinunciabile, per la nozione di filosofia, il continuo riferimento intenzionale a ciò che è e a ciò che diviene : sia a titolo di ‘materia prima’ che, dando da pensare, alimenta il pensiero sia a titolo di ‘prodotto’ che, una volta ‘metabolizzato’ dal pensiero, viene restituito al fluire concreto della storia. Ancor meno intendo polemizzare con chi si accontenti di ridurre la nozione di politica a mera abilità nell’acquisire e mantenere potere, indifferentemente rispetto ai fini da perseguire (una sorta, insomma, di tecnica amministrativa utilizzabile per qualsiasi strategia progettuale): purché non neghi ad altri il diritto di ritenere non defalcabile, dalla nozione intera di politica, la saggezza di chi sa non soltanto pilotare la nave ma anche ‘vedere’ (theorein) le mete più opportune.

Alcune esperienze effettive
Più che sul registro teorico, la connessione costitutiva di dimensione teorica e di dimensione pratica vorrei analizzarla sul piano esperienziale, iniziando a raccontare alcuni vissuti personali e di gruppo.

a) Contestare il sistema: ma per quale alternativa?
Nell’ottobre del 1968 ho compiuto diciotto anni e ho iniziato a frequentare l’ultimo anno di liceo classico. Ovviamente il vento della contestazione studentesca nel mondo occidentale raggiunse anche la “semiperiferia anomala” dell’impero: a Palermo fui tra i primissimi a organizzare assemblee di base (ovviamente, ai tempi, del tutto illegittime) e quando, con il voto contrario mio e della minoranza studentesca che era d’accordo con me, fu decisa l’occupazione, mi posi il problema di non renderla del tutto infruttuosa. Fra i vari gruppi di studio ne proposi, allora, uno in cui interrogarci criticamente su quali fossero per ciascuno di noi le ragioni della protesta e – soprattutto – con quali prospettive politiche di ordine generale vi partecipasse. Nacque così un laboratorio dal titolo Filosofia e contestazione che il quotidiano ‘comunista’ cittadino dell’epoca guardò con tanto ammirato stupore da decidere di pubblicarne gratuitamente gli atti . A sfogliarli adesso, dopo un po’ più di quarant’anni, rivelano una certa ingenuità: ma restituiscono il senso – originario, originale e tuttora validissimo – dell’operazione. Quegli adolescenti esordivano con una dichiarazione di principio: “Sappiamo già che il fatto di voler fare filosofia a proposito di un processo come la contestazione, in cui siamo tanto impegnati, sarà accolto con sorrisi di scetticismo: in effetti la scuola ci ha dato il quadro meno vitale e più annacquato possibile della filosofia. Noi, invece, ci proponiamo di dimostrare che la filosofia come metafisica - cioè come concezione integrale dell’uomo e delle cose – è stata ed è l’anima di ogni atteggiamento individuale, di ogni concezione socio-politica, di ogni movimento storico. Ora, dal momento che la contestazione è per ciascuno di noi un atteggiamento pratico, per la classe politica la proposta di una nuova strutturazione socio-politica e per gli storici un movimento storico, è necessario vedere quali proposte abbiano influenzato la contestazione e quali debbano essere, agli occhi di chi vuole chiedersi il perché ultimo degli avvenimenti, i metodi e gli scopi della nostra contestazione” (p. 3). E, qualche riga dopo, aggiungevano: “Un uomo che non abbia ben chiara la sua filosofia è soggetto a una doppia schiavitù: nella vita di ogni giorno è spesso incoerente con i suoi principi a sé stesso oscuri, nella vita pubblica è costretto a subire l’influenza delle filosofie imperanti, anche se non da lui condivise (…) E’ chiaro che, se non ci poniamo personalmente il problema filosofico, subiamo passivamente la filosofia dei nostri artisti, dei nostri registi, dei nostri scrittori, dei nostri agenti pubblicitari, dei nostri uomini politici. Ci interessa soprattutto sottolineare a doppio inchiostro che ogni nostro pensiero, ogni nostra parola, ogni nostra azione sono l’espressione di una precisa, anche se incompleta, visione dell’uomo e delle cose. Dunque anche la nostra contestazione studentesca non può prescindere da una sana conoscenza di cosa sia il reale, l’uomo, la società: e questa conoscenza o l’avremo raggiunta criticamente o la subiremo passivamente da altri ” (pp. 3 – 4).
[…]

b) Impegnarsi nel volontariato: ma su quali basi e con quali prospettive?
Il decennio 1968 – 1978 si concluse, simbolicamente, con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Solo osservatori superficiali possono leggere questa fase esaltante e terribile della storia italiana usando l’epilogo tragico come chiave interpretativa degli eventi precedenti: il ’68 ha prodotto anche carrierismo dei demagoghi, esasperazione dei conflitti ideologici, terrorismi di segno opposto (uno dei quali, il più devastante, in nome e grazie alle risorse dello Stato nominalmente democratico), ma ridurlo a questi scarti sarebbe ingiusto. Esso è stato, altrettanto e più, l’avvio di processi planetari di cui è auspicabile il compimento: la rifondazione del sistema scolastico e universitario sulla base della pari dignità fra docenti e discenti (perfettamente conciliabile con la differenza di ruoli); la rivoluzione sessuale; il movimento per i diritti dei lavoratori; il rafforzamento dello Stato sociale; l’autocoscienza e l’emancipazione delle donne; la coscienza ecologica; il rifiuto della guerra…
Dalla fine degli anni Settanta ai nostri giorni si è assistito a un fenomeno tendenziale che potrebbe sintetizzarsi, molto approssimativamente, come sfiducia nei canali tradizionali della partecipazione politica (partiti e sindacati) e sperimentazione di nuove forme d’impegno sociale (volontariato e, più ampiamente, ‘terzo settore’).
Non è questa la sede per analizzare le ambivalenze di queste nuove forme di protagonismo da parte di cittadini che non intendono delegare a nessuno, almeno in maniera totale, la gestione del proprio territorio: ciò che mi preme sottolineare è che alcuni di noi abbiamo cercato di contribuire a questa fase - ormai trentennale – con lo stesso spirito ‘filosofico’ con cui avevamo vissuto il decennio precedente. Una esemplificazione fra tante . A Palermo esiste un centro studi dei padri gesuiti intitolato a un coraggioso ‘papa nero’ degli anni conciliari, Pedro Arrupe. Gianni Di Gennaro, uno dei direttori che si sono avvicendati alla guida di questo centro (reso noto in Italia dalla presenza di alcuni gesuiti, come p. Bartolomeo Sorge, che avevano avuto un certo ruolo come consiglieri di giovani generazioni di politici e che avevano fondato anche un Istituto di formazione politica), nel 1997 ha accolto la proposta ad alcune associazioni - sia cattoliche sia aconfessionali – di creare l’Università della strada, una struttura permanente di formazione per volontari.
Ovviamente una simile agenzia educativa doveva essere imperniata su obiettivi didattici funzionali all’attività sociale: dalla psicologia alla sociologia, dalla storia locale al diritto costituzionale, dalla metodologia per ricercare finanziamenti pubblici alle tecniche di animazione dei gruppi. Bene. Ma in sede di progettazione ho proposto - ottenendo convinto e operativo consenso – che, prima di qualsiasi altra tematica, si offrisse agli iscritti un breve ciclo di seminari filosofici sul ‘senso’ della loro decisione di intraprendere una collaborazione stabile con organizzazioni di volontariato. Se infatti diventare volontari - ben oltre gli stereotipi culturalmente ormai desueti della ‘beneficenza’ pelosa - significa scegliere di diventare cittadini adulti, critici, competenti e responsabili, chi si orienta in questa direzione deve aver consapevolezza che si tratta di una decisione esistenzialmente, eticamente e politicamente rilevante. In concreto, il filosofo s’incarica di creare uno spazio di silenzio, di meditazione, di riflessione e di confronto in cui a ciascuno sia possibile affrontare due ordini di interrogativi: su quali motivazioni ‘filosofiche’ sto basando la mia scelta di vita? E in quali prospettive politiche di ordine generale inserisco tale scelta personale? Per favorire tale riflessione ho sperimentato il metodo che Wilhelm Schmid denomina “optativo” : presentare, cioè, a titolo di ipotesi, alcuni ‘scenari’ ai partecipanti alla sessione sì che essi possano o riconoscersi in uno di questi o, meglio ancora, elaborarne un ennesimo alternativo. Vediamo, in concreto, sia pur per sommi capi, di cosa si tratta.
[…]

c) Acquistare viveri, cucinarli, consumarli: con quale consapevolezza?
Il passaggio dalla rivoluzione francese alla rivoluzione industriale si è identificato con il passaggio da cittadini a consumatori. Dico subito che questo processo ha comportato numerosi aspetti evolutivi (assopire la fame significa rinunziare a uno stimolo molto potente, ma non altrettanto illuminante, all’impegno politico) come pure regressivi: la situazione attuale in Occidente evidenzia questi aspetti regressivi , senza bisogno di molti commenti, ad abundantiam. E’ un dato storico indiscutibile e incoraggiante il percorso inverso, intrapreso da milioni di soggetti nel pianeta, da consumatori a cittadini. Fare compere al mercatino rionale o all’ipermercato megagalattico smette, gradatamente, di essere un gesto meccanico per diventare una mossa strategica, politica. Che significhi essere un consumatore critico sotto questa angolazione politica ce lo insegnano ormai intere biblioteche e vasti, meritori, movimenti sociali. Ma questa dimensione critica può essere talmente ‘critica’ da attraversare per intero lo spessore politico sino a toccare il versante filosofico? E’ esattamente quanto è capitato, nell’autunno del 2010, nella piccola comunità di ricerca che dal 2002 si riunisce ogni quindici giorni sotto la denominazione, un po’ autoironica, di “cenette filosofiche per non…filosofi”. Su suggerimento di un membro del gruppo che lavora in banca, quando si è trattato di scegliere un nuovo testo che facesse da base per le discussioni, si è adottato il volume Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, scritto da J. S. Foer nel 2009 e tradotto in italiano nel 2010 dalla Guanda di Parma. E’ stato davvero come maneggiare un arnese ritenuto innocuo, addirittura marginale rispetto al taglio filosofico del gruppo, che ha finito con l’esploderci in mano: creando scompiglio mentale, accendendo scambi dialettici fra noi come mai era capitato negli otto anni precedenti, incrinando convinzioni radicate e abitudini consolidate. Per restituire, in poche parole, qualcosa di ciò che è successo, può essere istruttivo premettere un chiarimento sul sottotitolo (Se niente importa) del volume. La nonna dell’autore, ebrea di nazionalità russa, nel primo capitolo racconta un episodio autobiografico della Seconda guerra mondiale: “ ‘Durante la guerra ci fu l’inferno in terra e io non avevo niente. Avevo lasciato la mia famiglia, sai. Scappavo sempre, giorno e notte, perché i tedeschi mi stavano alle calcagna. Se ti fermavi eri morto. Il cibo non bastava mai. Mi ammalavo sempre più a forza di non mangiare. Non solo ero pelle e ossa. Avevo piaghe in tutto il corpo. Facevo fatica a muovermi. Non era un granché mangiare dai bidoni della spazzatura. Mangiavo quello che gli altri non erano disposti a mangiare. Se ti adattavi, potevi sopravvivere. Io prendevo tutto quello che riuscivo a trovare. Mangiavo cose che non ti direi mai. Anche nei periodi peggiori c’erano persone buone. (…) Il peggio arrivò verso la fine. Moltissime persone morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, che Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me’. ‘Ti salvò la vita’. ‘Non lo mangiai’. ‘Non lo mangiasti?’. ‘Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale’. ‘Perché?’. ‘ Che vuol dire perché?’. ‘Come? Perché non era kosher?’ ‘Certo’. ‘Ma neppure per salvarti la vita?’ ‘Se niente importa, non c’è niente da salvare’ ” (pp. 24 – 25).
Il brano può dare, spero, l’idea del livello in cui l’autore pone la discussione: pur considerando gli aspetti sanitari, economici, ecologici e politici (che nessun filosofo può permettersi di snobbare), egli ha presente il livello etico-filosofico: il piano dei principi, dei ‘valori’, di ciò che tocca la dignità di un’esistenza nel mondo. Mangiare gli animali o no?
[…]

Augusto Cavadi

domenica 29 luglio 2012

Ci vediamo a Pescasseroli (Abruzzo) dal 21 al 27 agosto 2012?


Dal 21 al 27 agosto avrà luogo a Pescasseroli (L’Aquila) la XV “Vacanza filosofica per non…filosofi” sul tema Filosofia e sessualità.
Sono previsti due seminari giornalieri (dalle 9.00 alle 10.30 e dalle 18.15 alle 19.45) condotti a turno dai filosofi Elio Rindone (Roma), Mario Trombino (Bologna), Pierpaolo Casarin (Milano): nel resto della giornata si potranno esplorare i suggestivi spazi del Parco nazionale dell’Abruzzo. Per informazioni più dettagliate sulla logistica e sui costi consultare www.vacanzefilosofiche.it o scrivere ad acavadi@alice.it o telefonare al 338.4907853.

sabato 28 luglio 2012

Il vescovo di Agrigento nega il funerale al mafioso...


...e la direttrice di “Centonove” mi ha chiesto un breve riassunto delle… puntate precedenti.

“Centonove” 20.7.2012
Chiesa cattolica e mafia: tre fasi, tre atteggiamenti

Lo Stato italiano e la mafia sono coetanei. Da poco hanno festeggiato i 150 anni d’età, anche se non tutti gli invitati alla festa siamo altrettanto entusiasti. E la chiesa cattolica che bilancio può fare a proposito? Se procediamo a colpi d’ascia - senza andare troppo per il sottile – possiamo distinguere tre fasi. Nella prima, la più lunga, la chiesa cattolica ritiene che il derby fra Stato italiano e Cosa nostra non la riguarda: è una questione ‘mondana’, terrestre, ed essa deve occuparsi (almeno ufficialmente) del destino soprannaturale delle ‘anime’. Un documento eloquente di questa prima fase (1861 – 1965) è la famigerata Lettera pastorale del cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo: la mafia non è una piaga siciliana, le vere piaghe sono romanzi come Il gattopardo, partiti come il PCI e sociologi come Danilo Dolci.
Ma dopo la morte di Ruffini, anche per adeguarsi agli stimoli di altre chiese cristiane come la Chiesa valdese, la Chiesa cattolica entra in una seconda fase (1966 – 1993): non si può restare neutrali a guardare, dagli spalti, come finisce la partita fra guardie e ladri. Anche perché tra le ‘guardie’ non ci sono soltanto esponenti della Sinistra o, comunque, estranei alla comunione ecclesiale (quali Peppino Impastato o Gaetano Costa o Giovanni Falcone): ci sono cattolici di assoluta fedeltà interiore e di quotidiana pratica religiosa (come Paolo Borsellino, del cui martirio si celebra il ventesimo anniversario proprio in queste ore). Come testo-simbolo di questa seconda fase possiamo scegliere il noto grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento. Esso ci restituisce sia il positivo che il negativo di questa fase. Il positivo: il capo della Chiesa cattolica in prima persona urla la propria condanna della mafia. Il negativo (o, per lo meno, l’insufficiente): la condanna è diretta alla mafia militare, alla mafia che spara e che uccide, ma il papa ignora che si tratta di un sistema di dominio più complesso (con tasselli economici, politici, persino culturali). Pochi mesi dopo Agrigento (e secondo qualcuno non senza collegamento con Agrigento) la mafia uccide don Pino Puglisi a Palermo e don Peppino Diana a Casal di Principe. Non è più soltanto un regolamento di conti fra le armi dello Stato repubblicano e le armi delle cosche mafiose e camorriste, non è soltanto uno scontro fra eserciti in guerra: è un conflitto fra egemonie territoriali. La mafia vuole il monopolio non solo dei traffici illegali e legali, ma anche delle coscienze. La Chiesa cattolica comincia a intuire ciò che solo alcuni preti e alcuni vescovi più intuitivi avevano da decenni detto e proclamato: che essa deve o rinchiudersi nelle sacrestie e assistere, da testimone muta e cieca, allo spadroneggiare della mafia nei quartieri oppure contrastare, su tutti i piani (compresa la educazione permanente e ricorrente dei cittadini, non soltanto minori d’età), la pretesa assolutistica delle cosche (che vogliono governare il territorio, non viverne ai margini). Questa terza fase (dal 1993 a oggi) è in corso d’opera e aperta agli esiti più disparati. Ombre inquietanti e luci confortanti l’attraversano.
Da una parte, infatti, milioni di sedicenti cattolici (anche cristiani?) votano Cuffaro e Lombardo per evitare che la Borsellino o la Finocchiaro arrivino alla presidenza della regione: come se bastasse prendere le distanze dai mafiosi che sparano e non anche dai loro amici, dai loro referenti politici, dai loro interlocutori comprensivi. Dall’altra, però, padre Pino Puglisi viene proclamato beato e martire della fede (dunque ucciso dai mafiosi non per accidens, ma proprio in quanto discepolo di Cristo e suo apostolo) e, pochi giorni dopo, l’arcivescovo di Agrigento nega il funerale liturgico al cadavere di un mafioso (compiendo un gesto apparentemente logico, ma storicamente inedito). Si va, forse, verso lo scioglimento di equivoci secolari: anche i mafiosi hanno un proprio Dio, ma non coincide più con il Dio dei cattolici.

Augusto Cavadi

venerdì 27 luglio 2012

Dio: ipotesi di un laico


Settimanale “Centonove”
13.7.2012

Dio: ipotesi di un laico

Una persona che nella vita si occupa di scienze esatte e di tecnologie non può occuparsi di filosofia; ancor meno di teologia se, per giunta, non è neppure credente in senso confessionale. Ecco due pregiudizi diffusi e difficili da smontare che possono essere seriamente intaccati dalla lettura di Ipotesi su Dio di Michele Sala (Lampi di stampa, Milano 2008). Vediamo perché.
Può servirci come chiave interpretativa l’interrogativo che fa da sottotitolo del libro (Può un laico credere nell’immortalità?) perché, in esso, ‘laico’ va inteso almeno in un doppio senso: estraneo alla corporazione dei filosofi di professione ed estraneo a qualsiasi appartenenza ecclesiale. Laico, nella prima accezione del termine, Sala lo è perché non è uno studioso di metafisica e nella sua ricerca personalissima si è servito, più che di raffinate tecniche logiche, della propria “intuizione”. E proprio grazie a questa facoltà, davvero universale, egli è uscito dallo scetticismo assai vicino all’ateismo in cui era entrato da studente per approdare ad una propria idea del Divino (senza dunque rinunziare alla condizione di laico nella seconda accezione del termine). “Verso la fine dell’adolescenza”, infatti, per reazione al moralismo cattolico che vedeva peccati ovunque, “su argomenti che nulla hanno a che fare con Dio” (quali l’autoerotismo o la sensibilità sociale per il proletariato), egli approda ad un “ateismo” che, “probabilmente, è solo un naturale rigetto nei confronti delle sciocchezze udite in gioventù”. Ma, “come un sassolino nella scarpa”, lo tormenta una domanda: “come è possibile che, nonostante la logica e i ragionamenti dimostrino il contrario, c’è così tanta gente al mondo che crede in Dio? E’ possibile che siano ‘tutti cretini’? ”. Una sera, di solitudine e di tristezza, nella sua mente passa “come una specie di lampo”: forse Dio c’è, ma non è come ce lo raccontano i preti delle varie chiese del mondo. Forse Dio è una Energia onnipresente e onnioperante di cui tutti gli esseri (uomini, animali, piante e tanti altri che vivono e agiscono nell’universo senza rapporti con noi) siamo “scintille” o, se si preferisce, “terminazioni fisico-spirituali che Dio utilizza” per percepire il mondo.
Una simile concezione di Dio (e delle anime) spiega, molto più ‘razionalmente’ di qualsiasi riduzionismo materialistico, la comparsa sulla faccia della terra di geni quali Leonardo da Vinci o Mozart; d’altra parte, ha anche il pregio di poter essere abbracciata senza aderire necessariamente ad una delle innumerevoli religioni ‘storiche’ che non cessano di germogliare. Come spesso accade nelle visioni panteistiche (da Spinoza a Schelling), Dio - che può considerarsi la somma delle anime che impregnano gli innumerevoli esseri dell’universo – non può essere imprigionato nelle nostre categorie antropologiche: non è né ‘buono’ né ‘cattivo’. Egli ( o esso) è.
Non si può negare che questa prospettiva di Michele Sala consenta di affrontare la vita, e soprattutto la morte, con animo sereno: chi è convinto con Parmenide (ma anche, su un altro registro discorsivo, con Lavoisier) che “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”, vive il presente come momento di una vicenda senza inizio e senza fine, concentrato sul compito di “produrre energia spirituale” in nome e per conto dell’Assoluto. D’altra parte, però, si tratta di una prospettiva che dall’autore viene presentata, onestamente, più come frutto di “sentimento” che di ragionamento dimostrativo: in quanto tale essa è un’alternativa ad altre opzioni di fede (basate appunto su intuizioni poetiche e percezioni psicologiche) più che ad altre visioni filosofiche (che sono, o pretenderebbero di essere, prettamente razionali).

Augusto Cavadi

martedì 24 luglio 2012

Dopo le vacanze filosofiche estive a Ostuni


Care e cari,

vi scrivo da Ostuni dove ieri si è chiusa la prima delle due edizioni di questa estate delle “vacanze filosofiche”. E’ stata un’esperienza abbastanza atipica rispetto alle nostre consuetudini e, nella sua aticipicità, davvero significativa e gratificante.
Non ci siamo trovati in strutture ‘pubbliche’ ma, quasi tutti, in quattro casette ‘private’ messe generosamente a disposizione da Bruno Vergani e Laura Palermo. In una casetta vivevano i padroni di casa; in un’altra Adriana, io e Mario Trombino; in un’altra ancora Chiara e Massimo Angelini; nella quarta infine Daniela e Luigi Salomone, Laura Mancini e Chiara Salviotti. Poco lontano hanno trovato ospitalità in una ‘lamia’ Monica e Lorenzo De Rossi e, in un albergo di Ostuni, Vito e Rosa Colonna. (Non inserisco nel novero Arianna e Nandi perché hanno partecipato solo all’ultimo seminario, quando quasi tutti gli altri erano ritornati a casa). La maggior parte delle persone non ci conoscevamo prima dell’inizio della settimana: il fatto che, dopo poche ore e per tutti i giorni, sia scattata una fitta relazione di scambi, di allegria, di inviti reciproci a cena o a pranzo, di partecipazione collettiva a feste rurali… ha costituito un piccolo, delizioso, ‘miracolo’. Su cui ci siamo interrogati a vicenda, su input di Luigi: come è possibile che ci sia tanta bella gente concentrata in un punto della Terra? Una delle tante possibili risposte su cui concordavamo: chi ama la sofìa, tende ad amare gli altri amanti.
Sapete già (anche dal resoconto sintetico e incisivo che ne ha fatto Bruno Vergani sul suo blog: www.brunovergani.it) che abbiamo riflettuto su cosa intendere per ‘politica’, per ‘etica’ e per i nessi - auspicati o contestati – fra l’una e l’altra. Sul sito www.vacanzefilosofiche.it troverete fra qualche giorno un po’ dei materiali ‘didattici’ che ci sono serviti per base di partenza delle conversazioni.
Ciò che non riesco a descrivere è qualcosa di impalpabile: il registro esistenziale in cui questi seminari si sono svolti. Essi, infatti, si sono avvicinati molto a quella ardua linea di mediazione fra due possibili atmosfere (entrambe insufficienti e problematiche): il clima cerebrale dei convegni universitari e scolastici, da una parte; l’emotività incontrollata dei gruppi di auto-aiuto, dall’altra. A uguale distanza dalle due opposte derive, i partecipanti si sono - ci siamo – messi in gioco con tutto il peso delle nostre storie personali, delle nostre sofferenze biografiche, dei nostri interrogativi sinceri: ma anche quando si è pianto o si è riso, non si è mai persa l’autenticità del timbro.
Non penso che una miscela simile (di atteggiamenti nei confronti della vita, di psicologie, di luoghi, di relazioni) si possa riprodurre per il futuro. “Ostuni 2” sarà anche, almeno per alcuni anni, il secondo e ultimo esperimento in Puglia: ognuno lo porterà nel cuore come quei rari momenti dell’esistenza in cui sembra che un altro modo di stare al mondo è possibile.
Chi non saprà resistere alla nostalgia sa già che ci attendono altri appuntamenti. Con qualcuno siamo già d’accordo per la seconda edizione di questa estate (a Pescasseroli, dal 21 al 27 agosto, per “Filosofia e sessualità”) e per la Prima festa nazionale della Filosofia di strada (a Amandola da venerdì 31 aogosto a domenica 2 settembre).

Augusto

mercoledì 18 luglio 2012

Sulla nuova edizione del Festino di S. Rosalia a Palermo


“Repubblica – Palermo”
18.7.2012

IL FESTINO SEGNA IL RITORNO DI UNA “RELIGIONE CIVILE”
Il festino 2012 è stato un successo che sarà ricordato per molti anni. Quale la chiave – forse non a tutti palese – di questa impresa? Da una parte l’uomo post-moderno resta un animale religioso. Ha bisogno di avvertirsi re-ligato, legato-a, qualcuno o qualcosa che dia senso al suo breve esistere terreno. Per secoli questo bisogno di legami è stato soddisfatto dal rapporto (vero o presunto) con la trascendenza (di molti dei o di un solo Dio): ma la secolarizzazione, dettata anche dal rifiuto della società istruita di vedersi strumentalizzare dagli apparati ecclesiastici, ha messo seriamente in crisi questa dimensione ‘verticale’ della religione. Che fare dunque? Arrendersi ad un atomismo individualistico che esalta il privato rispetto al pubblico, ma dimentica che ‘privato’ significa anche esser privo di relazioni con un Tutto di cui sentirsi parte? Oppure, al contrario, fare finta di nulla e riproporre le devozioni di origini medievali con tutti i rischi di feticismo e di idolatria?
Gli ideatori di questa edizione hanno saputo, starei per dire con un colpo di genio, dare una risposta al dilemma. Hanno provato a re-inventare una religione civile che, senza essere in polemica o in alternativa con la religione cattolica, possa comunque trovare consensi anche nel mondo del disincanto ‘laico’. L’icona della Santuzza come un simbolo di femminilità che, evitando la provocazione sessuale e la mercificazione del corpo, non nasconde le sue forme: come sintesi di gradevolezza estetica e di protezione materna. E soprattutto quel mettere sul carro, intorno al carro e sotto il carro, alcuni protagonisti della Palermo migliore, che resiste ai pregiudizi razziali e al dominio mafioso, quasi a indicare nuovi modelli di santità capace di parlare non solo ai frequentatori di templi e sacrestie, ma anche alle donne e agli uomini del servizio umanitario e della donazione altruistica.
L’osservatore partecipe di questo piccolo miracolo non può fare a meno di nutrire una doppia speranza. Che anche in futuro le autorità civili, lungi dall’addormentarsi sugli allori, continuino a stimolare la creatività degli artisti affinché sappiano arricchire di tematiche e personaggi la struttura formale della festa: sarebbe davvero triste se, liberatisi dagli stereotipi del passato, si dovessero trasformare i nuovi simboli in stereotipi retorici. La vita scorre: e ci sono molti modi (non tutti rappresentati in questo festino) di lavorare per rendere vivibile la città.
Un altro auspicio riguarda la chiesa cattolica che è in Palermo. Che possa evitare di vivere trionfalisticamente questo momento, quasi una rivincita del sacro sul profano. Le trecentomila persone presenti a questa edizione non sono trecentomila devoti nel senso canonico, tradizionale, del termine: ognuno di loro ha un proprio modo di interpretare la sua partecipazione e sarebbe bello che tutti i pastori imparessero a rispettare, senza imporre etichette, tale pluralità di sentimenti. Di recente, proprio da Roma, è arrivato con la beatificazione di don Pino Puglisi un segnale interessante: il prete è chiamato a vivere il proprio ministero sintonizzandosi con i bisogni e i progetti della gente. Il credente non è invitato a vivere in maniera straordinaria, a prendere le distanze dai concittadini, bensì a condividerne le sofferenze e il desiderio di riscatto. La chiesa, più che madre e maestra dell’umanità, deve imparare a concepirsi come sorella e compagna: una parte - forse minoritaria – della società, alla quale apportare il proprio contributo di autenticità e di impegno nell’ottica di un bene ‘comune’ che, in quanto tale, non può essere monopolio di nessuno.

Augusto Cavadi

“L’onda”: un film che fa riflettere non solo in Germania


“Repubblica - Palermo”
sabato 18 luglio 2009

Il dissenso come gesto per combattere la mafia

Perché presso la pizzeria Impastato, a Cinisi, i ragazzi di “Libera” hanno proiettato la sera di mercoledì 15 il film del regista tedesco Dennis Ganzel L’onda, tratto da un romanzo omonimo di Todd Strasser? Che c’entra l’analisi dei meccanismi socio-psicologici che portano un gruppo a identificarsi in un leader - anzi, in un führer - con il fenomeno dell’aggregazione mafiosa? Apparentemente l’accostamento può sembrare forzato, ma la conversazione pubblica (il ‘dibattito’ di morettiana memoria…) che è seguita alla proiezione ha mostrato molte somiglianze.
Una delle tesi centrali - e più acute - del film è che non ogni forma di autocrazia, di dittatura, di ingreggiamento al seguito di un “capo dei capi” deriva da crisi economiche o disagi sociali: può capitare che a vendere la propria libertà per omologarsi in un insieme ‘totale’ siano soggetti benestanti, coccolati, privilegiati addirittura. Soggetti a cui non manca niente tranne un senso alla vita: che non sono rilevanti per nessuno e per i quali niente (nessuna idea, nessun valore, nessun principio) è davvero rilevante. Quando a questi individui, atomizzati e dispersi, si offre uno straccio di ideale, si sentono finalmente ‘riconosciuti’ e, perciò, disposti a spogliarsi di tutto pur di non essere ricacciati nell’anonimato e nel grigiore della quotidianità. Ma il sistema di potere mafioso (se lo guardiamo, per quanto possibile, con occhi distaccati) non è anche un’offerta di solidarietà e di progettualità? Una solidarietà ‘corta’ e perversa, una progettualità miope e autolesionistica: certo. Comunque una risposta errata ad una domanda vera; un modo catastrofico di riempire dei vuoti effettivi. Il giudice Scarpinato ha riferito più di una volta la dichiarazione di un giovane killer di mafia sulle ragioni originarie della sua affiliazione: “Ero nuddu miscatu cu’ nenti” (Ero nessuno impastato con niente).

Ma se questo è vero, la strategia antimafia deve partire un po’ più da lontano di quanto solitamente le agenzie educative non si illudano. Non basta denunziare, stigmatizzare, denigrare lo stile di vita mafioso e sottolinearne i danni per chi lo abbraccia oltre che per quanti lo subiscono dall’esterno. Non bastano i comizi, le prediche, le conferenze, le manifestazioni. Intanto bisogna rischiare una strada più ardua: contagiare la libertà di pensare con la propria testa. A genitori, insegnanti, educatori non tocca “manipolare le coscienze a fin di bene”, bensì rischiare il dissenso, il rifiuto, la disobbedienza. Purché chi dissenta mostri di usare il cervello e di portare argomenti. Poi - ed è compito ancora più arduo - offrire luoghi di socializzazione, ragioni per incontrarsi e cooperare: prospettive costruttive. “Prevenzione” è uno dei vocaboli pedagogicamente più infelici: l’unica modalità efficace per scongiurare le caricature e le contraffazioni è offrire modelli autentici. Purtroppo nessuno può dare ciò che non possiede né vive: una generazione di adulti che non si impegna in nulla di affascinante e di coinvolgente non ha nulla di affascinante e di coinvolgente da proporre. La questione giovanile è una falsa questione: serve solo a mascherare il fallimento di una generazione ormai in procinto di invecchiare che ha saputo solo (nel migliore dei casi) mettere da parte un po’ di soldi e salvare la facciata di perbenismo, ma ha lasciato che i sogni della propria gioventù venissero stritolati dai bizantinismi dei partiti di massa (sin quando hanno resistito) e dall’arrivismo corruttore dei propugnatori della post-politica.
Che questo deserto di progetti per cui spendersi venga riempito da mafiosi o da politici reazionari o dall’intreccio neppure tanto segreto di entrambi è dunque una conclusione tanto amara quanto prevedibile. Che un regista tedesco ce lo abbia saputo ricordare con linguaggio asciutto ed efficace non fa che accrescere la responsabilità di quanti continueremo a fare finta di non vedere e di non capire.

Augusto Cavadi

lunedì 16 luglio 2012

I leghisti visti dal Sud - recensione di Salvatore Mugno


«Luoghi di Sicilia» , maggio-agosto 2012, n. 103-106
I leghisti visti dal Sud
In un mondo in cui ciascuno ha le proprie “divinità”, il teologo e consulente filosofico Augusto Cavadi ha voluto fare una ricognizione, ampia e ricca, intorno a Il Dio dei leghisti (Milano, Edizioni San Paolo, 2012), mettendo sul campo molti argomenti che, per converso, interrogano (o dovrebbero interrogare) anche gli “antagonisti” del Sud d’Italia, anch’essi “cattolici” ma spesso “adoratori” di diversi numi. L’intrigante e originale saggio dello studioso palermitano (che ha visto la luce prima dei recenti scandali politico-affaristici) origina proprio da un suo precedente libro, Il Dio dei mafiosi (2009), in cui si analizza un’altrettanto bizzarra e controversa “religiosità”. Il primo dei sei capitoli del volume è dedicato, infatti, a un raffronto serrato tra “Mafia e Lega: affinità e differenze”. L’autore ne rintraccia a iosa, valutando sempre con sobrietà e senza intenti denigratori le tante esternazioni e (talvolta) “sparate” dei leader del Carroccio. Chi non ricorda questa “boutade” di Umberto Bossi? “Siamo veloci di mano e di pallottole che da noi costano trecento lire. Se un magistrato vuole coinvolgere la Lega, sappia che la sua vita vale questa cifra” (“Il Giornale”, 24 settembre 1993). Cavadi rileva e sottolinea, ad esempio, che talune formule di adesione da parte del “Giovane Padano” alla Lega Nord sembrano riecheggiare, nei richiami al “sangue” e all’”onore”, ben altre organizzazioni. Al pari di certi personaggi verghiani (e, perciò, di molti Siciliani), d’altra parte, l’assillo dei “figli del Po” sembra essere “la roba”, soprattutto la paura di esserne depredati. Parafrasando, ironicamente, l’articolo 416 bis del codice penale (che prevede il reato di associazione di tipo mafioso), Cavadi, perviene a un profilo del “popolo bossiano”: “Un’associazione di cittadini che mirano all’arricchimento e al potere grazie a un vasto consenso sociale ottenuto mediante sia la diffusione del proprio codice culturale sia la minaccia dell’uso mirato della violenza”. Le argomentazioni del saggista si appoggiano, ovviamente, alla copiosa bibliografia che si occupata del fenomeno leghista in tutti i suoi aspetti. Si avvia così egli, capitolo dopo capitolo, verso il “cuore” della trattazione, cioè la “teologia del Carroccio”, passando dal “codice culturale leghista” e dalle sue idee guida: dall’intangibilità delle proprie radici al razzismo regionalistico, dal familismo amorale alla omofobia ossessiva e così via. A questo punto della ricerca, l’autore focalizza le “concezioni teologiche” della Lega Nord, senza mai dimenticare quanto possa essere “burlone” e iperbolico un leghista. Il 10 settembre del 1996, Umberto Bossi, in una delle sue spiritosaggini, dichiarò :”Anche Dio è federalista: c’è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”. Ma, in realtà, la sua “visione” del divino, il leader padano, l’ha chiaramente espressa in un libro-intervista, scritto con Daniele Vimercati (Il vento del Nord, 1992): “Io ci credo, in Dio. Ma non è il Dio che ci raccontano al catechismo. È un Dio che sta ovunque, nell’acqua e nel fuoco, nell’aria che respiriamo. (…). Penso che il mio sia una specie di panteismo, ma non sento la necessità di approfondire gli aspetti dogmatici della religione”. Si tratta, in effetti, riconosce Cavadi, di un “panteismo naturalistico”, “un panteismo animistico, ilozoistico, pagano, comune all’infanzia dell’umanità come agli infanti della razza umana”. Qui, naturalmente, vengono poi in rilievo i celebri riti “dell’ampolla”, nei quali Bossi “solleva al cielo un contenitore con l’acqua del Po, prelevata alla sorgente del Monviso, destinata a essere versata nella laguna veneziana”. A fronte di questo “neo-paganesimo”, i leghisti sono anche “cattolici” e frequentano le parrocchie, ma vorrebbero “regionalizzarle”, “municipalizzarle”. Insomma, c’è una gran confusione nella “fede” leghista e il dibattito, che coinvolge anche sacerdoti e vescovi, non è che all’inizio.
Salvatore Mugno

martedì 10 luglio 2012

LA PRIMA FESTA NAZIONALE DELLA FILOSOFIA PER NON FILOSOFI!


Poiché alcuni di voi stanno definendo il proprio calendario estivo, mi pare opportuno anticipare sin da oggi il programma orientativo della Prima festa nazionale della “filosofia per non…filosofi” che sto organizzando, grazie alla splendida cooperativa Wega di Amandola (Fermo), per il week-end da venerdì 31 agosto a domenica 2 settembre.
Qui di seguito la bozza (soggetta a piccole, eventuali modifiche):

PRIMA FILO-FEST NAZIONALE
(Amandola – Smeriglio: 31 agosto – 1 e 2 settembre 2012)

“METTERE IN GIOCO LA PROPRIA UMANITA’ “

La prima festa nazionale della filosofia-in-pratica per non…filosofi

Tre giorni di pratiche filosofiche per adulti, giovani e bambini

Partecipazione gratuita: la filosofia si fa solo… Amandola

Venerdì 31 Agosto
ore 16 – 18: arrivi, sistemazioni, prenotazioni per i singoli eventi
0re 18.30 – 21: aperitivo (rinforzato) filosofico sotto le stelle con passeggiata intorno al lago di San Ruffino (Amandola) e accompagnamento di musica celtica da parte di un gruppo musicale. Appuntamento con Augusto Cavadi presso l’Osteria del lago S. Ruffino.
Ore 21,30: spettacolo teatrale a cura della compagnia Os Aridum a Smerillo: “Al femminile: la voce, il corpo e la parola”.

Sabato 1 settembre
ore 8,30 – 10,00: In vari agriturismi e b & b tipici si svolgeranno colazioni con filosofi (ad esempio: “Fare della propria vita un’opera d’arte?” con Davide Miccione; “Sono forse il custode di mio fratello?” con Stefano Zampieri; “La filosofia come cura?” con Moreno Montanari; “Anima versus corpo?” con Alberto Biuso)
ore 11 – 13: ad Amandola presso Auditorium Virgili:
“Per imparare a meditare è necessario diventare orientali?”
Conversazione in pubblico fra Neri Pollastri e Luigi Lombardi Vallauri
ore 15 – 18: Gazebo della Provincia di Fermo presso il Lago S. Ruffino (Amandola): Philosophy for children (pratica condotta da Alessandro Volpone); passeggiata con i pony intorno al lago; animazione con Rufino, artista di strada; merenda per i bimbi
ore 16 – 17: a Smerillo in un cinema all’aperto “Io e il cosmo”, meditazione laica con Luigi Lombardi Vallauri
ore 18 – 19.30: a Smerillo in un cinema all’aperto
“Si può essere filosofi e cristiani?”
Un dialogo fra Roberto Mancini e Orlando Franceschelli
Ore 21,30: spettacolo teatrale a cura della compagnia Os Aridum a Amandola: “Al femminile: la voce, il corpo e la parola”.

Domenica 2 Settembre
ore 8,30 – 10,00: In vari agriturismi e b & b tipici si svolgeranno prime colazioni con filosofi (ad esempio: “La felicità: che cosa sarebbe, se fosse possibile?” con Norma Romano; “L’amore e le sue trappole” con Giorgio Giacometti; “Come si svolge una consulenza filosofica personalizzata?” con Stefano Zampieri)
Ore 11-13: Ad Amandola, presso Auditorium Virgili, Filo-libro: Neri Pollastri presenta il libro suo, e di Paolo Cervari, Filosofia nelle aziende
Ore 11-13: Ad Amandola, nella piazza Alta (Bambinopoli), Philosophy for children (pratica condotta da Alessandro Volpone)
Ore 11,45 - 13: Al Santuario del Lambro “Violenza e nonviolenza: echi dalla Bibbia” di Luca Spegne

domenica 8 luglio 2012

Se i turisti non tornano in Sicilia è forse anche colpa nostra


In neretto le righe che, per ragioni di spazio, sono state eliminate nell’edizione cartacea.

“Repubblica – Palermo”
8.7.2012

SE I TURISTI NON TORNANO E’ ANCHE COLPA NOSTRA

Secondo le dichiarazioni degli addetti ai lavori, in Sicilia soffre persino il comparto turistico. In una fase critica si affievolisce anche il flusso della bombola d’ossigeno con cui, di solito, compensiamo altre perdite (di profitti e di posti di lavoro). E questo nelle stesse ore in cui apprendiamo che la magistratura avanza seri, e circostanziati, dubbi su sprechi regionali proprio nel campo della comunicazione e della promozione dell’immagine dell’isola. Ma perché questo calo di presenze e di introiti?
Ci sono certamente delle ragioni di contesto nazionale e internazionale. Quando il ceto medio è rosicchiato dall’emergenza finanziaria, e fondatamente preoccupato di perdere nell’immediato futuro anche il necessario per vivere, taglia – per ragioni emotive oltre che contabili – per prime le spese per vacanze. Ci sono, anzi prosperano ancor di più, i ricconi a cui spetta il privilegio di guardare le disgrazie degli altri dall’alto di uno yacht o di un jet privato: ma questi personaggi lambiscono per poche ore qualche porticciolo turistico, non concentrano certo le intere vacanze dalle nostre parti.
Se invece parliamo con quelle persone ‘normali’ che hanno solo dieci o quindici giorni di ferie e le possono trascorrere esclusivamente in una regione, senza scorrazzare per il Mediterraneo, apprendiamo che cosa li distolga dal tornare in un’isola che pure li incanta per bellezze naturali e artistiche. All’inizio della conversazione è difficile che il turista sappia verbalizzare lucidamente cosa lo infastidisca tanto. Procede, piuttosto, impressionisticamente: non puoi prevedere il comportamento dell’automobilista alla rotonda perché non è per nulla certo che rispetti lo stop; non puoi attraversare la strada sulle strisce pedonali con serenità perché vetture e ‘motorini’ ti sfrecciano, a un decimetro dal naso o dalle spalle, come se fossi invisibile; non puoi camminare in bicicletta (lo sanno bene le comitive dell’Europa continentale che amano organizzarsi con questo mezzo di locomozione ecologico e salutare) perché le piste ciclabili o non esistono o, là dove sono tracciate, servono per posteggiarci le automobili o per collocarci i contenitori della spazzatura.
Poi, dai fastidi del traffico (di benignana memoria), riflettendo un po’ meglio, passano a una sensazione uditiva a cui non avevano nell’immediato fatto caso: Palermo, Catania, Trapani sono città rumorose. Il livello dell’inquinamento acustico è elevato, costante, sfibrante. Clacson e altoparlanti di venditori ambulanti di giorno, musiche belle e orribili a tutte le ore della notte e senza limiti topografici: in centro, in periferia, nei borghi marini. Come se gli occhi e le orecchie non avessero registrato fastidi a sufficienza, è anche l’odorato che – silenziosamente e subliminarmente – recepisce stimoli sgradevoli. Accanto al profumo intenso di una pianta spontanea t’imbatti nel fetore, altrettanto penetrante, di un sacchetto di rifiuti abbandonati o della cacca tiepida di un quadrupede accompagnato a passeggio.
I cittadini siamo dunque i primi responsabili della contraddittoria accoglienza dei visitatori, ma le amministrazioni non sono abbastanza impegnate nell’attivare una trasformazione durevole. Da un decennio, ad esempio, a Palermo è stato possibile tutto: occupare abusivamente marciapiedi, gettare immondizia dai balconi, elevare vere e proprie discariche abusive. (Per non parlare proprio di quegli operatori turistici che non rilasciano ricevute fiscali, che si allacciano abusivamente alla rete elettrica, che non pagano la tassa sui rifiuti e non fanno raccolta differenziata, che assumono in nero personale poco qualificato a rapportarsi con gentilezza e dignità professionale ai clienti). Qualcuno ha mai visto elevare una sola multa per chi si libera, con gesto disinvolto, del pacchetto vuoto di sigarette o per chi supera una lunga fila di automobili servendosi della corsia d’emergenza? Tra le prime decisioni di Orlando c’è stata la sostituzione del comandante dei vigili urbani. Bene. Attendiamo, tifando per i caschi bianchi, che in città ritorni un minimo accettabile di legalità (possibilmente anche grazie al buon esempio di carabinieri e poliziotti che non sostino in doppia fila a Romagnolo o all’Arenella per acquistare il sacrosanto cono gelato d’ordinanza).
Un’altra battaglia decisiva sarà la chiusura alle automobili di vaste aree pedonali. A Palermo, sinora, non siamo riusciti a respirare a pieni polmoni neppure nel breve tratto di via Principe di Belmonte o nella piazzetta di Mondello: ma altrove non sempre si sta meglio. Non è concesso al visitatore di raggiungere il Duomo di Ragusa, percorrendo le deliziose stradine di Ibla, senza essere tallonato da automobili dall’alba al tramonto; né ripercorrere le orme dei Malavoglia ad Acitrezza senza rischiare di essere arrotato lungo la stradina che costeggia i faraglioni (pur in presenza, a poche decine di metri, di uno stradale che potrebbe costituire un’ottima alternativa per i motoveicoli). Guardiamoci negli occhi, cari concittadini: dobbiamo stupirci, in questo scenario d’insieme, che il numero dei turisti cali o piuttosto che – nonostante tutto - ne arrivino ancora? Se i nostri amministratori avessero più voglia di trascorrere le loro ferie in Germania o in Austria, in Olanda o in Belgio, capirebbero quale sia il primo spread di cui preoccuparsi. E a cui porre, urgentemente, rimedio.

Augusto Cavadi

venerdì 6 luglio 2012

La filosofia ci farà liberi? di Francesca Tremoglie


“Centonove”, 6.7.2012

Il manuale di Cavadi per acquisire “consapevolezza di sé”

VACANZE FILOSOFICHE

La filosofia dalla speculazione astratta alla pratica per imparare la “leggerezza” dell’essere. In Puglia e Abruzzo due appuntamenti da non perdere.

Chi è il filosofo? Colui che riesce ad inventare concezioni del mondo tanto originali da ottenere un posto privilegiato nei manuali di filosofia? Sì, ma non solo. Colui che possiede una conoscenza ampia delle dottrine filosofiche già elaborate nei secoli precedenti? Anche, ma non solo. Colui che cerca, attraverso lo studio, di acquisire una maggiore consapevolezza di sé, fondamentale nel rapporto con gli altri? Il tentativo di illustrare questa “terza dimensione” del filosofare costituisce il filo conduttore di uno dei recenti scritti di Augusto Cavadi: La filosofia ci farà liberi? Una interpretazione delle pratiche filosofiche (testo attualmente disponibile esclusivamente in economico formato elettronico presso la www.bibienne.com editrice).
Lo si può intendere come viaggio all’insegna del desiderio di definire e di descrivere un nuovo modo di intendere la filosofia: “filosofia-in-pratica”, “filosofia-in- dialogo”, filosofia come stile di vita consapevole e coerente. Il libro fornisce una descrizione del ruolo chiave del filosofo, passa in rassegna critiche e consensi alla pratica filosofica e fornisce validi strumenti di approfondimento. Testo sicuramente fruibile da un pubblico vario in grado di allontanarsi dai pregiudizi spesso legati ad una disciplina considerata ostica e difficilmente comprensibile come la filosofia, capace di incuriosire attraverso esempi pratici e la scelta originale di “schede” conclusive che mettono a fuoco alcuni punti fondamentali della pratica filosofica intesa dallo stesso autore come “servizio all’intelligenza di persone, famiglie, aziende e gruppi disposti a cercare da sé le risposte più adatte alle sfide di senso quotidiano”.
Chi volesse sperimentare in prima persona di che si tratta, potrebbe nelle prossime settimane partecipare ad una delle due edizioni estive delle “vacanze filosofiche per non…filosofi” (per i dettagli tecnici cfr. www.vacanzefilosofiche.it), previste una a Ostuni, in Puglia, dal 17 al 24 luglio (sul tema “La bellezza della politica”) e l’altra a Pescasseroli, in Abruzzo, dal 21 al 28 agosto (sul tema “Sessualità e filosofia”).

Francesca Tremoglie

giovedì 5 luglio 2012

LEGHISTI E MAFIOSI CON LO STESSO DIO


“Centonove”
6.4.2012

LEGHISTI E MAFIOSI CON LO STESSO DIO

A compimento del centocinquantesimo anno dell’unità d’Italia, ogni italiano desideroso di interrogarsi in modo adulto sul rapporto tra Lega Nord e cattolicesimo dovrebbe avere sul comodino l’ultimo saggio di Augusto Cavadi: Il Dio dei leghisti (Edizioni San Paolo, Milano, 2012, € 14). In esso l’autore conferma in pieno il suo carisma: quello di coniugare la sostanziale bontà dei contenuti e la loro felice divulgazione. Il testo ci offre infatti un mix ben assortito di considerazioni incisive, calibrate e ben documentate, sul piatto invitante di un linguaggio chiaro e scorrevole, a dimostrazione che non è indispensabile né opportuno trattare in modo criptico e ultratecnico un tema delicato quale il rapporto tra politica e teologia.
Come suggerisce il titolo, il saggio ci propone una panoramica sintetica ma assai efficace dei fondamenti antropologici del partito di Bossi e ci spiega come tali tratti abbiano potuto “sposarsi” con una certa teologia e con talune scelte etico-pastorali della Chiesa cattolica italiana. Il testo, nei suoi capitoli iniziali, tratteggia le caratteristiche fondamentali del codice culturale leghista, offrendoci spunti coloriti e illuminanti sul linguaggio e le azioni della Lega Nord.
L’autore non manca anche di tracciare alcune inquietanti affinità della Lega col fenomeno mafioso, già analizzato nei suoi rapporti con il cattolicesimo nel saggio Il Dio dei mafiosi (San Paolo, Milano, 2009), dove Cavadi afferma la necessità di “una teologia che riconduce al progetto originario di Dio l’intangibilità della dignità di ogni persona, la sua irriducibilità a qualsiasi forma di schiavitù e la sua intrinseca vocazione alla fraternità solidale”: sola teologia capace di costituire “una riserva critica rispetto alla teologia dei mafiosi, anzi a qualsiasi teologia anche solo analogamente mafiosa”.
Tale illuminante concetto, ne Il Dio dei leghisti, è stato ripreso e ampliato. E, sulla base di questa concezione teologica, Cavadi afferma che “Se tutti i membri della Chiesa cattolica, Vangelo alla mano, sostenessero che l’epicentro è l’agape divina, la tenerezza del Padre verso i deboli (…) la resistenza caparbia a ogni genere di violenza interpersonale e collettiva, l’equa distribuzione dei beni materiali … i partiti politici che enfatizzano l’egoismo individuale e di gruppo (…) si guarderebbero bene dal chiedere la compagnia della Chiesa.”
Cosa ha portato allora a consumare il matrimonio di interesse tra la il partito di Bossi e una fetta consistente della Chiesa cattolica italiana? Il fatto che, al di là del folclore dei riti di rifondazione della nazione padana, la Lega ha manipolato alcuni valori cristiani come instrumentum regni, strumento di potere per cercare il consenso della Chiesa; mentre quest’ultima ha anteposto la tutela di alcuni particolari principi (quali, ad esempio, il “no” all’aborto e all’eutanasia e la tutela della famiglia fondata sul matrimonio, con il rifiuto del riconoscimento delle coppie di fatto e delle unioni omosessuali) rispetto a principi essenziali ed indiscutibili quali le beatitudini evangeliche.
Ecco che allora Augusto Cavadi ci offre una disamina su quali valori possano essere considerati realmente “negoziabili” e quali no e scomoda Karl Ranher che invita a mettere su piani diversi, ad esempio, la fede nella grazia salvifica di Dio e il considerare l’Unzione degli Infermi il settimo sacramento. Cavadi riporta infine anche le riflessioni del teologo palermitano don Cosimo Scordato, che ci aiutano a scoprire proprio nella “laicità” insita nella cattolicità l’antidoto più efficace verso le derive egoistiche e xenofobe del Bossi-pensiero: “Mentre la cattolicità, come è intesa oggi, tende a separare i cattolici dagli altri, a me sembra che originariamente essa è il nuovo spazio donato da Dio a tutti gli uomini al di là di ogni razza, lingua e appartenenza religiosa. (…) Diventiamo cattolici quanto più siamo in grado di assumere dentro la nostra esperienza tutta la ricchezza che ci viene degli altri.”
Altro che battaglie per collocare forzatamente il Crocefisso anche nelle classi che vedono la presenza di islamici, altro che chiusura identitaria e divieto di manifestazioni di culto diverse dalla cristiano-cattolica: la riscoperta del Dio agape, della spiritualità laica, della fede intelligente e persino della testimonianza che arriva al martirio, suggerisce l’autore nell’ultimo capitolo del libro, chiariscono in modo inequivocabile la distanza abissale tra la Lega e un Dio autenticamente cattolico e quindi planetario, che non si fa catturare e strumentalizzare da alcun partito politico.

Maria D’Asaro

martedì 3 luglio 2012

L’eclissi della politica: verità amara o menzogna propagandistica?


“Madrugada”, anno 22, n° 85
Marzo 2012

RUBRICA :
POLITICA

1. Eclissi della politica: amara verità o inganno propagandistico?

Fra i paradossi che gli storici del futuro si troveranno a dover affrontare studiando l’Italia di oggi vi è, certamente, un dato di fatto: dal 1992 una leva di ‘esterni’ al ceto politico è arrivata al potere, sostituendosi per almeno un ventennio ai ‘vecchi’ politici, proprio in nome della critica alla politica professionale. Che si fosse creata, negli anni del Caf (Craxi – Andreotti – Forlani), una nomenclatura che viveva di politica, non per la politica, era vero. Che si dovesse cambiare stile e – sulla scia di quanto avveniva nelle città greche dell’antichità e di quanto avviene in altri contesti contemporanei – procedere verso una società in cui il politico abbia una propria professione e solo per periodi determinati dell’esistenza si dedichi a servire il bene comune, era altrettanto vero. I risultati però sono stati ben diversi da quanto ufficialmente auspicato: magistrati, imprenditori, giornalisti, professori, operatori del mondo del volontariato, elettrotecnici e soubrette, odontotecnici e steward…hanno sostituito i padroni dei partiti politici spazzati via da Mani pulite, ma si sono abbarbicati alle poltrone con tenacia non certo minore rispetto al passato.
Tutto come prima, dunque? Per certi versi no. Bisogna riconoscere che, sino ad oggi, il quadro complessivo è peggiorato.
Innanzitutto è peggiorato dal punto di vista della mentalità. La (legittima) critica alla politica ‘cattiva’ è diventata (illegittima) critica tout court alla politica.
Un giochetto non nuovo nella storia italiana. Anche il ventennio fascista si aprì all’insegna di un “movimento” che non era partito, bensì “antipartito”; che non professava nessuna delle ideologie (liberalismo e socialismo) ormai “superate”, bensì una nuova “idealità” duttile sino al camaleontismo più opportunista; che si basava sull’evidenza del consenso popolare, guardandosi dal verificarne la persistenza mediante libere elezioni; che si vantava di promuovere i valori laici della tradizione romana imperiale e erigeva nelle università cattedre di “mistica fascista”. Insomma: quando qualcuno celebra i funerali della politica, lo fa non per seppellirla (impresa poco auspicabile, ancor meno possibile), ma per sostituirla con una propria arbitraria occupazione delle istituzioni pubbliche. Lo spiegava in una celebre lettera del 1944 Giacomo Ulivi, ragazzo di 19 anni che ha pagato con la vita di resistente al nazifascismo gli errori della generazione a lui precedente e la faciloneria con cui erano state affidate a pochi prepotenti le chiavi della casa comune: ci hanno fregato insegnandoci “la ‘sporcizia’ della politica” , più precisamente inoculandoci la doppia bugia che “la politica è un lavoro di ‘specialisti’ “ e che ognuno deve curarsi del proprio interesse privato, individuale.
Ma, rispetto all’inizio degli anni Novanta, la situazione sembra peggiorata anche dal punto di vista della organizzazione sociale della partecipazione politica. Nel corso della Prima Repubblica i notabili democristiani o socialisti o comunisti, per quanto potenti, avevano bisogno di tesserati che li rieleggessero ai vertici del partito, laddove i Berlusconi o i Bossi hanno eliminato persino l’apparenza del consenso democratico della base, in nome di un carisma individuale più indiscutibile che indiscusso, più imposto che meritato. In altri termini: sono stati smantellati i partiti politici (o cancellandoli del tutto o lasciandone in piedi solo lo scheletro formale). Bisognava invece - anzi, bisogna – rifondare i partiti accentuandone, non certo attenuandone, le garanzie di democrazia interna. Senza questa rifondazione, i partiti politici (prima e dopo il 1992) saranno condannati a restare - secondo la denunzia del politologo Duverger – una barriera, piuttosto che un ponte, fra le istituzioni e la società. La vita democratica è questione di carte etiche, statuti e regolamenti procedurali? E’ questione di ingegneria organizzativa in grado di sostituire l’articolazione territoriale per ‘sezioni’ e le forme di comunicazione cartacee mediante i fogli tradizionali? Senza dubbio, anche. Ma soprattutto è assicurata da un nuovo ethos pubblico che scardini, e ribalti, la tavola dei valori dominanti: che riabiliti i beni immateriali rispetto alle ricchezze materiali; la qualità della vita rispetto alle disponibilità finanziarie; la felicità duratura rispetto al vortice di piaceri sempre più eccitanti; il riconoscimento sincero del proprio valore rispetto al successo massmediatico; l’autenticità profetica rispetto al servilismo carrieristico; la interattività degli incontri fisici e degli scambi telematici rispetto alla dipendenza dalla trasmissione unilaterale televisiva . Un ethos pubblico che resterà nel libro dei sogni sino a quando le agenzie educative (famiglie, scuole, chiese, associazioni) non sapranno tradurre in pratica pedagogica diuturna: sia sul piano cognitivo (che ne è dell’educazione civica, ormai meno che cenerentola delle discipline curriculari? Che ne è dell’etica sociale nei corsi catechetici di preparazione alla prima comunione, alla cresima e al matrimonio?) sia sul piano della testimonianza storica (genitori e insegnanti, preti e dirigenti di associazioni rinunziano a qualsiasi credibilità nella misura in cui i loro consumi, le loro abitudini, le loro relazioni sono quasi totalmente omologhi a quel regime di sperpero, di inquinamento, di chiasso e di prepotenza che – a parole – condannano). Perché più cittadini, e soprattutto cittadini di stoffa migliore, dovrebbero dedicarsi al bene comune se la stragrande maggioranza non è disposta a seguire le vicende politiche, a protestare contro gli amministratori che abusano del potere, a encomiare e gratificare quanti invece svolgono con competenza e trasparenza la propria missione? La strada verso una riscoperta della politica è lunga e in salita: passa per la convinzione che un’esistenza ‘privata’ è più povera di un’esistenza spesa per “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato”. E’ privata, de-privata, della gioia di imprimere alla storia dell’umanità, sia pure per un breve segmento e in una minuscola mattonella del pianeta, l’orma della propria creatività e della propria operosità.

Augusto Cavadi

Partecipazione politica


“Macondo”, 86, giugno 2012

Rubrica: Politica (2)

2. PARTECIPAZIONE POLITICA

Rispetto alla generazione del ’68, i quarantenni e i ventenni di oggi sembrano abissalmente più lontani dalla partecipazione politica. Per quanto sia erroneo idealizzare il passato (ricordo benissimo che menefreghisti e militanti per opportunismo, fosse pure per darsi arie agli occhi delle ragazze, costituivano certamente la maggioranza statistica), non si può negare che la partecipazione alla vita politica attiva - al seguito delle bandiere di partiti e partitini – fosse incommensurabilmente più diffusa di oggi.
Tuttavia, per avere un quadro più realistico, occorre chiedersi se la partecipazione politica passi esclusivamente attraverso le organizzazioni partitiche. Qualora la risposta risultasse negativa, si dovrebbe tenere nel debito conto una nozione più ampia che comprenda, come manifestazione di impegno politico, la militanza in movimenti ambientalisti, associazioni pacifiste, centri sociali autogestiti, scuole di formazione etico-politica, organizzazioni non governative di cooperazione internazionale, coordinamenti antimafia e così via. A questo formicaio “lillipuziano” bisognerebbe aggiungere il numero di cittadini (difficilmente individuabili con i metodi sociologici e statistici) che, anche in seguito a delusioni cocenti sperimentate dopo aver preso parte attivamente a forme associative di vario genere, sono arrivati alla conclusione che il modo migliore - il modo più urgente e più efficace – di fare politica sia presidiare, con competenza e trasparenza, i luoghi del proprio lavoro (specie quando è un lavoro nelle istituzioni, alle dipendenze dello Stato). Penso a quelle migliaia di insegnanti, assistenti sociali, medici, preti, sindacalisti, magistrati, forze dell’ordine, giornalisti…che non hanno tempo - e spesso neppure voglia – di dedicarsi al volontariato sociale e politico perché concentrati, per stipendi in taluni casi risibili, a svolgere i propri compiti professionali senza badare all’orologio e, se necessario, neppure al portafoglio. Questa marea invisibile di gente comune che tiene duro - che “resiste, resiste, resiste” lontano dai riflettori e dai riconoscimenti pubblici - è ciò che spiega l’appararentemente inspiegabile: come mai un Paese fra i più corrotti dell’Occidente, nonostante un ventennio fra i più inquinati della sua storia repubblicana, non sia stato del tutto divorato da parassiti virulenti. Il male, per quanto violento, ha un limite: se divora tutti i beni – materiali e immateriali – possibili, resta senza alimenti e si autofagocita. Le loggie, le cosche, tutte le forme di associazione a delinquere hanno ancora qualcosa da addentare perché, mentre erano impegnate a corrodere, altri hanno coltivato le istituzioni, i servizi, le imprese pulite con il proprio sudore quotidiano e, se inevitabile, con il proprio sangue.
Pur considerando nell’alveo della partecipazione politica attivisti di partito, volontari del sociale e cittadini anonimamente fedeli ai ruoli istituzionali, resta vero - comunque – che la maggioranza statistica degli italiani, o forse degli occidentali, investe le migliori energie in un’ottica “idiota”: ovviamente non nel senso di poco furba, ingenua, bensì nel senso etimologico (greco) di “particolare”, “privato”, limitato al proprio ristretto orticello di casa. Le motivazioni soggettive, e soprattutto le modalità oggettive ed effettive, di questa partecipazione - già ora reale, ma insufficiente – vanno dunque potenziate. Rafforzate ed ampliate. Enfatizzate.
Un passaggio rilevante in questa lenta marcia dall’isolamento (che non è da confondere con solitudine) alla parteciapzione politica (che non è da confondere con la mobilitazione più o meno esibizionistica, più o meno aggressiva, più o meno tempestiva) è costituito – a mio avviso – dalla demistificazione di alcune illusioni ottiche che ci fanno scambiare per attività politica ciò che, nel migliore dei casi, ne costituisce solo una possibile premessa. Mi riferisco a ciò che significa, in concreto, informazione televisiva e comunicazione telematica. Ovviamente i due fenomeni non vanno identificati. Il primo attinge il piano della sola trasmissione unilaterale: da una parte c’è l’opinion leader che parla, che dibatte con i suoi pari o che monologa rivolto ai telespettatori (analogamente a ciò che avviene in radio con i radioascoltatori); dall’altra ci sono, appunto, spettatori e ascoltatori che, per quanto toccati o coinvolti emotivamente o agitati o indignati, restano comunque strutturalmente incapaci di vere e proprie reazioni. Dopo una trasmissione televisiva si ha la forte sensazione di aver partecipato a un momento politico intenso, ma – a ben riflettere – si è rimasti, oggettivamente ed effettualmente, passivi. Il giorno dopo i corridoi degli uffici, i bar e le sale d’attesa dei dentisti pullulano di commenti al dibattito televisivo della sera precedente: ma questa effervescenza, in quanto tale, lascia la polis così come la trova.
Diverse sono le possibilità che offre internet. Qui è possibile una qualche forma di interattività. Si può ascoltare, leggere, ricevere; ma anche parlare, scrivere, inviare. Tuttavia questa modalità interattiva rischia di incrementare più l’illusione della partecipazione politica che la partecipazione stessa. Raccogliere firme, creare gruppi di opinione, organizzare mobilitazioni sul web può avere un senso solo se tutto questo è preparatorio all’agire storico, non sostitutivo. Il virtuale è creativo se propedutico al reale, non se lo relega in una prospettiva lontana e, in ogni caso, facoltativa. Piazze telematiche sempre più affollate non sono un gran guadagno se causa di piazze materiali sempre più deserte. Ancor meno se causa di assemblee, seminari di studio, dibattiti dal vivo sempre più deserti. Non diciamo poi cosa sono se desertificano le urne elettorali…
Il cuore della questione, comunque, è nelle motivazioni all’impegno - o al disimpegno – politico. La storia in questo è maestra: la gente diventa protagonista quando è ricca di idee nuove e povera di pane. Noi veniamo da una lunga stagione di povertà d’idee e di abbondanza di cibo. Per non sappiamo quanto tempo, il cibo ha cominciato a scarseggiare. Sino a quando le idee resteranno scarse assisteremo a ribellismi sterili che sono solo la caricatura della partecipazione politica. Ma se allo stomaco vuoto si abbinerà una mente un po’ più nutrita di progetti, di desideri, di ipotesi di lavoro, forse tornerà per l’intero pianeta una fase di costruzione del nuovo. Perché non ci sono mille modi per dare senso alla vita (o scoprirlo): inventare nuove relazioni sociali, nuovi rapporti economici, nuove modalità di abitare la natura - insomma sperimentare nuove politiche – è uno di questi modi.

Augusto Cavadi

domenica 1 luglio 2012

Le religioni in Italia: una mappa orientativa


Da oggi in libreria il volume a più mani Un cantiere senza progetto. L’Italia delle religioni. Rapporto 2012, a cura di P. Naso e B. Salvarani, EMI, Bologna 2012, pp. 368, euro 18,00
(http://www.emi.it/schede/2065-7.html).
Qui di seguito il mio contributo (alle pp. 171 - 174):

Chiese cristiane e mafie

Sino agli anni Sessanta del XX secolo non si registra una presa di coscienza esplicita della chiesa cattolica e delle chiese protestanti sul fenomeno mafioso. Nel 1963 il pastore Pietro Valdo Panascia ruppe questa tradizione di silenzio con un manifesto di denuncia responsabilizzante dal titolo Iniziativa per il rispetto della vita affisso per le strade di Palermo dopo la strage di Ciaculli. La notizia arrivò in Vaticano da dove partì per l’arcivescovo della città – il cardinale Ernesto Ruffini – l’autorevole sollecitazione a intraprendere qualche iniziativa analoga. Il destinatario della sollecitazione della Segreteria di Stato rispose a giro di posta: “Conoscevo già il manifesto pubblicato dal Pastore valdese: iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima! A Palermo è stato giudicato un ridicolo tentativo di speculazione protestante. Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. E’ una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dall’Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali”. Poi, l’anno successivo, pubblicò una lettera pastorale per contrastare “una grave congiura per disonorare la Sicilia”, di cui individuava i tre maggiori responsabili: “la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci”. Sul primo dei tre fattori disonoranti, il presule attribuisce a”una propaganda spietata, mediante la stampa, la radio, la televisione” la responsabilità di “far credere in Italia e ali’Estero che di mafia è infetta largamente l’Isola, e che i Siciliani, in generale, sono mafiosi, giungendo così a denigrare una parte cospicua della nostra Patria, nonostante i grandi pregi che la rendono esimia nelle migliori manifestazioni dello spirito umano”. Il cardinale si esibisce anche in una sorta di excursus storico: 
”Prima del 1860 sembra che nessuno parlasse mai di mafia” . Poi si usò il vocabolo per designare i partigiani filo- garibaldini, infine “assunse il valore attuale di associazione per delinquere”. Quindi egli detta le linee di ogni futuro sicilianismo giustificazionista, non solo ecclesiastico.
In primis: “la mafia è sempre stata costituita da una sparuta minoranza”. Inoltre: “se è vero che il nome di mafia è locale, ossia proprio della Sicilia, è pur vero che la realtà che ne costituisce il significato esiste un po’ ovunque e forse con peggiore accentuazione. Per non rifarmi a vecchie date, chiunque abbia letto anche di recente i giornali ha potuto notare - non di rado con somma indignazione e forte deplorazione - delitti inqualificabili commessi altrove, in Europa e fuori, da bande perfettamente organizzate. Quelle città e quelle Nazioni hanno il vantaggio di potere isolare le loro nefandezze, non avendo un nome storico che le unisca, ma non per questo giustizia e verità permettono che si faccia apparire il popolo di Sicilia più macchiato delle altre genti” .
Ora: che i mafiosi costituiscano una minoranza statistica dei siciliani (5.000 uomini d’onore su 5.000.000 di abitanti: l’uno per mille!) era vero negli anni Sessanta del secolo scorso ed è vero oggi. Ma la questione grave - che né Ruffini né la Chiesa cattolica né la quasi totalità del mondo intellettuale e politico anche ‘laico’ hanno compreso – è che la mafia non è solo una cosca (o, meglio, un grappolo di cosche), bensì un sistema di potere. Quel nucleo duro di “uomini d’onore” può contare su una rete molto più estesa di relazioni sociali, di clientele, di scambi di favori, di connivenze, di protezioni politiche: secondo gli attendibili calcoli di Tommaso Buscetta (uno dei “collaboratori di giustizia” più perniciosi per il muro d’omertà) si tratta di circa 1.000.000 di siciliani (un quinto della popolazione!). Con queste considerazioni basate su dati oggettivi, il teorema-Ruffini si sgretola completamente: i mafiosi non sono mosche bianche su una torta innocente, ma una consistente minoranza: E i siciliani, che certamente non sono in blocco mafiosi - e che anzi hanno dato alla lotta alla mafia, dal 1860 a oggi, un tributo altissimo di idee e di sangue -, portano la responsabilità storica di non essersi liberati (con le armi della cultura, dell’etica, della pedagogia, della politica e dell’economia pulita) da questo tumore infettante. E non certo perché le “nefandezze” dei mafiosi, a differenza dei crimini nel resto del mondo, hanno “un nome storico che le unisca”! Completando un’immagine cara a Giovanni Falcone, si potrebbe dire che la Sicilia è un’arena in cui il toro-mafia (1.000.000 di criminali e di complici) si scontra con il torero-antimafia (1.000.000 di cittadini eroici e di sostenitori attivi): ma le sorti della lunga guerra saranno decise dai 3.000.000 di spettatori che assistono dalle tribune facendo il tifo ora per il toro ora per il torero, senza decidersi di scendere nell’arena per l’uno o per l’altro .
In questo quadro, dove sono i cristiani di tutte le chiese? Solo pochi sono davvero compromessi con il sistema di potere mafioso. Altrettanto pochi sono schierati - senza ‘se’ e senza ‘ma’, concretamente e quotidianamente – contro il dominio criminale: La stragrande maggioranza dei cristiani, senza nessuna differenza significativa fra le diverse confessioni (e temo che il fenomeno si riproduca anche nelle comunità religiose di altri credi che si vanno impiantando nel Meridione italiano: dagli islamici agli induisti), si trova là dove si trova la stragrande maggioranza dei siciliani: in un’illusoria no man’s land (né con la mafia né contro la mafia) che costituisce la più solida garanzia di permanenza per i mafiosi e per i loro alleati.
Da questa neutralità apparente - che è però complicità sostanziale – le chiese cristiane potranno uscire non solo assecondando i processi evolutivi dei settori sociali più informati e meno compromessi (vedi i giovani di “Addiopizzo”, gli imprenditori di “Liberofuturo”, i cittadini di “Liberiprofessionisti”), ma anche rivedendo le basi della propria teologia e della propria pratica spirituale. Sino a quando il Dio dei cristiani sarà un Dio da onorare nei templi di pietra e non soprattutto nei templi di carne; un Dio che decide insindacabilmente della vita e della morte dei suoi figli e non un Dio che è sempre dalla parte di chi lotta, di chi soffre e di chi muore; un Dio che connota e protegge l’Occidente bianco e non il Padre comune dell’intera umanità, a cominciare dagli impoveriti del pianeta…sino a quando , insomma, questo Dio assomiglierà troppo al Dio dei mafiosi e troppo poco al Dio di Gesù, le chiese cristiane non avranno una loro ‘lettura’ specifica della mafia e non porteranno, al più ampio movimento antimafia, un contributo originale.