martedì 30 ottobre 2018

PERCHE' NEL MERIDIONE ITALIANO GLI ORGANICI DELLA MAGISTRATURA SONO INCOMPLETI?



29.10.2018

L’AUTOGOL CULTURALE CHE ALIMENTA INGIUSTIZIA, CORRUZIONE E MAFIA

     La situazione del Palazzo di Giustizia di Palermo – dove nell’Ufficio dei Gip (Giudici per le indagini preliminari) e dei Gup (Giudici per le udienze preliminari) si trovano in servizio solo tredici magistrati, contro i ventotto previsti dalla pianta organica, così che 200 richieste di rinvii a giudizio e 10mila tra archiviazioni e decreti penali di condanna slitteranno di mesi - non è un’eccezione nel Meridione.  Né si tratta di un’emergenza. Da decenni gli uffici giudiziari siciliani denunziano analoghe carenze di organico. Superfluo aggiungere che una situazione del genere, grave in qualsiasi area del mondo, è addirittura disastrosa là dove organizzazioni criminali di radicata tradizione approfittano per offrire mediazione dei conflitti (dal punto di vista civilistico) e punizione dei reati (dal punto di vista penalistico, sia pur  sulla base di un codice penale surreale per il quale innocenti per principio sono i mafiosi obbedienti, colpevoli  tutti gli altri). 
   Uno degli aspetti più grotteschi della situazione è che restano vacanti dei posti di lavoro, prestigiosi e ben remunerati, proprio in regioni che soffrono il continuo esodo di giovani laureati verso altre regioni italiane e, soprattutto, verso altre nazioni. Circa un quarto di secolo fa, quando Piero Grasso era ancora a capo della Procura della Repubblica di Palermo, alla fine di una sua prolusione alla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”, gli chiesi la ragione di questo paradosso. La sua risposta fu raggelante proprio perché espressa con flemma e un amaro sorriso: “Lo chieda ai suoi colleghi che insegnano nelle scuole e nelle università. Ai concorsi per magistrati si presentano persino candidati che non scrivono correttamente in italiano: possiamo correre il rischio di leggere sentenze sgrammaticate che farebbero sbellicare dalle risa avvocati e imputati istruiti?”
    Da allora la situazione dell’istruzione media e universitaria non risulta migliorata. Il circolo vizioso, in varie aree disciplinari, è rimasto intatto: si dà la laurea anche a persone che – secondo i canoni europei – non la meriterebbero; questi soggetti scelgono, come ripiego, di entrare nella scuola come docenti (né le commissioni selezionatrici li fermano, ora per corruzione ora per malintesa compassione); una volta in cattedra insegnano male e pretendono poco dai loro studenti, i quali arrivano ugualmente a laurearsi (specie oggi con università “a distanza” e “on line” di ogni genere e livello). So che è una verità amara, ma bisogna che qualcuno ogni tanto la dica: le cause della disoccupazione giovanile nel Meridione italiano sono molteplici e spesso colpiscono giovani davvero preparati e meritevoli; ma in altri casi si tratta di giovani che, pur con pezzi di carta in tasca, non sono in grado di superare concorsi pubblici appena appena rigorosi. Non tutti i cervelli in fuga sono stati esercitati a dovere in casa propria. 
   Molti Paesi economicamente più avanzati del nostro hanno capito da tempo che un sistema dell’istruzione efficiente è il motore dello sviluppo autentico. Se le anticipazioni sui tagli in questo settore da parte del governo nazionale dovessero risultare fondate, sarebbe gravissimo. Ma dev’essere chiaro a tutti – insegnanti di ogni ordine e grado in primis– che le risorse economiche sono necessarie quanto insufficienti: hanno la funzione di sostenere e incoraggiare le risorse umane. Se c’è lassismo buonista nelle scuole (aggravato dalla paura del calo di iscrizioni e dunque di cattedre) e corruzione sistemica nelle università (al punto che Giovanbattista Sciré  e altri ricercatori, amareggiati per troppe ingiustizie,  hanno  fondato “Trasparenza e merito. L’università che vogliamo”) il serpente continuerà a mordersi la coda. E, per esempio, nei concorsi per magistrati avremo più posti disponibili che vincitori idonei a occuparli. Con comprensibile soddisfazione dei mafiosi, dei corrotti e degli imbroglioni.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

https://www.zerozeronews.it/lautogol-culturale-che-alimenta-ingiustizia-corruzione-e-mafia/

lunedì 29 ottobre 2018

UNO SGUARDO POETICO SULLA MADRE DI GESU' IL NAZARENO

29.10.2018

UNA LETTURA LAICA E POETICA 
DELLA MADRE DI GESU’ DI NAZARETH

Esiste certamente il mondo naturale percepibile e misurabile. Molti popoli e molte singole personalità (da Platone a Wittgenstein) hanno ritenuto, e ritengono, che esso sia reale, ma non sia l’intera realtà. Suppongono, infatti, che il mondo naturale sia sostenuto e animato da un indefinibile mondo super-naturale (nel senso di iper-naturale, non di sopra-naturale) che qualificano come divino. Questo mondo ‘naturalissimo’ - Natura della natura (Generatrice della nostra genitrice) - viene faticosamente interpretato dall’umanità attraverso varie “cifre” (Karl Jaspers) o “figure”. 
    Vari ricercatori ritengono che una delle prime “cifre” o “figure” del divino sia stata la Grande Madre.Fra il 20.000 e il 5.000 a.C. le “immagini del sacro”, in ogni parte del pianeta,  rappresentano una donna incinta, simbolo della fertilità. Il “matrimonio sacro”, rito erotico per celebrare l'inizio dell’anno  nuovo,  in epoca neolitica sembra essere stato il rito più importante.
   Negli anni dal 4.300 al 2.800 a. C. si mantiene il culto della femminilità, ma la dimensione del piacere – specie negli ambienti dei pastori – si eclissa a favore della funzione procreativa. In questi secoli, decisivi nella storia dell’umanità, le tribù di pastori e guerrieri invasero e conquistarono i pacifici villaggi agricoli, uccidendo i maschi e sequestrando le donne in età fertile. La loro devozione era rivolta in misura preponderante a figure maschili di guerrieri potenti e di giudici terribili: la Grande Madre Terra si trasformò nella sposa subordinata degli dei maschili invasori, per poi spezzettarsi in molte divinità  femminili minori (come le dee del Pantheon  greco e romano). Arriviamo così, passando per l’età del bronzo e del ferro, all’eclisse della consapevolezza di essere figli della Terra  e alla fede esclusiva in un Dio Padre, considerato l’Essere supremo. Quando questo Padre perde la relazione coniugale con una Donna, sia pur subordinata, siamo al monoteismo delle tre grandi religioni attuali (Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo). Tuttavia la presenza della Grande Madre non è stata completamente eliminata: nel mondo cattolico è stata rimpiazzata dalla figura di Maria, la Madre di Cristo.
  L’operazione non è avvenuta a costo zero. Alla giovane madre palestinese i vangeli canonici dedicano pochi e sobri accenni (e sono quasi sempre passi in cui il figlio ne ha fermamente limitato l’influenza sulle proprie scelte). Ma, sin dai primi secoli, man mano che viene ingigantita la figura di Gesù – da profeta nomade a seconda persona della Trinità – anche la figura di Maria perde i suoi caratteri terreni, carnali, mondani: da donna, spiazzata da un figlio sempre più originale e anticonformista, diventa la Madonna che nasce immacolata e partorisce senza perdere la verginità né psicologica né fisica. A lei, venerata come Madre di Dio secondo il Concilio di Efeso del 431,  il santo Bernardo della Divina Commediapuò rivolgere il saluto paradossale: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”.
    Ogni tanto qualche letterato intuisce che bisogna spezzare la campana di vetro in cui Maria di Nazareth è stata imprigionata se si vuole avere un’idea più vera della sua personalità (che, a giudicare dalla statura morale del figliuolo, non doveva essere di scarso rilievo umano). E’ il caso di Un inutile amore. La passione di Maria, monologo teatrale di Giacomo Pilati (Di Girolamo, Trapani 2018, pp. 63, euro 10,00)  : testo intensamente poetico nel quale la Madonna viene riletta, con occhi consapevolmente laici, soprattutto al momento del concepimento del bambino e al momento della crocifissione. L’annunciazione viene immaginata come l’apparizione dell’ombra di un giovane dagli “occhi rubini e trasparenti”: un’ombra che si adagia sul corpo della giovane Maria, lo trafigge con  “brividi di un infinito piacere”  per poi svanire “tra le brume dell’alba”. Di questa esperienza onirica la madre si ricorda quando vede, un trentennio dopo, le ultime ore di sofferenza del figlio ed esplode in lamenti che rasentano la bestemmia:” Mio figlio. La mia carne, e tu Signore me lo hai rubato. Me lo hai messo nel ventre e ora te lo riprendi. Senza chiedermi niente. Avrei dovuto negartelo. La fede non mi ripaga di questo strazio. Lui è il mio amore. L’unico vero amore”.
   Al di là dello stile letterario, certamente raffinato, il testo dello scrittore siciliano solleva domande teologiche inquietanti dalle ricadute antropologiche e politiche indubitabili: infatti è interrogando criticamente i “modelli” femminili ideali che uomini e donne possono cooperare nel modificare la condizione effettiva delle donne lungo la storia. Anche nel nostro tempo. 

                                                        Augusto Cavadi
                                                 www.augustocavadi.com
     

martedì 23 ottobre 2018

LA RIVOLUZIONE ECOLOGICA: IDIOZIA E RISPETTO

La mia conversazione a Martina Franca (Taranto), posso la Fondazione "Miceli", per la "Giornata del creato", l'ho tenuta sulla base di questi appunti che sono stati gentilmente ospitati sul blog del mio amico Gianfranco D'Anna.

23.10.2018
                          
LA RIVOLUZIONE ECOLOGICA

      Ecologia è una delle tante parole condannate, dal successo, a essere banalizzate. L’hanno  usata all’inizio  scienziati e filosofi, poi politici e artisti; e ancora  imprenditori nel campo dell’industria e del commercio…sino ai teologi e al papa. Ma che significa etimologicamente? Come la bio-logia è lo studio della vita e la psico-logia è lo studio dell’animo, così,  letteralmente, l’eco-logia sarebbe lo studio della “casa” (oicos-logos). Ma delle nostre case non si occupano forse geometri e muratori e – nei casi più raffinati – architetti e ingegneri? Eppure non siamo abituati a chiamarli “ecologi”. 
    L’obiezione ci spinge, dunque, a riflettere più in profondità. Noi uomini abitiamo case costruite da uomini e per questo ci appartengono: possiamo modificarle a nostro gradimento, restaurarle, abbellirle, ingrandirle; persino abbatterle e ricostruirle. Ma queste case non potrebbero costruirsi senza un contesto più ampio: il terreno in cui si scavano le fondamenta e il sole che riscalda l’aria; le montagne che forniscono le pietre e i boschi da cui proviene la legna, l’acqua per impastare il cemento e il fuoco per cuocere i mattoni…Insomma: le nostre micro-case (che siano trulli medievali o grattacieli iper-moderni) riposano cullate sul grembo di un’unica macro-Casa che è il cosmo.
     L’ecologia ci ricorda, innanzitutto, una follia generalizzata: ogni individuo, ogni famiglia, si concentra sulla cura della propria casetta dimenticando abitualmente la cura della grande casa. E’ una follia perché – frane e alluvioni ce lo ricordano tragicamente – nessuna casetta minuscola può sopravvivere se la Casa maiuscola è trascurata, violentata.  Come guarire da questa follia suicida?
        Innanzitutto liberandoci dai condizionamenti mentali della tradizione individualistica in cui siamo stati allevati: dalla mentalità per cui ci interessiamo di ciò che è nostro, che ci appartiene, e trascuriamo ciò che è comune. L’ambiente naturale non è proprietà privata, ma bene comune: e, secondo la maleducazione borghese in cui siamo cresciuti, ciò che è comune non lo intendiamo “di tutti” e dunque “di ciascuno” bensì: “di tutti” e, dunque, “di nessuno”. Questa concentrazione miope sul proprio orticello è, tecnicamente, “idiota”: infatti l’aggettivo deriva dal greco idion che significa “proprio”, “particolare” (insomma il contrario di “comune”, di “generale”). Ed è idiotaper almeno due ragioni: innanzitutto perché non capisce che non si può stare a lungo bene nella propria casetta se il territorio intorno a noi è inquinato, è sporco, è deprivato di verde…Abbiamo inventato il vocabolo “appartamento” per indicare un’abitazione all’interno di un condominio, di un palazzo a più piani: ma ci possiamo veramente “appartare” dentro le quattro mura di casa senza preoccuparci se un  vicino dimentica di chiudere il rubinetto dell’acqua o del gas?  Se l’abitazione del piano-terra manifesta lesioni alle pareti? Ma c’è una seconda ragione: la mentalità che privilegia il “privato” sul “pubblico” non sa che – appunto – si “priva” (come ha notato Hanna Arendt) di esperienze preziose, di ricchezze umane. Quello che è “mio”, se lo contrappongo a “nostro”, mi privadella gioia di condividere, di cooperare: mi impoverisce di relazioni umane, senza le quali non c’è serenità d’animo né ancor meno felicità. 
   La tradizione individualistica, con l’esaltazione ossessiva della proprietà privata, si radica a sua volta in un errore: l’illusione che la nostra povertà originaria si possa colmare moltiplicando il possesso (materiale, legale) delle cose. Ma è comprando tutti i giardini della mia nazione che soddisferò la sete di profumi e di colori, la sete di bellezza? Un antico aneddoto cinese narra di un imperatore che, sceso in giardino e vedendo una rosa particolarmente attraente, esclama: “Oh, la mia rosa!”. E il giardiniere sorrise. La rosa è del proprietario giuridico del giardino o di chi la pianta, la innaffia e la cura ogni giorno, ne segue ammirato la fioritura? Per quanto strano possa sembrare, la comunione con l’universo non si stabilisce con i contratti d’acquisto o d’affitto, ma con l’esercizio della conoscenza e della contemplazione. La rosa appartiene molto più al giardiniere, che la conosce e la contempla, di quanto non appartenga all’imperatore che la possiede legalmente. In questa verità riposa il segreto del “rispetto” per la natura. Rispettare significa, etimologicamente, guardare (in latino respicere): al punto che “mi guardi il gregge” o “mi guardi il nipotino” significa, in italiano, “mi custodisci il gregge”, “mi proteggi il nipotino”.  Se l’umanità perde, ammesso che l’abbia mai avuto, il senso autentico e originario di “rispetto”, il mondo diventa solo un’immensa riserva di materiale da utilizzare. La convinzione che, nella grande Casa comune (il cosmo), le cose più preziose non siano privatizzabili (l’aria, il cielo, il mare, l’acqua dei ruscelli, il sole, la luna, le stelle…) sta già cedendo il posto all’idea che alcune Multinazionali possano privatizzare l’acqua potabile oggi, la luna e le stelle domani. Dobbiamo impegnarci politicamente, almeno, per battaglie come questa: ma il fallimento di tanti schieramenti elettorali “verdi” ci conferma che nessuna battaglia politica sarà portata sino in fondo se non si baserà su solidi presupposti antropologici, etici. Anche in questo campo, la rivoluzione non può non partire da noi, dalle nostre individualità e più ancora dalle nostre comunità. 

    Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

https://www.zerozeronews.it/rivoluzione-e-ecologia-prendersi-cura-dellambiente-e-rispettare-la-natura/

sabato 20 ottobre 2018

UN VIDEO DI RARA BELLEZZA, UN INNO AL MEGLIO DELLA MAGNA GRECIA


Confesso di aver pianto durante la visione di questo breve video: non so se per la commozione, l'orgoglio (per me insolito) di essere meridionale, la rabbia di sapere che la maggioranza attuale degli italiani la pensa invece come Bossi e Salvini...

venerdì 19 ottobre 2018

CHIESA CATTOLICA E SISTEMA MAFIOSO. ANCORA MOLTA STRADA DAVANTI....

Adista Segni Nuovi n° 37 del 27-10-2018

Chiesa e mafia. Ancora troppa miopia.

     Quanto il papa ha detto, nella recente visita in Sicilia,  sul sistema mafioso e sulla coscienza dei mafiosi come soggetti singoli non è stato nulla di inedito, di imprevedibile, di rivoluzionario. Ha ribadito l’incompatibilità fra il vangelo e la lupara: fra la fede nel messaggio di fraternità solidale di Gesù e le pratiche (ora corruttive ora intimidatrici) finalizzate all’acquisizione di profilli illeciti e di condizionamento delle vite altrui. Nulla di nuovo? Sarebbe ingiusto sottovalutare la tonalità emotiva dei suoi interventi. Introdotto e incoraggiato dal linguaggio semplice e autentico dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, egli ha evitato i termini roboanti e le circonlocuzioni retoriche: ha parlato come uno che sa bene - per esperienza dei propri limiti esistenziali e delle resistenze istituzionali che le gerarchie vaticane oppongono anche ai suoi tentativi di rinnovamento – quanto sia difficile differenziare davvero lo stile di vita personale e comunitario dal modo di intendere e condurre la vita da parte dei mafiosi e dei loro complici. 
  Il significato e l’incidenza di questa visita pastorale di papa Francesco sono da misurare dal giorno successivo alla sua partenza per Roma: che cosa cambierà davvero nella chiesa siciliana? L’invettiva celebre nella Valle dei templi di Agrigento, proclamata da Giovanni Paolo II 25 anni fa, è stata presa sul serio  - più che da preti e fedeli – dai mafiosi: che, infatti, misero bombe nelle chiese di Roma e uccisero Puglisi.  Il rischio, oggi come allora, è che il rifiuto del volto criminale della mafia che spara non sia accompagnato e autenticizzato dal rifiuto del suo volto politico, economico e culturale.
  Sul versante politico, per limitarci a un solo esempio, in questo mezzo secolo è stato possibile assistere all’ascesa ai vertici istituzionali della regione di personaggi che hanno sempre sventolato come certificato di garanzia l’appartenenza alla chiesa cattolica, ma che – nel perdurante, assordante, silenzio dell’episcopato – sono stati condannati per favoreggiamento della mafia.  
   Sul versante economico, poi, i rapporti di lavoro fra istituzioni cattoliche e dipendenti vari (cuochi, camerieri, inservienti, portinai…), soprattutto nelle strutture adattate all’ospitalità turistica, permangono sepolti sotto una pesante coltre assai poco trasparente: le normative vengono interpretate elasticamente, quasi che in nome di ideali superiori si possano trascurare i banali diritti previsti dalla legislazione dello Stato laico.
    Ma è sul piano culturale che la chiesa siciliana, come le sorelle del Meridione italiano, stenta ad allontanarsi dalla mentalità mafiosa che vede nel clientelismo, nelle raccomandazioni, nei favoritismi  la rete essenziale per costruire consenso sociale. Perfino in scuole cattoliche di prestigio ho constatato, in prima persona, raggiri e pressioni con lo scopo di conferire – a studenti decisamente immeritevoli – i diplomi a chiusura del corso di studi nelle medie superiori.
    Per evitare equivoci: questa miopia nel contrastare il sistema mafioso nella complessa articolazione della sua struttura infettante non è un’esclusiva del mondo cattolico. Ma, in una fase storica di abbassamento delle istanze etiche, sarebbe bello che i sedicenti cristiani evitassero di comportarsi esattamente come i concittadini, senza distanziarsi dalla media statistica né in peggio né in meglio.  Se l’andazzo deve restare mediocremente conforme alla maggioranza della società, i martìri di don Pino Puglisi e di don Peppe Diana risulteranno infruttuosi. E anche i papi, di oggi e di domani, potranno risparmiarsi trasferte troppo faticose per pastori ottuagenari.  

       Augusto Cavadi
   www.augustocavadi.com

    https://www.adista.it/articolo/60048                        

mercoledì 17 ottobre 2018

CHE C'E' IN PROGRAMMA ALLA CASA DELL'EQUITA' E DELLA BELLEZZA ?

CASA DELL'EQUITA' E DELLA BELLEZZA
Via Nicolò Garzilli 43/a - Palermo

Care amiche e cari amici della “Casa dell’equità e della bellezza”,
   Vi segnalo alcuni appuntamenti già organizzati. Sarete avvertiti man mano che altre iniziative si verranno configurando più in concreto.
     Intanto, chi è veramente interessato a un evento, ha la possibilità di segnarlo in anticipo nella propria agenda.

·      Giovedì 18 ottobre dalle 20,15 alle 21,30: Incontro sul tema: “Che significa avere una vita spirituale oggi?”. Organizza la Comunità di Libera ricerca spirituale “Albert Schweitzer” (con possibilità di proseguire la serata in pizzeria).
·      Lunedì 29 ottobre dalle ore 19,30 alle 22,00: Incontro (quindicinale) del Gruppo “Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne”. Nel corso della serata è prevista una sobria cenetta. Qualsiasi uomo interessato sia a rivedere il proprio atteggiamento di fondo nei confronti del mondo femminile sia a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di rifondare l’attuale assetto maschilista della società è invitato a partecipare. Per contatti parlare con il coordinatore Francesco Seminara (francesco.semi3@gmail.com).
·      Mercoledì 24 ottobre dalle 18:00 alle 21:00 Laboratorio Teorico & Pratico sull’Autostima condotto da Ana Alonso. Un laboratorio rivolto in particolare alle donne, con la finalità di INCORAGGIARE abitudini che rafforzano l'autostima e la fiducia in se stessa, e scoprire come SMETTERE con i pensieri negativi e altre cattive abitudini che bloccano la crescita e lo sviluppo del proprio potenziale. Dopo una breve introduzione teorica, allo scopo di fornire informazioni e conoscenze utili (terminologia, autostima e differenze di genere, ecc.), si terrà una parte pratica del laboratorio rivolta invece a dare strumenti pratici e a incoraggiare la presa di coscienza del proprio potenziale nonché dei blocchi individuali, sociali e culturali. Quota di partecipazione: 20€ . Più informazioni su FB: https://www.facebook.com/events/2157678057596926/   
    ( evento pubblico sulla pagina personale della conduttrice) 

·      Lunedì 5 novembre dalle 19,00 alle 21,30: Sergio Di Vita conduce un corso annuale di “Teatro dell’Oppresso” che si svolgerà nella Casa (all’interno delle attività promosse dalla Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone), con cadenza settimanale. Per ulteriori informazioni: vitadisergio@gmail.com. 
·      Giovedì 8 novembre dalle ore 18 alle ore 19,30: Concerto della cantante Daria Teresi accompagnata dalla pianista Sandra Castronovo. Offerta relativamente libera 😆(a partire da euro 3,00).
                                    Intanto un affettuoso arrivederci,
                                                             Augusto Cavadi
                                                          a.cavadi@libero.it


PS: Si ricorda alle persone che vogliano partecipare a nostri eventi, e vivono lontano da Palermo, che presso la “Casa” stessa è disponibile un servizio di ospitalità anche per la notte, in cambio di un rimborso delle spese di mantenimento del servizio.

domenica 14 ottobre 2018

QUESTE FEMMINISTE ! ADESSO MINACCIANO PERFINO LA BARBA DI DIO



www.livesicilia.it
"Uomini e dei". 17
14.10.2018



E SE DIO PERDESSE LA BARBA ? 
OVVIO: SAREBBE COLPA DEL FEMMINISMO !

Tra i molti pregi di internet, ti fa conoscere opinioni e personaggi così lontani dal tuo giro solito che – senza la rete – non avresti mai incontrato. In questi casi, gli stupidi cominciano a ‘postare’ ingiurie e sconcezze; gli altri proviamo ad ascoltare,  imparare, riflettere e – se è il caso – aprire una riflessione critica pubblica. Qualcosa del genere mi capita quando m’imbatto in siti cattolici tradizionalisti, anzi francamente reazionari, in questo periodo scatenati contro papa Francesco e quanti (in qualche modo) sono a lui ricollegabili. Come ad esempio monsignor Hermann Glettler, consacrato vescovo della diocesi di Innsbruck dal papa attuale il 27 settembre 2017. Cosa avrebbe combinato di tanto grave il neo-vescovo austriaco da meritare la gogna mediatica del sito ultraconservatore www.corrispondenzaromana.it con un articolo rovente a firma di tale Lupo Glori?
    Avrebbe nientepopodimeno che autorizzato l’artista Katharina Cibulka a stendere, sulla facciata Cattedrale di San Giacomo di Innsbruck, un grande telone su cui campeggia la scritta a caratteri cubitali: «Fino a quando Dio avrà la barba io sarò femminista». L’installazione fa parte di una serie di creazioni simili già comparse, per esempio, sulla facciata dell’Accademia delle Belle Arti di Vienna («Finché il mercato dell’arte è un club per ragazzi, sarò una femminista») e all’ingresso di un cantiere di Innsbruck («Fino a quando  l’uguaglianza di genere rimarrà un cantiere senza fine, sarò una femminista»).
Per lo scandalizzato autore dell’articolo, il vescovo avrebbe permesso, sul principale luogo cattolico della sua diocesi, l’affissione di “una scritta evidentemente blasfema che si fa beffa del secondo comandamento che ammonisce di Non nominare il nome di Dio invano”, per giunta accompagnata da “una gigantesca scritta a punto croce rosa incitante la parità di genere”.
    Ai lettori la (assai poco) ardua sentenza! Personalmente, come filosofo attento anche alla contemporaneità e come teologo laico, trovo se mai scandalizzante che nel XXI secolo un vescovo ritenga necessario ospitare degli slogan che dovrebbero, invece, risultare ovvi e scontati da almeno un secolo. Se c’è bisogno di ricordare che Dio non ha la barba perché non è un maschio, anzi non ha neppure un volto perché non è un essere umano e neppure un Superuomo, essendo il Mistero originario da cui scaturisce l’intero cosmo, siamo messi davvero male: sia chi dice di crederci sia chi dice di non crederci sta giocando con un idolo, un fantoccio puerile. E se c’è bisogno di ricordare che la natura di questa Energia - che abbraccia l’immensità dell’universo e ne sostiene, dall’interno, l’evoluzione – non è sessuata, e dunque nessun regime maschilista e patriarcale in terra può appellarsi all’idea di un Padre padrone in cielo, siamo messi davvero male: vuol dire che la religione come ideologia è ancora predominante rispetto alla spiritualità universale (non esclusa l’evangelica) come uguaglianza nella  differenza, parità di diritti e di doveri, sinergia complementare fra attitudini psico-fisiche irriducibili.  
     Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 12 ottobre 2018

CI VEDIAMO SABATO 13 OTTOBRE 2018 A S. GIORGIO DI GIOIOSA MAREA (MESSINA)?

Sabato 13 ottobre 2018 a S. Giorgio di Gioiosa Marea (a 3 km. da Patti - uscita autostrada), alle ore 16,30, avrà inizio un Convegno sul giudice Rosario Livatino. 
Presenterò una breve relazione sulla evoluzione storica della mafia siciliana (con particolare riferimento all'epoca dell'assassinio di Livatino). 
Il Direttore dell'Ufficio Catechistico della Diocesi di Patti, don Pio, terrà una relazione su "Il cristiano martire Livatino e le Beatitudini". 
Il postulatore della causa di beatificazione don Giuseppe Livatino informerà sull'iter della stessa. 
Concluderà i lavori (alle ore 18,30) il vescovo mons. Giombanco.

mercoledì 10 ottobre 2018

GIOVANNA CURIALE INTERVISTA AUGUSTO CAVADI SUL FAMILISMO CATTOLICO

Breve conversazione su Papa Francesco e il suo nuovo stile con Giovanna Curiale per Radio Spazio Noi di Palermo. Finalmente un papa che non ossessiona con l'apoteosi della "famiglia" !

Chi non ha molto di meglio da ascoltare nella vita 😉, può cliccare su questo link:

http://www.radiospazionoi.arcidiocesi.palermo.it/2018/09/giovanna-curiale-palermo-verso-il-papa-7-settembre/

lunedì 8 ottobre 2018

PARTIRE O RESTARE ? UN DILEMMA NON SOLO SICILIANO

"IL GATTOPARDO"
SETTEMBRE 2018

PARTIRE O RESTARE?  UN DILEMMA NON SOLO SICILIANO

"Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannarsi”: così Gesualdo Bufalino, uno scrittore siciliano del XX secolo. Ma – vorrei aggiungere – qualche volta capire la Sicilia e i siciliani aiuta anche il resto dell’umanità a capire meglio se stessa. Giudicate voi.
   E’ prerogativa esclusiva di chi abita in un’isola vivere – per riprendere lo stesso scrittore -  “il dissidio fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana” ?  A mio parere questa “oscillazione” di posizionamento nello spazio geografico (il “buon ritiro”  della propria casa o l’avventura in terre lontane, preferibilmente in città ricche di opportunità per conoscere e farsi conoscere) potrebbe dipendere, molto semplicemente, dalla fortuna di nascere in un luogo bello cui ci si affeziona e, tuttavia, con il gusto di scoprire altri luoghi belli della Terra. 
  Talora, tuttavia, quando si tratta non di brevi vacanze ma di decidere se trasferirsi o meno altrove, l’incertezza esprime, e rende perciò visibile, una “oscillazione” interiore fra due stati d’animo che – in fondo in fondo – potrebbero richiamarsi  a vicenda.
   Apparentemente, infatti, chi vive isolato nella propria casa, e nel proprio piccolo paesino d’origine, potrebbe averlo deciso per modestia, per umiltà, per consapevolezza dei propri limiti; laddove, al contrario, chi osa sottoporsi al giudizio di un pubblico più vasto, e più esigente, potrebbe averlo deciso per presunzione, per ambizione smoderata. Dunque il dissidio interiore sarebbe tra modestia e presunzione. Ma spesso non è così: né per il siciliano “medio” né per l’essere umano “medio” in generale. 
  Infatti c’è chi preferisce vivere rintanato nel cortile di casa non per modestia, ma proprio perché il suo orgoglio smisurato non gli consentirebbe di reggere nessuna critica, nessuna obiezione alle sue idee; e chi parte non per presunzione, ma proprio perché è talmente libero interiormente, talmente distaccato dalla sete di riconoscimento sociale, da poter affrontare con sana auto-ironia il confronto con ambienti nuovi, estranei, potenzialmente ostili. Insomma: si potrebbe espatriare per orgoglio e restare a casa per umiltà, ma anche viceversa. 
   Se - in Sicilia come altrove nel mondo - oscilliamo fra restare fedeli alle radici e salpare verso nuovi porti è perché, nel nostro cuore, non siamo mai né del tutto orgogliosi né del tutto umili. E, anche quando prevale decisamente uno dei due stati d’animo, esso può indurci tanto a partire (per esporci) quanto a restare (per nasconderci). 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

sabato 6 ottobre 2018

LA “RELIGIONE” STA MALE. MA LA “ SPIRITUALITA’ ” NON E’ CHE SCOPPI DI SALUTE…

(CONTROINDICATO PER CHI IN INTERNET VA DI FRETTA...)

 “Viottoli”, 2018/ 1 

Intervento di Augusto Cavadi 
al Convegno nazionale delle comunità di base 
(Rimini 8 – 10 dicembre 2017)

Il deserto della transizione
     Il titolo del nostro Convegno (“Beati gli atei perché vedranno Dio”), tratto da uno scritto di Maria Lopez Vigil incluso nel volume a più voci Oltre le religioni(Gabrielli, 2017) ha suscitato reazioni opposte. Qualcuno l’ha trovato genialmente paradossale, qualche altro è rimasto un po’ perplesso: “Ma insomma, dopo una vita in cui noi atei evitiamo di perdere tempo con le questioni teologiche, ci condannate a sbattere il muso contro Dio nell’altra vita?”. Comunque ho rassicurato congiunti e amici perplessi ripescando la storiella che girava alla morte di Margherita Hack: il buon Dio, avendo apprezzato le  virtù intellettuali e morali della scienziata atea, per non darle una smentita che le avrebbe procurato un forte dispiacere, nell’altro mondo si sarebbe nascosto e avrebbe fatto finta di non esistere
      Ma vengo subito al tema che mi è stato affidato questa mattina: “Dalle religioni alla spiritualità, per incontrare l’altro, l’altra, al di là di dogmi e precetti”.
      Molti di noi, per ragioni biografiche ma anche storico-culturali, hanno compiuto l’esodo dalla religione verso la spiritualità. Per qualcuno la transizione è durata quarant’anni, per altri molto meno: ma tutti abbiamo attraversato un deserto. Questo è un primo aspetto della questione che mi preme sottoporre alla riflessione comune. In numerosi compagni di viaggio registro un trionfalismo, quasi un senso di euforia, che sinceramente mi viene difficile comprendere e, ancor più, sperimentare. 
       Certo le etichette “religione” e “spiritualità” rimandano, per ciascuno di noi, a concetti – e ancor più a esperienze di vita – ben diverse. Chi ha vissuto la religione come costrizione, almeno psicologica, a stare in una gabbia di dogmi incomprensibili e soprattutto di divieti morali repressivi, se ne è liberato – è facile intuirlo – con sollievo o addirittura con entusiasmo (offuscato solo da qualche vena di risentimento verso le persone e le organizzazioni che gli, o le, avrebbro rovinato gli anni della giovinezza. Un amico che stimo molto, il filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri, mi pare ad esempio uno di questi ex-cattolici dal dente avvelenato dalle ingiustizie clericali subite). Più di un film, negli ultimi decenni, ha raccontato in maniera esteticamente efficace l’atmosfera di seminari maschili e soprattutto di collegi femminili in cui la religione (quasi sempre cattolica) ha mostrato il suo volto disumanizzante. Ma è stato sempre così? E’ stato per tutti così?
   Per ragioni professionali ho ripreso in mano, in questi mesi, alcune opere di Thomas Merton, brillante intellettuale del XX secolo che si fa trappista e racconta in più pagine – a partire da La montagna delle sette balze- la storia della sua conversione al cattolicesimo e la sua vita di monaco. Ebbene, a essere sincero, devo confessare che ho riconosciuto nella sua vicenda e nei suoi stati d’animo un segmento importante della mia esistenza, diciamo dai quindici ai trentacinque anni. Una sensazione simile l’ho avvertita leggendo la bella biografia di Giuseppe Dossetti regalataci da don Fabrizio Mandreoli. Per sintetizzare brutalmente: la scelta religiosa  di questi personaggi non ha nulla di irrazionale né tanto meno di imposto estrinsecamente; è piuttosto l’approdo, consapevole e libero,  di una travagliata ricerca esistenziale. Il mondo della religione non è stato vissuto come una prigione, ma come un rifugio alpino. La religione come alveo rassicurante in cui scorre una tradizione millenaria; una visione del mondo coerente e convincente; un insieme di usi liturgici a cui affidarsi e da cui lasciarsi cullare; la presenza di maestri più anziani cui rivolgersi per esprimere dubbi e per raccogliere consigli…Il protagonista del romanzo  Treno di notte per Lisbona, di Pascal Mercier , da cui è stato anche tratto un film, l’ha saputo dire benissimo: “E tuttavia sono di una bellezza sconvolgente le parole che vengono da Lui e vanno a Lui. Come le ho amate da chierichetto! Come mi hanno inebriato nello sfavillio delle candele sull’altare! Come sembrava chiaro – chiaro come la luce del sole – che quelle parole erano la misura di tutte le cose! Come mi sembrava incomprensibile che alla gente importassero anche altre parole, ciascuna delle quali poteva significare solo riprovevole distrazione e perdita dell’essenziale! Ancora oggi mi fermo quando ascolto un canto gregoriano, e per un istante – l’istante in cui la vigilanza viene meno – mi rattristo che l’inebriamento di un tempo abbia irrevocabilmente lasciato il posto alla ribellione”. E se qualcuno non ha mai conosciuto il fascino della religione-santuario può farsene un’idea leggendo il capolavoro di Hermann HesseIl gioco delle perle di vetro, romanzo in cui si descrive mirabilmente un mondo  a-confessionale, forse a-religioso, in cui però le coordinate organizzative e sentimentali sono esattamente le medesime di un monastero.
  Ma allora: perché abbiamo  tagliato il cordone ombelicale con le chiese-utero, perché abbiamo abbandonato la culla della religione, perché abbiamo rinunziato alle cipolle d’Egitto? (Uso il plurale, ma non estendiamolo troppo: sociologicamente registriamo segnali contraddittori. Da una parte le fasce medio-alte della popolazione abbandonano di anno in anno la frequenza ai riti domenicali; ma, dall’altra parte, Habermas ci parla di post-secolarismoe addirittura Berger, teorico della secolarizzazione, ci parla adesso di de-secolarizzazione).
 Ognuno di noi ha la sua risposta. Per quanto mi riguarda: per amore della verità. C’è una frase di Nietzsche che mi sembra, come tante altre sue (non tutte!), fulminante. Non la ricordo a memoria, ma ne ho ben presente il succo: “Gesù ha acceso nella storia il fuoco dell’amore per la verità. Ed è proprio attingendo a quel fuoco che noi abbiamo superato e abbandonato il cristianesimo”.
  Alcuni di noi siamo diventati cristiani, e cattolici, perché ci è stato presentato un itinerario logico che, partendo dalla “dimostrabilità” di Dio, passava per i segni dell’incarnazione di questo Dio in Gesù Cristo, sino ad arrivare alla sua Chiesa, “infallibile” Mater et Magistra. Era un sistema intellettuale coerente e, apparentemente, inconfutabile: come insegnava il cardinale Charles Journet, il singolo teologo può non avere la risposta a ogni domanda, ma la Chiesa cattolica nel suo insieme ce l’ha senz’altro. Non solo: era anche un apparato gerarchico che esonerava da dubbi e angosce. Infatti ci si insegnava che il padre abate per i monaci, e il direttore spirituale per i laici, costituivano il terminale di questo mirabile apparato: bastava ubbidire, sia pur con sofferenza, e si fruiva con certezza assoluta della pace in terra e del paradiso dopo (“Il superiore può sbagliare nell’interpretare la volontà di Dio, ma tu non sbagli certamente agli occhi di Dio se segui la volontà del superiore”). 
  Proprio lo studio della filosofia (a Palermo), delle scienze morali (alla statale di Roma) e della teologia (al Laterano), nei pochi anni di libertà fra Pio XII e Giovanni Paolo II, mi ha però rivelato l’infondatezza, o per lo meno la problematicità, del plesso Dio-Cristo-Chiesa: prima a entrare in crisi è stata la concezione della Chiesa come societas perfecta; poi la cristologia “dall’alto” (della cui arbitrarietà si sono accorti tutti, tranne Benedetto XVI); infine, persino, il modello teistico (delle cui contraddizioni ci hanno recentemente parlato nei loro libri Vito Mancuso, il vescovo episcopaliano Spong e il padre gesuita Lenaers). A questo punto il bivio: o restavo cattolico nonostantela ragionevolezza che mi sforzavo di adottare in tutti i campi della vita o accettavo che un paradigma religioso millenario fosse giunto al tramonto e che dovessi anch’io entrare nella fase della ricerca spregiudicata, del dialogo a trecentosessanta gradi, della sobrietà nei pensieri prima ancora che nelle abitudini quotidiane. In una formula, quasi sloganistica e perciò utile e rischiosa come tutti gli slogan, accettare il passaggio dalla (fedeltà a una) “religione” alla (ricerca di una nuova)  “spiritualità”.

 La dimensione spirituale della vita ha le sue tentazioni
   Raccontata così può sembrare che, una volta lasciatosi alle spalle (sia pur non senza nostalgia) l’Egitto, la prigione dorata della “religione” (nel mio caso cattolica), la terra promessa della “spiritualità” (post-moderna o iper-moderna) sia tutta latte e miele. Ovviamente non è così. Anche la dimensione spirituale ha le sue tentazioni e le sue degenerazioni, spesso uguali e contrarie alle tentazioni e alle degenerazioni della vita “religiosa”. E molte persone che hanno abbandonato per senso critico i vecchi assetti ecclesiali sembrano abbandonare, a propria volta, il senso critico quando entrano in movimenti “spirituali” di matrice orientale o psico-analitica o new age. Rischiano, insomma, di cadere dalla padella alla brace o, per lo meno, di saltare da una padella all’altra.

a) La tentazione dell’autismo
   Innanzitutto: se nella religione l’ioviene assorbito, e quasi annullato, nel noi, chi vive la scelta spirituale spesso si concentra tanto sull’io, sulla sua singolarità, sulla sua autonomia, sulla sua responsabilità (tutte valenze sacrosante!) da rischiare di dimenticare il noi, la comunità, la socialità. Ecco una prima tentazione della spiritualità extra-religiosa (extra-religionale) o post-religiosa (post-religionale): l’individualismocosì ben sintonizzabile con l’ideologia liberale e con il capitalismo d’impronta liberista. Permettetemi un riferimento autobiografico. Da quindici anni organizzo con alcuni amici  le “Domeniche di chi non ha chiesa”: una domenica al mese , solitamente la prima, la trascorriamo insieme sia per meditare e scambiarci le riflessioni su temi di spiritualità laica,  a-confessionale, sia per condividere in allegria la mensa. Ebbene: numerose persone a me care, sin dall’inizio, hanno rifiutato l’invito alle nostre giornate mensili affermando che la loro dimensione spirituale non ha bisogno di appuntamenti prestabiliti, di regole sia pur minimali, di riti sia pur laicamente elastici. La sociologia religiosa mi pare abbastanza concorde su questo punto: “In estrema sintesi possiamo affermare che nell’epoca moderna il ‘sacro sé’ diventa la fonte di significato e l’unica autorità a cui obbedire“ ( Giuseppe Giordan, “La spiritualità come nuova legittimazione del sacro” in Teologia, 35 (2010), p. 24  cit. in Rossano Zas Friz De Col, Iniziazione alla vita eterna. Respirare, trascendere, vivere, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012, p. 43). Ma una spiritualità così allergica alle norme, così solipsistica  da rischiare l’autismo, ha una sua identità riconoscibile nel tempo? Ha una sua fisionomia, una sua consistenza, una sua durata? O non è piuttosto l’accavallarsi, onda dopo onda, di emozioni passeggere e di velleità irrealizzabili?

b) La tentazione dell’ombelico-centrismo
  Una seconda tentazione, abbastanza legata all’individualismo, mi pare possa essere un certointimismo: nella sfera religiosa  i gesti, i comportamenti esteriori, le cerimonie, gli atti di devozione, le opere di misericordia corporale hanno un peso notevole che può risultare eccessivo quando prevale sulla purezza d’intenzione, sulla consapevolezza critica. E’ vero: senza una solida radice nell’interiorità, si rischia il formalismo se non addirittura l’ipocrisia (e la Riforma luterano-calvinista lo ha sottolineato energicamente). Tuttavia recuperare il “cuore”, l’autenticità, talora ci induce  - per reazione più comprensibile che giustificabile – ad accontentarci di ciò che pensiamo e sentiamo senza preoccuparci di manifestarlo in parole e soprattutto in opere.  Ma una vita spirituale silente e paralitica, in-espressiva, è davvero una “vita”?

c)  La tentazione della grotta
Individualismo e intimismo convergono nel rendere socialmente e politicamente irrilevante l’esperienza spirituale: ma una vita spirituale che non s’irradi nella polis, e non vi lasci tracce in qualche modo rilevabili, è abbastanza ‘spirituale’? Lo sappiamo: se non in teoria, almeno in pratica le chiese si sono spesso ridotte a lobby che governano direttamente, o condizionano indirettamente, i partiti politici, i sindacati, le istituzioni statali, le banche… E’ il vizio capitale, secondo gli storici più avvertiti come Sergio Tanzarella, dell’era costantiniana che non è per nulla conclusa. Ma questa patologia del potere si cura davvero rifugiandosi nelle proprie grotte o nei propri villaggi auto-sufficienti, fragili riserve indiane per figli (e nipoti) dei fiori? Il “regno di Dio” non è certo l’egemonia                    politico-finanziaria dei credenti (e, se ormai la parola stessa “regno” suona troppo equivoca, sostituiamola pure in modo da rendere evidente il suo significato originario): ma da qualche parte, e in qualche misura, la “città di Dio” (che non è la chiesa in senso istituzionale) non deve plasmare, riformare, lievitare la “città degli uomini” (che non è il bordello dove le perversioni più insane s’intrecciano e si rafforzano a vicenda)? Eventuali scelte eremitiche e ascetiche hanno senso, se ne hanno, solo in quanto realizzano                              cata-cronisticamente modalità originali, e profetiche, di vivere la socialità e l’incidenza politica. In quanto – intendo - testimoniano che gli attuali rapporti economici, sociali e politici non sono gli unici possibili; e, più in generale e più radicalmente, che  “tutto è politica, ma la politica non è tutto” (così H. Kuitert   citato da Edward Schillebeeckx nel suo sempre attuale Perché la politica non è tutto. Parlare di Dio in un mondo minacciato; ma qualcuno sostiene che la fonte originaria sia Emmanuel Mounier). 

d) La tentazione dell’angelismo
Individualismo, intimismo e a-politicità lasciano intravedere il vizio capitale di ogni spiritualismo: l’angelismoo comunque vogliamo chiamare la concezione dello spirito come l’altro del corpo e non come il compimento di quel tutto psicosomatico, sessualmente connotato,  che è la persona umana. Dimenticare che un corpo diventa più “spirituale” man mano che entra in relazione con gli altri corpi (e non che si isola) e man mano che opera nel tessuto storico (e non che si astiene dall’azione sino a volatizzarsi). Può esistere uno spirito che non vivifichi, energizzi, un corpo? Forse. Ma, ammesso che esista, non può essere principio di vita spirituale umana, carnale. 

e) La tentazione della a-storicità
L’elenco delle tentazioni cui si espongono molte spiritualità post-religionali sarebbe lungo, ma non possiamo trascurarne almeno un’ultima: l’astrazione dalla corrente della storia. Conosciamo bene il tradizionalismo che marchia quasi tutte le comunità religiose, ma è ragionevole vivere come se non avessimo padri né (ancor meno) figli? Le chiese sono esperte nel tradere, nel trasmettere la fiaccola accesa da una generazione all’altra; e chi di noi sperimenta nuove forme di spiritualità si preoccupa di collegare i propri esperimenti con la memoria del passato e, soprattutto, di proporre (senza imposizioni) le proprie mappe orientative alle generazioni successive? Dove finisce il doveroso rispetto per la libertà di coscienza dei giovani e inizia una sorta di comodo auto-esonero dalla fatica dell’annunzio e della testimonianza (e dunque dal dispiacere di essere criticati, rifiutati, rinnegati)? Sono domande frequenti che non consentono risposte facili. Ma non per questo si tratta di domande eludibili.


e) La “fioritura della persona” in laicità e prospettiva mosaicale
      Ho esposto con la maggiore onestà intellettuale di cui sono capace i rischi della “spiritualità” come alternativa alla “religione”, ma non certo per propugnare l’immobilismo all’interno del paradigma religioso e rifiutare il passaggio (per quanto doloroso) verso il paradigma “spirituale”. Desideravo solo segnalare alcuni rischi della transizione. I nodi da sciogliere sono, comunque, molti di più e qui si possono solo accennare a futura memoria: ad esempio, la crisi del teismo deve comportare anche la negazione di qualsivoglia personalità divina, rischiando di fatto l’immanentismo ateo, o si può ipotizzare, con Hans Küng, la “trans-personalità” del Vivente assoluto? Per fare solo un secondo esempio: si può e si deve abbandonare del tutto ogni “religione” o, essendo sconsigliabile se non addirittura impossibile tale abbandono, ci si deve concentrare nell’iniettare nuova linfa spirituale negli otri invecchiati delle strutture ecclesiali?
  A queste e simili questioni si potrà rispondere solo quando avremo raggiunto un’idea abbastanza adeguata, e abbastanza condivisa, di “spiritualità”. Personalmente ci lavoro da parecchi anni e nel 2015 ho provato a dare un quadro organico delle acquisizioni raggiunte sino a quel momento nel volume Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova, antichissima spiritualità(Diogene Multimedia, Bologna).
  A (provvisoria) chiusura di questo intervento posso limitarmi a poche pennellate. Per  designare ciò che intendo per “spiritualità” adotterei in prestito una formula che la pensatrice contemporanea Martha Nussbaum usa in altro contesto: “la fioritura della persona umana”. Tale spiritualità la concepisco come laica: non nell’accezione comune sottrattiva (“laico” sarebbe qualcuno che non : che non è credente o non è prete o nonè magistrato di carriera…), ma nell’accezione positiva (“laico” come qualcuno che tiene dritto il timone della critica, del dubbio, del dialogo, dell’ascolto, della curiosità intellettuale, del rispetto delle coscienze…). Una spiritualità laica è, nella mia concezione attuale, una sorta di grammatica basilare dell’umanità in quanto tale: una sorta di galateo universale che prescrive attitudine al silenzio, alla riflessione, alla contemplazione del bello naturale e artistico, alla solidarietà con i viventi di ogni specie, alla convivialità con il diverso proprio perché diverso… e così via. da questa angolazione non possono stupire dichiarazioni come quella di Comte-Sponville nel suo Lo spirito dell’ateismo.Introduzione a una spiritualità senza Dio:
“Il fatto di non credere in Dio non mi impedisce di avere uno spirito né mi dispensa dall’usarlo. Possiamo fare a meno della religione (…) ma non della comunione né della fedeltà né dell’amore. Non possiamo neppure fare a meno della spiritualità. Perché dovremmo? Non è perché sono ateo che mi castrerò l’anima! Lo spirito è una cosa troppo importante perché lo si lasci in esclusiva ai preti, ai mullah o agli spiritualisti”.
  La laicità della dimensione spirituale implica, fra molte altre qualità, la consapevolezza della propria finitezza. Ma se so che la mia prospettiva spirituale non è perfetta, completa, onnicomprensiva avrò il desiderio di conoscere altre prospettive spirituali che correggano, e integrino, la mia. Il futuro di una spiritualità planetaria lo rappresento spontaneamente con la metafora dei mosaici della mia terra: nei mosaici della Cappella Palatina di Palermo, del Duomo di Monreale o di Cefalù, il disegno d’insieme è dato dall’incastro dei singoli tasselli. Ogni tessera dev’essere quanto più splendente nella sua originalità, direi nella sua unicità: senza facili sincretismi, senza annacquamenti in blob amorfi. E allora induisti e buddhisti, ebrei e filosofi di matrice greca, cristiani e islamici, liberali e socialisti, illuministi e romantici…dobbiamo fare pulizia all’interno delle nostre tradizioni sapienziali, scartare i detriti e salvare la pietra preziosa che si nasconde in ciascuna di queste correnti. Sarà collegando perla con perla che si andrà configurando la mappa (sempre provvisoria, sempre rivedibile, sempre integrabile) di una spiritualità interculturale e transculturale. 

              Augusto Cavadi


RISPOSTA AGLI INTERVENTI
NELL’ASSEMBLEA PLENARIA 
DI  DOMENICA 10 DICEMBRE 2017 

   
   Vorrei confessare la commozione per le persone che, tra ieri e oggi, mi hanno dichiarato di aver riconosciuto nella mia relazione di ieri delle idee che frullavano nelle loro menti, ma in maniera implicita e un po’ confusa. Ho cercato di prestare un servizio che ritengo tipico del filosofo: chiarire il significato delle parole per consentire che accordi o disaccordi si basino sulla comprensione effettiva delle convinzioni altrui, non su equivoci.
    Vorrei però rimediare a qualche lacuna della mia esposizione: infatti, se mi è capitato di agevolare il pensiero di alcuni, ho anche dato luogo a fraintendimenti. 
Soprattutto a proposito della “laicità” che, a mio avviso, dovrebbe caratterizzare ogni spiritualità post-religiosa o post-religionaria. Già il “post” è prefisso che non mi entusiasma: suggerisce che uno si lascia indietro un’esperienza, un’appartenenza, una fase dell’esistenza senza portare con sé, anzi in sé, nessuna traccia. Quando nel 2008 ho avvertito l’esigenza di esporre in maniera organica le mie idee sul cristianesimo, nel volume In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani, ho precisato di non considerarmi né anti-cristiano né a-cristiano né post-cristiano, bensì in cammino nell’orizzonte                    dell’oltre-cristianesimo: nella prospettiva di chi cerca di recepire i contenuti veri e validi del cristianesimo, di sconfessarne i contenuti falsi e dannosi, di superarlo verso sintesi sempre nuove e imprevedibili. Oggi, quasi dieci anni dopo, anche alla luce delle tesi di un Ortensio da Spinetoli sul cristianesimo come prima e radicale eresia rispetto all’annunzio originario di Gesù, forse parlerei di         oltre-gesuanesimo più che di oltre-cristianesimo: ma, in sostanza, mi ritrovo nell’atteggiamento di allora, non dissimile dall’aufhebunghegeliano (togliere-conservare- inserire in una nuova sintesi).
   Ma cosa intendiamo, meno genericamente, con “spiritualità” post-religionale (o, anche qui, “oltre-religionale”)? Ho constatato che in ogni intervento la stessa parola (“spiritualità”) è stata adoperata in accezioni semantiche differenti, talora molto differenti. Per carità, la lingua è anche convenzione e arbitrio: ma perché esagerare? Il vocabolario italiano è abbastanza nutrito da consentirci di denominare con parole differenti delle sfumature di significato altrettanto differenti. Riducendo all’osso, si potrebbero individuare tre valenze principali che ricorrono sulle nostre labbra: la spiritualità come adesione sincera al vangelo di Cristo(e qui proporrei di usare il termine “fede”, di andare con la mente agli scritti di un Manzoni o alla musica di un Bach); la spiritualità come sentimento di appartenenza al Tutto cosmico (e qui proporrei di usare il termine “religiosità”, di andare con la mente agli scritti di un Foscolo o alla musica di un Beethoveen); la spiritualità come vita pensante e appassionata(e qui proporrei di usare, in esclusiva, il vocabolo “spiritualità” o, se mai, di accompagnarlo all’attributo “laica”, di andare con la mente agli scritti di un Leopardi o alla musica di un Mozart). 
   In che rapporto (logico) starebbero queste tre accezioni del termine “spiritualità” (o, come preferirei per chiarezza di comunicazione, queste tre dimensioni antropologiche: la fede, la religiositàe la spiritualità)? Se non sbaglio clamorosamente, la risposta cristiana ha oscillato in questi venti secoli fra due sponde. In un primo versante – chiamiamolo agostiniano/protestante – solo la “fede” (ricevuta per grazia divina)  può  fondare una retta “religiosità” e legittimare una “spiritualità” umanistica. Dopo Adamo, l’essere umano è irrimediabilmente corrotto: “le virtù dei pagani non sono che splendidi vizi”. Del tutto capovolta l’ottica che potremmo chiamare, sempre approssimativamente, tomistica/cattolica: la grazia divina sana e perfeziona la natura ferita, ma la presuppone. 
   Consentitemi una breve parentesi: qui non siamo davanti a contrapposizioni astratte. O, meglio, siamo davanti a teorie teologiche astratte che, come spesso le teorie, hanno ricadute concrete molto tangibili (e talora dolorosamente divisive). In una comunità alcuni, dalla prima prospettiva, riterranno fondante e imprescindibile l’adesione di fede al vangelo di Cristo e solo su questa base riterranno possibile occuparsi di solidarietà sociale, condizione femminile, omofobia, immigrazioni, guerre…Per costoro una comunità di base non può rinunziare all’aggettivo “cristiano” se non vuole tradire il proprio DNA. In altre comunità, o nella stessa comunità, altri riterranno che si possa vivere una vita pienamente sensata già a livello antropologico o umanistico: le virtù “cardinali” sono la base su cui, eventualmente, potranno radicarsi le virtù “teologali”. Per costoro una comunità di base può essere tale –occupandosi di solidarietà sociale, condizione femminile, omofobia, immigrazioni, guerre… - senza necessariamente qualificarsi come “cristiana”. Anzi, evitando la qualifica confessionale nella denominazione, faciliterebbe l’inserimento di uomini e donne in ricerca della verità, della libertà, della giustizia e della pace.
   Torniamo alla domanda centrale: in che rapporto stanno fede, religiosità (tendenzialmente panteistica) e spiritualità (laica) ? Personalmente non ho dubbi: nessuna fede in senso confessionale (neppure la fede cristiana) è attendibile se non sboccia in un terreno di sincera religiosità cosmica; ma la stessa religiosità è credibile solo se, a sua volta, si radica nell’humus di una spiritualitàumanamente dignitosa. Ordini religiosi perfettamente inseriti nel classico paradigma “religionale”, o modernissime organizzazioni che propugnano inedite forme di religiosità post-moderna (e post-ecclesiastiche), meritano un futuro solo nella misura in cui mostrano di conoscere e rispettare la sintassi elementare della vita: che comporta senso critico, apertura a ogni genere di stimolo, pazienza per i limiti propri e altrui, empatia verso gli altri (soprattutto se sofferenti), cura per l’ambiente, impegno contro le sperequazioni sistemiche negli assetti sociali e molto, molto altro ancora. Sarà capitato anche a voi, come a me, di incontrare nella vita personalità dotate di intuito mistico in senso lato e in senso proprio, con una forte tempra di profeti, ma incapaci di auto-critica, di attenzione alle pieghe dell’animo altrui, di tenere in debito conto i dettagli eloquenti delle situazioni concrete: giganti dai piedi d’argilla, dunque; grattacieli che svettavano in alto, ma che sono miseramente implosi per difetto di fondazione antropologica. Parafrasando il cardinal Martini, direi che la differenza fra credenti e non credenti in senso religioso è del tutto secondaria rispetto alla differenza fra saggi e non saggi, fra chi coltiva la spiritualità quotidiana e chi la bypassain nome di improbabili voli religiosi o teologali. Prima di superare il livello del “semplicemente” umano, bisognerebbe assicurarsi di averlo almeno raggiunto.
  Due piccole precisazioni a margine (suggeritemi non in sessione plenaria, ma in colloqui individuali nei corridoi).
 La prima: la sequenza spiritualità-religiosità-fede non va intesa in senso cronologico. Può darsi benissimo che, nella biografia di qualcuno o di molti, sia un’esperienza di fede ecclesiale a risvegliare il senso religioso sopito o ad attivare un cammino di ricerca spirituale laica. Ciò non toglie, a mio parere, che  - dal punto di vista logico – le opzioni di fede presuppongano una sensibilità religiosa davanti al mondo così come tale sensibilità religiosa presupponga un’attitudine riflessiva ed etica di base. 
  Una seconda, più delicata, precisazione riguarda i credenti nel vangelo di Gesù. Sembrerebbe che, nella sua esperienza personale, ilfocussia consistito nella confidenza con Dio (qualsiasi ‘cosa’ egli abbia inteso, o sperimentato, con l’innominabile Eterno): ma questo significa che egli sia partito dalla “fede” in senso biblico per approdare a quell’ampio orizzonte di “religiosità” cosmica e di “saggezza” umanistica che traspaiono da ogni pagina dei vangeli? O non ha compiuto un percorso inverso, interrogandosi sin da ragazzo sulle sapienze “mondane” che si incrociavano nel Mediterraneo (Egitto, Grecia, Persia) per poi acquisire, gradualmente, un senso di “religiosità” e, infine,  maturare una intensa intimità mistica? Non sappiamo, non sapremo mai, quale sia stata la sua biografia interiore. Ma, dal punto di vista di noi che non siamo Lui, il dilemma non ha rilevanza. Quale che sia stato il suo itinerario, egli ha comunque vissuto e testimoniato una sorta di “teocentrismo” che dovrebbe liberare le generazioni successive di discepoli da ogni tentazione “cristocentrica”. Ciò stabilito, sorge una questione più cruciale: Gesù ha fatto del suo proprio, personale teocentrismo il “cuore” della sua proposta evangelica? Insomma: possiamo essere cristiani, nel senso di gesuani, se non diventiamo anche noi “teocentrici”? La risposta, ridotta in termini essenziali, è negativa. Secondo Ortensio da Spinetoli (e la quasi totalità dei biblisti) il “cuore” del messaggio evangelico non è il Padre, ma il “regno di Dio”. Essere cristiani significa mettere alla base, al centro e al culmine della propria vita la regalità di Dio nella storia: dunque, in ultima analisi, per dirla con Paolo VI, la promozione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. O, per riprendere Martha Nussbaum, “la fioritura della persona umana”. 
Leggiamo infatti ne L’inutile fardello: “Certo, anche Gesù come i suoi connazionali mette Dio al primo posto, ma cerca di correggerne l’immagine corrente. Sostituisce infatti quella del <<Signore Onnipotente>> (…) con quella del padre senza uguali, oltremodo benevolo con tutti i suoi figli, anche se scapestrati (Luca 15,11-24) (…). Si potrebbe alla fine asserire che, secondo Gesù, Iddio sembra preoccupato, più e prima che del suo onore, del bene e della felicità delle sue creature, soprattutto delle più deboli e quindi delle più bisognose” (p. 16). E ancora: Il Dio di Gesù “non ha bisogno e non ha mai chiesto nulla per la sua gloria ma aspetta solo, quasi con ansia, che si aiutino le sue piccole e povere creature a crescere, a essere felici e in pace. Il cristianesimo è unico proprio per queste sue dimensioni non religiose ma umanitarie” (p. 40). Se è davvero così, non ci resta che inchinarci di fronte al paradosso di un Cristo che, in forza della propria fede teocentrica, propone una sequela di diaconia antropocentrica. Un Cristo che indica come salvezza non una nuova fede teologale né una nuova religiosità cosmica (che, se mai, possono svolgere un ruolo di vie, di mezzi, di metodi) bensì una antica e universale spiritualità laica. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com