“Le nuove frontiere della scuola”
Anno XVI, n. 50, giugno 2019
PICCOLA FILOSOFIA DELL’ESSENZIALE
A beneficio di chi non l’ha mai lette, e per la goduria di chi non si stanca di rileggerle, riscrivo due delle più celebri righe de Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupery:
<< "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice:
non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi" >>.
L’organo adeguato
Come potrebbe essere visibile qualcosa che non lo fosse per l’organo della vista, per i nostri “occhi” ? Solo se fossimo dotati di un “terzo occhio”: l’occhio della mente evocato, forse non senza debiti con la sapienza asiatica, da Platone. Venti secoli dopo – e dunque trecento anni prima del de Exupery – Pascal lo chiamerà “cuore”. Nulla di sentimentale, di dolciastro, di fogliettino da “Baci Perugina”. Nel solco della tradizione biblica, ebraico-cristiana, “cuore” è il centro vitale dell’essere umano da cui si dipartono desideri, paure, volontà, ragione, intuito… Soprattutto intuito: capacità di intus-ire, andar dentro le cose, penetrare le apparenze sino a toccare il nocciolo. Il “cuore” è l’organo che, attraverso il guscio dell’accidentale, del secondario, del facoltativo, ci orienta verso l’essenziale. Che lo colga davvero, è un’altra storia. Ma lo cerca e, se in qualche modo lo si può cogliere, è grazie ad esso che lo si raggiunge.
L’essenziale si dice in molti modi
Cos’è questo “essenziale”, invisibile agli occhi e visibile solo al cuore?
Per quanto sia difficile accettarlo, la realtà è pluridimensionale, variegata. La totalità di ciò che è – l’essere – secondo Aristotele si dice in molti modi. Anche l’essenziale si dà a livelli differenti, in modalità differenti, in ambiti differenti: differenti, ma non tanto da escludere qualche somiglianza, qualche affinità. Gli Scolastici medievali, per esprimere questo rapporto di somiglianza connessa a una dissomiglianza ancora maggiore, hanno coniato l’aggettivo “analogo”. La nozione di “essenziale” è una nozione intrinsecamente analogica.
Quando ci interroghiamo sull’essenziale dobbiamo dunque, immediatamente, specificare su quale terreno ci collochiamo. Ciò che è essenziale biologicamente non lo è psicologicamente; ciò che è essenziale dal punto di vista economico non lo è dall’angolazione estetica; ciò che è essenziale in teologia non lo è in matematica…
Qui mi limiterò a interrogarmi su ciò che è essenziale antropologicamente, esistenzialmente. C’è Qualcosa o Qualcuno per cui valga la pena di vivere e senza il quale il resto precipiti nell’irrilevanza? In termini quasi equivalenti: esiste un Assoluto rispetto a cui tutto il resto è relativo?
Eclissi dell’essenziale ?
Le risposte si distribuiscono, precipuamente, in due colonne. La prima sotto l’etichetta: niente è davvero essenziale per la stragrande maggioranza della popolazione; la seconda: ammesso che per qualcuno ci sia ancora dell’essenziale nella sua prospettiva sul mondo, sappia – se non ne è già convinto ed è un povero fanatico – che si tratta di una preferenza del tutto arbitraria, soggettiva. Entrambi questi grappoli di risposte contengono una dose di verità, ma entrambi non sono del tutto veri.
Provo, con la necessaria sinteticità, ad argomentare la mia opinione.
La vulgata sociologica ci ripete, con insistenza ormai martellante, che viviamo in un’epoca senza Assoluti. Il crollo delle “grandi narrazioni” (teologiche, filosofiche, etiche, politiche e perfino scientifiche) ci lascerebbe vittime impotenti di un relativismo inesorabile che, un po’ paradossalmente, si potrebbe definire ‘assoluto’.
Ma davvero per ciascuno di noi tutto è relativo, secondario, accidentale e nulla assoluto, primario, sostanziale? Davvero ogni cosa è equivalente a un’altra per cui, come per il duca di Mantova nel "Rigoletto", “l’una o l’altra per me pari sono”? Davvero i valori sono interscambiabili nella ‘tavola’ che ognuno di noi si costruisce in base ai condizionamenti familiari, alle abitudini sociali, alle letture, alle esperienze di vita? Davvero ha colto nel segno Woody Allen con la celebre battuta “Dio è morto, Marx è morto e, se devo essere sincero, neanch’io mi sento molto bene”?
L’universalità dell’essenziale sotto il velo del pluralismo
Mi pare che l’introspezione (integrata dall’extraspezione cui ci invita Edgar Morin nella sua Etica) ci restituisca uno scenario differente. Certo, se ci limitiamo a registrare le risposte verbali, il quadro relativistico sembrerebbe confermato. Le affermazioni sulla pari insignificanza di princìpi, valori, progetti si sprecano. Ma, come già avvertiva Aristotele a proposito delle tesi sofistiche, non tutto ciò che si enuncia a voce lo si ritiene interiormente vero né ancor meno lo si incarna nella pratica quotidiana. Uno sguardo fenomenologicamente attento mi pare ci attesti che, per così dire al di sotto di tante dichiarazioni più o meno relativistiche, pulsi un desiderio basico universale: per me possono non essere essenziali né la gloria né il denaro, né il potere né il piacere sensuale, né tanto meno la dedizione a una causa politica o religiosa; perfino salute e malattia, vita o morte, possono arrivare a equivalersi sui piatti della mia bilancia interiore. Eppure…ciò a cui non riesco a rinunziare davvero è il desiderio radicale, originario, di uno stato di quiete densa, di pace attiva, di serenità intensa che qualcuno definisce felicità, altri beatitudine, altri ancora ben-essere integrale. Anche Pascal lo notava: siamo così irrimediabilmente assetati di felicità che anche l’aspirante suicida, nel momento in cui si alza dalla sedia per consumare il proprio proposito di morte, sta cercando quell’azzeramento del dolore in cui individua la felicità a lui accessibile.
Forse ci avviciniamo allo scioglimento del paradosso. L’essenziale è, per tutti, avvertire la gradevole percezione di essere arrivati là dove avremmo da sempre, sia pur oscuramente, voluto; di essere diventati come avremmo da sempre, sia pur oscuramente, voluto; ma le vie per tentare di raggiungere questo essenziale, questa méta, questa pienezza ontologica sono tante quanti sono gli esseri desideranti/pensanti nell’universo. L’eremita, l’esploratore, il pittore, il kamikaze…adottano mezzi svariati, talora contraddittori, per un fine che non sospettano – solitamente – di condividere. E’ in nome di questa aspirazione universale che gli umani (compresi quanti dichiarano l’intrinseca inessenzialità di tutto ciò che si può prendere in considerazione) strutturiamo la nostra esistenza – consapevolmente o irriflessivamente – in funzione di qualcosa o di qualcuno come se fosse un in sé assoluto: una compagna di vita (senza la quale siamo disposti a ucciderci e purtroppo, più frequentemente, a uccidere), una squadra di foot-ball, una religione confessionalmente organizzata, una carriera professionale, un’ipotesi di rivoluzione politica…
La pluralità delle strade verso l’essenziale è un dato oggettivo: se vi pervengono tutte o alcune o nessuna è un’altra questione. La filosofia è anche confronto schietto, spregiudicato, per verificare se - tra le mille vie percorse con la piena consapevolezza che si tratta di vie soggettive - ve ne siano alcune che, invece, ritengono/pretendono di raggiungere l’essenziale; e se, tra queste poche così pretenziose, ve ne sia qualcuna che possa esibire i caratteri dell’oggettività (o, per lo meno, dell’intersoggettività). Un solo esempio per spiegarmi meglio. Ammettiamo che una persona sia convinta che l’assunzione di eroina le consenta di raggiungere l’essenziale oggettivo; e che un’altra persona ritenga , invece, che la via per raggiungere davvero – cioè: realmente - l’essenziale oggettivo sia la lotta quotidiana alla criminalità mafiosa. E’ facile stabilire chi dei due soggetti ha ragione? No, ma neppure impossibile.
Un’ipotesi di risposta, anzi due
In questo campo, come in ogni altro, la riflessione filosofica non termina. Non la si può “concludere”, tuttavia è necessario – in uno scritto – interromperla. Per ridurre (spero) la delusione del lettore, prima di “chiudere” vorrei sbilanciarmi con una ipotesi di risposta, anzi con due.
La domanda che immagino – e che effettivamente altre volte mi è stata rivolta quando sono in questione tematiche simili – è, grosso modo, questa: <<Ma tu, dopo quasi settant’anni di ricerca, ritieni di aver sperimentato. – o, per lo meno, intravisto – un essenziale “oggettivo” ? E, se sì, dove lo avresti individuato?>>. So che la maggioranza tra i miei colleghi più illustri si rifiuterebbe di rispondere a simili domande, temendo di banalizzare la loro funzione sociale. So che il rischio è reale, ma so pure che il dovere morale di socializzare quel poco che ho capito – che suppongo di aver capito - deve prevalere su qualsiasi orgoglio professionale.
Oso dunque espormi, facendomi scudo dell’autorevolezza del Siddharta di Herman Hesse. All’amico Govinda, che gli obietta: <<Ma ciò che tu chiami “cose”, è forse qualcosa di reale, di essenziale?>> , Siddharta risponde: <<Siano o non siano le cose soltanto apparenza, allora sono apparenza anch’io e quindi esse sono sempre miei simili. Questo è ciò che me le rende così care e rispettabili: sono miei simili. Per questo posso amarle. Ed eccoti ora una dottrina della quale riderai: l’amore, o Govinda, mi sembra di tutte la cosa principale>>. Amare (ed essere amato) - purché si possa vedere, contemplare, gustare, fruire di chi amiamo e chi ci ama – è l’essenziale: il resto un accessorio più o meno prezioso (talora preziosissimo, talora inutile, talaltra perfino dannoso). Chi sperimenta l'amore nel suo mondo, se lo sperimenta davvero, non si accontenta del proprio mondo: si apre all'amore verso la città, l'umanità, l'intero pianeta. L'amore è centrifugo e i suoi confini sono i confini dell'universo visibile e invisibile.
Se a qualcuno questa risposta dovesse risultare, già a prima vista, infondata e fuorviante, ne aggiungerei in subordine una seconda: la ricerca meditata, dialogata, sottoposta al dibattito pubblico, dell’essenziale potrebbe già costituire un senso adeguato al vivere. La ricerca dell’essenziale potrebbe rivelarsi già essa stessa, “oggettivamente”, l’essenziale esistenziale.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com