lunedì 20 marzo 2023

LA FINITUDINE UMANA SECONDO TELMO PIEVANI

SIAMO ESSERI FINITI. PER QUESTO ANCHE PRIGIONIERI DELL’ASSURDO ?

 

Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà (Raffaello Cortina Editore, Milano 2020), di Telmo Pievani, costituisce un tentativo, sostanzialmente riuscito, di rilanciare le idee di due grandi intellettuali del Novecento: il biologo Jacques Monod e il filosofo Albert Camus.  Con almeno due meriti: di rilanciarle su un registro comunicativo accessibile anche ai non-specialisti e, soprattutto,  d’intrecciarle reciprocamente, a riprova della necessità di abbattere i muri che separano la ricerca scientifica dalla riflessione umanistica.

L'adozione del genere letterario “romanzo filosofico”, però,  non è esente da inconvenienti: infatti le pagine sono punteggiate da affermazioni filosofiche che l'autore, in quanto romanziere, non si ritiene in dovere di argomentare. Si affida, come ogni poeta, all'intuizione del lettore: che può scattare o meno.

Esemplifico con la tesi fondamentale su cui si basa l'intero svolgimento del testo: “Che cosa può esserci, dunque, di più assurdo e straziante, ma anche commovente, di un cercatore nato di senso, il quale capisce che non c'è alcun senso? Che prova e prova ancora a trovare quel senso, che tuttavia gli sfugge?” (p. 54). Qui viene radiografata la struttura intima della “finitudine” umana: che è certamente di ordine spaziale e cronologico (la nostra specie occupa un posto marginale nell'universo sinora conosciuto e lo occupa da pochissimo tempo per pochissimo tempo ancora), ma soprattutto di ordine intellettuale ed esistenziale (“sentiamo un desiderio di felicità e di ragione”, ma  destinato a restare frustrato dal “silenzio disarmante del mondo”, ivi). La finitudine umana, come in ogni altro ente dell'universo, è sancita dalla morte: ma, nel nostro caso, la morte fisica è per così dire anticipata e amplificata dalla consapevolezza che la nostra esistenza non ha alcun altro senso se non quello che le avremo saputo attribuire.

Ebbene: che la vita umana sia priva di senso, di significato intrinseco, perché inserita in un universo altrettanto privo di senso, di significato intrinseco, Pievani lo ribadisce quasi a ogni pagina. Ma lo 'dimostra' anche?    

Personalmente risponderei di no.

Da una parte, infatti, egli rimanda, almeno implicitamente, alle opere di Camus il quale descrive, in maniera efficacissima, l'assurdità della vita umana (individuale e collettiva), ma non dimostra che ciò che egli descrive (fenomenologia) coincida totalmente con l'interezza del reale (ontologia). La sua visione filosofica si basa sul presupposto che ciò che appare nel mondo sia non solo reale (come è), ma tutto il reale: si tratta di un presupposto abbastanza solido, anzi indiscutibile perché evidente? Oppure resta aperta un’altra ipotesi: che questa vita umana sia assurda se la realtà si esaurisce nell’esperienza sensibile e che acquisti senso se la realtà è più grande, più alta, più profonda dell’esperienza sensibile? Sulla infondatezza di questa seconda ipotesi Pievani non spende una riga. Ma questo significa non degnare di una smentita le centinaia di filosofi – da Parmenide e Platone sino a Wittgenstein e Ricoeur – che hanno indicato nella possibilità dell’Invisibile la chiave per decifrare l’oscuro enigma del visibile.

Se da una parte Pievani si appoggia a Camus, dall'altra rimanda a Monod il quale avrebbe rinforzato la tesi dell'assurdità del cosmo illustrando il meccanismo evoluzionistico per cui tutto ciò che osserviamo oggi è frutto dell'incrocio fra una novità casuale (una modificazione chimica o biologica) e una replica necessaria, negli eredi, di tale novità se risulta conveniente all'adattamento della specie all'ambiente. La teoria di Monod si presta a due diversi generi di obiezioni. A un primo livello si tratta di obiezioni 'scientifiche': per attribuire un evento al caso, basta che sia imprevedibile dall'intelligenza umana sulla base delle leggi naturali sinora scoperte? O un evento potrebbe essere casuale rispetto ai nostri parametri conoscitivi e perfettamente prevedibile rispetto ai parametri conoscitivi di un'intelligenza extra-terrestre più ampia della nostra?  Se punto mille euro su un numero della roulette e vinco, dal punto di vista antropologico è stato certamente un caso; ma date le varie circostanze del momento (forza impressa al disco, temperatura ambientale etc. etc.) è davvero imprevedibile in sé o soltanto per noi

Ma ammettiamo che, sul piano scientifico, la teoria di Monod sia inattaccabile. Se tutti i fenomeni biologici avvengono per caso, questo significa che l'intero universo (all'interno del quale si danno i fenomeni biologici) sia anch'esso frutto del caso? Forse sì, forse no. Ma, se propendiamo per la risposta affermativa, dobbiamo renderci conto che non siamo più nell'ambito della biologia: stiamo facendo affermazioni meta-biologiche, meta-scientifiche, meta-fisiche. Affermazioni filosofiche, in particolare ontologiche. Di questo spostamento di punti di vista mi pare che Pievani mostri poca consapevolezza. 


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sabato 18 marzo 2023

LAZZARO E LA "VERA" MORTE NEL VANGELO DI DOMENICA 26 MARZO 2023


Quinta domenica di Quaresima:

Gv 11, 1-45

 

Per secoli – forse non nei primissimi dell'era cristiana, ma certamente da una quindicina di secoli a oggi – questa pagina del vangelo attribuito a Giovanni è stato letta come resoconto fedele di un evento storico. Così interpretata è servita da cavallo di battaglia per ogni argomentazione apologetica: forse, qua o là, qualche taumaturgo nella storia avrà sanato un ammalato o scacciato un demone, ma un cadavere nessuno mai l'ha richiamato alla vita biologica precedente ! A dire il vero, anche in questa prospettiva cronachistico-storiografica il racconto non era esente da dubbi e obiezioni: si sarebbe trattato davvero di un unicum? Lo studio comparato delle religioni attesta molte narrazioni di guru in grado di restituire il respiro vitale a soggetti defunti. E soprattutto: perché Lazzaro sì e tanti altri amici e amiche di Gesù no? Vale forse una sorta di gigantesco favoritismo soprannaturale per cui i fratelli delle amiche più care (Marta e Maria) meritano trattamenti privilegiati rispetto a chi è privo di raccomandazioni in alto loco?

Comunque questo genere di diatribe ha progressivamente perduto terreno man mano che gli esegeti – per una serie di ragioni che non è il luogo di richiamare – sono arrivati alla conclusione (ormai pressoché unanime) che questa pagina, in coerenza con  tutto il quarto vangelo canonico,  non è stata originariamente redatta come report di un evento, bensì come una sorta di parabola simbolica per annunziare una profonda, sincera, convinzione di fede: che il Maestro di Nazaret può diventare, per chi lo accolga nel proprio spazio esistenziale, un fiotto di vita nuova. Anzi, di vita – qualitativamente, non quantitativamente - “eterna”. Incontrarlo può davvero farci ri-nascere. 

Abitualmente chiamiamo vita – vita buona, vita sana, vita sufficiente – una vita senza malattie invalidanti, senza privazioni particolarmente umilianti, inserita in un contesto sociale tutto sommato accettabile e che ci accetta. Questo dimensione, indubbiamente reale e apprezzabile, esaurisce le potenzialità di una vita umana? O essa vale nella misura in cui consente, come una sorta di pista di decollo, l'esperienza dell'apertura ai grandi orizzonti della conoscenza scientifica, della contemplazione estetica, dell'ebbrezza erotica, dell'inventiva politica, della creatività solidale in difesa dei viventi di ogni specie, dell'unione mistica silenziosa con tutto il reale attingibile? Chi ha incontrato una persona capace di vivere così intensamente, e di innamorarsene, avverte l'insufficienza della sua mera sopravvivenza fisiologica e le si aggrappa per uscire dalla tomba della routine ordinaria (o, secondo un'altra immagine altrettanto celebre, per uscire dalla caverna semibuia dell'insipienza).

Kierkegaard ironizza su un passaggio di questa pagina giovannea: Gesù dice che questa malattia di Lazzaro non è mortale, ma Lazzaro muore. Il Profeta si è sbagliato clamorosamente? La tesi del pensatore danese è sottile: Gesù afferma che le malattie che ci portano alla tomba non sono veramente mortali perché non ci tolgono la vera vita.  Mortale davvero è un altro genere di malattia: il vivere rinchiusi nell'angoscia di “peccare”; il non intraprendere nulla per il timore di sbagliare; il rinunziare alla propria libertà seppellendosi nel conformismo, nel tradizionalismo, nella “santa” mediocrità scambiata per saggio equilibrio. Gesù ha osato rompere gli schemi ereditati e additare, percorrendoli per primi, sentieri inediti all'umanità. Spetta alla insostituibile “singolarità” di ciascuno e di ciascuna decidere se – alla sua sequela – vogliamo vivere in formato ridotto o provare a volare. 

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


(L'omelia 'laica' è stata richiesta dalla redazione di "Adiste-Notizie" e ivi pubblicata nel num. 6 del 25.2.2023)

  

mercoledì 15 marzo 2023

SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? UN PUNTO DI VISTA NEUROBIOLOGICO

LA LIBERTA’ DI SCEGLIERE: SOLO UN’ ILLUSIONE ?

 

Gli esseri umani siamo dei soggetti liberi, e dunque responsabili delle nostre azioni, o punti terminali di meccanismi, a noi ignoti, infinitamente più potenti (la Natura, il Destino, Dio, gli Dei...)? La questione è ormai plurimillenaria e le risposte si distribuiscono, quasi equamente, fra i sostenitori dell’una e dell’altra tesi.

Sinora ne hanno disputato soprattutto filosofi, teologi, letterati e – da poco più di un secolo – psicologi. Da alcuni decenni sono entrati nel dibattito, attrezzati con solidi strumenti d’indagine, anche gli scienziati, in particolare i neurobiologi. Un quadro dello stato attuale della ricerca , abbastanza ricco e certamente accessibile anche ai profani, è offerto dal neurologo e neurochirurgo Arnaldo Benini nel suo Neurobiologia della volontà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022. 

L’autore, pur senza tacere riserve e obiezioni, sembra propendere decisamente per la tesi centrale del libro: l’evoluzione avrebbe consentito l’emergere, nello stesso organo (il cervello) di “due meccanismi con effetti opposti” (p. 95). Da una parte, infatti, il nostro comportamento non è davvero “nostro”, ma effetto di “diversi meccanismi genetici, inconsci, nervosi, cognitivi, emotivi, sociali e della memoria” (p. 93), e ciò è confermato dagli esperimenti attestanti che siamo “coscienti di quel che si farà o penserà solo dopo che ciò è stato avviato inconsciamente dai meccanismi elettrochimici del parenchima cerebrale” (p. 94);  dall’altra parte, però, avvertiamo l’invincibile sensazione che “ciò non sia vero”, che “fra ciò che si pensa e ciò che si fa esista un nesso causale rigoroso”  e che, dunque, siamo “la sola causa del nostro comportamento” (ivi).

Benini suggerisce anche qualche ipotesi che spieghi questa specie di scherzo dell’evoluzione. Se gli umani sapessimo per evidenza ciò che la neurobiologia sembra attestare sperimentalmente  - che cioè non facciamo ciò che vogliamo ma vogliamo ciò che “meccanismi fisico-chimici” (p. 95) ci costringono a fare – saremmo stati indotti, già da millenni, alla disperazione e al suicidio collettivo. Da qui l’azione anonima di un “meccanismo nervoso” che, in tutti “i cervelli umani”, produce l’illusione fortissima di essere dotati di una “libera volontà” (ivi), senza la quale non avrebbero potuto innescarsi “i meccanismi della fede religiosa e della certezza della sopravvivenza” (p. 96).

Quali considerazioni suggerisce, alla fine, questo saggio documentato e provocatorio?

Innanzitutto che i filosofi devono rassegnarsi a imparare dagli scienziati quali sono i dati acquisiti e quali i dati problematici offerti dall’esperienza. La scienza,  insufficiente a capire il mondo, è però necessaria. Scavalcarla sarebbe impossibile come per un aereo che volesse bypassare ogni  pista di decollo. 

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giovedì 9 marzo 2023

ORLANDO FRANCESCHELLI RILANCIA INTRIGANTI SAGGI DI KARL LOEWITH


 Il cosmo è più grande del mondo degli uomini: Karl Loewith e la lezione dei Greci

 

Secondo Jacques Maritain, con Descartes la filosofia compie una svolta fondamentale: da onto-sofia (ricerca dell’essere da parte del soggetto) diventa ideo-sofia (ricerca del pensiero del soggetto). Qualcosa del genere afferma un altro tomista del Novecento, Cornelio Fabro: il “principio di Parmenide” (se si pensa, si pensa l’essere) viene sostituito dal “principio d’immanenza” (se si pensa, si pensa se stessi pensanti). Questi rivolgimenti possono sembrare sottigliezze cerebrali, ma Sartre si è incaricato di mostrarne le estreme conseguenze: passare dal “sum, ergo cogito” al “cogito, ergo sum” significa aprire la strada a un soggettivismo antropocentrico fuori dal quale l’essere (il reale, ciò che è) risulta senza senso, assurdo. Ci si trova dunque smarriti in un mondo, muto e opaco, in cui saremmo stati “gettati” da Nessuno in vista del “Nulla” che ci attende.

Tra i pensatori post-nietzschiani che non si sono riconosciuti in questa autostrada affollata di nichilisti di vario stampo non ci sono solo personalità di credenti, ma anche “scettici” come Karl Loewith (1897 – 1973) che, pur essendo autore di opere consistenti, è rimasto immeritatamente in seconda fila nel dibattito pubblico. Tra gli studiosi che ne hanno valorizzato, e rilanciato, l’apporto, va annoverato Orlando Franceschelli, a partire dalla  fortunata monografia Karl Loewith. Le sfide della modernità tra Dio e il nulla del 2000. Dopo aver curato, tra l’altro,  la traduzione italiana di Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, adesso lo stesso Franceschelli offre una raccolta di cinque interventi del pensatore tedesco in un volume intitolato Il cosmo e le sfide della storia (Donzelli, Roma 2023, pp. 159, euro 19,00) e arricchito da una sua articolata Introduzione ( «La natura – intorno a noi e in noi stessi») in cui evidenzia il filo rosso dei testi loewithiani (scritti in occasioni e tempi differenti). 

Il primo saggio, Mondo e mondo umano, costituisce una decisa apologia del realismo cosmologico dei Greci che non può essere archiviato come mero documento del passato e che, anzi, va recuperato e attualizzato in funzione critica rispetto a quelle versioni del pensiero cristiano, dello storicismo e dell’esistenzialismo che tendono a ridurre tutto il “mondo” al “mondo umano”. Un’apologia davvero contro-corrente in una cultura dove, persino nel linguaggio abituale, si è persa la differenza fra il “mondo” come totalità sociale (che va incessantemente trasformato) e il “mondo” come totalità naturale (che va conosciuto, contemplato, ammirato, rispettato, senza risibili tracotanze prometeiche da parte di noi umani che ne costituiamo una particella infinitesimale). Molto intense le pagine dedicate alla filosofia come figlia di quello “stupore” che “si stupisce” che “qualcosa sia precisamente così come è, che sia così e non altrimenti” (p. 41). Wittgenstein aggiungeva che il filosofo si stupisce, ancor più radicalmente, del fatto che qualcosa – prima di essere così o altrimenti – è: ma Loewith si vieta di stupirsi sino in fondo perché  paventa in ogni postura “mistica”  - sia pur laicissima come nel caso del pensatore austriaco – un misconoscimento dell’autonomia (ontologica) dell’universo. 

lunedì 6 marzo 2023

UNA SPIRITUALITA' RAGIONEVOLE OLTRE I MITI MISCONOSCIUTI IN QUANTO MITI

 

UNA SPIRITUALITA' RAGIONEVOLE OLTRE I MITI MISCONOSCIUTI IN QUANTO MITI

L'epoca delle religioni è tramontata definitivamente ? In Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana(2016) vari autori, coordinati da Claudia Fanti e Ferdinando Sudati, hanno argomentato la loro risposta quasi del tutto affermativa (almeno per quanto riguarda l'Occidente e i Paesi che ne sono stati influenzati culturalmente) inaugurando una Collana, dei Gabrielli Editori, intitolata appunto “Oltre le religioni” . Soprattutto in un'opera successiva, Il cosmo come rivelazione. Una nuova storia sacra per l'umanità (2018), a cura di Claudia Fanti e José Maria Vigil, non ci si è limitati alla pars destruens e i co-autori hanno provato a tratteggiare degli scenari post-religionali e post-teistici attingendo alle suggestioni della fisica e della cosmologia contemporanee. Poiché a mettere in crisi i paradigmi culturali e istituzionali non sono soltanto le scienze fisiche, ma anche – almeno altrettanto – le scienze antropologiche (in particolare le neuroscienze e la cibernetica), gli stessi curatori hanno dato alle stampe un terzo volume della medesima Collana editoriale: Una spiritualità oltre il mito. Dal frutto proibito alla rivoluzione della conoscenza (2019).

I termini della questione sono ben evidenziati da Y. N. Harari nel suo Sapiens. Da animali a dei (Bompiani, Milano 2017):

 

 “la prossima fase storica comprenderà non solo trasformazioni tecnologiche e organizzative, ma anche trasformazioni fondamentali nella coscienza e nell'identità umane. E queste potrebbero essere così radicali da mettere in questione lo stesso concetto di «umanità»” . “Se è vero che sta per calare il sipario sulla storia di Homo sapiens, noi che apparteniamo a una delle sue generazioni finali dovremmo dedicare un po' di tempo a rispondere a un'ultima domanda: che cosa vogliamo diventare?” (p. 294, qui citato a p. 39).

 

Non è facile esagerare la gratitudine che dovremmo nutrire verso quanti, approfondendo e divulgando tali tematiche cruciali,  ci strappano alla banalità delle baruffe da cortile tra partiti e partitini per ricordarci la gravità di simili interrogativi, da cui – per riprendere un'altra citazione da Harari - “non sono spaventati” solo coloro che “non ci hanno riflettuto abbastanza” (p. 295, qui citato a p. 39). 

In realtà, siamo davanti a un bivio: o proseguire per la strada dell'era “tecnozoica” (Thomas Berry),  “della tecnoscienza al servizio del capitale, in un processo inarrestabile di biocidio e geocidio”, o virare verso l'orizzonte di un'era “ecozoica” (ancora Berry) in cui abbracceremo finalmente un'altra visione – biocentrica, cosmocentrica - , in comunione con la comunità di vita di cui siamo parte” (C. Fanti,p. 41). La scelta non è più una questione di “fede”: come recita il titolo del contributo di J. M. Vigil, Non si tratta più di “credere” ma di Attualizzare l'epistemologia (p. 47). In termini elementari: 

 

“Nella nostra epoca, pretendere che una persona colta e critica accetti un'interpretazione globale della Realtà e un significato per la propria vita sulla base di alcuni miti ancestrali, per quanto geniali fossero all'epoca, contravviene decisamente alle esigenze minime di dignità, intelligenza e onestà intellettuale in grandi settori dell'umanità colta. Molte di queste centinaia di milioni di persone che hanno abbandonato la religione, o addirittura realizzato un atto di apostasia, lo hanno fatto come un grido di dignità e di onestà, o come una richiesta di soccorso per non soffocare esistenzialmente. Con tutto il diritto. E con tutta la ragione epistemologica” (p. 63). 

 

Pur con la comprensione e il rispetto verso chi decide di gettare a mare l'intero “pacchetto” delle religioni storiche, è lecito ipotizzare un'operazione diversa, consistente in una sorta di estrazione dal guscio inaridito della “religione” il succo ancora tonico della “spiritualità”:

 

“La spiritualità è per definizione l'essenza della religione, nel senso che, al di là degli aspetti sociologici della religione stessa, dei suoi edifici e delle sue gerarchie, dei suoi codici canonici e delle sue liste di cose permesse e cose proibite, c'è pur sempre al centro di essa la ricerca di qualcosa di reale e significativo, qualcosa che dia senso alla vita. La spiritualità non è altro che la ricerca di questo 'qualcosa', che spesso chiamiamo 'spirito'. Si tratta di vivere a partire dal profondo di noi stessi e non dalla superficie delle cose, a partire dal proprio vero Sé e non dal proprio 'personaggio' (ovvero dalla 'persona interiore' invece che dalla 'persona esteriore') (M. Fox, p. 192). 

 

In questo contesto storico-culturale, nel quale non si sperimenta nulla di nuovo se non ci si spoglia delle vecchie e oppressive corazze, è comprensibile, anche se non giustificabile, che molti “reagiscano con tanto timore, addirittura con panico, e con intolleranza e atteggiamenti di condanna”; ma è incoraggiante constatare altresì che

 

“sono già molte le persone che, con l'ausilio della prospettiva laica della scienza, sono giunte a percepire che la realtà, compresa quella religiosa, come ogni cosa in questo cosmo che conosciamo, è evolutiva, viva, in movimento perpetuo, e a rendersi conto che anche l'umanità è attualmente immersa in una profonda trasformazione, in un nuovo «tempo assiale». Persone che sfruttano con gioia il privilegio di vivere in un tempo così stimolante, cogliendo l'occasione di collaborare con la sua ricerca e la sua creatività, orgogliose del coraggio che hanno avuto di liberarsi epistemologicamente e di uscire dalla gabbia per passare a guardare tutto da una prospettiva superiore” (J.M. Vigil, p. 65). 

 

E' all'interno di questo scenario che la “spiritualità”, finalmente slegata dall'identificazione con la “religione”, può trovare una nuova interpretazione:

 

“Quando ci concediamo il tempo di meditare, potenziando la nostra consapevolezza della grande rete cosmica e terrestre di cui siamo parte, quando ci consentiamo di ascoltare la saggezza dei nostri stessi corpi e la voce istintiva che ci parla dai nostri geni, possiamo entrare in contatto con energie primordiali tali da condurci a una trasformazione personale e collettiva.

La pratica spirituale, allora, non sarebbe la contemplazione di mondi eterei distanti dalle realtà terrene: sarebbe, piuttosto, l'ingresso in una profonda comunione con la dimensione corporea, pre-cosciente, pre-umana del nostro stesso essere, la quale costituisce un'espressione specifica e concreta della totalità sacra che è l'Universo.

In quest'epoca di pericoli senza precedenti, in cui l'antropocentrismo di un'umanità che ha acquisito immensi poteri tecnologici rischia di provocare la nostra estinzione come specie, la costruzione di una nuova forma di relazionarci con il pianeta e i suoi abitanti non-umani è diventata urgente e imprescindibile” (D. Molineaux, pp. 96 – 97). 

 

Il rinnovamento della vita spirituale sarebbe monco – o addirittura falso – se non fosse pensato e vissuto come motore di un cambiamento socio-politico. Mary Judith Ress attira l'attenzione su una di queste possibili piste: l'eco-femminismo. Riallanciandosi a proposte ed esperienze varie, traccia tre passaggi di un cammino effettivo verso l'epoca “ecozoica”:

 

“Il primo è la creazione di terapie, spiritualità personali e liturgie comunitarie attraverso cui nutrire e simboleggiare una nuova coscienza biofilica.

Il secondo è il ricorso alle istituzioni locali su cui esercitiamo un certo controllo – scuole, chiese, attività commerciali gestite localmente – come progetti pilota per una vita ecologica.

Il terzo è la costruzione di reti di organizzazioni che, a livello regionale, nazionale e internazionale, assumano l'impegno di cambiare le strutture di potere legate all'attuale sistema di morte” (pp. 115 – 116).

 

Come si intuisce da queste brevi citazioni, la spiritualità che si prevede – o per lo meno si auspica – in queste nuove prospettive teologico-filosofiche è insofferente di barriere limitanti e, ancor di più, di contrapposizioni polemiche. Lo ribadisce, insieme a tutti gli altri co-autori e a tutte le altre co-autrici del volume, anche l'ex-gesuita - animatore della comunità di base aragonese di Almofuentes – S. Villamajor Lloro:

 

“ Né la religione di un altro mondo, né una laicità insignificante. E' il momento di modellare lentamente e rispettosamente la nuova umanità, a partire dall'amicizia civica e dal desiderio di sapere, dall'amore incondizionato che comincia dai più deboli, dall'apertura a ciò che ci sorpassa. E di costruire così una nuova ragione (razón) e un nuovo cuore (corazón). Un nascente co-razón che ci orienti tutti nella diversità” (p. 187).

 

In tutto questo processo di radicale rinnovamento, c'è qualcosa del cristianesimo che resterebbe valido e proficuo? Come risponde, in pagine acute e anche letterariamente sapide, don Sudati, dopo l'ormai improcrastinabile de-mitizzazione (avviata nel XX secolo da Rudolf Bultmann), resterebbe un “quasi niente” che è, però, un “quasi tutto” da cui ripartire: il “cuore dell'insegnamento di Gesù” riassunto nelle beatitudini seguite, nel vangelo secondo Luca, da altrettanti “guai a voi”. Il “poco” che rimane è il “molto” e il “tutto” perché è “l'essenziale” (condivisibile da “tante comunità e singole persone che si riconoscono in questa base umanitaria e sono capaci di benevolenza e altruismo, indipendentemente dalle loro convinzioni religiose o dall'assenza di esse”)   (F. Sudati, pp. 136- 137).

 

Come tutti i testi interessanti, anche questi raccolti amorevolmente dalla Fanti e da Vigil pongono interrogativi. Ne evidenzio solo tre.

Il primo riguarda proprio una formula nel titolo: “oltre il mito”. Si sa che nei titoli bisogna essere sintetici e incisivi, ma ciò comporta rischi di fraintendimento. La nuova spiritualità vuole andare davvero “oltre i miti” o non piuttosto oltre l'interpretazione letterale – dunque erronea, fuori registro, inappropriata – dei miti? Può esistere una spiritualità senza miti e, nell'ipotesi improbabile che lo possa, è anche augurabile che ci riesca? La risposta si trova nell'ultimo – e non certo meno prestigioso – contributo della raccolta, là dove Fox scrive:

 

“L'assenza di miti significherebbe l'assenza di musica, di arte, di cinema, di riti. Vivere senza miti? Ma scherziamo ? Buona fortuna davvero! I miti giocano un ruolo indispensabile nella vita dell'individuo e della comunità, sono una parte ineliminabile della nostra umanità. [] Nell'epoca postmoderna non è sufficiente demitologizzare o decostruire, abbiamo anche bisogno di rimitologizzare e ricostruire” (p. 197). 

 

La distinzione di statuto epistemologico fra i discorsi scientifici e i discorsi meta-scientifici (includo qui, senza ulteriori distinzioni interne, la filosofia e la poesia) non sempre viene rispettata. Quando, ad esempio, un autore solitamente attento come M. J. Vigil afferma che “non abbiamo bisogno di credere (né è più possibile farlo) in una creazione nata da alcuni ordini (fiat lux) o dall'alito insufflato in un fantoccio di fango”, dal momento che “ciò che in tempi antichi immaginavamo miticamente come «creazione attraverso la parola» da parte di un Ente preesistente è stato invece  un processo cosmico evolutivo di milioni di anni” (p. 56), non dà l'impressione di un confronto fra due teorie dello stesso genere, di un'alternativa (“invece” !) sullo stesso piano? E' quanto chiarisce, a mio parere molto bene, Santiago Villamayor: “il «Big Bang» e la creazione sono riferimenti che si pongono a livelli epistemologici distinti. Parlando del primo, ci collochiamo a un livello empirico, parlando del secondo ci poniamo a un livello simbolico. E così avviene con molti altri miti” (p. 174). Le scienze naturali e umane compiano, più a fondo che possano, il proprio preziosissimo e insostituibile compito di raccontare il “come” dell'universo, ma senza illudersi e illudere di risolvere la domanda sul “perché”. Per esprimerci con Javier Montserrat (citato da Villamayor nella medesima pagina) l'universo moderno e contemporaneo resta “un universo enigmatico che ci pone nell'incertezza metafisica di non sapere se il suo fondamento ultimo è Dio o un puro mondo senza Dio”. 

Se dalla “incertezza metafisica” si possa mai evadere, o se vi siamo condannati in eterno, è – appunto – una questione che rientra in quella disciplina denominata “metafisica”: una questione cioè di competenza dei filosofi che si occupano di filosofia della religione, di ontologia e di teologia 'filosofica' (o 'razionale' o 'naturale'). E questa considerazione mi suggerisce un terzo e ultimo interrogativo: come mai in questo volume, come per altro nei tre precedenti della medesima Collana editoriale, non c'è quasi nessuna traccia dei pensatori occidentali come Hegel e soprattutto Schelling che hanno, da secoli, prospettato e argomentato teorie onto-teologiche estremamente simili alle  teorie condivise dai nostri co-autori? E' solo una questione di formazione biografica o ci sono delle motivazioni più profonde (e dunque più interessanti da esaminare) che restano, però, nel non-detto?

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


“Viottoli”

2022, 2

 


venerdì 3 marzo 2023

DAVIDE GIANNO' E LA SUA VITA (INSOLITA) DA "UOMO COMUNE"

 

STORIA DI UN UOMO COMUNE

Nella prima metà del Novecento un gruppo di storici francesi, collaboratori della rivista “Annales”, ha impresso una svolta significativa al modo tradizionale di fare storiografia: non più a partire dall’alto, dai re e dagli eroi più famosi, ma dal basso, dalla vita quotidiana della gente comune. Non più (solo o principalmente) la macro-storia, ma (anche e soprattutto)  la micro-storia.

L’intervista autobiografica di Vittorio Chiparo al nonno Davide Giannò (Storia di un uomo comune, Albatros, Roma 2022, pp. 218, euro 15,90)  può essere considerata un prezioso documento per chi volesse ricostruire la storia di un cittadino palermitano a cavallo fra il XX e il XXI secolo: infatti ci sono squarci di vita, episodi, ambienti fisici e psicologici...di cui la “grande” storia non si occupa, condannandosi così a offrire una rappresentazione parziale dell’epoca.

Mi limito a un solo esempio. Quale monografia scientifica potrebbe rendere altrettanto efficacemente il regime patriarcale vigente in molte famiglie siciliane ancora mezzo secolo fa come riescono le pagine in cui si rievocano i metodi durissimi, violenti, con cui il padre di Sara, allora fidanzata e poi sposa del protagonista, vietava alla figlia qualsiasi contatto – perfino telefonico – con il corteggiatore? Ce ne dovremmo ricordare quando ci stupiamo del maschilismo patriarcale  di molte famiglie islamiche odierne...

Ma il valore di questo libro non è solo documentario. Esso ha anche un interesse letterario. Mi riferisco ad alcuni versi, seminati qua e là, tra le pagine, ma ancor più alla trama intrigante: davvero ci sono vite reali che sembrano inventate da romanzieri geniali!


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martedì 28 febbraio 2023

QUANDO LA BIBBIA PARLA DI EROS, AI TRADUTTORI S'INCEPPA LA PENNA....

by Augusto Cavadi

Nel suo Amori biblici censurati. Sessualità, genere e traduzioni erronee (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2023, pp. 302, euro 28,00) K. Renato Lings si propone di evidenziare il “legame tra le attuali versioni della Bibbia da un lato e gli atteggiamenti negativi verso l’omoaffettività dall’altro” (p. 11). Non si tratta dunque di un’opera filologica ed esegetica soltanto, ma anche teologico-morale e direi politica: infatti la Bibbia, “grande codice” (N. Frye) della cultura occidentale, almeno sino ai nostri giorni, ha influenzato – nel bene e nel male – i giudizi e i comportamenti di tante popolazioni, indipendentemente dalle opzioni di fede individuali. 

Alla radice di tante incomprensioni un dato di fatto storicamente incontrovertibile: i teologi cristiani, sino alla Riforma protestante e in molti casi anche oltre, hanno letto (e talora tradotto) la Bibbia senza conoscere la lingua del Primo dei due Testamenti, l’ebraico. E’ stata ritenuta sufficiente la padronanza del greco (la lingua della Bibbia dei Settanta in epoca ellenistica) e del latino (la lingua della Vulgata).

Un caso esemplare è costituito dai capitoli 14,18 e 19 del libro della Genesi:  la (falsa) interpretazione medievale, secondo cui le città di Sodoma e Gomorra sarebbero state “distrutte a causa dell’eccessiva propensione degli abitanti alle relazioni sessuali tra uomini e uomini” , ha comportato “conseguenze fatali per decine di migliaia di persone con relazioni omoaffettive” (p. 63). Come spiega Lings, nel Testamento ebraico “più e più volte i profeti usano il nome di Sodoma come metafora dell’arroganza, dell’abuso (di potere) e dell’oppressione dei deboli, in particolare delle vedove, degli orfani e degli stranieri” (pp. 98 – 99). 

Un’intera sezione del volume (la terza) esamina, puntualmente, le forzature sessuofobiche – anzi, per la precisione, spesso omofobiche – delle traduzioni tradizionali (in lingua inglese, ma non solo) di passi cruciali quali:

·      Levitico 18,22 (“una frase ebraica ermetica e imbarazzante”, con almeno 17 interpretazioni,  nella traduzione viene semplificata per renderla “perfettamente appetibile al pubblico moderno” ) (p. 119);

·      Giudici 19-20 (due capitoli vengono che, impropriamente, letti come “immagine speculare” di Genesi 18 -19) (p. 122)

·      Prima Corinzi, 6, 9 – 10 (termini insoliti vengono sbrigativamente tradotti con vocaboli – quale “omosessuali” – coniati solo nel XIX secolo) (p. 146)

·      Romani 1, 26 – 27 (le frasi greche vengono “riferite a relazioni omosessuali anche quando descrivono semplicemente comportamenti non convenzionali”) (p. 163)

Una quarta sezione del libro è dedicata a degli “amori biblici” che, secondo l’autore, sono stati “censurati” dalle tradizioni ecclesiastiche: tra Naomi e la nuora Rut, tra Davide e l’amico Gionata, il centurione romano e il suo ragazzo, Gesù e il discepolo prediletto...E’ senz’altro la parte più problematica dell’opera, ma mi pare che l’autore abbia individuato la traiettoria più felice fra due possibili estremismi: da una parte negare che questi personaggi siano stati rappresentati come legati da vincoli affettivi particolari (non riducibili alle ‘normali’ relazioni di parentela o di amicizia), dall’altra applicare a tali vincoli straordinari le categorie odierne di “omosessualità” (e simili). Ciò che si può affermare con certezza è che la Bibbia conosce varie declinazioni dell’amore e che solo il bigottismo moderno ha tentato (e tenta) di separare nettamente le versioni ‘legittime’ dalle ‘illegali’ e ‘peccaminose’.


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sabato 25 febbraio 2023

LA 'SANTA' INQUISIZIONE E LE SUE VITTIME

 

(Foto di una composizione in metallo di Adriana Saieva)

“Il Gattopardo”

Dicembre 2022

LA ‘SANTA’ INQUISIZIONE E LE SUE VITTIME

 

Tra i molti luoghi intriganti che un turista può visitare a Palermo vanno annoverate le carceri dell'Inquisizione a palazzo Steri (sede attuale del 'governo' di un'istituzione un po' meno chiacchierata: l'Università degli Studi). Come notano gli storici, se il Sant'Uffizio romano non scherzava, ancor più efferatamente agiva l'Inquisizione spagnola nelle sedi di Madrid e di Palermo. E i documenti sopravvissuti al rogo liberatorio, voluto dal viceré 'illuminato' Domenico Caracciolo, ci parlano non solo di giudici e accusati, ma della società siciliana dal XVI al XVIII secolo.

Tra le considerazioni che emergono dalla lettura di quei testi è che, tra i condannati al rogo per eresia, vi erano intelligenze evolute che anticipavano, genialmente, tesi teologiche che nel XX e nel XXI secolo sarebbero state recepite dalla Chiesa cattolica come ovvie. Il frate eremitano David Chenic (sassone, ma residente nell'Isola) veniva condannato perché sosteneva che un buon cattolico dovesse pregare per i defunti non solo della propria religione, ma anche del popolo ebreo e di altre confessioni. Stessa sorte per il prete don Corrado De Ribera, reo di sostenere – esattamente come farà il Concilio ecumenico Vaticano II nel 1965 – che tutte le religioni possono condurre alla salvezza eterna. Come nota Maria Sofia Messana, nel suo Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500- 1782), riedito da Sellerio, “la composizione multirazziale della società siciliana, la vicinanza con le culture del Nord-Africa e del vicino Oriente, l'esistenza di una legislazione laica ed ecclesiastica di relativa tutela per i fedeli di religioni diverse rendono la Sicilia una terra in cui la comprensione per le altre culture forse ha più ragioni che altrove” (p. 167). 

Allora ci pensarono papi e inquisitori a soffocare queste tendenze alla tolleranza e all'ospitalità. Oggi sono altre le organizzazioni politiche e culturali che si assumono lo stesso compito educativo criminogeno. 

 

Augusto Cavadi

 

 

giovedì 23 febbraio 2023

PERCHE' LE GUERRE? INDICAZIONI DALLE NEUROSCIENZE (SECONDO MARIO MULE')


 Mario Mulè

Perché le guerre? Alcune risposte possibili

 

A metà degli anni Trenta del Novecento Walter Hess, studiando il funzionamento cerebrale di un gatto, osservò che la stimolazione con un elettrodo di un’area specifica del cervello provocava una intensa reazione di collera. Molte discussioni vennero provocate da questa ricerca, a partire dal dibattito tra due diverse “posizioni”: si trattava di “vera” rabbia o, come sostenevano i comportamentisti dominanti nel panorama scientifico di quel periodo, di  “finta” rabbia ?

Oggi quasi nessuno dubita che gli animali sentano emozioni che li guidano nell’apprendimento e nel comportamento. Ma già allora era abbastanza conosciuta la somiglianza, sia anatomica che funzionale, tra tutti i cervelli dei mammiferi: sembrava quindi che si potesse cominciare a capire l’origine dell’aggressività, negli animali e nell’uomo. Per questa ragione la scoperta, nel 1949, valse ad Hess il premio Nobel.

Oggi viene dato un valore limitato a tale scoperta: anzitutto perché si è capito che strutture, circuiti e meccanismi cerebrali coinvolti nell’emozione chiamata ‘collera’ sono molto più complesse; poi perché non sembra che possa fornire un’adeguata comprensione dell’aggressività nell’uomo e meno ancora della guerra. E’ lo stesso Panksepp, fondatore  delle neuroscienze affettive, che ci ammonisce: “poco di quello che possiamo dire ( della collera) può illuminare le cause della guerra nella specie umana”[1].

Altri studiosi, ispirati dalla teoria dell’evoluzione, hanno rivolto la loro attenzione agli scimpanzè con i quali condividiamo quasi tutto il nostro patrimonio genetico. Hanno argomentato che obbligatoriamente troviamo nell’uomo aggressività e violenza, vista la nostra discendenza da tali animali, notoriamente rissosi e violenti. Tuttavia un’analisi più attenta mette in dubbio questa convinzione, perché non è dimostrata la nostra discendenza dagli scimpanzè. I nostri antenati potrebbero essere stati i bonobo, molto più pacifici, e forse non conosciamo ancora quale specie ci ha preceduto ( il famoso “anello mancante” di cui siamo ancora alla ricerca).

La convinzione di una nostra discendenza da animali violenti è stata sostenuta da autorevoli pensatori, tra i quali Freud cui si deve l’idea di “un’orda primitiva” precedente la civilizzazione umana. Tale ipotesi finora non ha trovato nessuna conferma dalle ricerche archeologiche, anzi mancano del tutto prove che confermino l’esistenza delle guerre prima di dodicimila anni fa, epoca della rivoluzione agricola. E c’è anche chi sostiene che nella preistoria umana sia stata presente una società matriarcale, più amorevole e prosociale.

C’è anche un’altra ipotesi, anch’essa di derivazione darwiniana, che prende in esame l’istinto predatorio, presente in molti animali, che avremmo ereditato. Gli studi scientifici, in realtà, ci dicono che l’istinto predatorio è molto diverso dalla violenza e dall’aggressività. Un esempio può chiarire queste differenze: un gatto arrabbiato avrà il corpo inarcato, il pelo irto, per apparire più grande, le unghie fuori dalle zampe, emetterà messaggi minacciosi; al contrario, un gatto che caccia una preda sarà cauto, silenzioso, attento, si acquatterà per rendersi meno visibile dalla preda.

C’è un altro “istinto primitivo” da esaminare come fattore importante del comportamento violento, l’istinto di potenza. Esso ha ricevuto molti consensi, provenienti da ambiti diversi. Dall’ottica della psicologia comparativa è stato detto, senza mezzi termini: “E’ inutile nascondere questa realtà: siamo una specie gerarchica”[2].  Kissinger (vissuto per molti anni vicino ai potenti) affermava che      “ per i maschi il potere è il sommo afrodisiaco”. Anche in ambito psicologico e clinico si ipotizza un sistema motivazionale finalizzato a definire il rango, cioè la posizione gerarchica nel gruppo di appartenenza [3].

La condizione gerarchica, ( che implica l’esistenza di capi) merita uno studio attento, ma ha visto finora prevalere le riflessioni in ambito filosofico ( Hobbes, Nietzsche, Macchiavelli). Seneca ha detto: “ I potenti della Terra esercitano l’ira come una specie di regale insegna”. Pochi sono gli studi sui capi. In ambito biologico è stato trovato che negli animali in posizione alfa si trovano alti livelli di cortisolo, che favorisce una iperattivazione dei sistemi di allarme, dannosa per la salute del corpo e della mente.

In ambito psicologico pochi hanno provato a riflettere sulla personalità dei capi. Uno di questi è stato Fromm, che ha dedicato in un suo libro un intero capitolo allo studio della personalità di Hitler[4]. Visto che sono i capi che decidono di muovere gli eserciti e le armi, potrebbe essere molto utile saperne di più su di loro.

C’è ancora almeno un altro aspetto emotivo da considerare ed è l’odio per il nemico, quasi necessario nelle guerre. Cosa possiamo dire dell’odio? Si pensa che sia un modo di sentire specificamente umano, frutto avvelenato di alcune funzioni evolute, come la capacità di immaginare, di pianificare progetti, compresi quelli di aggressione e di vendetta.

Proviamo adesso a sintetizzare le annotazioni fatte finora: esserci rivolti all’archeologia della mente ci ha consentito di acquisire alcune nozioni utili, ma non di capire l’origine della guerra. Per questa via, simile a quella seguita da Freud nella risposta ad Einstein che si interrogava sul perché della guerra, non si arriva molto lontano.  Nella sua risposta Freud, alla fine delle sue riflessioni (non certo banali),  diceva: “Le chiedo scusa se le mie osservazioni l’hanno delusa”[5].


 

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[1] Panksepp J.- Biven L., Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina Editore, Milano  2014   .

 

[2] Frans de Waal, L’ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali,                                                                                      Raffaello Cortina Editore, Milano 2020 .

[3] Liotti G. -  Monticelli F. , I sistemi motivazionali nel dialogo clinico,    Raffaello Cortina Editore, Milano  2008.

[4] Si tratta del cap. XIII di Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1978.

[5] Perché la guerra? Carteggio tra A. Einstein e S. Freud in  Freud S.,  Opere, Boringhieri, Torino 1979.


lunedì 20 febbraio 2023

SMASCHERARE LA MASCHILITA' TOSSICA


 SMASCHERARE LA MASCHILITA' TOSSICA

 

Tra maschi capita d'incontrarsi per una partita a calcetto o per una pizza tra ex-compagni di liceo. Di solito si parla un po' di sport, un po' di donne e un po' di lavoro (se c'è o se lo si cerca ancora). A molti basta, ad alcuni no. Per esempio a un gruppetto di 6 o 7 amici milanesi, che s'incontravano agli inizi degli anni Novanta a cena in qualche locale o a casa di qualcuno di loro, questa modalità di stare insieme ha finito col risultare insoddisfacente. Così hanno deciso di darsi un appuntamento mensile stabile in cui poter intrecciare il cazzeggio con il racconto serio delle cose belle e brutte che accadono nelle vite normali e, non senza auto-ironia, si sono chiamati gruppo GNAM: che sta per mangiare in allegria, ma è anche l'acronimo di Gruppo Nonviolento di Autocoscienza Maschile. 

Dopo più di trent'anni questa piccola compagine ha avvertito il desiderio di mettere per iscritto la sua esperienza nell'agile, interessante, libretto Maschilità smascherata. L'esperienza del gruppo GNAM, a cura di M. Forlani, Prospero Editore, Novate Milanese 2022, in cui hanno modo di esplicitare dettagliatamente le cinque scoperte più significative realizzate lungo il percorso: 

“1. Un senso di libertà e di liberazione. Poter parlare liberamente di sé, dei propri stati d'animo, delle proprie emozioni, di quello che di solito si fa fatica a condividere con gli altri e specialmente con altri uomini.

 2. Sfogarsi e affrontare quello che non va; disporre di uno spazio dove poter condividere le proprie fragilità e alcuni particolari momenti di crisi e di difficoltà, senza timore di essere giudicati.

3. Creare uno spazio di ascolto e di solidarietà: sapere che non c'è solo un amico, ma addirittura un gruppo che è pronto all'ascolto e se chiedi aiuto c'è sicuramente. 

4. Maggiore consapevolezza di sé e del proprio modo di vivere le relazioni e le emozioni (in particolare nei confronti delle donne, ma non solo). 

5. Potersi confrontare su temi legati alla maschilità (stereotipi maschili, modelli tradizionali, maschilismo, violenza contro le donne ecc.) in un'ottica di rielaborazione critica e di ricerca di possibili vie d'uscita dai modelli di maschilità tradizionale” (pp.  43 – 44).  

Via via il piccolo gruppetto di Milano viene ad apprendere che altri maschi, in altre città italiane, hanno avvertito esigenze simili e hanno avviato esperienze analoghe: Pinerolo, Torino, Roma, Lucca, Bari, Verona, Palermo...Molti di questi circoli, su iniziativa di Stefano Ciccone (che firma la Prefazione a questo libro), si coordinano in un movimento nazionale, luogo di scambio e di sostegno reciproco: “Maschile plurale” (www.maschileplurale.it). Perché “plurale”? Il presupposto è che, tradizionalmente, almeno in Occidente, ci sia stato un modo solo, unico, 'singolo' di essere maschio: “il vero uomo è quello che controlla le sue emozioni e non si lascia travolgere da esse; il maschio sviluppa questo controllo grazie alla propria razionalità che lo rende capace di analizzare i problemi, formulare ipotesi sulle cause, definire strategie o soluzioni per risolverli. Va dritto al punto e cerca di risolvere il problema o per lo meno cerca di gestirlo, non sta a farsi inutili menate o a perdersi nel tunnel dell'emotività, ma decide e passa all'azione” (p. 45). Ebbene, chi si riconosce nella filosofia di “Maschile plurale” ritiene giusto dare a sé stessi prima di tutto, e poi agli altri maschi soprattutto delle nuove generazioni, la possibilità di optare fra vari, 'plurali', modelli: il maschilista-patriarcale anaffettivo, se lo si vuole ereditare;  ma anche altri modelli più aperti ai sentimenti, più disposti a riconoscere le proprie fragilità, più capaci di vedere le cose dal punto di vista delle altre persone (in particolare se di genere femminile), più inclini a prendersi cura dei piccoli, dei sofferenti, degli altri esseri viventi; più propensi a gestire i conflitti inevitabili con atteggiamento nonviolento...

A proposito di quest'ultimo aspetto gli autori di Maschilità smascherata fanno notare che non si tratta di rinunziare alle lotte sociali con mobilitazioni collettive, quanto di affrontarle con nuove modalità non più legate “alla retorica dello scontro militarizzato contro la polizia, nelle quali si riproduceva il modello del maschio virile e guerriero” (p. 147): “gli uomini che partecipano ai movimenti hanno quindi la possibilità di partecipare all'azione conflittuale  mettendo in gioco altri elementi come la creatività, la capacità di comunicare, la capacità di lavorare in gruppo con modalità cooperative” (p. 146).


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venerdì 17 febbraio 2023

MAFIA E ANTIMAFIA: FACCIAMO IL PUNTO !

 


MAFIE (NON SOLO MERIDIONALI): A CHE PUNTO SIAMO ?

 

L'opinione pubblica – inclusi i mondi della cultura, dell'informazione e della politica – si occupano di mafia in occasione di eventi clamorosi, come l'arresto di Matteo Messina Denaro. Ma c'è anche in Italia un ristretto numero di intellettuali, magistrati, docenti e attivisti che non spegne gli interruttori cerebrali tra un evento e un altro e, con tenacia, persevera e nel monitorare il fenomeno mafioso e nell'aggiornare le possibili strategie di contrasto. Tra questi focolai di opposizione metodica al sistema di potere mafioso va annoverato il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, fondato (già nel 1977 !) da Umberto Santino e Anna Puglisi che insieme continuano a dirigerlo, non senza la collaborazione di socie e soci con cui, da alcuni anni, hanno anche aperto nel cuore del centro storico del capoluogo dell'isola il “No mafia memorial”.

Il Centro “Giuseppe Impastato” e il Dipartimento “Culture e società” dell'Università statale hanno  organizzato nel 2017 un convegno nazionale per raccogliere, dalla voce di esperti qualificati, analisi e proposte sul tema. Solo in questi mesi è arrivata in porto la pubblicazione degli atti in un bel volume, a cura di Umberto Santino, intitolato Mafie: a che punto siamo? Le ricerche e le politiche antimafia, Di Girolamo, Trapani 2022, pp. 300, euro 25,00. 

In una prima sezione del libro, dopo la presentazione - a firma del curatore – del Progetto di ricerca “Mafia e società” del Centro “Impastato” (pp. 27 - 75), il sociologo Marco Santoro si interroga sulla “ontologia” della mafia e, nel tentare di rispondere alla domanda cosa essa sia, evidenzia la necessità di riconoscerne la “complessità” in quanto “dispositivo di assemblaggio tra elementi eterogenei, soggetti e pratiche” che è stato ed è “parte integrante di complicati equilibri di potere su cui lo Stato nazionale (in Italia ma non solo in Italia) è venuto formandosi e consolidandosi nel corso del tempo” (p. 108). Di questa organizzazione criminale parte rilevante sono i capi storici, di cui la sociologa Alessandra Dino focalizza qui “modelli di comando e sistemi di leadership”, sottolineando le somiglianze e soprattutto le dissomiglianze fra lo stile stragista di un Totò Riina e lo stile affaristico-politico di un Binnu Provenzano (pp. 109- 133). Sulle conseguenze che sulla vita quotidiana della società comporta l'esercizio della violenza mafiosa si sofferma la sociologa Monica Massari, la quale mette in guardia dal rischio – a suo avviso molto reale – che le gente tenda a rimuovere i traumi provocati dai metodi intimidatori e punitivi dei mafiosi sino ad accettarli come elementi inamovibili dell'esperienza collettiva. La relazione del sociologo Rocco Sciarrone – L'area grigia delle mafie: un articolato e multiforme campo organizzativo (pp. 147 - 167 ) - in cui l'autore evidenzia come i “giochi cooperativi” tra mafiosi e soggetti esterni alla mafia costituiscano “uno dei punti di forza più rilevanti delle mafie” (p. 165) chiude la sezione dedicata alle analisi del fenomeno mafioso considerato globalmente. 

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