venerdì 29 settembre 2023

LE PROSPETTIVE (NON ENTUSIASMANTI) DELLA POLITICA PROGRESSISTA, IN ITALIA, OGGI

“Adista/Notizie”

30.9.2023

DAL DOMINIO POLITICO-STATUALE ALL’EGEMONIA CULTURALE ?

Perché solo adesso, in seguito a piccoli segnali di progressismo, vari iscritti e quadri dal PD stanno emigrando verso formazioni partitiche di centro?  Evidentemente perché, sino all’elezione di Elly Schlein, si sentivano a casa. A conferma della tesi della sostanziale equipollenza, nel panorama politico italiano, fra centro-sinistra e centro-destra. Riuscirà la nuova dirigenza del PD a non lasciarsi scoraggiare dalle emorragie, a proporre concretamente piattaforme riformiste da contrattare con il Movimento 5 Stelle e la costellazione di formazioni partitiche a sinistra? Potrà ipotizzare, addirittura, qualche forma di sinergia con la lista pacifista di Michele Santoro e di Raniero La Valle, qualora davvero essa si costituisca in tempo per le elezioni europee del prossimo anno?

Dopo anni di errori strategici e di conseguenti delusioni nell’animo degli elettori non c’è molto da sperare.  Tra i puri c’è sempre qualcuno che ci tiene ad apparire più puro degli altri, dimenticando che – in democrazia - l’ottimo spesso è nemico del bene: i compromessi sono solo vittorie dimezzate, ma preferibili a sconfitte intere. Essenziale, irrinunciabile, mi pare la direzione: se la méta merita, i tempi di marcia possono essere anche ridotti. Meglio pochi e lenti passi per la strada giusta che molti, e veloci, nel verso sbagliato.

Quale sarebbe una vetta degna di essere scalata? Intanto la difesa della Costituzione repubblicana. Questo obiettivo non può non segnare una discriminante decisiva: o pro o contra. Non è un testo intoccabile, come tutti i prodotti umani vive solo rinnovandosi; ma dev’essere netta la differenza fra chi vuole aggiornarla iuxta propria principia (in base ai principi costituzionali) e chi vuole rinnegarla per tornare a forme nere o grigie di dittatura. Attualmente essa è difesa da due istituzioni (la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale), ma entrambe sono incarnate, concretamente, da soggetti scelti – direttamente o indirettamente – dalle maggioranze parlamentari. Si tratterà di soggetti affidabili anche se dovessero essere prescelti da maggioranze politiche ostili allo spirito costituzionale che permanessero al potere per molti anni?

E’ dunque urgente contarsi, senza dare per scontato che le etichette partitiche da sole marchino le differenze effettive. Negli ultimi decenni abbiamo visto di tutto: sedicenti democratici hanno violato gli articoli che vietano di ricorrere alla guerra per risolvere i conflitti (almeno da Massimo D’Alema in poi) e hanno preso accordi con governi africani e medio-orientali per impedire, con ogni mezzo, i flussi migratori verso l’Italia (come il ministro Marco Minniti da ministro degli interni del governo Gentiloni) , laddove rispettabili conservatori (dal prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa al magistrato  Paolo Borsellino) hanno affrontato consapevolmente la morte pur di difendere la legalità costituzionale.

I problemi attuali ci sono e sono enormi: ma non può essere solo la parte del ceto dirigente meno istruita intellettualmente e più compromessa eticamente ad affrontarli. Questa porzione, elettoralmente vincente pur se rappresenta una parte minoritaria del Paese, ha la geniale capacità (ereditata un po’ dal nume tutelare Silvio Berlusconi) di far credere agli italiani più disagiati che i suoi provvedimenti (dall’abolizione del reddito di cittadinanza alla flat tax) siano a loro favorevoli: dunque spetta all’attuale opposizione spiegare che si tratta di provvedimenti non solo immorali (purtroppo la notizia non turberebbe le coscienze di molti), ma anche dannosi per le tasche dei meno ricchi. 

Per rispolverare alcuni attrezzi interpretativi che non mi sembrano inservibili, potremmo dire con Antonio Gramsci che il centro-destra ha ottenuto (anche grazie a un sistema elettorale che tutti criticano e nessuno modifica) il “dominio politico-statuale”. E ciò è grave. Per evitare tragedie davvero irreversibili, ogni cittadino onesto e libero dovrebbe operare, qui e subito, affinché questo dominio non si trasformi in “egemonia culturale”.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

martedì 26 settembre 2023

DOMENICO CARACCIOLO, L'ILLUMINISTA CHE CHIUSE IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE IN SICILIA


“Il Gattopardo”

Giugno 2023

ASPETTANDO UN GOVERNANTE ILLUMINATO

Dal 1781 al 1785 la Sicilia è stata retta, come viceré dei Borbone, da Domenico Caracciolo. E' un illuminista, in contatto con i circoli progressisti di Napoli e di Parigi, e quando arriva nell'isola reagisce con il senso critico di ogni visitatore intelligente. Con amara ironia nota, fra gli impiegati statali e la gente comune, “tanta rilasciatezza di disciplina e tanto disprezzo delle leggi” che “farebbero cadere le braccia al Cristo del Carmine”. Questa disaffezione civica è trasversale, soprattutto fra “gran signori” e “miserabili”: infatti la Sicilia è “abitata da oppressori e oppressi”, senza “classe intermedia”.

Caracciolo non si limita alla denunzia, ma s'impegna con decisione nel tentativo – solo parzialmente riuscito – di cambiare le cose: indice un censimento per ripartire più equamente le tasse, colpisce l'arroganza e l'impunità dei baroni, riesce perfino ad abolire la giurisdizione del Santo Uffizio e le conseguenti condanne al rogo per eresia (vera o presunta). Con una lungimiranza non sempre condivisa dagli amministratori dei secoli successivi, si preoccupa di “costruire un bel teatro per li vivi ed un campo santo per i morti”. E' mentalmente così aperto da auspicare “una storia saracena”, “utile per sapere quale incremento e quale progresso ebbero le scienze nelle mani degli Arabi, li quali le sostennero nel X secolo, mentre esisteva fra noi la massima oscurità”. Ciò che lo amareggia maggiormente è “la resistenza di quei medesimi li quali si vorrebbero sollevare e liberare dalla tirannia dei potenti; tanto la lunga servitù degrade l'âme, onde più non risente il peso delle catene”.

A 250 anni di distanza sarebbe splendido che un re lontano inviasse nell’isola un amministratore così saggio. Ma siamo in democrazia e solo un corpo elettorale più informato, e meno servile, può scegliere – tra la folla di candidati variamente qualificati – i più adatti a coltivare il “bene comune”.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

sabato 23 settembre 2023

QUALCHE RIFLESSIONE SULLO SCRIVERE E DINTORNI

 














Prefazione

UNA PISTA DI LETTURA (FRA MOLTE POSSIBILI)

 

 

Se fossi un bibliotecario avrei qualche difficoltà a collocare nello scaffale opportuno Il paradiso e la scrittura di Guglielmo Peralta. Antropologia, metafisica, critica letteraria, epistemologia, etica, teologia? O più semplicemente, e più radicalmente, esercizio di scrittura poetica?

Questa trasversalità di generi, che infastidisce i funzionari dell’accademia, costituisce per me – invece – una ragione di fascino. È come surfare su una distesa marina con venti incostanti e talora contrastanti: tutto un gioco di tirare e lasciare, governare e abbandonarsi.

Si comincia da dove non si può non cominciare se si vuole essere rigorosi, pur nella elasticità del nomadismo intellettuale: dall’Inizio (o, come dicevano i più anziani tra i miei professori universitari, dal Cominciamento). Cioè dal Nulla inteso non come negazione, bensì come possibilità, di ogni esistente: quel Caos originario, secondo molti scienziati, o quel Grembo originario, secondo molti pensatori, da cui è scaturito – anzi, scaturisce momento per momento – tutto ciò che, sia pur precariamente, resiste alla voragine del niente. Allora attenzione alle trappole linguistiche dei catechismi e delle catechesi: “Dio ha creato dal nulla” significa che ha tratto solo da sé stesso, e da null’altro, ciò che esiste. Questa lettura eradica da ogni monoteismo qualsiasi traccia di nichilismo: l’essente, lungi dall’essere intrinsecamente nihil, è sprazzo che sprizza dal Nulla/Tutto. E se, con i Greci, chiamiamo Physis (Natura) la matrice da cui si genera (nasce) ogni ente - anche gli dei e i valori - possiamo intercambiare le parole Nulla e Natura per indicare quel Fondo/Fondamento che si dà a vedere e a toccare nei suoi raggi, nei suoi effetti, mai in sé stesso.

Questo scenario metafisico – nel senso di ontologico/teologico – non è senza ricadute antropologiche: anche la mia morte, come ogni dissoluzione fenomenica, è un ritorno al Nulla che non deve atterrirmi: in realtà è ritorno al Tutto da cui anch’io derivo. Ci aveva già avvertito Bernhard Welte nel suo La luce del nullaSulla possibilità di una nuova esperienza religiosa. In ogni sua opera lo ha ribadito, in termini più monistici, Emanuele Severino. Che riprende – mi pare senza dichiararlo – il Nulla buddhista (o, per lo meno, di certo buddhismo) cui, invece, si appella esplicitamente Francesco Dipalo nel suo Nulla e dintorni. Aforismi per un anno.

Questo percorso di pensiero nega il principio di non-contraddizione aristotelico? Peralta lo afferma (p. 6), io ne dubito: infatti, Aristotele non è Hegel e si occupa, modestamente, dell’ente, non dell’Essere. Comunque avrebbe, forse, obiettato che se muta “il punto di vista” (o se muta “il tempo”), non si dà contraddizione. Il Nulla, che da un certo angolo di visuale (in quanto origine originante), è Nulla, da un altro punto di vista (in quanto totalità degli originati) non è Nulla, ma Essere. Con Giordano Bruno si potrebbe dire che nell’unica Divinitas si possa distinguere il Deus supra omnia dal Deus in omnibus. In ogni caso, il lettore avrà anche qui materia di meditazione speculativa per arrivare a una sua propria convinzione.

Ma, se torniamo al Nulla, esso ha molto in comune con la Poesia: entrambi sono Sorgente invisibile del visibile, Suono inudibile da cui deriva l’udibile. Se consideriamo la morte come la porta d’ingresso nel Nulla, essa mostra la sua affinità con la Poesia: “di entrambe non abbiamo esperienza ma solo una rappresentazione (il cadavere, il funerale, per quanto riguarda la morte; le opere, le produzioni dell'arte, le belle forme della natura, per la Poesia)” (p. 6).

In questo scenario, la scrittura – e in generale l’opera – è “l’apertura verso l'Infinito, il modo di essere in questo spazio: artisticamente e spiritualmente, umanamente aperti infiniti incompiuti ” (p. 7). Incompiuti noi, incompiute le nostre opere: “Tracce del cammino verso il Dire originario sono le parole, in quanto segni mentali, illuminazioni, istanti di grazia che rischiarano l'oscurità e ci mettono_in ‘contatto’ con_quella sorgente che è_la Poesia” (p. 8).

Precisiamo subito: qui “poesia” non è, riduttivamente, la produzione letteraria in versi ma, più ampiamente (secondo la lezione di Benedetto Croce), ogni attività spirituale: “la Poesia è il Principio creativo, la Weltanschauung universale, l’infinito campo semantico, la Poiesis; pertanto, essa è, e in-veste tutte le espressioni dello spirito; è, ed incarna tutti i saperi, le esperienze, le discipline. I grandi sistemi filosofici, le scoperte della fisica e dell’astronomia, i teoremi della matematica, i fondamenti e gli sviluppi della geometria, le conquiste della medicina, il progresso tecnologico, sono il frutto del fare, del progettare poeticamente. Nessuna conoscenza è possibile senza l’immaginazione creatrice, e là dove c’è creazione c’è stupore, meraviglia. E, dunque, c’è Poesia!” (p. 21).

La partita non si gioca solo fra l’autore e la sua opera: “l’evento impronunciabile della poesia” “alberga” nel “felice accordo tra l'orecchio dell'interprete e la voce interiore del testo” (p. 10). Difficile non ritrovarsi nella mente il circolo ermeneutico (Dilthey, Heidegger, Gadamer), ma Peralta avverte che questo circolo non avrebbe principio (nel doppio senso di inizio e di fondamento) se non fosse preceduto da ciò che egli chiama il “circolo poiesico” in cui si consuma il corpo a corpo fra il poeta e la “presenza/assenza dell'essere” chegarantisce e rende incessante il processo creativo” (p. 11).

È facile intuire che, in questo contesto, nell’esperienza poetica c’è qualcosa di sacro. Ma il sacro non è il santo, è più comprensivo: accade anche là dove non c’è consapevole accettazione da parte dell’umano. In questo senso, mi pare, Peralta può affermare che “Nell'opera, infatti, il ‘divino’ si dis-vela, è presenza_e_assenza._L’amore_che_lega_il_poeta_alla_Poesia_non_è necessariamente un_rapporto_di_fede_religiosa._Per_questo esistono poeti_‘maledetti’ e _miscredenti,_e tuttavia grandi._La Poesia non distingue tra i suoi eletti e, benché li governi, lascia loro libero arbitrio e libertà di espressione” (p. 13).

Ma arriviamo al titolo del libro: chi produce e/o fruisce della poesia è un “nuovo Adamo” che torna a_“contemplare,_ad_essere per la Bellezza”. Egli fa_del “giardino_della_scrittura”_il nuovo “paradiso_terrestre”, realizzando così “la ragione_e_il_fine_della_scrittura_medesima” (p. 19).

Perché ho accettato di scrivere queste righe?

Nell’illusione che possa indicare una possibile traccia di lettura. Ma devo avvertire che Peralta ha scritto intorno alla Poesia su un registro linguistico poetico e, dunque, un lettore meno prigioniero di me dell’armatura logico-razionale (alla quale risulta ostico concepire lo stato attuale dell’umanità come effetto di una “caduta” piuttosto che come tappa prodigiosa di un’ambigua “evoluzione”) saprà scoprirvi – se disposto a ‘ruminare’ più volte queste pagine - valenze molto più profonde. Non potrei formulare augurio migliore, suppongo anche a nome dell’autore di questo testo così ispirato e così evocatore.

 

 

lunedì 18 settembre 2023

DIFENDERE LA FAMIGLIA, LA NAZIONE, L'IDENTITA', DIO. MA DA CHI?

“Difendere le famiglie, le nazioni, le identità, Dio”: questo – secondo le dichiarazioni a Budapest della nostra presidentessa del Consiglio dei ministri - il centro dell’azione del suo governo. L’intento è lodevole, ma, per non suonare genericamente retorico,  andrebbe meglio articolato.

Che significa “difendere le famiglie”? Chi le sta attaccando? Vanno difese dall’inflazione, dai livelli salariali più bassi dell’Occidente, dal quasi totale azzeramento del sistema sanitario pubblico ? E allora è compito di tanti pezzi del ceto dirigente, in primis dei partiti che si avvicendano sia come maggioranze parlamentari (potere legislativo) che alla guida del governo (potere esecutivo). Ma da troppe voci provenienti dall’area culturale e politica oggi in cabina di comando si intende difendere la “famiglia” dalla diffusione sociologica – e tendenzialmente giuridica – di altre forme di legami sessuali e/o affettivi alternative alla famiglia monogamica eterosessuale tradizionale. In questa seconda interpretazione, la famiglia tradizionale (per intenderci, il modello da cui si tengono lontani i due maggiori leader della maggioranza attuale: Meloni e Salvini) non ha bisogno di essere difesa: è uno di modelli storicamente succedutisi nella storia occidentale, ha i suoi pregi e i suoi difetti e, pur essendo perfettibile, è tuttora imitato da quei soggetti (ad esempio persone omosessuali) che chiedono il riconoscimento legale della loro convivenza, con i diritti e i doveri conseguenti. 

Che significa difendere le “nazioni”? La globalizzazione economico-finanziaria, cui plaudono gli elettori del Centro-destra, non può non comportare una globalizzazione simbolico-culturale: essa corre certamente il rischio di essere una “americanizzazione” (statunitense) del globo, ma implica la felice possibilità di fare finalmente dell’umanità un’unica grande nazione (pacifica, solidale, cooperativa).

 

Che significa difendere le “identità”? Ogni popolo vivo è caratterizzato da una identità multipla nel tempo e nello spazio: proprio noi italiani, che siamo un esempio di mescolanza di fenici e di greci, di romani e di barbari, di arabi e di normanni, di spagnoli e di francesi…dovremmo aver paura delle contaminazioni straniere? E’ ovvio che i flussi migratori vadano regolati (prima di tutto per la sopravvivenza fisica e psichica degli stessi migranti) in un’ottica europea ed è ovvio che, una volta accolti, debbano rispettare con estremo rigore le Costituzioni democratiche (in tutti gli ambiti, a cominciare dalle relazioni di genere): ma da questo a parlare di difesa dei “confini della Patria” da poveri disperati come se si trattasse di feroci invasori c’è un abisso.

 

L’ultima vittima potenziale dei nostri giorni sarebbe “Dio”. Qui le parole davvero abortiscono in mente prima di trovare espressione verbale o scritta. I governi della Meloni e di Orban vogliono difendere Colui che – nella loro teologia – è il Creatore dell’universo e il Signore della storia? Da chi? Da coloro che invece di chiamarlo Padre lo chiamano Allah o Jahvé? Da coloro che non lo chiamano perché lo hanno cercato e non l’hanno mai trovato? Da coloro che, avendolo cercato a lungo, hanno scoperto di essere già da sempre nel suo Grembo infinito e che solo un silenzio adorante può costituire una lode adeguata? Se l’opinione pubblica fosse ancora in grado di riflettere, avrebbe non poco da preoccuparsi di un governo che – in cerca di nemici a tutti i costi – arriva a stabilire chi sia davvero Dio e quali siano i suoi avversari. Anche a Sua insaputa.

Augusto Cavadi

 

www.adista.it

17.9.2023

giovedì 14 settembre 2023

L'EREDITA' ANNACQUATA DI DON PINO PUGLISI (recensione di Antonino Cangemi)



L'EREDITA' ANNACQUATA DI DON PINO PUGLISI

by Antonino Cangemi

Un giorno fatidico, il 15 settembre, per don Pino Puglisi: ne segna la nascita nel 1937 al quartiere Brancaccio di Palermo, e la morte nel 1993 – trent’anni fa – nello stesso quartiere per mano mafiosa.

La sera del 15 settembre 1993 don Pino era appena sceso dalla sua Fiat Uno e stava per raggiungere la sua abitazione in piazzale Anita Garibaldi quando si sentì chiamare da una voce sconosciuta, fece in tempo a girarsi e un killer lo freddò alle spalle con un colpo di pistola alla nuca.

Quel killer, stando alle sue stesse dichiarazioni da collaboratore di giustizia, era Salvatore Grigoli che raccontò d’averlo visto sorridere poco prima di morire e sussurrare “me lo aspettavo”.

La morte del sacerdote e le confessioni del killer hanno ispirato il testo teatrale in versi di Mario Luzi “Il fiore del dolore” in cui l’omicida si strazia nella sofferenza conquistato dal suo sorriso: “Eccolo, è qui, è venuto, / da dove siete entrato? / Non vi ho veduto entrare / eppure siete qui. / Siete voi, padre Giuseppe, / voi / col vostro ultimo sorriso”.

A trent’anni dalla sua morte e a poco più di dieci dalla beatificazione,  Augusto Cavadi e Cosimo Scordato firmano l’interessante saggio “Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione” edito da Il pozzo di Giacobbe.

Da quel sorriso – il sorriso di un uomo mite che, nel nome dei valori evangelici, sfidò cosa nostra – prende spunto il libro di Cavadi e Scordato, filosofo e saggista il primo, da lunghi anni sacerdote di “frontiera” e teologo il secondo.

Ne prende spunto perché Cavadi e Scordato – che 3P, come Puglisi veniva chiamato, hanno conosciuto – nel loro saggio s’interrogano sulle ragioni di quell’omicidio e riflettono sul rapporto, non sempre limpido, tra la chiesa e la mafia con lo sguardo rivolto al passato, al presente e al futuro formulando indicazioni su percorsi da intraprendere e traguardi da raggiungere per la piena affermazione della legalità in tutte le sfere cattoliche, quale antidoto alla criminalità organizzata e alla sua subcultura, e lo fanno tenendo vivo il sorriso di chi predica un vangelo veicolo dei valori di pace, fratellanza, solidarietà, perdono tra gli uomini.

Valori inconciliabili con quelli di cosa nostra – la prevaricazione, l’obbedienza al più forte, il rispetto, l’onore – e che tuttavia non hanno impedito e non impediscono tuttora a molti dei suoi affiliati di considerarsi cattolici e alla chiesa di tollerare comportamenti mafiosi.

La lucida disamina di Cavadi e Scordato parte dall’assunto che tra la chiesa e cosa nostra, il “vangelo e la lupara” (per usare un’efficace espressione che dà il titolo a un altro libro del saggista palermitano) non può che esserci una radicale contrapposizione.

Il rapporto tra chiesa e Cosa nostra – si legge nel saggio – ha conosciuto nel tempo varie fasi: “la compromissione diretta”, “la denunzia profetica”, “la presa di distanza”, e gli autori stigmatizzano, condannandola, l’indifferenza e la tacita, spesso inconsapevole (ma per ciò non meno grave) complicità di chi indossando le vesti sacre non si è opposto a Cosa nostra. Cavadi e Scordato – che trattano il tema in capitoli distinti e con un bagaglio teorico ed esperienziale diverso – sono accomunati da una medesima visione: per loro, per quanto esemplare sia stato il martirio di 3P, la sua beatificazione non giustifica nella chiesa trionfalismi ma, al contrario, deve fare insorgere sensi di colpa: se tutti i preti e i loro superiori gerarchici fossero stati intransigenti nel contrastare cosa nostra e la sua subcultura, l’azione di don Puglisi a Brancaccio – quartiere della periferia palermitana controllato dalla mafia – non sarebbe apparsa isolata.

D’altra parte Scordato ha svolto un’azione parallela a quella di Puglisi: ha fondato il Centro Sociale "San Francesco Saverio" all’Albergheria – altro rione di Palermo “a rischio” – nel 1986 per sottrarre quel territorio all’ingerenza mafiosa, operazione che tentò di realizzare 3P cinque anni dopo col Centro di Accoglienza "Padre Nostro", perdendo la vita.

Che fare dunque per liberare la Sicilia dalla mafia, o comunque tentarci seriamente e indebolirla in modo consistente sradicandola dalle istituzioni anche religiose dove ha trovato riparo? Quale la lezione di Puglisi? Come raccogliere la sua eredità?

Occorre tuttora che la Chiesa, tutta la Chiesa, compia dei passi ulteriori rispetto a quelli già fatti – suggeriti dagli autori – e che sia sempre alternativa alla mafia. Alla fase della “presa di distanza” deve seguirne un’altra, più impegnativa: “La chiesa […] deve diventare spazio di risurrezione, ovvero di un cambiamento reale, che rende improbabile, se non addirittura impossibile […] l’infiltrazione dell’associazione mafiosa o l’invadenza degli atteggiamenti e dei comportamenti mafiosi”.

                                                                         Antonino Cangemi

Per l'edizione originaria illustrata basta un click qua:


mercoledì 13 settembre 2023

LUCA KOCCI SUL "MANIFESTO" RECENSISCE "PADRE PINO PUGLISI" DI A.CAVADI E C. SCORDATO

La presentazione cui si riferisce la chiusa dell'articolo si è svolta regolarmente con un concorso di amiche e amici che mi ha sorpreso e un po' commosso: spero che questi appuntamenti rafforzino chi già si spende, quotidianamente e silenziosamente, per contrastare il dominio mafioso in Italia (e non solo). 


 

domenica 10 settembre 2023

PERCHE' LA VIOLENZA SULLE DONNE DURERA' ANCORA A LUNGO ?

 

“Adista” 16.9.2023

Perché la violenza sulle donne durerà ancora a lungo?

 

Con la violenza di genere funziona un po’ come con la violenza mafiosa: se ci sono cadaveri per strada, tutti ne parlano e molti s’imbancano a maestri. Tra un delitto e l’altro, ci si occupa d’altro: ci si illude che si sia tornati alla normalità fisiologica. Si scambia la scomparsa del sintomo con la guarigione dalla malattia. Invece è proprio nell’ordinarietà che vanno scovate le radici, le cause prime, delle patologie.

Ma questo lavoro di scavo, e conseguentemente di prevenzione, non comporta né interviste televisive né servizi giornalistici: avviene nel silenzio, nella discrezione, nella perseveranza. Da più di trent’anni è presente, in varie città italiane, il movimento “Maschile plurale” (per le sedi sparse sul territorio cfr. www.maschileplurale.it) che elabora riflessioni; produce libri, mostre fotografiche e filmati; organizza convegni e seminari; attua interventi educativi nelle scuole, nei centri sociali, nelle associazioni…La caratteristica – rispetto ad organizzazioni che mirano al medesimo obiettivo pedagogico – è che i membri sono tutti uomini e che si espongono, in prima persona, “mettendoci la faccia”, nel criticare l’assetto patriarcale e maschilista della società (anche italiana) nonostante gli innegabili progressi dovuti alle lotte femminili e femministe dell’ultimo secolo. Un assetto che coinvolge le istituzioni, le legislazioni, le opportunità di lavoro, i servizi sociali, il costume, la moda, perfino le comunità religiose (a cominciare dall’androcentrismo esclusivista della Chiesa cattolica, per non parlare della mentalità islamica condivisa da un numero crescente e già notevole di fedeli appartenenti alla religione di Maometto). 

Alcune sedi del movimento sono attrezzate anche per accogliere maschi adusi ad esercitare violenza sulle donne della propria vita, ma desiderosi di essere aiutati a cambiare, sia pur gradualmente, atteggiamenti e gesti.

A fronte di questo campo immenso di lavoro, gli uomini che vi s’impegnano – ovviamente a titolo di volontariato – sono pochissimi. E ciò per ragioni generali e per ragioni specifiche.

In generale, il movimento “Maschile plurale” sconta l’ondata di sfiducia epocale che scoraggia tante persone dal tentare di raddrizzare almeno alcune delle molte storture evidenti sul pianeta. Non si finisce di affrontare una questione (come il degrado dell’ambiente, i peggioramenti climatici, i flussi migratori coatti, le pandemie…) che se ne impongono cento altre: le guerre (in atto o in preparazione), le carestie, le siccità, la diffusione delle tossicodipendenze, lo sfruttamento militare e sessuale dei minori, l’opacità dei trattamenti carcerari, l’abuso sistematico dalla nascita al macello di miliardi di esseri senzienti…La sensazione dominante diventa il senso d’impotenza. Apprendiamo sui mali del mondo molto più di quanto riusciamo a immaginare di poter rimediare. Né si ha fiducia in quel lavoro sistemico, metodico, collettivo di cui gli organismi politici (partiti e sindacati) sembravano farsi carico offrendo all’individuo singolo la speranza che, dove non poteva arrivare egli, vi sarebbero arrivati l’organismo politico di appartenenza e, attraverso di esso, il governo e gli organismi internazionali.

Oltre a queste motivazioni d’ordine più generale, ho il sospetto che a dissuadere tanti uomini dall’impegno costante in “Maschile plurale” contribuisca anche la constatazione che certi obiettivi femministi si stanno rivelando deludenti proprio man mano che sembrano raggiunti. Per lunghi decenni si è, giustamente, auspicato che a occupare posti di vertice nel mondo delle istituzioni fossero donne. Certamente è stato significativo e confortante vedere in ruoli di primissimo piano donne come Margareth Thatcher, Condoleezza Rice, Madeleine Albright, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, Giorgia Meloni…Ma queste donne hanno davvero importato, nei metodi e nelle strutture, nuovi stili e nuove prospettive? O hanno dimostrato – o stanno dimostrando – di saper comportarsi, quanto a considerazione delle fasce deboli (tra cui donne, minori, anziani), con la stessa cieca determinazione dei colleghi maschi? Stanno operando davvero una femminilizzazione della sfera pubblica (se con questo termine approssimativo s’intende una strategia di attenzione e di cura verso gli “scarti” del capitalismo galoppante) o si stanno limitando a sostituire la tradizionale  violenza esibita dai maschi “alfa” con nuove versioni della stessa, malcelate dietro sorrisi rassicuranti e slogan populistici?

Se questi cenni sono fondati, non resta che sperare nella resipiscenza di quei maschi che oggi restano inerti perché paralizzati dal naufragio della politica (in generale) e dalla capacità diabolica del maschilismo virilista, militarista, spietato di tracimare dalle menti di tanti uomini insediandosi nelle menti di tante donne.

 

Augusto Cavadi

giovedì 7 settembre 2023

SMANTELLARE IL SISTEMA DELLA VIOLENZA MASCHILISTA TRA UN FEMMINICIDIO E L'ALTRO, FRA UNO STUPRO E L'ALTRO


"MEZZOCIELO",  7.9.2023

ANCHE DOPO.

Smantellare il sistema della violenza maschilista tra un femminicidio e l'altro, tra uno stupro e l'altro

Anche dopo l’ennesima violazione brutale del corpoanima di una donna si sono realizzate a Palermo delle iniziative di mobilitazione e di protesta. Tra queste un corteo (conclusosi con un concerto e un dibattito a Foro Italico), promosso da Ismaele Lavardera nel ruolo istituzionale di vice-presidente della Commissione regionale antimafia, contrassegnato da una caratteristica: destinatari specifici, anche se ovviamente non esclusivi, dell’invito alla partecipazione gli uomini. I maschi. I rappresentanti di quel genere che è il soggetto criminale di ogni molestia, di ogni stupro, di ogni femminicidio.

Queste manifestazioni, specie se gestite – come in questo caso – senza volgari tentativi di strumentalizzazione partitica, sono certamente meglio di niente. E, anzi, non può non dispiacere che i partecipanti, da tutta la città e la provincia, siano stati al massimo un centinaio (per giunta di età superiore ai quarant’anni). Tuttavia rientrano nella logica abituale dell’emergenzialità e della parcellizzazione. E’ la solita storia: la mafia è un problema quando uccide, non tra un omicidio e l’altro; l’assenza di una politica ecologica è un problema quando i boschi bruciano, non tra un incendio e l’altro…E, quando, sull’onda emotiva dell’emergenza, si interviene, lo si fa in ordine sparso: un’associazione qua, un comitato là. Senza nulla di permanente né di sistemico.

Eppure non mancano in Italia delle reti che coordinano, stabilmente, le iniziative maschili di ripensamento culturale-politico del sistema patriarcale e maschilista tuttora vigente (nonostante le grandi conquiste del femminismo): primo fra tutti il movimento “Maschile plurale” che, da più di trent’anni, ha prodotto appelli pubblici, convegni, seminari nelle università e nelle scuole, libri, filmati, mostre fotografiche (www.maschileplurale.it). Purtroppo le sedi sono più diffuse nel Centro-Nord del Paese: al di sotto di Roma, solo a  Bari   e a Palermo (www.noiuominiapalermo.it ) . Per giunta si tratta di piccoli gruppi, numericamente inadeguati a recepire gli inviti provenienti da istituzioni scolastiche, associazioni, sindacati…Infatti una firma a un documento di denunzia  o un like ad un post su facebook – come si diceva una volta dei sigari e dei titoli di cavaliere - non si negano a nessuno. Ma se si tratta di dedicare una sera o due  al mese a leggere insieme un libro, a mettere in discussione il proprio modo individuale di relazionarsi al genere femminile, a progettare interventi didattici secondo metodologie innovative, scattano tutte le remore di questa fase epocale di anoressia politica. Scontiamo, con la paralisi operativa, la sfiducia nelle prospettive globali di cambiamento (specie nell’egemonia della cultura edonistica, predatoria, militarista). Sino a quando continuerà questo letargo, neanche in questo campo avverranno miglioramenti significativi. Non ci resta che sperare nella decisione di qualche altro uomo in Italia, in Sicilia, a Palermo di coniugare la frequenza della tastiera con la voglia di verificare quanta energia si possa scatenare da un solo atomo di umanità.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

(L’autore ha pubblicato, in sinergia con il “Gruppo noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne”, due piccoli volumi divulgativi: L’arte di essere maschi libera/mente. La gabbia del patriarcato e Né Principi azzurri né Cenerentole. Le relazioni di genere nella società del futuro, entrambi per l’editore Di Girolamo di Trapani).

venerdì 1 settembre 2023

DON PAOLO ZAMPALDI A COLLOQUIO CON BARUCH SPINOZA



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In dialogo con Spinoza, filosofo post-teista

Nel linguaggio comune si identifica il filosofo con lo storico della filosofia. In alcune personalità, effettivamente, la passione per la ricerca teoretica si coniuga splendidamente con la competenza esegetica, ma si tratta di preziose rarità. Più comunemente si può essere ottimi conoscitori dei “classici” della storia della filosofia (e bravi docenti) senza avvertire nessuna inquietudine intellettuale così come autentici filosofi senza un’adeguata padronanza dei testi (e impegnati professionalmente in altri ambiti disciplinari): come avvertiva Nietzsche, la ricerca della verità non è questione d’intelligenza o d’istruzione, ma di coraggio.

Alla seconda di queste due categorie (entrambe essenziali, per carità!) appartiene un giovane, empatico, prete che presta la sua attività pastorale nella città di Bolzano. Non è – non ha scelto mai di diventare – un esperto lettore di opere filosofiche. Ma è animato da autentico eros filosofico e ciò lo induce a viaggiare, fisicamente e mentalmente; a dialogare senza pregiudizi; a mettere in discussione certezze (vere o presunte) della cultura di appartenenza. Frutto di un incontro a suo parere illuminante è il recente volume Conversando con Baruch. Spinoza, un filosofo “oltre le religioni” (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2022) che, secondo l’autore stesso, 

«non vuole essere uno studio su Spinoza, ché ne sono stati scritti tanti e sicuramente più accurati del mio, ma uno strumento accessibile a molti, per confrontarsi, pensare in modo politicamente/religiosamente scorretto, lasciarsi provocare e destabilizzare senza paura. Consci che la verità rimane tale per sempre, e che ciò che non è costruito sulla verità, prima o poi scompare». 

La sua postura intellettuale ed esistenziale è, dunque, ben differente rispetto a quei professori di filosofia, anche illustri, che rimangono abbarbicati al Platone o al Tommaso d’Aquino, al Vico o al Marx (e, ovviamente, allo stesso Spinoza) degli anni giovanili, preferendo la tranquilla certezza di essere dalla parte giusta alla sconcertante scoperta di essersi sbagliati per decenni.

Grazie alla sua insolita onestà intellettuale, il giovane teologo cattolico del XXI secolo – in un’immaginaria conversazione per le vie di Amsterdam – accetta con libertà d’animo che il pensatore ebreo del XVII gli insegni molte cose di cui egli non aveva avuto notizia (almeno, non così chiaramente e nettamente) durante gli anni di formazione ecclesiastica nel pur prestigioso Seminario Maggiore di Bressanone. La lista completa sarebbe troppo lunga.

Per esempio, la liceità dell’obiezione di coscienza: 

 «non c’è cittadino migliore che desideri di più il bene della collettività, di colui che mette in discussione di fronte all’autorità una legge irragionevole o dannosa. Egli ne chiede con convinzione l’abolizione, astenendosi da comportamenti sediziosi o contrari alla legge». 

E ancora: che le religioni istituzionali, confessionali, dividono gli esseri umani e li aizzano gli uni contro gli altri, laddove 

«la religione ‘naturale’, quella cioè che anima ogni uomo, almeno il più avveduto”, è invece “la ricerca della verità, e, “essendo Dio la verità, ricercare la verità” significhi “conoscere Dio. Una verità, però, percepibile attraverso l’intelletto, il lume naturale, che ognuno di noi possiede e che ci garantisce una conoscenza certa». 

Un’altra questione illustrata da Spinoza a don Zambaldi riguarda la nozione di “rivelazione” e la figura dei “profeti”: 

«Io non sono d’accordo con la dottrina della rivelazione, così come la intende ad esempio l’ebraismo. [...] Per rivelazione o manifestazione di Dio agli uomini, intendo la conoscenza naturale, cioè la conoscenza certa, razionale di un fatto, conoscenza rivelata/partecipata da Dio agli uomini, a tutti gli uomini (non unicamente ai profeti). [...] Dunque le espressioni come “il profeta ebbe lo Spirito di Dio” [...] non significano altro che i profeti e poi i discepoli di Gesù possedevano una virtù (morale) singolare e al di sopra del comune, che essi percepivano la mente o il pensiero di Dio con particolare vivezza (come i poeti che hanno doti di sensibilità, immaginazione e intuizione particolari, pur essendo uomini comuni) e che erano ritenuti connessi direttamente con Dio solo “perché gli uomini ignoravano le cause della conoscenza profetica e l’ammiravano e perciò, come tutti gli altri prodigi, la riferivano a Dio”». 

Dal momento che l’ebreo Spinoza ha lottato tutta la vita contro “l’antropomorfizzazione di Dio”, non ha mai ritenuto Gesù un «Dio che addirittura assume la carne di un uomo». Tuttavia non gli è sembrato corretto, neppure, appiattirlo sullo stesso livello dei profeti vetero-testamentari: 

«Cristo per Spinoza era colui che aveva con l’Eterno una comunicazione da «mente a mente», cioè non legata ad immagini o segni, a condizionamenti o capacità. Quello che Cristo comprendeva e faceva comprendere era un Dio non più appartenente a un popolo, a un tempo, a un’elezione, ma un Dio che semplicemente era «vita che genera vita», eterno, perfetto, amabile, conoscibile, un Dio che permeava di sé tutta la Natura e in essa l’uomo. Dunque al di fuori di questo “insieme” non esisteva altro di separato, di diverso, di trascendente e dunque non c’era per Gesù la necessità di trovare un oltre/altro per il sacro, né uno spazio, né un culto, né una casta sacerdotale. Egli spostava il tempio nel quale spesso si mercanteggiava la salvezza, dentro l’uomo, dentro la natura, unico luogo in cui Dio si manifesta. Il Dio di Gesù, come il Dio di Spinoza dunque è colui che spezza i recinti delle ortodossie e della Legge, è la Verità alla quale tutti possono guardare, sempre e per sempre. Il Cristo di Spinoza è l’uomo, oltre le religioni. Il profeta adulto che non riduce Dio a una risposta alla precarietà del vivere, ma lo comprende come unica possibilità del mondo, unica fonte di vera sapienza, alla quale egli ci permette di partecipare in eterno». 

È evidente che in una concezione così essenzializzata, quasi severa, del rapporto fra l’unica “Sostanza” infinita (Deus sive Natura) e gli innumerevoli “modi” finiti (tra cui gli esseri umani) in cui tale Sostanza si dispiega, quasi fosse un Prisma dalle infinite facce, non c’è posto per «riti, culti, segni» né, ancor meno, per i “miracoli”: 

«Dio non può cambiare le leggi (pro o contro di noi), perché tutto ciò che egli vuole, o determina, implica eterna necessità ed eterna volontà. In Dio, infatti, non possiamo distinguere l’intelletto dalla volontà. Dio pensa e vuole in un unico atto.  Dunque, le leggi della natura, come le ha pensate, sono i suoi veri decreti, la sua manifestazione. Se dunque quelle leggi venissero violate (con un miracolo) agirebbe contro se stesso, violerebbe la sua stessa natura. [...] . Per cui i miracoli più che farci conoscere Dio ce ne farebbero dubitare». 
Baruch Spinoza

Baruch de Spinoza

Don Paolo, credente e addirittura ministro ordinato della Chiesa cattolica, a questo punto della conversazione con Baruch, non senza vincere «l’irresistibile tentazione di tacere», solleva una questione davvero centrale: questo Dio-Natura ci ama come, da un capo all’altro della Bibbia, viene ribadito? La risposta dell’interlocutore – che, secondo gli stupendi versi di Borges riportati in esergo al volume, ha forgiato «Dio con geometria raffinata» – è rigorosamente in linea con Aristotele e gli altri Greci per i quali l’amore verso qualcuno di altro da sé 

«non può in nessun modo appartenere agli attributi di Dio. Perché se così fosse vorrebbe dire che la sua perfezione non sarebbe tale, che sarebbe spinto da una causa ‘esterna’ a mutare se stesso, sarebbe condizionato nei suoi rapporti col mondo e con l’uomo. In realtà Dio è semplicemente perfetto in se stesso. È sostanza eterna e immutabile, immanente alla natura. Non ha bisogni, né desideri, né tantomeno sentimenti. [...] Come possiamo allora descrivere il suo amore per noi? Il suo amore per noi è in realtà il suo esserci come causa e possibilità infinita del tutto». 

Don Paolo non nasconde «un vuoto, una delusione…una strana malinconia» all’idea che Dio non sarebbe più il Dio padre/madre/sposo/amante della tradizione biblica. Spinoza non ignora che le sue conclusioni logiche siano spiazzanti e dunque precisa che: 

«dicendo che Dio non ama gli uomini non voglio dire che li abbandoni a se stessi per così dire, ma al contrario che l’uomo, come tutto ciò che esiste, è in Dio, di modo che Dio sta in tutte le cose, e per parlare con proprietà, non vi può essere in lui amore per nessun’altra cosa che per se stesso perché tutto è in lui».   

A questo genere di amore divino, disincantato, l’essere umano non può che rispondere altrettanto disincantatamente: 

«credo che l’amore per Dio debba essere amore per la sua sapienza immanente che rende l’universo e l’uomo quello che è. Credo che sia il riconoscerlo sempre presente nel tutto come legge e sostanza e ragione che quel tutto rende possibile. È dunque un amore ‘razionale’, frutto dell’intelletto, non un sentimento suscitato da non sempre limpide passioni». 

Per Borges questa interpretazione dell’amore umano per Dio (e, in Dio, per tutti gli esseri in cui egli si squaderna negli universi noti e ignoti) non è una deminutio rispetto alla concezione corrente, ma un’espansione e una maturazione. All’ «ebreo/di tristi occhi e di pelle olivastra» fu elargito «il più generoso amore»: «l’amore che non chiede di essere amato».

Qualcuno potrebbe sospettare che questo genere di riflessioni teoretiche, metafisiche, siano oziose, senza incidenza nella pratica quotidiana della gente né nelle opzioni politiche degli Stati. Sarebbe, però, una supposizione infondata. Infatti il monismo ontologico spinoziano – secondo cui l’essere umano, come per altro ogni altro essere, non è una sostanza individuale autonoma ma un “modo” finito di concretizzarsi/manifestarsi dell’unica Sostanza assoluta – detronizza l’umanità dal ruolo, che nei millenni si era illusa di occupare, di signora e regina del cosmo. Tuttavia è proprio scardinando tale antropocentrismo che l’umanità può sperare in un futuro meno disastroso. Dal Rinascimento in poi l’uomo, emancipatosi da ogni limite eteronomo di origine teologica, si era attribuito 

«la disponibilità d’uso del creato, inteso come animali, materie, suoli, acqua e aria. Tutto a disposizione del suo genio, della sua creatività, dei suoi progetti di sviluppo. E ora Baruch sosteneva che l’uomo non era altro che una parte della Natura, seppure di una Natura che partecipava alla stessa essenza di Dio. Questo significava che se l’essere umano avesse operato contro la natura, se l’avesse distrutta o ritenuta sua proprietà esclusiva, avrebbe agito contro la sua stessa essenza, la sua stessa vita…in definitiva contro Dio stesso. Come sarebbe cambiato il mondo e il nostro sguardo su di esso, se avessimo preso in considerazione il filosofo olandese! [...] Abbiamo bisogno di un ripensamento del nostro modo di comprenderci come esseri umani, dobbiamo passare da un paradigma antropocentrico di dominio assoluto, ad un concetto più ampio che ci fa sentire come esseri in relazione, parti di un tutto più interconnesso e dinamico. Per operare questa transizione, divenuta fondamentale per la sopravvivenza stessa del sistema terra, dovremmo riflettere sul nostro rapporto con il mondo». 
Borges

Borges

Non tutte le implicazioni antropologiche ed etiche del sistema onto-teologico spinoziano suonano altrettanto incoraggianti.  L’olandese, infatti, da una parte ha sostenuto che «Dio non è libero e dunque non può in nessun modo porsi delle finalità. E aggiungo nemmeno l’uomo è libero!»; ma, dall’altra (rinunziando, per citare un’ultima volta Borges, alla «fama, che è riflesso/ di altri sogni nel sogno dello specchio» e all’ «amore pudico delle vergini»), ha dedicato tutte le sue energie all’impresa di liberare i simili da ignoranza e scelte disastrose. Come conciliare la sua tesi teorica con la sua azione storica? Se noi esseri umani non siamo capaci di «scelte o atti di volontà», in quanto inseriti in «una catena di eventi che determinano necessariamente» la nostra prassi, a che scopo offrirci insegnamenti e consigli?  Non ci comporteremo, comunque, come siamo programmati, deterministicamente, a comportarci?

Sulla questione, sembrerebbe che don Paolo si accontenti della tesi del fisico Carlo Rovelli: 

«La nozione di scelta libera, anche se è una nozione approssimata e basata sull’ignoranza delle cause, resta quindi la più efficace per pensare a noi stessi, come voleva appunto Spinoza». 

Insomma: non è vero che sono libero, ma ci credo. La vita (individuale e ancor più sociale) sarebbe molto più complicata se non vivessimo come se fossimo liberi. 

Più che evocare altre tematiche, preferisco chiudere con due osservazioni di fondo. La prima concerne l’aspetto stilistico del volume: poiché in esso è adottato il registro linguistico tipico della conversazione, i testi originali di Spinoza risultano alleggeriti dalla frequente aridità sentimentale che è il prezzo – forse evitabile – del suo approccio “geometrico”.

post-teismo-ateismo-evoluzione-postteismo-maglietta-uomoLa seconda osservazione riguarda i contenuti.  Sin dalla prefazione di p. Paolo Gamberini S.J., nel libro si ribadisce in più passaggi che il dialogo con Spinoza è stato suggerito dall’attenzione dell’autore per il dibattito attuale (in vari continenti, soprattutto nelle due Americhe) sul “post-teismo”: una corrente teologica di cui don Zambaldi condivide, pur senza dogmatismi, istanze e risposte. Anche a proposito di questo suo volume, dunque, andrebbero riprese alcune perplessità e alcune precisazioni sul “post-teismo” che ho avuto modo di avanzare altre volte [1]. In queste pagine di don Paolo trovo un elemento di novità metodologica che potrebbe indicare un sentiero di ricerca a tutta la variegata, effervescente, arcobalenica e (per fortuna) crescente costellazione del “post-teismo”: man mano che ci si avventura nell’esplorazione dell’inedito, scavare per rintracciare le radici. Quando ci si muove nell’ambito del “post” è inevitabile dare l’impressione di essere sbarcati su un’isola sconosciuta e di dover inventarsi tutto daccapo come naufraghi appena scampati a un naufragio, come se il “post-teismo” non avesse il pregio e il limite di essere, inevitabilmente, anche un “pre-teismo” (talora addirittura arcaico). Zampaldi lo raccomanda esplicitamente – 

«bisognerebbe ripartire proprio da quei pensatori del passato, e non, che troppo spesso abbiamo deciso di ignorare: da Spinoza a Feuerbach, da Teilhard de Chardin a Paul Tillich, da Lloyd Greering a Spong e tanti, tanti altri…»  – 

ma, soprattutto, ne dà una convincente, appassionata, testimonianza.  Si potrebbe scoprire che certe tesi “post-teiste” sono state discusse, e criticate, dalle origini del pensiero umano (non solo occidentale) a oggi. E che dunque possono certamente venir riproposte, ma a patto che si dimostri di conoscerne le versioni originali e di saperne confutare le confutazioni. Non so se veramente ci siano stati pensatori catalogabili come “teisti” nell’accezione, talora un po’ caricaturale, che i “post-teisti” danno a questo termine. Ma se ci fossero stati (e Tommaso d’Aquino o Leibniz, Kant o Kierkegaard, Bultmann o Rahner, Küng o Drewermann rientrassero tra questi) a noi simpatizzanti del “post-teismo” spetterebbe un compito immane: in qualche modo poterli raggiungere prima di ritenere d’averli superati. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
 Note
[1] cfr., per limitarmi a questi nostri Dialoghi Mediterranei:  
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/aporie-della-dottrina-e-verita-del-cristianesimo/;
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/risalire-alle-fonti/; 
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/un-effetto-collaterale-della-pandemia-il-colpo-di-coda-della religione/;
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/dal-tramonto-delle-religioni-alla-mistica-post-religiosa/






mercoledì 30 agosto 2023

LA FLUIDITA' COME VIRTU': INCURSIONI TEOLOGICHE DA UNA PROSPETTIVA QUEER




 LA FLUIDITA' COME VIRTU': INCURSIONI TEOLOGICHE DA UNA PROSPETTIVA QUEER

 

Di solito usiamo “sesso” e “genere” come sinonimi. Ma le scienze umane, negli ultimi decenni, ci suggeriscono di distinguere il sesso(dato biologico) dal genere (come ruolo socio-culturale), sulla scia della fulminante asserzione di Simone de Beauvoir: “Femmina si nasce, donna si diventa”. Già: femmina o maschio ci si ritrova ad essere sulla base dei propri cromosomi, mentre il ruolo sociale, il modo di vestire, la postura verso gli altri...da donna o da uomo si apprendono nel proprio ambiente familiare e si possono ereditare passivamente o modificare anche profondamente. Un maschio mediterraneo, ad esempio, può accettare a-problematicamente il modello di “uomo” incarnato dal padre e dal nonno (un modello generalmente patriarcale e maschilista, anaffettivo e autoritario) oppure scegliere modelli di “uomo” alternativi (nei quali abbiano posto le emozioni, la gentilezza, la tenerezza, la cura dei piccoli e dei malati...)[1].

 

Non esistono solo due, ma innumerevoli “generi”

Negli ultimi decenni si è imposta una domanda impertinente: quanti “generi” di uomini e quanti “generi” di donne esistono? Bisogna essere davvero ciechi per non vedere che, sia diacronicamente (lungo la storia) sia sincronicamente (nelle diverse aree socio-culturali della Terra), esistono molti modi di vivere la maschilità e altrettanti di vivere la femminilità. Tranne le persone stupide che si consegnano alla schiavitù delle mode, ognuno/a di noi è uomo/donna a modo suo. E' la considerazione che ha suggerito al mio amico don Cosimo Scordato di affermare, nel corso di un incontro su queste tematiche, che esistono tanti “generi” quanti siamo gli individui. 

Ma consentiamoci un passo ulteriore di approfondimento. Se ognuno/a di noi è uomo/donna in modo originale, lo è in maniera stabile dall'adolescenza alla senilità? O lo è in maniera cangiante, elastica, liquida, fluida?  L'aggettivo inglese queer viene adoperato, anche[2], per indicare questo dato di fatto e questo diritto di principio: di non essere ingabbiati in un solo “genere” e di non esserlo dalla culla alla tomba secondo le tradizioni, le aspettative, le sanzioni della società in cui capita di nascere e crescere. Un uomo in gonnella non crea scandalo in Scozia, ma in Sicilia? Probabilmente provocherebbe la stessa reazione scandalizzata alle prime ragazze in pantaloni negli anni Sessanta del secolo scorso[3].

 

Un Dio queer ?

Questa brevissima premessa terminologica serve per rendere intelligibile una domanda apparentemente insensata: a che genere (sessuale) appartiene Dio? Insensata risuona questa domanda alle orecchie di chi, avendo appreso gli elementi basici del catechismo, sa che Dio (se esiste) trascende non solo ogni differenza di sesso, ma anche di genere. Dobbiamo dunque riformularla in maniera meno imprecisa: a che genere sessuale appartiene la rappresentazionedi Dio nelle tre grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) ?

A una domanda simile non possiamo evitare di rispondere che l'immagine(non il concetto, l'idea) di Dio, nella tradizione culturale di matrice medio-orientale, sia di genere maschile.

Limitiamoci al solo cristianesimo (così come si è andato configurando dal secondo secolo ai nostri giorni): Dio è il Principio originario dell'universo costituito, intrinsecamente, dalla comunione tri-personale di un Padre, di un Figlio e di uno Spirito Santo. Di unPadre: qua e là nelle Scritture ebraiche vi sono dei versetti che avvicinano i sentimenti di Jahvé a ciò che prova una madre per i figli, ma nel complesso Egli è adorato come Anziano (“Antico di giorni”), Pastore, Condottiero, Giudice...Di un Figlio: nel maschio Gesù si è incarnato un Logos, un Verbo, che avrebbe potuto essere designato con termini femminili (Sofia, Sapienza), ma che di fatto è declinato al maschile. Di uno Spirito Santo: nonostante in ebraico la parola che significa Spirito sia di genere femminile (ruah) e in greco di genere neutro (pneuma), nella lingua ufficiale della Chiesa cattolica è diventata di genere maschile (spiritus).

Dunque il Dio trinitario è costituito dalla comunione di tre Persone a-sessuate, ma di genere 'maschile'. 

L'ipotesi di ricerca di un numero crescente di teologi e di teologhe è almeno duplice: può darsi che questo modo di rappresentare la Divinità sia stato causato dalla preponderanza quasi assoluta di maschi/uomini nelle fila degli autori dei testi biblici (così come nelle assemblee dei dirigenti delle Chiese cristiane che hanno selezionato come 'canonici' gli attuali libri della Bibbia e ne hanno stabilito l'interpretazione normativa sin dalle origini)? 

E – seconda ipotesi di ricerca – può darsi che questo modo di rappresentare la Divinità, forse effettodi una mentalità maschilista e patriarcale, sia stato a sua volta causa, o con-causa, del radicarsi e diffondersi nelle società cristiane di una mentalità maschilista e patriarcale? 

Sulla prima ipotesi, ormai il consenso degli esegeti è pressoché unanime: «Dio non ha sesso, perché è puro spirito (Gv 4, 24). […]Quando Dio viene detto però entra nei limiti del linguaggio umano. A parlare e a tramandare la fede sono stati principalmente uomini maschi e sarebbe insensato ritenere che essi non abbiano parlato dal loro punto di vista, dal quale la donna è considerata l’altro (come ricordava S. De Beauvoir), subordinata e funzionale, secondo lo schema patriarcale, e quindi a partire dalla loro esperienza limitata e in una grammatica declinata al maschile» [4].

Sulla seconda ipotesi la pastora protestante Judith van Osdol è stata icastica: «le Chiese che immaginano o rappresentano Dio come un maschio devono farsi carico di questa immagine come un'eresia. Poiché là dove Dio è maschio, il maschio è Dio...»[5]

 

Un Dio queer?

Per uscire dall'impasseteologica patriarcale-maschilista mi pare di vedere solo due vie.

La prima è la mistica apofatica di chi sa che Dio non è in nessun modo pensabile nella sua essenza e tanto meno rappresentabile con immagini tratte dalla nostra esperienza antropologica. In questa direzione vanno espressioni come le righe di Simone Weil su «un Dio al contempo personale e impersonale, e né l'uno né l'altro» [6]che potrebbero agevolmente parafrasarsi: «un Dio al contempo maschile e femminile, e né l'uno né l'altro».

Ma questa via, almeno nella fase attuale dell'evoluzione umana, è praticabile dalla stragrande maggioranza dell'umanità o – tranne casi privilegiati – abbiamo bisogno di appoggiarci a simboli, metafore, categorie? Propenderei per questa seconda affermazione e dunque, dal punto di vista operativo, per una pluralità dei nomi con cui parlare di Dio e conDio: nella consapevolezza che nessuno di tali nomi lo coglie nella sua intimità. 

E' la direzione testimoniata da molte teologhe, come ad esempio la suora benedettina Teresa Forcades che, in un libro-intervista, racconta: «A volte, come fanno ad esempio le Suore Trinitarie di Suesa, scelgo alcuni passi biblici che declinano Dio al maschile, li traduco al femminile e dentro di me accadono delle cose, da un punto di vista emotivo. Se, per esempio, invece di dire: “Signore, tu sei al di sopra di tutto”, dico “Signora”, avverto un'emozione totalmente differente. Il gioco di questa esplorazione è il riconoscimento del limite del linguaggio umano. Senz'altro non è la stessa cosa usare “Signore” o “Signora”, la cosa migliore sarebbe dire a volte l'uno e a volte l'altra, in modo da non assolutizzare Dio e non idolatrarlo. Questo è anche il senso del tetragramma ebraico. L'importante è esplorare il nome di Dio in modo personale, secondo la relazione che vai costruendo passo dopo passo con Lui (o con Lei)» [7]

Insomma, il modo meno inadeguato di rivolgere a Dio il proprio pensiero è di concepirlo in maniera sempre parziale, sempre provvisoria, sempre fluida: in maniera queer

 

Un Gesù queer?

In qualsiasi modo s'interpreti la “figliolanza” divina di Gesù, non c'è dubbio che il cristianesimo si basi sulla convinzione che il Cristo sia la concretizzazione plastica, nella storia, della presenza dell'invisibile. Alla domanda se Gesù fosse un uomo, suor Forcades risponde: «Sì, ma un uomo queerprobabilmente. Come fosse Gesù cromosomicamente non lo sappiamo»[8]. Francamente la risposta mi pare tautologica: se ci poniamo dal punto di vista genetico-sessuale  di nessun personaggio storico abbiamo notizie attendibili, anche perché ormai le scienze bio-mediche hanno appurato che fra il sesso maschile e il sesso femminile si squaderna una varietà di posizioni intermedie (alcune delle quali risolte subito dopo la nascita per mano dei chirurghi).

Molto più interessante è invece interrogarsi sul “genere” di Gesù, almeno del Gesù attingibile attraverso i vangeli canonici e apocrifi. E, da quest'ottica, mi sembrano illuminanti le pagine di Hanna Wolff, a giudizio della quale Gesù era decisamente “uomo”, ma ha vissuto in maniera innovativa la sua “identità di genere”: non il “maschio” autoritario della tradizione patriarcale ebraica (prima di lui) né il “maschio” monopolista del sacro della tradizione cristiana (dopo di lui), ma un maschio comprensivo, accogliente, tenero[9]. Junghianamente si direbbe che Gesù ha sintetizzato dentro la propria psiche l' animus(maschile) e l'anima (femminile): si è rivelato come «un maschio integrato»[10]  o, per dirla con le parole del riformatore indiano Keshab Candra Sen, «l'unione della perfezione maschile e femminile» [11]

 

Una Chiesa queer

Se  - pur senza sposare integralmente le tesi dell' Indecent Theology (ammesso che qualcuno, oltre l'Autrice, sia in grado di decifrarla compiutamennte) – se ne condivide l'operazione di «liberare non solo l'umanità ma anche Dio dagli angusti confini sessuali e ideologici nei quali Dio stesso è stato collocato»[12], sarà conseguenziale (almeno dal punto di vista logico) progettare una Chiesa meno monolitica, meno androcentrica, meno machista, meno dualista di tante confessioni cristiane[13]  , tra le quali occupa un posto paradigmatico la cattolico-romana. 

Secondo la filosofa Judith Butler a fondamento del soggetto moderno ci sarebbe una “melanconia” causata dalla necessità intrinseca di escludere alcune forme del desiderio. Con un entusiasmo forse eccessivo, per il quale si vede già attuato nel presente ciò che potrebbe realizzarsi solo in futuro[14], qualche teologa è arrivata a sostenere che la Chiesa cristiana – in cui  l'unica identità che conta è l'essere battezzati/e e, dunque, le altre forme di identità si rivelano secondarie e inadeguate – è «l'unica comunità che vive sotto il mandato di essere queer, ed è solo all'interno della Chiesa che la teoria queer  raggiunge il suo telos, essendo la melanconia del genere rimpiazzata dalla gioia che nasce dalla morte e dalla resurrezione di Cristo»[15]

 

Effetti di liberazione, non solo dal punto di vista religioso

Queste considerazioni possono essere lette, riduttivamente, come cedimenti alle mode culturali, ma nelle intenzioni dei teologi e delle teologhe che si sono occupati/e di aprire simili orizzonti palpita il desiderio di liberare la teologia tradizionale da paramenti sacri che la riducano a reperto archeologico; la rappresentazione del Divino da categorie patriarcali-occidentali che la rendono incomprensibile a miliardi di contemporanei; il cristianesimo dall'abbraccio mortale con una tradizione colonialista e imperialista che ne pregiudica irrimediabilmente l'originaria vocazione universale (“cattolica”); le comunità cristiane indisponibili alla conversione continua dall'auto-esclusione rispetto alle numerose categorie di “irregolari” (specie fra le generazioni giovanili di ogni epoca) che più avrebbero giovamento dall'incontro con l'essenza agapica del vangelo.

Se qualcuno ritiene irrilevanti le ripercussioni nell'ambito religioso, può per lo meno  considerare gli effetti etici e sociali  di queste concezioni teologiche che, ben lungi «dal portare al nichilismo», hanno proposto «alternative di pensiero che sono anche sessuali e politiche»[16]. Esse, infatti, prima che come invenzioni originali, si presentano quali scoperte di valenze profetiche sepolte nei testi biblici (in particolare del Secondo Testamento): “profetiche” in quanto prefigurano una società in cui in nome della religione non si potranno più mortificare e strumentalizzare le donne. Anzi, più ampiamente, in cui il sesso, l'orientamento affettivo e il genere non costituiscano più gabbie nelle quali rinchiudere, etichettandole, le persone (neppure le etero-sessuali!), la cui dignità trascende tanto i dettagli anatomici quanto gli orientamenti affettivi e i comportamenti sociali cristallizzati da tradizioni umane, troppo umane. Modificando leggermente un antico motto teologico, si potrebbe asserire: in necessariis unitas, in dubiis fluiditas (vel queer), in omnibus caritas.  

 

Augusto Cavadi

 

(Edito in "Le nuove frontiere della scuola", anno XX, giugno 2023, pp. 16 - 21)

[1]   Ancora differenti da “sesso” e “genere” (come ruolo sociale) sono le categorie di “identità di genere” (come auto-percezione psicologica) e di “orientamento sessuale” (nella quale rientrano gli omo-sessuali, i bi-sessuali e gli etero-sessuali). Anche ciascuna di queste due dimensioni, nell'immaginario poco istruito, viene sovrapposta a una delle altre tre, o a tutte e tre. Per intento di chiarezza, in queste pagine le lascio fuori campo e mi limito alle prime due evocate nel testo.

[2]   “Anche” perché il termine queer copre uno spettro semantico ampio e mutevole: qui preciso, per quanto possibile, il significato in cui l'adotto in queste pagine. 

[3]   L'esempio mi è suggerito dal romanzo di Lara Cardella, Volevo i pantaloni, Mondadori, Milano 1989, da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Maurizio Ponzi (1990). 

[4]          S. Zorzi,Viva la teologia femminista, “Rocca”, 16/17 2022.

[5]          La citazione, debitamente contestualizzata, nel mio L'arte di essere maschi libera/mente. La gabbia del patriarcato, Di Girolamo, Trapani 2020, pp. 64 – 65.

[6]          Cit. in V. Surian (a cura di), La città salvata. Omaggio a Simon Weil, εϊδος, Palermo 2014, p. 82.

[7]          T. Forcades, Siamo tutti diversi! Per una teologia queer, a cura di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco, Castelvecchi, Roma 2019, p. 159. 

[8]           Ivi, p. 158.

[9]          Cfr. H. Wolff, Gesù, la maschilità esemplare. La figura di Gesù secondo la psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 1979, da me sintetizzato e inserito nel complesso delle opere della Wolff in A. Cavadi, Tenerezza. Hanna Wolff e la rivoluzione (incompresa) di Gesù, Diogene Multimedia, Bologna 2016.

[10]           H. Wolff, Gesù, cit., p. 35.

[11]          Cit. ivi, p. 30.

[12]M. Althaus-Reid, From Feminist Theology to Indecent Theology: Readings  on Poverty, Sexual Identity and God, SCM Press, London 2004,p. 4, cit. in G.  Gugliermetto, Perché un Dio queer? Dalla teologia della liberazione alla sovversione sessuale. Prefazione a M. Althaus-Reid, Il Dio queer, Claudiana, Torino 2014, p. 11. 

[13]        Come ho precisato all'inizio, in queste pagine non sono esaminate altre religioni.

[14]Bisogna però riconoscere che in alcune Chiese cristiane più avanzate (ad esempio le Chiese valdesi, battiste e metodiste) già oggi l'identità sessuale e di genere è stata fortemente relativizzata rispetto all'identità religiosa e ecclesiale: ci sono pastori gay e pastore lesbiche che convivono con i propri partnersenza dover rinunziare per questo al proprio ministero pastorale. 

[15]E. Stuart, Sacramental Fleshin H. Loughlin (a cura di), Queer Theology: Rethinking the Western Body, Blackwell, Oxford 2007, p. 75, cit. in G. Gugliermetto, Perché un Dio queer? ,cit., p. 37. 

[16]M. Althaus-Reid, Il Dio queer, cit., p. 47.