martedì 28 dicembre 2021

IL GIUDICE LIVATINO RACCONTATO 'LAICAMENTE' DA AUGUSTO CAVADI


 www.girodivite.it

23.6.2021

 

IL GIUDICE LIVATINO RACCONTATO DA AUGUSTO CAVADI 

di Davide Fadda

 

«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Questa è un po’ l’emblema dell’ultimo libro di Augusto Cavadi,  Rosario Livatino, un laico a tutto tondo (Di Girolamo, Trapani 2021, pp. 110, euro 10,00). Il testo del filosofo e scrittore siciliano si propone di raccontare la figura di Rosario Livatino, giovane giudice ucciso dalla Stidda trentun anni fa, da una prospettiva più laica e meno confessionale. L’autore, infatti, sottolinea come la fede cattolica del giudice assassinato abbia indirizzato il taglio delle maggior parte delle pubblicazioni dedicategli, rendendo per certi versi riduttiva la portata narrativa della sua storia. In questo senso lo scritto si pone l’obiettivo di essere  «destinato a ogni genere di pubblico, ma in particolare a quanti non si riconoscono abitualmente nell’universo simbolico cristiano». Secondo Cavadi, infatti, la storia di Livatino ha qualcosa da poterci insegnare. Qualcosa che va al di là del credo religioso e che potrebbe accomunarci non solo in quanto cristiani, ma prima ancora in quanto «cittadini». Ed è proprio su questo incrocio semantico ed etimologico che si incontrano le parole cittadino e laico (dal greco laos, 'popolo', quindi che riguarda l’insieme delle persone, dei  cittadini, appunto). 

Sui diversi significati, talvolta ambigui se non equivoci, che la parola «laico» ha assunto nel nostro Paese, è speso un intero capitolo. Se questo, da un lato, mette il lettore nelle condizioni di comprendere le diverse sfumature che la parola ha acquisito nella storia d’Italia, dall’altro ben ci fa capire cosa l’autore intenda e con quale accezione  la utilizzi per definire alcuni tratti della personalità e della storia di Livatino.  In particolare Cavadi si sofferma sull’accezione positiva del termine: «pensare e agire laicamente significa essere se stessi, non recitare parti preassegnate, non mostrarsi condizionato da credi religiosi o ideologie politiche». Da questo punto di vista quindi la fede cristiana di Livatino non fu per nulla in contrapposizione con la laicità del magistrato. Quest’ultimo, infatti, nonostante l’importante ruolo sociale ricoperto, non ebbe mai a concepirsi come una sorta di «plenipotenziario di Dio sulla terra»; al contrario cercò di rimanere uno del “popolo” al servizio del “popolo”.  Ed è proprio questa sua coerenza per alcuni aspetti semplice, ma non certo banale, a costar cara a Livatino. Cavadi rileva proprio come questa sua “radicale semplicità”,  che lo rendeva immune dall’esser corrotto o compromesso, ne decretò la condanna a morte. Su questo tema lo scrittore siciliano non ha dubbi: è proprio il compromesso dei molti a mettere in pericolo quei pochi, come Livatino, che rimangono «con correttezza al proprio posto». 

È l’isolamento che questi personaggi hanno avuto all’interno della propria categoria di appartenenza a permettere ai mafiosi di agire, uccidendo non solo per togliere di mezzo le “persone scomode” , ma anche per mandare un avvertimento  a chiunque voglia provare ad alzare la testa.  Sono quindi la rettitudine, l’umanità e l’onestà i valori per cui visse e morì il giudice Livatino. Valori che coerentemente si legano alla frase iniziale con cui, credo, si possa estremamente sintetizzare il bel saggio di Augusto Cavadi: essere credibili, non significa, in fondo, non mostrarsi condizionato da interessi di parte in grado di compromettere la coerenza tra il ruolo che istituzionalmente rappresentiamo e le azioni che quotidianamente ci caratterizzano? Se la risposta, come ritengo, è affermativa, allora credibile fa rima con laico. 

 

Davide Fadda

giovedì 23 dicembre 2021

ORLANDO FRANCESCHELLI SU "RELIGIONE O ATEISMO?" DI AUGUSTO CAVADI


 nonmollare quindicinale post azionista | 098 | 20 dicembre 2021 _______________________________________________________________________________________

lo spaccio delle idee
La laicità di un pensatore religioso

di  Orlando Franceschelli 

Tra religione e ateismo esiste un «angusto aut- aut» (p. 38), oppure anche tra queste due posizioni estreme è possibile individuare un «fondamento comune»? Questo è l’interrogativo centrale a cui ci richiama Augusto Cavadi in O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra Editore, Viagrande [CT] 2021, pp. 133, euro 12,00). E la risposta positiva - come suggerisce già  il sottotitolo - è che questo fondamento può essere rinvenuto in una caratteristica basica di noi esseri umani: la spiritualità, che l’Autore invita ad analizzare con quella «vera laicità» a cui egli stesso sente di convertirsi «ogni giorno di più», grazie anche agli stimoli che in questa direzione sta ricevendo dalle amiche e dagli amici a cui non a caso è dedicato il libro. Cavadi è un maestro e un animatore del “con-filosofare”, non a torto ritenuto già da Aristotele indispensabile e piacevole per tutti coloro che amano impegnarsi nell’indagine filosofica, confrontarsi lealmente e migliorarsi reciprocamente. Amano insomma filosofare nel senso più proprio e coinvolgente del termine: non per mera curiosità o vanità accademica, ma come esercizio e testimonianza di quel «pensiero vivente» (Gramsci) di cui oggi più  che mai si avverte il bisogno. E questo libro, arricchito anche da una puntuale Postfazione di Fabrizio Mandreoli (pp. 83-86) e da un Dossier dedicato al rapporto tra spiritualità  contemporanea e filosofia-in-pratica (pp. 87-123), rientra a pieno titolo tra quelli che riescono a trasmettere in presa diretta la ricerca in cui sono impegnati i loro autori. 

Cavadi si apre la strada verso il suo laico tertium datur tra religione e ateismo analizzando la già ricordata categoria di spiritualità e quella di religiosità, a essa strettamente collegata ma da essa distinta. E illustra il rapporto esistente tra queste due nozioni mediante i seguenti passaggi: la chiarificazione semantica e concettuale dei rapporti fede-religione (pp. 26-28); la rivisitazione della dimensione mistica avanzata da L. Lombardi Vallauri (pp. 53 sgg.) e dell’invito di S. Kauffman a reinventare il sacro concependo l’universo alla luce dell’emergentismo, ossia «senza un creatore soprannaturale» (p. 60); il serrato confronto con la visione della religione proposta dal pensatore americano Ronald Dworkin nel suo testamento filosofico (intitolato appunto Religione senza Dio). E alla fine effettivamente sembra difficile non convenire sulle conclusioni a cui arriva Cavadi: utilizzare le nozioni di “spiritualità” e “religiosità”, anziché “religione”, appare «molto più  plausibile e illuminante» del ricorrere a formulazioni tipo «religione senza Dio» o «religione senza religione» (p. 26). A differenza di queste ultime infatti, “spiritualità” e “religiosità” consentono di non restringere l’analisi ai rappresentanti di quelle che agli occhi di Cavadi sembrano «due sparute minoranze», ossia ai «pochi credenti consapevolmente aderenti a un’ortodossia e [ai] pochi atei consapevolmente negatori di qualsiasi valenza sacra del cosmo fisico e morale” (p. 38). Più precisamente, consente di concepire l’attuale società  secolarizzata come una sorta di piramide alla cui base ci sarebbe un cilindro più ampio che ospita la spiritualità  «comune a credenti, atei e agnostici»; poggiato su questo primo cilindro ci sarebbe quello della religiosità, più circoscritto perché  riguardante soltanto credenti e agnostici; al vertice un terzo cilindro ancora più ristretto perché  riguardante i soli seguaci di una specifica religione confessionale e che - si badi - «non avrebbe solida fondazione se non presupponesse “religiosità” e, più basilarmente, “spiritualità”» (pp. 34-35). 

Secondo Cavadi infatti, è soltanto dal tronco della spiritualità  che possono maturare i fiori e i frutti sia della religiosità sia delle religioni confessionali autenticamente professate. Nonché  dei seguaci dell’ateismo che (per quanto possano essere... pochi) sono comunque impegnati anch’essi -come ad esempio il nostro Leopardi - a far fiorire le «proprie potenzialità  specificamente umane» (p. 33). Perciò all’Autore preme dissipare anche i fraintendimenti in cui incorre lo stesso Dworkin a proposito dei sostenitori del naturalismo filosofico. Usando il termine “religione” al posto di “religiosità” egli è indotto, a dir poco, a sottovalutare che anche questi naturalisti non solo rientrano pur sempre nel primo cilindro dell’umana spiritualità, ma spesso sono anche ben lungi dall’appiattire la propria ricerca teorica e il proprio impegno etico-politico   – il loro «pensiero vivente» -  su derive nichilistiche e assurdiste (pp. 43 sgg.). 

Dal rapporto spiritualità-religiosità  e dalla lucida consapevolezza del moderno pluralismo delle visioni del mondo, trae origine e alimento la «preghiera “laica” del pensatore “religioso”»: autentico snodo nevralgico del tertium datur su cui il libro invita a interrogarsi. Una preghiera presentata come «ordinariamente tacita e addirittura inconsapevole, [...] rivolta al cuore pulsante dell’universo» riconoscendo di non sapere «chi o cosa» sia questo cuore, ma dichiarando comunque la propria disponibilità  ad «accettare con docilità  il ritmo» che questo «chi o cosa» ha impresso all’universo stesso. Lasciando «ad altri la rivolta contro le leggi intrinseche dell’essere». Alla laica spiritualità e religiosità di Cavadi, infatti, «bastano, e avanzano, le dure lotte nella storia degli uomini contro le leggi ingiuste che i miei simili non smettono di avallare e riprodurre a mortificazione dei più deboli» (pp. 49-51). 

Non a torto dunque il credente Mandreoli ritiene che la prospettiva individuata da Cavadi offra un’opportunità di «verificare l’autenticità – l’effettiva apertura al mistero e alla propria auto- trascendenza – dell’esperienza religiosa come singole persone e come comunità» (p. 83), nel quadro di «libertà di coscienza [e di] cittadinanza attiva e responsabile» delineato dalla nostra Costituzione (p. 85). A ben vedere però, alla sobria e serena mitezza di questa prospettiva e al «ripensamento decisivo» di tematiche teologico- filosofiche con cui indubbiamente è in sintonia (p. 69), sono tutt’altro che disinteressate/i anche le cittadine e i cittadini che si sentono approdate/ti a una visione non-sacrale del mondo, degli esseri umani e della storia. Sono cioè  di orientamento naturalistico ma restano ben consapevoli di quanto sia importante - tanto più nelle nostre società sempre più  meticce - il modo in cui i credenti testimoniano la loro interlocuzione con la divinità. E non aspirano a conferire al proprio naturalismo filosofico e alla propria passione civile - alla loro umana spiritualità e creatività  - addirittura un potere di fatto analogo a quello del Creatore biblico: operare una sorta di creazione alla rovescia, decretando che il cosmo fisico è  un’assurdità. Sono insomma donne e uomini che provano soltanto a pensare e agire «appetto alla natura» (Leopardi): a vivere con critica e solidale consapevolezza della finitudine, delle tragedie e delle opportunità  che la comune condizione terrena pure offre a ogni essere senziente. E perciò non smettono mai di coltivare l’amicizia che anche - e forse proprio - il con-filosofare può alimentare e arricchire nel più auspicabile dei modi. Se è vero -come opportunamente ci ricorda Cavadi- che «la spiritualità non è né  necessariamente atea né incompatibile con l’ateismo» e che anche tra ateismo e spiritualità può esserci «una relazione creativa e fertile» (p. 27). 

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martedì 21 dicembre 2021

UN AUGURIO LAICO PER QUESTO NATALE


 UN AUGURIO LAICO PER QUESTO NATALE

 

 Il migliore augurio natalizio che riesco a immaginare è di dedicare qualche minuto alla figura del festeggiato: Gesù di Nazareth. Non mi riferisco, ovviamente, alla sua figura fisica di cui sappiamo poco e nulla (e, tra questo poco che sappiamo, è che non avesse nulla dell’icona di giovane biondo, con occhi azzurri, chioma fluente…consegnataci da venti secoli di pittura e da cento anni di Hollywood: molto più verosimilmente era un palestinese olivastro, con occhi neri e penetranti). Mi riferisco alla sua figura storica così come ci è consegnata dalla letteratura religiosa e profana a cavallo fra il I e il II secolo. Per la verità, anche del suo profilo storico sappiamo poco: i testi più antichi del Nuovo Testamento che ci parlano di lui sono stati scritti fra il 60 e il 110 d. C. (dunque decenni dopo gli avvenimenti) e, soprattutto, non vogliono essere resoconti storiografici ma annunzi di fede. 

Secondo la maggior parte degli studiosi è nato intorno al 7 a.C. ed è morto 37 anni dopo,  intorno al 30 d.C. Ovviamente, se non abbiamo certezze sull’anno, meno ancora sul mese e sul giorno: il 25 dicembre è stato scelto a un certo punto della storia perché era la festa romana del Sole invitto che sembrò opportuno sostituire con la Luce di Cristo. 

Come concentrare dunque l’attenzione sulla figura di Gesù? Come si fa con i grandi protagonisti della storia mondiale quali Socrate, Confucio, Buddha, Gandhi, Martin Luther King: focalizzandone il messaggio essenziale.

Nel caso di Gesù il lavoro è facilitato soprattutto da due evangelisti, Luca e Matteo, che hanno estratto la Magna Charta del cristianesimo nel cosiddetto “Discorso delle beatitudini” che, in linguaggio meno clericale, sarebbe “Discorso sulla felicità imminente”.  Rileggiamo la versione più breve in Luca 6, 20 – 22: “Beati voi poveri perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che ora sentite i morsi della fame perché sarete saziati. Beati vi che ora piangete perché riderete. Beati voi quando gli uomini vi odieranno (…) Rallegratevi ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli”.

L’interpretazione tradizionale rende digeribile questo quadruplice pugno allo stomaco interpretando la proclamazione di felicità in chiave intimistica, individuale e futurologica: Gesù parlerebbe di una felicità spirituale, non economico-sociale; di una felicità individuale, non collettiva; in ogni caso, non per questa ma per l’altra vita. Gli studiosi – cattolici, protestanti, ebrei  e perfino agnostici – concordano invece su un’altra interpretazione: Gesù annunziava la felicità dei poveri, degli affamati, degli sconfortati e del perseguitati perché, secondo la sua convinzione,  era arrivato il “regno di Dio”; una nuova era di giustizia, di solidarietà, di libertà, di pace. Quindi non una felicità solo interiore, ma anche esteriore; non solo individuale, ma sociale; non per la fine del mondo, ma qui e ora in occasione della fine di questo tipo di mondo ingiusto.  

Per completare la lettura, basta un click qui:

https://www.zerozeronews.it/natale-preghiera-autoanalisi-e-lesempio-di-gesu/


domenica 19 dicembre 2021

GLI EBREI IN SICILIA TRADITI DUE VOLTE

 


“Il GATTOPARDO”

(Edizione siciliana)

Novembre 2021

 

GLI EBREI TRADITI DUE VOLTE

 

La Sicilia medievale è stata un crocevia di tradizioni culturali differenti: greche ed ebraiche, cristiane e islamiche…L’espulsione di ebrei e musulmani, decretata dalla corona spagnola nel XV secolo, amputò drasticamente questo felice intreccio etnico-religioso che aveva costellato l’isola di monumenti artistici, stabilimenti termali, sinagoghe e moschee, coltivazioni arboree e tanto altro. 

 Nei cinque secoli successivi famiglie ebraiche di varia provenienza ritornarono in Sicilia e, pur non raggiungendo i numeri anteriori all’espulsione, contribuirono efficacemente al suo sviluppo sociale ed economico: basti pensare che  la “Società Anonima Fabbrica Chimica Italiana Goldenberg” – della quale, nella borgata  Arenella di Palermo, restano, tristemente abbandonati, molti edifici – era stata fondata grazie agli investimenti finanziari  di capitalisti ebrei tedeschi ed era diventata, nei primi decenni del XX secolo, una delle più grosse industrie al mondo per la produzione di acidi estratti dai limoni.  

Poi, con le leggi razziali fasciste del 1938 , i cittadini ebrei furono traditi per la seconda volta: individuati e catturati, furono internati in campi di concentramento in Italia e di sterminio all’estero. Pochi riuscirono a salvarsi con la fuga tempestiva. Dalle università di Catania e di Palermo emigrarono, forzosamente, il biochimico Camillo Artom (cui sarà dedicata la “Casa Artom” a Venezia), il critico letterario Mario Fubini, il fisico Emilio Segrè (premio Nobel nel 1959) e altri intellettuali che riversarono altrove quei preziosi contributi che avrebbero potuto arricchire l’isola mediterranea. 

Insomma, ancora una volta, fanatismo e intolleranza danneggiarono le vittime, ma almeno altrettanto i persecutori. Quando impareremo che il futuro vivibile sarà caratterizzato dalla “convivialità delle differenze” (don Tonino Bello)?

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

venerdì 17 dicembre 2021

PANDEMIA FA RIMA CON ANARCHIA ?


 ANARCHIA FA RIMA CON EPIDEMIA?

Che nella discussione pubblica scatenata dalla pandemia del covid-19 intervengano – contro le mascherine, poi contro i vaccini, poi contro i pass – personaggi grigi che, per la prima volta nella vita, possono dare del cretino a un virologo di fama internazionale o dell’assassino a un ministro della Repubblica democratica, non mi stupisce. A interrogarmi, invece, sono gli interventi ‘anti-’ di persone (spesso miei colleghi filosofi) che ho sempre stimato per la vastità delle letture e per l’acume degli scritti. Un libro ricevuto in dono dalla curatrice, L’individuo radicale di Max Stirner. Nichilismo e terrorismo nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento (Bibliosofica, Roma 2021, pp. 116, euro 13,00), a firma del compianto Giovanni Feliciani, mi ha lanciato un flash illuminante suggerendomi una chiave di interpretazione del fenomeno contemporaneo che non cessa di stupirmi.

Il libro, infatti, è un testo sull’anarchia (su una certa versione dell’anarchia, intesa – come suggerisce in Prefazione Guido Simone Neri – come “filosofia della vita molto vicina ad autori classici del pensiero filosofico tardo ottocentesco come Simmel, oltre che, ovviamente a Nietzsche”, p. 21) scritto da un anarchico: un anarchico talmente “radicale” da non accettare di aggregarsi a nessuna associazione o a nessun movimento di anarchici, concentrato sulla difesa a oltranza della libertà dell’individuo. Tale libertà si manifesta (a detta dell’Autore in sintonia con Albert Camus: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no”) come “continua e implacabile affermazione, trasgressione e rivolta contro il potere dominante” (p. 28).

Se si condivide la convinzione – anche sartriana – che la libertà o è assoluta o non è, è evidente che ogni possibile restrizione normativa da parte di qualsiasi governo (di destra, di sinistra o di centro: democratico o dittatoriale o semi-democratico)  venga vissuta, in buona fede, come  negazione tout court della libertà: violazione insopportabile della sfera dei propri diritti innati. E, in quanto tale, contestata duramente.  Per un anarchico sincero, autentico, qualsiasi intervento dello Stato nel  proprio ambito d’azione è come la goccia che fa traboccare il vaso della più sacrosanta delle ire: egli, come Stirner, testimonia “un acceso radicalismo nei confronti di qualsiasi norma” e si rivolge “agli individui, a tutti gli individui, affinché comprendano che ‘nulla’ vi può essere al di sopra di loro” (p. 47). Infatti “l’individuo non deve ribellarsi ad una forma particolare di Stato”, “ad uno Stato determinato, alla forma attuale dello Stato”, quanto “all’ordine stesso cioè allo Stato (status) qualunque sia”: “il fine da raggiungere non è un altro Stato (lo Stato democratico, per esempio), ma l’alleanza, l’unione, l’armonia sempre instabile e mutevole di tutto ciò che è, e che è a condizione di cambiare continuamente” (p. 55). L’anarchia non mira a una semplice “rivoluzione” (che ha comunque per “méta un regime nuovo”), bensì a una “insurrezione” (“l’atto di individui che si ribellano, senza preoccuparsi delle istituzioni che dovranno cadere sotto i loro colpi, né di quelle che ne potranno risultare”, p. 56).

Quanti sono in Italia gli anarchici (sia consapevoli che inconsapevoli, sia per maturazione di una lunga ricerca intellettuale, come nel caso di Feliciani,  che per propensione temperamentale o perfino per interessi privatistici inconfessati – inconfessati almeno sino a quando certi leader populistici infrangono il tabù e proclamano a voce alta il primato dell’individuo sulla famiglia, della famiglia sulla società, della propria nazione sull’umanità) ? 

Per completare la lettura, basta un click qui:

https://www.zerozeronews.it/anarchia-fa-rima-con-pandemia/

mercoledì 15 dicembre 2021

NELLE LIBRERIE FISICHE E ON-LINE L'ULTIMO LIBRO DI ORTENSIO DA SPINETOLI


 Ce l'abbiamo fatto in tempo ! Da oggi in tutte le librerie fisiche e meta...fisiche potete sfogliare l'ultimo libro di Ortensio da Spinetoli e decidere se fare un regalo 'natalizio' a voi stessi o a una persona che vi è cara o...a entrambi.

Per avere un'idea di che si tratta, qui di seguito le mie due paginette e mezza di Prefazione (pp. 5 -7)

LA PROFEZIA SI STA AVVERANDO SOTTO I NOSTRI OCCHI?

 

Con lo scorrere degli anni la statura scientifica, spirituale e umana del frate cappuccino  Ortensio da Spinetoli (1925 – 2015) si staglia in maniera sempre più netta nel panorama teologico del nostro tempo. Come tutti i profeti è stato perseguitato dalle istituzioni ecclesiastiche e amato da tanta gente incantata dal suo tratto mite, gentile, quasi fanciullesco. I suoi amici – in particolare Nicoletta Sonino, Giovanni Fava e Gianfranco Cortinovis che ne è l’erede letterario – stanno regalando alla chiesa di papa Francesco, ma più ancora agli uomini e alle donne in spassionata ricerca di senso, la possibilità di leggere alcuni fra i suoi scritti più preziosi (e, per ragioni diverse, meno rintracciabili). Alcuni titoli (L’inutile fardello e La prepotenza delle religioni, entrambi per le edizioni Chiarelettere) hanno già conosciuto una fortuna editoriale imprevedibile. Ma attraverso quali sentieri, quali intuizioni, quali travagli p. Ortensio è pervenuto alle posizioni dirompenti degli ultimi anni?

Chi osserva dall’esterno – peggio ancora se privo di sintonia – la parabola di molti cattolici contemporanei dall’ortodossia a orizzonti di radicale problematicità (o, come si sarebbe detto sino a poco tempo fa, a orizzonti eretici) suppone che si tratti di vicende meramente biografiche, più o meno decifrabili come crollo psicologico o morale. Niente di più falso. Abbandonare il mondo ovattato delle certezze dogmatiche per avventurarsi nel campo della documentazione oggettiva, dell’analisi critica, del confronto intellettuale, del dialogo a trecentosessanta gradi…è un processo lento, graduale, sofferto. Solo chi ama la verità più di se stesso – più della tranquillità interiore e delle sicurezze sociali ottenute – può trovare il coraggio di rimettere in discussione a quaranta o cinquanta o sessant’anni ciò che si era abituato a ritenere ovvio, indiscutibile. E la pazienza per rivedere con studio più attento, riflessione più profonda, verifiche passo-dopo-passo il patrimonio di idee e di valori accolto precedentemente. 

Anche p. Ortensio ha maturato la sua ‘conversione’ (per certi versi paradossale: dal cristianesimo istituzionale-dogmatico come grande ‘eresia’ al messaggio evangelico delle origini come prototipo ‘ortodosso’ e ‘ortopratico’) in maniera ponderata: le sue molte pubblicazioni lo documentano eloquentemente. Esse sono significative di un travaglio, di una revisione critica, ben oltre la vicenda di un singolo individuo: è tutta la teologia – dall’esegesi biblica alla sistematica e all’etica – che è stata attraversata da un terremoto epocale (paragonabile solo ai terremoti registrati nell’ambito della fisica e della biologia).

 La nostra casa editrice ha voluto ripubblicare un suo piccolo gioiello del 1967, Introduzione ai vangeli dell’infanzia, in cui il giovane ricercatore mostrava – non senza cautele prudenziali nel modo di esprimersi – che i racconti di Matteo e di Luca riguardanti la nascita e i primi anni di Gesù non sono resoconti ‘storici’ nell’accezione contemporanea dell’aggettivo, ma deliziose costruzioni leggendarie il cui unico scopo ‘edificante’ era presentare per immagini e simboli la novità della persona e del messaggio del Messia.  

   Con il volume che ha in mano, edito nel 1986 da una casa editrice non più attiva,  il lettore può fare un altro passo avanti nella ricostruzione del cammino teologico-spirituale di Ortensio (e di tanta parte delle chiese cristiane). In Chiesa delle origini Chiesa del futuro – qui riedito col titolo Rifondare la Chiesa. Una follia inevitabile - egli avanza, sin dalla Premessa, una predizione che si sta avverando sotto i nostri occhi e contro la cui realizzazione le sacche più retrive, anzi reazionarie, della chiesa cattolica non praevalebunt : “La ‘rifondazione’ più che la ‘riforma’ della chiesa sembra al momento presente oltre che un sogno, una follia, ma sarà l’avvenimento più sensazionale che la storia riserva alle generazioni future” (p. 16). Forse papa Francesco non riuscirà a compiere la missione intrapresa; forse altri successori cercheranno di frenare o di innescare la marcia indietro; ma “le pedine sono state ormai spostate e non sarà possibile rimetterle tranquillamente dov’erano” (ib.). D’altronde siamo arrivati ormai a un bivio: o si ricomincia tutto dall’inizio – dal  principio nel senso di ‘fondamento’ – o si accetta che la chiesa cattolica, in maniera non dissimile da tutte le altre chiese della cristianità, s’inabissi lentamente come un transatlantico dalla carena squarciata.

     Affinché questa ‘rifondazione’ abbia luogo, l’iniziativa di questo o quel papa - di questo o di quel santo, di questo o di quel genio teologico – per quanto rilevante, e forse necessaria, resterà irrimediabilmente insufficiente. E’ tutto il ‘popolo di Dio’ che deve svegliarsi dal sonno dell’ignoranza, dell’acquiescenza passiva, tipici di epoche ormai tramontate: capire che ha il diritto, e prima ancora la responsabilità, di pensare con la propria testa e di diventare, all’interno e all’esterno delle comunità di fede, un modello di emancipazione, libertà, solidarietà planetaria. Libri come questo di Ortensio costituiscono gli irrinunciabili strumenti di tale irrinunciabile esodo verso la Terra promessa all’intera umanità: leggiamoli, dunque; meditiamoli; esercitiamo anche su di essi il discernimento, Ma, poi alla fine, proviamo a incarnarne il messaggio nella fatica delle lotte quotidiane.

 

Augusto Cavadi 

www.augustocavadi.com

domenica 12 dicembre 2021

6 DOMANDE PRECISE SUL COVID: ASTENERSI DAL RISPONDERE SE NON SI HANNO 'COSE' DA DIRE

 6 DOMANDE SUL COVID-19: GRADITE RISPOSTE SENSATE E PACATE

 

In quanto filosofo-consulente, per esigenza interiore prima che per professione, ho cercato e cerco di seguire il dibattito attuale sul covid-19. Poiché avverto fortemente i miei limiti (di informazione scientifica e di riflessione critica) sono arrivato alla conclusione di chiedere aiuto ai lettori del blog www.filosofiaperlavita.it che vogliano prestarmelo.

Ecco dunque 6 domande: chi vorrà, potrà dare le sue risposte. 

Saranno cancellate esclusivamente le risposte o formulate in maniera offensiva (si prega di esprimere liberamente il proprio parere senza fare riferimento esplicito e diretto a interventi precedenti ospitati nel blog) o generiche (intendo: che non facciano riferimento a una domanda precisa, specifica); lascerò invece al giudizio di chi leggerà le risposte la valutazione degli interventi carenti o per riferimento alle fonti o per illogicità di argomentazione. La sinteticità di ogni risposta gioverà certamente alla comprensione della stessa da parte dei lettori.

1 : “La pandemia, di cui parla la maggior parte delle fonti governative italiane e dei mezzi di trasmissione sociale, c’è davvero o è – in parte o in toto – un’invenzione?”

2: “Chi si è sottoposto a una o più dosi di vaccino ha – nei mesi immediatamente successivi - le stesse probabilità statistiche di ammalarsi rispetto a chi non vi si è sottoposto?”

3: “A prescindere dalle probabilità di ammalarsi, chi si è sottoposto a una o più dosi di vaccino, se si contagia – nei mesi immediatamente successivi – è esposto al medesimo grado di rischi clinici rispetto a chi non si è sottoposto a profilassi?”

4: “A prescindere dalle probabilità e dalla gravità del contagio personale, chi si è vaccinato può contagiare altri in misura meno grave rispetto a chi non si è vaccinato?”

5: “A prescindere dai metodi per ottenerlo (green pass o altro), l’obiettivo di vaccinare quanti più cittadini possibile è condivisibile (perché gli innegabili effetti secondari indesiderabili costituiscono un prezzo accettabile) o contestabile (perché, rispetto agli inconvenienti sanitari, l’obiettivo della profilassi non assicura vantaggi apprezzabili)?”

6: “Il governo italiano ha, di fatto, limitato la sfera di libertà dei cittadini in questo periodo di pandemia: giudicata nel suo complesso, questa politica restrittiva è stata giustificata da oggettive ragioni di salute pubblica o si è attuata – strumentalizzando la ‘pandemia’ (vera o presunta) - per obiettivi strategici inconfessabili (ma intuibili)?”

 

Se sono stato chiaro nella mia proposta, ogni intervento dovrebbe avere una struttura analoga alle Summae medioevali: “Alla prima questione rispondo che…”. Ovviamente è possibile, dopo aver risposte alle domande o dopo averle bypassate, esprimere delle considerazioni critiche sul questionario: ad esempio, notando che qualche domanda è stata malposta o proponendo l’aggiunta di qualche altra questione etc.

 

Precisazione tecnica: le risposte NON vanno scritte su questo mio blog che state leggendo, ma sul blog www.filosofiaperlavita.it Lì troverete questo stesso mio post e potrete usare lo spazio ‘commenti’ (o, se aveste difficoltà tecniche, scrivendo su a.cavadi@libero.it una e-mail che poi mi incaricherei di ricollocare sul blog www.filosofiaperlavita.it ; se vi iscrivete agli aggiornamenti automatici via email di quel blog, potrete essere avvertiti degli sviluppi della riflessione comune).

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

giovedì 9 dicembre 2021

LA MANO, LE MANI: UNO SGUARDO DA 'MEDIATORE FILOSOFICO'


(Il 1 dicembre 2021 l'Autore del piccolo libro che qui recensisco è deceduto. Non l'ho conosciuto personalmente, ma gli ero grato per avermi voluto omaggiare la sua pubblicazione appena edita).

DI MANO IN MANO LA FILOSOFIA DEL QUOTIDIANO

 

Nell’immaginario collettivo la filosofia si interroga solo a partire da fenomeni  grandiosi, di portata universale o per lo meno epocale: come l’amore o la morte. Se così fosse, la quotidianità ne resterebbe quasi totalmente esclusa. E, in effetti, così per lo più avviene: anche a eminenti cattedratici di discipline filosofiche capita di trascorrere l’intera vita senza mai interrogarsi   criticamente sulla scelta del menù a tavola o del mezzo di trasporto urbano. Ci sono però filosofi – i filosofi ‘pratici’, i ‘consulenti’ filosofici o i ‘mediatori filosofici’ (sorvoliamo, per brevità, sulle differenze fra questi ruoli) - che amano il continuo rimando dal micro al macro (e ritorno): dal particolare al generale, dal dettaglio all’insieme. Il dettaglio che colpisce Gianvittorio Pisapia, nel breve ma intenso Il mediatore filosofico e l’esperienza delle mani (Cleup, Padova 2020, pp.63, euro 12,00), è il fatto che siamo animali dotati di mani: “mani che accarezzano e mani che puniscono; mani che benedicono e mani che minacciano; mani che leniscono e mani che distruggono; mani che porgono e mani che respingono; mani che offendono e mani che sostengono; mani che uniscono e mani che dividono; mani che offrono e mani che sottraggono; mani che raccolgono e mani che disperdono (Maria Giacobbe)” (p. 39). Il pensiero non può non andare alla canzone, molto bella, Le mani di Edoardo De Crescenzo                                                 https://www.youtube.com/watch?v=s_wMuEb1WR0.

Già illustri pensatori greci  si erano interrogati su questo aspetto della nostra corporeità: “se per Aristotele la natura ha dato la mano all’uomo perché è il più intelligente degli animali, per Anassagora l’uomo è più intelligente degli altri animali perché possiede le mani” (p. 34). Quale che sia la tesi più vera, dobbiamo riconoscere che stiamo riflettendo non su protesi accidentali, bensì su qualcosa di materialmente circoscritto che ha finito con l’invadere semanticamente sfere molto più ampie della nostra esperienza: “passare la mano, toccare con mano, prendere in mano la situazione, avere le mani in pasta, avere le mani bucate, stare con le mani in mano, lavarsene le mani, dare una mano, venire alle mani, mettere la mano sul fuoco, essere colti con le mani nel sacco, chiedere la mano al padre della fidanzata, alzare le mani su qualcuno, baciare le mani, battere le mani, stringere la mano, fare man bassa, mettersi le mani nei capelli, mettersi nelle mani di qualcuno, mordersi le mani, portare in palmo di mano, rimettere mano a qualcosa, , mettere mano al portafoglio, persona alla mano, a mano a mano, rubare a man salva, a piene ani a portata di mano, fuori mano, di prima mano” (pp. 38 – 39).

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martedì 7 dicembre 2021

SULLA "BOLLA DI COMPONENDA" ANDREA CAMILLERI HA PRESO FISCHI PER FIASCHI ?


 Andrea Camilleri, nel suo “La bolla di componenda”, accusa la Chiesa cattolica di essere ‘cattiva maestra’ delle cosche mafiose. Quanto c’è di vero e quanto di infondato in questa accusa? Don Francesco Michele Stabile – certamente lo storico più autorevole dei rapporti fra chiese e mafia siciliana – espone il suo punto di vista in un volumetto agile, ma documentato:

 

                  Chiesa madre, ma cattiva maestra? 

                     Sulla ‘bolla’ di Andrea Camilleri

        (Di Girolamo, Trapani 2020, pp. 232, euro 15,00).

 

Giovedì 9 dicembre 2021 alle ore 18:30, presso la Parrocchia “Mater Misericordiae”  di Palermo (via Liguria, 6) , don Cosimo Scordato e Augusto Cavadi discuteranno il saggio con l’autore. 

L'evento è organizzato dall'associazione di volontariato culturale "Scuola di formazione etico-politica  Giovanni Falcone" di Palermo.

(Ovvio memento: chi non può partecipare all'incontro, può comunque trovare i libretto in questione in tutte le librerie fisiche e on line).

domenica 5 dicembre 2021

LA SAGGEZZA FILOSOFICA ALLA PROVA DELLA SOFFERENZA PLANETARIA


 LA FILOSOFIA COME CONSAPEVOLEZZA ESISTENZIALE

Secondo Heidegger, il pensatore autentico pensa solo una ‘cosa’ (e ci torna e ci ritorna da punti di vista differenti). Se ciò è vero, Orlando Franceschelli – con la sua ultima pubblicazione,  Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza (Donzelli, Roma 2021, pp. 155, euro 18,00) - si conferma un pensatore autentico. Infatti, sollecitato da quel “male comune” che è stata, anzi che è, la “pandemia da Covid-19” (p. 41),  riprende, in continuità con gli scritti degli ultimi decenni,  la tematica a lui più cara: il senso del vivere umano come eco-appartenenza e solidarietà attiva con tutti i viventi. E lo fa con l’equilibrio metodologico del filosofo che, da una parte, ascolta le voci più affidabili delle scienze (naturali e umane) e, dall’altra, non rinunzia al compito di riflettere criticamente sulle tesi degli scienziati e, ancor più, sulle conseguenti applicazioni tecniche. Infatti, a suo avviso, “non si vive per filosofare”, ma “si pratica anche l’indagine filosofica per imparare a vivere bene, ossia per contribuire come filosofe/i e cittadine/i a quello che non a torto Montaigne indicava come il più «grande e glorioso capolavoro» che possono compiere gli esseri umani: educarsi a «vivere come si deve»” (p. 6).

L’equilibrio della prospettiva dell’autore non è sfuggito a Telmo Pievani che, nella  Prefazione, ha notato che, “mentre filosofi nostrani perdono senno e reputazione vaneggiando di complotti e dittature sanitare, la naturalistica pedagogia della sofferenza di Franceschelli ci richiama alle nostre responsabilità di costruttori di mondi, smonta gli alibi di chi non vede mai alternative, invoca la conoscenza di sé stessi e la volontà di migliorarsi” (p. X). 

“Pedagogia della sofferenza” è una formula che, sin dal sottotitolo, ricorre molto spesso nelle pagine del libro e che sintetizza i tre aspetti dell’atteggiamento suggerito da Franceschelli nel misurarsi con l’oceano di dolore che – con o senza ventate epidemiche – circonda e soffoca le nostre esistenze: “sopportare la sofferenza per quanto si deve, ridurla per quanto è possibile, conoscere-apprendere quanto di più prezioso essa può insegnarci” (p. 111). A prima vista, tre indicazioni che possono sembrare scontate; tuttavia per ciascuna di esse l’autore espone – attingendo alla storia della cultura occidentale dai Greci ai nostri contemporanei – obiezioni, critiche, asserzioni alternative. Talora, a somiglianza della sociologia secondo Wright Mills, anche la filosofia è costretta a farsi “penosa elaborazione dell’ovvio”. Come dimostra, proprio in questi mesi, il pullulare di filosofi (prestigiosi e meno prestigiosi) che, individuando questo o quell’aspetto oggettivamente discutibile delle strategie politico-sanitarie, vi fanno leva per stupefacenti esercizi dialettici tendenti a rafforzare le loro almeno altrettanto discutibili teorie generali sul mondo: da proposte neo-stoiche (che invitano ad accettare i mali come “prove che l’uomo virtuoso deve sopportare con fermezza”, p. 102) a riedizioni del superomismo nietzschiano (che vedono in ogni disposizione governativa, anche e soprattutto se mirata a difendere i “deboli”,  tentativi di ridurre a gregge obbediente anche gli spiriti eletti, che volano ben al di sopra del “bene e del male”).

 

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venerdì 3 dicembre 2021

LA SANTITA' LAICA DEL GIUDICE LIVATINO




 La laica santità del giudice Livatino

by Antonino Cangemi

In un momento in cui vengono alla ribalta le contraddizioni del sistema giudiziario e la fragilità istituzionale che dovrebbe garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, la beatificazione di Rosario Livatino riscatta il ruolo e l’identità dei magistrati.

Molte le pubblicazioni che hanno ricordato il giudice di Canicattì nell’anno della sua beatificazione. Tra di esse abbiamo scelto il saggio di Augusto Cavadi,  Rosario Livatino, un laico a tutto tondo, edito da Di Girolamo.

La scelta è ricaduta sul libro di Cavadi perché, pur soffermandosi sul profondo senso religioso che ha ispirato la vita e l’attività professionale di Livatino, ne coglie un aspetto in genere trascurato e spesso travisato: la laicità nel suo magistero di giudice.

E’ facile ritrarre Livatino come un cattolico fervente, tutto chiesa e toga, uomo di fede illuminato dalla fede nell’esercizio del suo mestiere di magistrato.

Il che peraltro ne giustifica ancor più la beatificazione e il sacrificio della sua esistenza dedita a Dio (nella sua agenda un’eloquente sigla: STD, sub tutela Dei) e alla giustizia. E in effetti Livatino così era, ma con una puntualizzazione doverosa che Cavadi nel suo breve saggio mette in rilievo e che meglio rende testimonianza dell’uomo e del giudice. Livatino non era un integralista, la sua fede e la sua alta levatura morale nonché la sua intelligenza, lungi dal collocarlo su un piedistallo alieno al confronto e alla “negoziabilità dei valori”, lo spingevano al contatto con gli altri, anche con chi gli era lontano per sensibilità, credo e filosofia di vita.

La laicità di Livatino si manifestava, secondo Cavadi, “nell’essere parte di ‘un popolo’” riconducendo l’espressione alle sue origini etimologiche (laos).

Il “giudice ragazzino” – come venne battezzato con un’assai infelice esternazione di Cossiga benché, quando fu ucciso, “ragazzino” non fosse – non apparteneva alla cosiddetta “casta” dei giudici (e in ogni caso di quella presunta “casta” rifiutava i privilegi e i poteri), ma al “popolo”, alla gente comune. E proprio per questo che oggi, proprio quando si svelano le debolezze e le lacerazioni  del contesto giudiziario, spicca ancor più la sua esemplarità.

Nel saggio di Cavadi sono raccolte diverse testimonianze della sua “santità” laica, della sua anomala “normalità”: a parte una professionalità riscontrabile in pochi (le sue sentenze e i suoi atti giudiziari sono formalmente e sostanzialmente impeccabili), Livatino riconosceva l’importanza fondamentale della dialettica processuale e con gli avvocati coltivava il più costruttivo dialogo, teneva in grande considerazione le ragioni e i diritti degli imputati e avvertiva il peso – non indifferente per un giudice coscienzioso – del giudicare, la sua “terribilità” per dirla con Sciascia.

 Il saggio di Cavadi si conclude con una significativa lettera scritta dall’allora giovane magistrato Felice Lima  (pubblicata su un quotidiano siciliano) in occasione delle celebrazioni istituzionali del suo martirio: un j’ accuse contro le inadempienze dello Stato a difesa dei magistrati impegnati, nelle periferie della Penisola, a contrastare la mafia con uffici e dotazioni organiche inadeguati.

 Fonte originaria:

https://www.zerozeronews.it/la-laica-santita-del-giudice-livatino/

mercoledì 1 dicembre 2021

8 DICEMBRE: UN'OCCASIONE PER RICONCILIARSI CON LE DONNE ?

 

La foto riproduce una pittura natalizia 'progressista' : Maria legge un libro mentre Giuseppe si occupa del neonato😊

* L'agenzia di stampa "Adista" ha avuto il 'coraggio' non solo di chiedermi un commento alla festa (cattolica) imminente dell'Immacolata concezione di Maria, per la rubrica "Omelie fuori dal tempio", ma perfino di pubblicarlo 😊. 

Ecco il risultato (cfr. “Adista/notizie” del 13.11.2021):

 

UNA FESTA PER RICONCILIARSI CON LE DONNE

 

L’esperienza ormai pluridecennale mi attesta che, nel ‘senso comune’, la celebrazione odierna viene fraintesa. “Immacolata concezione”? Nove volte su dieci si ritiene che sarebbe il concepimento verginale di Gesù da parte di Maria. Solo in rari casi si sa che, invece, ci si riferisce al privilegio divino per cui Maria – concepita dai suoi genitori Anna e Gioacchino in maniera del tutto naturale – sarebbe stata esentata, sin dal suo primo stadio di esistenza nel grembo materno, dalla macula del “peccato originale”. La ragione per cui mi trovo spesso a ribadire, con i miei amici,  questo chiarimento teologico preliminare non è particolarmente nobile. Esso, infatti, mi è indispensabile per non sciupare l’effetto umoristico della storiella di Gesù che, davanti all’adultera, sfida i presenti (“Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”) e subito dopo vede volare verso la povera donna un sasso. Giratosi di scatto per individuare l’autore del gesto imprevisto, riconosce la Madonna e, non senza disappunto, la implora: “Mamma, per favore, lasciami lavorare!”.

Al di là delle riletture più o meno ingenuamente scherzose dei racconti evangelici, la festa liturgica di oggi è davvero imbarazzante. Essa infatti, relativamente recente (risale al 1854, anno in cui il papa Pio IX proclamò il dogma dell’Immacolata concezione di Maria), presuppone la dottrina del “peccato originale”  trasmesso da Adamo ed Eva a tutti i discendenti (tranne Gesù e, per una sorta di effetto retroattivo  dei suoi “meriti” futuri, sua madre). Nel XIX secolo, almeno in campo cattolico, gli studi esegetici non avevano ancora chiarito che la lettura storico-ontologica del mito biblico della ‘caduta’ della prima coppia è per tanti versi insostenibile: il racconto, infatti, non ha né potrebbe avanzare alcuna pretesa di verità cronachistica, paleontologico-scientifica. Il messaggio degli ignoti autori, che utilizzano miti diffusi in tutte le civiltà coeve, è che la durezza della vita quotidiana di uomini e donne  potrebbe essere drasticamente limitata qualora orgoglio ed egoismo venissero capovolti, invertiti, in consapevolezza dei propri limiti creaturali e in solidarietà con i propri simili. 

Ma se la dottrina del “peccato originale” nasce da una lettura naif delle Scritture, per conseguenza logica di nessuna persona umana si può affermare che ne sia stato esentata, prima o dopo la nascita. Abolire questa celebrazione liturgica sarebbe dunque un passo avanti non solo verso la comunione ecumenica con le altre chiese cristiane (nessuna delle quali riconosce questo eccezionale privilegio mariano, come d’altronde non l’hanno riconosciuto teologi cattolici illustri come Tommaso d’Aquino nel XIII secolo ), ma anche verso la volontà di verità dei migliori fra i nostri contemporanei. Una venerazione più sobria, perché biblicamente più aderente, della madre di Gesù – sorella di tutte e di tutti nella crescita graduale, nella lotta contro le difficoltà interiori ed esteriori – lungi dall’allontanarla, ce la avvicinerebbe. Ce la renderebbe più cara e più imitabile. 

  L’8 dicembre del futuro potrebbe, così, diventare la celebrazione della Donna: il giorno in cui la chiesa cattolica potrebbe rivedere autocriticamente la propria impostazione patriarcale e maschilista (pre-condizione culturale, insieme ad altre, della subordinazione attuale  delle donne nel sociale e della violenza sistemica di cui sono mediamente vittime); riconciliarsi con il femminile per due millenni esaltato in Maria, ma mortificato in tutte le altre donne, troppo spesso emarginate dai ruoli di guida delle comunità o addirittura trattate come strumenti di tentazioni diaboliche. Una riconciliazione simbolica che non suonerebbe ipocrita a una condizione: che effettivamente, nel diritto canonico e nella prassi quotidiana, alle donne venisse riconosciuta la pari dignità e la pari responsabilità rispetto ai maschi. Solo così la “concezione” cattolica della donna si purificherebbe delle sue macchie secolari e risplenderebbe, finalmente, “immacolata”. 

 

Augusto Cavadi  

www.augustocavadi.com

domenica 28 novembre 2021

PERCHE' ANCORA STATUE DI SANTI CATTOLICI SI INCHINANO DAVANTI CASE DI BOSS MAFIOSI?

LE INCONFESSABILI CONNIVENZE FRA CHIESA CATTOLICA E MAFIE

 

In tutte le culture inchinarsi è un segno di reverenza, spesso anche di subordinazione. Nell’Italia meridionale – dove il senso della ‘comunità’, basata sui rapporti personali, prevale sul senso della ‘società’, basata sulle regole oggettive – esso possiede ancestralmente un forte valenza simbolica. E’ facile intuire, dunque, quanto credito sociale guadagna un boss mafioso se la statua della Madonna o di un santo protettore, nel corso di una processione, si ‘inchina’ in segno di omaggio davanti la sua abitazione: nel linguaggio espressivo dei segni, equivale a farsi proclamare Dio. O qualcosa di molto vicino al divino.  

Su questo fenomeno non mancano le documentazioni giornalistiche né i commenti occasionai di vari studiosi, ma solo in questi giorni esso è diventato oggetto di uno studio organico nel volume di Davide Fadda, L’inchino. Santi, processioni e mafiosi nel Meridione italiano (Di Girolamo, Trapani 2021, pp. 168, euro 20,00). 

Il giovane autore è partito da due casi di studio (le processioni della Madonna delle Grazie a Oppido Mamertina e della Madonna del Rosario a San Paolo Bel Sito) e, con l’aiuto di alcuni esperti sui rapporti fra le chiese e le mafie (tra cui don Francesco Michele Stabile, Salvatore Lupo e Giancarlo Caselli), ha inserito questi due episodi di cronaca nel quadro complessivo della religiosità cattolica mediterranea e delle strategie attuate costantemente dalle cosche criminali per strumentalizzarla ai fini della propria legittimazione. Tale strumentalizzazione risulterebbe disagevole se dovesse fare i conti con una chiesa più fedele al messaggio originario di Cristo, più libera perché concentrata su principi di giustizia e di fraternità solidale; non – come invece avviene – con una chiesa “fortemente gerarchizzata”, diventata “una delle potenze indiscusse nel panorama politico europeo per quasi duemila anni” (p. 37).

Il quadro che viene restituito è variegato sia nel tempo che nello spazio: la storia scorre, per fortuna, anche sotto i ponti del Meridione italiano, così che in alcune cittadine le amministrazioni locali – in linea con la tradizione -  chiudono un occhio (o tutti e due gli occhi); in altre, invece, anche per il coraggio personale di alcuni esponenti delle istituzioni civili e religiose, il disegno egemonico dei mafiosi viene smascherato, denunziato e smantellato. Già, il coraggio che – sostiene Fadda – “significa non solo staccarsi da una proposta sociale e culturale «sbagliata» ma non cedere, per quanto possibile, alla nostra paura principale, che è morire” (p. 146). 

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giovedì 25 novembre 2021

CONDIVISIONE E DIFFIDENZA DI FRONTE AL PARADIGMA POST-TEISTA


 “Adista/Documenti”

n. 41 del 20.11.2021

 

IL POST-TEISMO CONTEMPORANEO: FRA CONDIVISIONE E DIFFIDENZA

 

Fra i molti pregi, il numero 35 di “Adista/Documenti” mi ha aiutato a chiarire a me stesso perché il mio giudizio sul paradigma “post-teista” oscilli, quasi per una dialettica interna, fra condivisione e diffidenza. Da una parte, infatti, la radicalità e la schiettezza con cui si contestano i paradigmi teologici precedenti mi risultano liberatori e capaci di aprire scenari entusiasmanti: francamente lo stile abituale di molti teologi di dire-e-non-dire, o di smerciare come mere modifiche di linguaggio dei sostanziali mutamenti dottrinari, mi ha stancato da tempo. Gli studiosi che Claudia Fanti e don Ferdinando Sudati continuano a farci conoscere in lingua italiana preferiscono un più evangelico “Sì, sì; no, no” che consente, e in un certo senso impone, delle più nette prese di posizione da parte del lettore. E’ questa la ragione principale per cui ho aderito con convinzione, sin dall’inizio, all’interessante rete “Inedito cammino” di cui Federico Battistutta ha efficacemente sintetizzato la missione sul numero 37 di “Adista/Documenti”.

Che cosa, tuttavia, mi impedisce di sentirmi totalmente a casa, in buona compagnia, quando si tratta di proporre propositive, costruttive, alternative ai relitti ormai inservibili del passato? Direi che, dal punto di vista del metodo, non mi convincono alcune opzioni di fondo che sintetizzerei in tre parole-chiave.

La prima parola è storicismo ossia la convinzione che ciò che viene dopo sia necessariamente migliore di ciò che viene prima. “Il mondo sta sperimentando una mutazione di grande portata, una metamorfosi globale; ci troviamo nell’occhio dell’uragano di un nuovo tempo assiale simile a quello del VI secolo prima della nostra era. Le idee, i costumi, le relazioni, la geopolitica, la tecnoscienza ecc. configurano un contesto assai diverso da quello derivato dalle convinzioni più profonde del cristianesimo” (p. 3 del Testo-base Per un cristianesimo post-teista). E con ciò ? mi verrebbe da chiedere. Non può darsi che le “convinzioni più profonde del cristianesimo” siano più vere, o più solide o comunque preferibili, delle novità imposteci dall’attuale “uragano”? Sartre è più attuale di Parmenide: ma questa caratteristica non gli assicura per ciò stesso una maggiore autorevolezza, credibilità. La storia non procede, trionfalmente, di bene in meglio, ma a zig-zag: il Novecento, epoca di immensi progressi da tanti punti di vista, è stato insuperabile anche nei disastri (nazifascismo, socialismo staliniano, bombe atomiche liberal-democratiche…). 

“Vere”, “solide”, “preferibili”, “autorevoli”, “credibili”…tutti aggettivi che presuppongono metri di giudizio ‘assoluti’. Che però confliggono con i “nuovi modelli epistemologici, pluralisti e relativisti che mettono in discussione l’esistenza di una verità assoluta” (ivi, p. 2). “Relativisti”: ma il relativismo – ecco una seconda parla illuminante – è una prospettiva ovvia, indiscutibile, starei per dire ‘assoluta’? Personalmente, se fossi relativista (e dunque ritenessi ‘oggettivamente’ equivalenti, interscambiabili, le teologie) mi terrei stretto il paradigma cattolico-medievale che tanto conforto può dare alle inquietudini e ai dubbi dell’uomo, anche contemporaneo, ma che trovo povero di ‘verità’. Se mi interessa il paradigma post-teista è perché lo ritengo più ‘vero’ (= più vicino alla realtà, al come-stanno-le-cose) di altri paradigmi teologici. Qualche anno fa lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Jervis (nel suo   Contro il relativismo) metteva in guardia dal rischio che - in clima relativista - tutto potesse passare per buono (dogmatismi autoritari inclusi: citava papa Raztinger).

Poiché è stato lo stesso Protagora, il primo teorico del relativismo, ad avvertire che si tratta di una prospettiva invivibile (per cui, in pratica, poi anche lo scettico sceglie una via piuttosto che un’altra, in base ad esempio a criteri di utilità), anche nel nostro ambito troviamo dichiarazioni, lucide e sincere, come quella di Rita Maglietta: si tratta di “individuare, ciascuna/o con i tempi, i modi e la gradualità che ritiene, quali argomenti non sono più compatibili con la propria sensibilità, sensibilità di donne e  uomini del XX secolo. Per me l’interesse per questo filone non è di tipo conoscitivo, e non ha richiesto alcuna scelta drastica” (ivi, p. 7). Intendiamoci: né Rita né altri simpatizzanti del post-teismo si riferiscono alla “sensibilità” meramente soggettiva, quasi si trattasse di una questione di gusti (sui quali, come è noto, non est disputandum). Si riferiscono piuttosto a un sentire collettivo, a una sorta di “Spirito del tempo” o più limitatamente di “senso comune”: qualcosa, comunque, che tocca il nostro ‘sentimento’ (o presentimento), piuttosto che la nostra esigenza intellettuale di dirimere quelle “disquisizioni intorno a dio, sia post o ante, che forse hanno fatto il loro tempo e personalmente metterei da parte per un bel po’ ” (Silvia Papi, ivi, p. 9). Così l’anello si chiude: storicismo, relativismo, sentimentalismo (in senso tecnico, non riduttivo/spregiativo). 

Dentro questo anello, per motivi logici o forse di struttura caratteriale, alcuni non  ci ritroviamo. Per fortuna o per sfortuna (nostra e/o altrui) , a differenza di altre amiche e di altri compagni di viaggio, “abbiamo bisogno di dire cosa è Dio” (o cosa non è, se non è) e non ci “vanno bene tutte le risposte precedenti: è nel cosmo, è in tutto, è nella natura, è un’energia, una forza (…), è anche nella nostra umanità più profonda” (Rita Maglietta, ivi, pp. 7 – 8). Probabilmente la nostra ricerca filosofico-razionale, quando è in gioco l’ipotesi del divino, è destinata al naufragio totale; ma se essa contrassegna l’umanità di alcune e di alcuni di noi, è perché siamo ‘perversi’ o almeno ‘ritardati’? O non è la struttura antropologica in quanto tale configurata  per dirimere le “questioni fondamentali” dell’esistenza  non solo con l’intelligenza, ma anche con essa?  Come mi è capitato di leggere non so più dove, è bello ogni tanto perdere la testa; ma anche farla funzionare comporta le sue gratificazioni. 

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com