lunedì 25 gennaio 2010

Ci vediamo in Sicilia orientale (Catania e Augusta)?


Care e cari,
in questo fine settimana presenterò gli ultimi miei due libri in due città della Sicilia orientale e sarei contento di incontrarvi per l’occasione.

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Comunicato stampa 1

Venerdi 29 gennaio, alle ore 18, presso il Centro della Comunità Evangelica Luterana di Catania (Via Grotte Bianche 7), presentazione del volume di Augusto Cavadi “Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia pratica dell’amore”, Edizioni Petite Plaisance, Pistoia 2009, euro 15,00. Interverranno Alessandro Esposito e Stefania La Via.

Comunicato stampa 2

Sabato 30 gennaio, alle ore 18. 30, presso la Libreria “Letteraria” di Augusta (v. P. Umberto, 270), presentazione del volume di Augusto Cavadi “Il Dio dei mafiosi”, Edizioni San Paolo, Milano 2009, euro 18,00. Interverranno Davide Miccione e Giuseppe Caramma.

mercoledì 20 gennaio 2010

Le donne nella Bibbia e le donne lettrici della Bibbia


LE DONNE DELLA BIBBIA RACCONTATE IN 22 VOLUMI

“Repubblica” — 16 gennaio 2010 pagina 14 sezione: PALERMO
Come è vista la donna nella Bibbia? E come le donne hanno letto, lungo due millenni, la Bibbia? Le due domande - intrecciate - vengono sempre più spesso formulate da esperti, anche fuori dal circuito degli interessi confessionali. Se le sono poste anche alcune prestigiose esponenti della “Società europea delle donne per la ricerca teologica» (fondata in Svizzera nel 1986) che raccoglie circa seicento studiose di tutto il mondo e, per rispondervi, hanno ideato un’ impresa editoriale titanica: 22 corposi volumi pubblicati contemporaneamente in inglese, tedesco, spagnoloe italiano. Obiettivo: «presentare una storia della ricezione della Bibbia, focalizzata su temi che hanno avuto un rilievo nelle questioni di genere, sulle figure femminili presenti nel testo sacro». Per il comitato internazionale promotore non è stato facile trovare quattro editori (uno per ogni area linguistica) disposti a imbarcarsi nell’ impresa: ed è motivo di soddisfazione apprendere che la sfida per l’ edizione in lingua italiana sia stata raccolta da “Il pozzo di Giacobbe” del trapanese Crispino Di Girolamo. Per i suoi tipi è stato stampato il primo dei 22 volumi progettati (”La Torah”, a cura di Fischer, Navarro Puerto con la collaborazione di Taschl-Erber, 446 pagine, 38 euro) dedicato, come si evince dal titolo, al così detto Pentateuco (dunque ai primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuterenomio).

In questi testi si ritrovano pagine che hanno inciso ed incidono nel bene e nel male nell’ immaginario della civiltà occidentale: dalle narrazioni della creazione in Genesi (che hanno condizionato fortemente il modo di intendere la relazione fra maschioe femmina) al ruolo delle donne nelle genealogie, significativo in quanto definisce l’ origine del popolo di Israele in un’ ottica in cui «l’ eredità è trasmessa dal padre al figlio maggiore». Notevole la presenza di dodici donne «nell’ esperienza di liberazione narrata nell’ Esodo e la funzione esercitata da Miriam - unica profetessa presente nella Torah - che, con Mosé ed Aronne, assume la guida dal momento dell’ esodo fino all’ arrivo nella Terra Promessa». Non si tratta di testi agevoli, ma neppure di un pagine esoteriche riservate agli specialisti: quasi tutti i saggi contenuti, infatti, sono leggibili con un po’ di concentrazione da chi possieda una istruzione di livello medio. Con il risultato di poter abbracciare le complicate vicende della lettura della Bibbia dal punto di vista femminile alla luce di differenti approcci disciplinari: teologia, archeologia, filosofia, storia dell’ arte, letteratura, antropologia culturale. In un momento di provincialismo regressivo - in cui alcuni sbraitano per fare dell’ insegnamento della religione a scuola un pretesto di catechizzazione e altri reagiscono proponendo la cancellazione di ogni tematica teologica nella scuole pubbliche - iniziative editoriali come questa possono costituire un’ occasione di rinsavimento. Sono infatti un’ esemplificazione concreta di dell’ approccio a un testo sacro con atteggiamento laico: dunque ugualmente distante dall’ apologetica quanto dall’ aggressività polemica. Come scrivono le responsabili del progetto nell’ introduzione, sino ad oggi la Scrittura «ha segnato non solo la formazione dei rapporti sociali, ma anche la legislazione, la formulazione delle norme morali e le questioni filosofiche di gran parte della cultura occidentale». Più in particolare è stata adoperata come «pretesto per sostenere la repressione o la marginalizzazione delle donne». E’ venuto finalmente il momento di togliere alla «preminenza del genere maschile» ogni «legittimazione biblica»: ma per farlo bisogna, appunto, saper usare gli strumenti scientifici adeguati, per porsi «in modo critico nei confronti della Scrittura e della Tradizione». L’ ignoranza non è stata pre-condizione di nessuna rivoluzione di rilevanza planetaria: la rivoluzione femminista non ha fatto né può fare eccezione. - AUGUSTO CAVADI

domenica 17 gennaio 2010

“Una città” (Forlì) intervista Augusto


E’ uscito il numero 170 di “Una città” di cui riportiamo, di seguito, il sommario.
E’ possibile farsi un’idea della rivista (mensile di interviste e foto, di 48 pagine, senza pubblicità) andando al sito http://www.unacitta.it o richiedendo copia saggio a mailing@unacitta.org.

IL GIORNO DOPO COPENHAGEN… All’indomani della conclusione del Summit sul clima, si è parlato di fallimento e farsa; in realtà ad essere rimasto deluso è solo chi aveva l’irrealistica aspettativa che a salvare il mondo potessero essere i grandi leader; il pericolo che a pagare il prezzo più alto sia in effetti l’Africa perché il tetto dei due gradi globali significa che nel continente nero la temperatura è destinata a crescere di tre gradi e mezzo; l’errore di credere che vivere in modo eco-compatibile comporti sacrifici e rinunce; la convinzione che la vera partita si gioca comunque a livello locale, nel quotidiano e le esperienze dei tanti comuni che stanno sperimentando sistemi di “autarchia energetica”; intervista a Karl-Ludwig Schibel (da pag. 3 a pag. 7).
http://www.unacitta.it/pagineproblemiambiente/Schibel.html

ADDIO CARLA. Ricordiamo Carla Melazzini, scomparsa prematuramente per una grave malattia; era maestra di strada a Napoli, e ha dedicato per tanti anni tutto il suo impegno ad aiutare i ragazzi espulsi dalla scuola dell’obbligo a riprendere un percorso scolastico; la ricordiamo ripubblicando brani di un suo intervento su Una città insieme al ricordo di Olimpia, Valerio e Salvatore, suoi allievi (da pag. 8 a pag. 12).
http://www.unacitta.it/pagineinmemoria/Carla.html

SPAZI PER FAR SOCIETA’. La storia del Villaggio Barona, nato grazie alla lungimiranza di una fondazione benefica e che oggi ospita 80 famiglie, tra cui immigrati che avevano l’unico problema di non trovare casa pur avendo un lavoro, e famiglie numerose che non trovavano alloggi a prezzi accettabili; il patto di aiutarsi e la prassi della “tredicesima” per cui ciascun inquilino, anche i commercianti, si impegna, a fronte di un canone di locazione competitivo, a prestare la propria professionalità agli altri abitanti, pena il pagamento di una tredicesima mensilità; gli accorgimenti architettonici per far stare la gente assieme e la soddisfazione, paradossale, di vedere anche giovani coppie che se ne vanno, a differenza delle case popolari, dove la pura assistenza cronicizza i bisogni; intervista a Gabriele Rabaiotti (da pag. 13 a pag. 16).

FUORI DALLE MURA C’E’ TANTA GENTE. Un’identità sessuale chiara fin dall’infanzia, le prime esperienze, fino alla maturazione del desiderio di un’affettività stabile, di una vita di coppia; l’eterno dilemma del dire o non dire, per non perdere gli affetti; il difficile rapporto con una Chiesa che costringe all’ipocrisia e il sogno di una comunità dove poter accogliere tutti coloro che ancora vivono la conflittualità fra fede e omosessualità; intervista a Mauro Ortelli e Paolo Lombardo (da pag. 17 a pag. 20).

SALUTA PAPA’. Recuperare il rapporto col marito, quando tutto sembrava perduto e ricominciare a fare progetti di vita, e poi l’arrivo, improvviso, di una malattia implacabile che stravolge tutti i piani; il sollievo, grande, di poter trascorrere le ultime fasi della malattia in un luogo, bello, curato, dove i malati, anche se terminali, possono invitare i familiari, persino i bambini, e dormire accanto alla propria moglie; l’importanza di tenere sotto controllo il dolore, ma anche di essere accompagnati alla morte con dignità e serenità; la possibilità, dopo, per i familiari, di incontrare e confrontarsi con persone che hanno vissuto la stessa esperienza per non rimanere soli nel lutto; intervista a Liviana Collodet (da pag. 21 a pag. 23).

IL  LUOGO. Le centrali sono dedicate a Belleville, quartiere parigino cosmopolita e multietnico, dove ebrei e musulmani convivono con cinesi, turchi, africani… (pag. 24-25).

LA NOSTRA CASA. L’incredibile vicenda di un’ebrea israeliana che nell’estate del 67 andò ad aprire alla porta e si trovò di fronte tre palestinesi che desideravano dare un’occhiata alla “loro” casa di Ramla; la decisione di farli entrare e l’inizio di una complessa amicizia; la scelta di fare di quella casa uno spazio comune aperto ai bambini e ai giovani israeliani e palestinesi affinché i due popoli non smettano di incontrarsi e conoscersi; intervista a Dalia Landau (da pag. 26 a pag. 29).

DUE SARTE TOGOLESI. Decidere di partire con un’associazione che mette assieme professionisti “senior” disposti a prestare la propria competenza gratuitamente, per andare con una amica, e poi un’altra, in Togo, ad aiutare due intraprendenti sarte a realizzare l’incredibile idea di fare dei corsi di alfabetizzazione, ma anche di cucito, per le donne africane nel mezzo del mercato della capitale (da pag. 30 a pag. 32).

PRESIDENT OBAMA: INVICTUS? Nella “lettera dall’America”, Gregory Sumner all’indomani dello storico passaggio al Senato della riforma sanitaria di Obama, fa il punto sulle sfide che attendono il giovane presidente, soggetto alle critiche dei suoi detrattori di destra, ma anche di sinistra; la lezione di Nelson Mandela: le scelte epocali comportano una dose di potenziale impopolarità (a pag. 33).

FIGLIO DI DEUS. La verità è che nei Vangeli non c’è scritto da nessuna parte che Gesù abbia detto di essere figlio di Dio e se qualcuno può averlo chiamato così è perché l’espressione “Figlio di Dio” veniva usata comunemente per lodare qualcuno; il resto l’ha fatto una traduzione prima in greco e poi in latino e un concilio in cui, grazie a un imperatore, l’ebbero vinta gli eretici; il bisogno antropologico di superare la delusione per il mancato avvento del Regno di Dio; l’idea fondamentale del cristianesimo, l’amore agapico, che resta; intervista a Augusto Cavadi (da pag. 34 a pag. 39).
http://www.unacitta.it/paginecosedifede/Cavadi.html

DALLA PARTE DEL FIGLIO. Giovanni Impastato ricorda la forza e il coraggio del fratello Peppino, ma anche la figura della madre, una donna straordinaria, che seppe rifiutare un matrimonio combinato in anni in cui in Sicilia era improponibile e che pur non rinnegando il marito scelse di stare dalla parte del figlio; la scelta di realizzare il sogno della madre aprendo quella casa, a “cento passi” da quella di Tano Badalamenti, a tutti; il lavoro con i giovani, fondamentale, perché la cultura mafiosa si radica dentro di noi, ma anche fonte di grande soddisfazione personale (da pag. 40 a pag. 42).

CHE NESSUNO SI SENTA FUORI POSTO. Marianella Sclavi legge e commenta il libro di Antonella Agnoli che a partire dalle biblioteche ci parla dei giovani, delle nuove tecnologie e di come sta cambiando il mondo (a pag. 43).

LA LETTERA DALLA CINA, di Ilaria Maria Sala, è a pag. 45.

LA VISITA è alla tomba di Paolo Borsellino.

APPUNTI DEL MESE. Si parla di suicidi in carcere, che quest’anno sono stati 71, il numero più alto che si ricordi; dell’anniversaio dell’operazione Piombo Fuso a Gaza in cui morirono circa 1400 palestinesi; della Cina che sta rendendo impossibile aprire dei siti ai privati; dell’Aids, che per la prima volta sembra registrare un declino della pandemia; del curioso funzionamento degli ammortizzatori sociali in deroga, per cui degli operai che mai avranno l’occasione di usarla, sono costretti a fare un corso di otto ore di lingua inglese per accedervi; dei gestori telefonici che stanno trasferendo all’estero l’attività dei call center; dei prefissi telefonici del Kosovo e del treno Belgrado-Sarajevo, ripartito questo mese, dopo essere rimasto fermo dalla guerra in Bosnia (da pag. 44 a pag. 47).

QUESTA E’ L’ITALIA: “…le terre d’ogni sorta affrancate, liberate, annesse al patrimonio già considerevole della borghesia; l’appannaggio del povero ereditato dal ricco, ecco le origini recenti della proprietà in Italia, ecco come è stata fatta la fortuna immobiliare della classe dirigente”.

Per il “reprint” dell’ultima, pubblichiamo la quarta parte del testo che Francesco Saverio Merlino scrisse nel 1890 dall’esilio francese.
In copertina, dedicata all’ambiente, i nuovi mulini a vento olandesi.

Nel sito è consultabile gratuitamente (previa iscrizione) anche l’intero archivio di interviste di “Una Città” (2000 circa).
http://www.unacitta.it/intervaccess.asp

venerdì 15 gennaio 2010

Siete già donatori potenziali di midollo osseo?


“Centonove” 8.1.2010
(in edicola ma anche su www.centonove.it)

GIOVANNI E LA SAGGEZZA DEL COLIBRI’

Difficilmente qualcuno è disposto a dichiarare che la sopravvivenza di una bambina di dieci anni o di un anziano di sessantacinque non gli importa per nulla. A parole è difficile; ma, nei fatti, è frequentissimo. Di fronte all’immensità delle tragedie che assediano ogni giorno l’umanità ci assale infatti un senso di impotenza che finisce col paralizzarci del tutto: sì, d’accordo, tutto questo è assurdo, ma io che posso farci?
Un racconto brasiliano può forse aprire uno spiraglio nel buio in cui ci troviamo immersi. Narra di un incendio nella foresta e di un piccolo colibrì che, nel panico generale, corre verso l’oceano a prelevare col beccuccio qualche goccia d’acqua per versarla sugli alberi in fiamme. Va e torna in continuazione, sin quasi allo sfinimento. Un elefante se ne accorge e non può fare a meno di deriderlo: cosa pensi di concludere con questo andirivieni? Ma il colibrì non si lascia scoraggiare: è tutto quello che posso fare e lo faccio. Se anche gli altri facessero lo stesso, salveremmo la foresta.
Confesso che questa favoletta mi sostiene tutte le volte che sono tentato di cedere alla sfiducia, all’inazione. Mi ci appiglio quando rinnovo la donazione del sangue; quando qualche amico accetta di adottare “a distanza” un bambino e il suo villaggio; quando riesco a convincere un conoscente a non cestinare la tessera elettorale e a non lasciare che a decidere la sorte di noi tutti siano i concittadini che svendono il voto per un piatto di minestra (quasi sempre promnessa soltanto)…Ed è a questa favoletta che mi sono aggrappato in questi giorni in cui Giovanni, un giovane amico ventenne di Bassano del Grappa, mi ha spedito un appello dignitosamente accorato. Mi ha spiegato che la sua vita è appesa a un esile filo: trovare, in pochi mesi, qualcuno che sia in grado di donargli un po’ di midollo osseo. Mi ha spiegato che nel mondo solo un altro essere umano ogni 100.000 ha questa possibilità. E che scoprire chi è quest’altro è possibile solo se ognuno di noi cerca (per esempio attraverso il sito www.admo.it) l’indirizzo dell’ospedale più vicino dove, con una semplice analisi del sangue, potrà essere inserito nell’ IBMDR (il Registro nazionale dei donatori di midollo osseo) che ha appena compiuto in Italia i suoi primi vent’anni.

Si tratta di dedicare mezz’ora della propria giornata a un banale prelievo e mettersi in grado di diventare, potenzialmente, il vero e proprio ’salvatore’ di un’altra esistenza. Purtroppo questa possibilità non è aperta a tutti: bisogna avere non meno di 18 anni e non più di 35. Eppure, anche se limitatamente a questa fascia d’età, vi sono solo in Italia milioni di persone che potrebbero regalare a migliaia di ammalati una speranza di sopravvivenza. “Migliaia di ammalati” forse non ci dicono molto; non così se proviamo a immaginarne uno, due, dieci o cinquanta. Con i loro nomi, i loro volti, le loro storie. Io ho in mente Giovanni, la sua voglia di vivere (la notte in cui ho dormito con mia moglie a casa dei suoi genitori era estate e lui ha preferito riposare in giardino, sotto le stelle), la sua curiosità intellettuale (studia filosofia all’università), la sua generosità (è uno scout impegnato in progetti di solidarietà sociale)…Ho in mente la dolcezza degli sguardi di sua madre Carla, di suo padre Pino, di sua sorella Gaia. Chi di voi vuole può conoscerlo direttamente attraverso il suo blog (www.hestia.altervista.org), ma non si tratta di lasciarsi toccare la corda del pietismo individuale. Il caso concreto dev’essere solo l’occasione, il pretesto, per affacciarsi su un mondo di sofferenze più ampio: il trampolino di lancio per una scelta politica, verso un livello più alto di civiltà.
Augusto Cavadi

Ci vediamo sabato 16 a Termini Imerese?



lunedì 11 gennaio 2010

Ci vediamo a Palermo lunedì 11 gennaio ?


Care e cari in indirizzo,
tra quanti abbiamo responsabilità educative (in quanto genitori, insegnanti, operatori sociali, animatori di gruppi, pastori di chiese…) non mancano coloro che vorrebbero una Sicilia - e un’Europa - liberate dalle mafie. Purtroppo, spesso, questo lodevole sentimento di rivolta non è supportato da adeguate conoscenze, competenze ed abilità. Per questo le sezioni palermitane di “Libera - Scuola” e del CIDI (Centro iniziativa democratica degli insegnanti) hanno avviato un appuntamento quindicinale di riflessione pedagogica, aggiornamento sociologico e scambio di esperienze didattiche.Le riunioni sono aperte e la partecipazione è gratuita: unica condizione (per evitare la… chiacchierologia) è che, di volta in volta, si siano lette le pagine del testo che ci si sono auto-assegnate al termine della riunione precedente. Il prossimo appuntamento è fissato per le ore 17,00 (in punto) di lunedì 11 gennaio 2010 presso “La bottega dei saperi e dei sapori della legalità” a piazza Castelnuovo. Oggetto di riflessione critica saranno le pagine 21 - 73 del volume, di Augusto Cavadi , Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia alternativa, Di Girolamo editore, Trapani 2005, pp. 191, euro 15 (in vendita presso tutte le librerie, ma anche nella stessa “Bottega” di piazza Castelnuovo).
La riunione avrà termine alle 18,20 per consentire l’inizio di un recital sulla stessa tematica: Armando Caccamo e Margot Pucci leggeranno, infatti, con l’accompagnamento musicale di Umberto Leone il “pizzino della legalità” L’amore è cieco, ma la mafia ci vede benissimo edito dall’editore Coppola, Trapani 2009. A conclusione degustazione di vini gentilmente offerti dall’azienda “Cosìè”.

I promotori del laboratorio permanente
di educazione alla legalità democratica

Quanti desiderino essere informati ogni volta sulla data delle riunioni e su altre iniziative possono scrivere a Silvana Puglisi (silvanapu@libero.it)

martedì 5 gennaio 2010

La laicità fra bigottismo e contro-bigottismo


Domani si festeggia l’Epifania. Secondo la leggenda biblica, l’incontro fra il bambino-messia d’Israele e tre ‘laici’ asiatici alla ricerca di luci interpretative dell’esistenza (da qualsiasi parte provenienti).
Come piccolo segno di augurio ai “venticinque lettori” di questo blog, incollo il mio breve contributo al volume - appena uscito - di Autori vari (a cura di Giorgio Palumbo), “Custodire la laicità nel tempo del pluralismo”, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 49 - 54.

Augusto Cavadi
La laicità come pre-giudiziale

Provo a inanellare, in sequenza, alcune riflessioni suggeritemi da questo dibattito così intenso, ma anche così pacato. Anche se si tratta di osservazioni indipendenti l’una dall’altra - e dunque tali che la insostenibilità di una di esse non comporta, necessariamente, a catena, il naufragio teorico delle altre - è possibile leggerle all’interno di una prospettiva unitaria: la laicità, intesa in una certa maniera, non è una posizione determinata fra altre posizioni determinate, bensì la condizione di possibilità pre-giudiziale di ogni presa di posizione particolare che sia meritevole di critica. La laicità come orizzonte: uno scenario che ammette una varietà di ruoli, di toni, di tagli argomentativi, incompatibile solo nei confronti di atteggiamenti dogmatici, fanatici, incapaci di dubbio e perciò di autocritica e di conversione. Laicità come quell’amore incondizionato per la verità che si rivela non tanto nel tener alcuni punti ‘fermi’ come irremovibili, quanto piuttosto nel ritenere le proprie certezze - anche le più legittime, anche le più sacre - come passibili, potenzialmente, di falsificazione.

a) La funzione sociale dei filosofi

La prima considerazione suggeritami da questo dibattito è che esso conferma un’idea di filosofia abbastanza estranea agli ambienti accademici: la filosofia non soprattutto, né tanto meno esclusivamente, come esegesi o ermeneutica dei testi della tradizione filosofica, bensì anche - e prioritariamente - come esame critico delle questioni esistenziali e politiche che il pubblico dei non-addetti-ai-lavori avverte come più rilevanti in un determinato momento storico. Che all’incontro sulla laicità siano stati presenti docenti e studenti di varie facoltà universitarie, al di là degli steccati specialistici abituali, è un segno eloquente di quanto i filosofi di professione possano servire la comunità sociale, senza farsi asservire e senza asservire la intrinseca libertà dell’impresa teoretica. Non è questa la sede per approfondire questo aspetto dell’attività speculativa, ma voglio consentirmi almeno una citazione da Karl Popper che potrebbe valere come titolo di un seminario a parte: “i veri problemi filosofici hanno sempre la loro radice nei problemi urgenti, che si trovano in campi che non appartengono alla filosofia”.
La laicità è avvertita, dunque, come una di queste tematiche ‘urgenti’ su cui interrogare non solo teologi e sociologi, storici e giuristi, politologi e politici, ma anche filosofi: se ce ne sono ancora equidistanti dal presenzialismo televisivo (in cui possono spacciarsi per specialisti di tutto) come dall’autoreferenzialità filologica (di chi non ha nulla da dire ad interlocutori che non possano seguire le loro dotte citazioni in greco o in tedesco). Nel triennio 2006 - 2008 ho avuto la fortuna di dedicarmi, grazie ad un dottorato di ricerca presso questa facoltà, ad approfondire il senso della Philosophische praxis di Gerd Achenbach e, più in generale, del movimento internazionale delle pratiche filosofiche, arrivando alla conclusione che, secondo i promotori di questa nuova declinazione della filosofia di sempre, urgente non è tanto aprire degli studi professionali in cui mettere a servizio dell’intelligenza autonoma di un pubblico vasto la propria competenza filosofica (anche se proprio su questo fenomeno della ‘consulenza filosofica’ si concentrano le curiosità e i pettegolezzi della mezzi di comunicazione di massa), bensì - piuttosto - riscoprire ciò che nella storia del pensiero occidentale è stato ovvio per moltissimi pensatori di rilievo: che la filosofia non può essere ridotta a mero specialismo, ma deve in qualche modo alimentare la crescita intellettuale, morale e civile dell’intera società. Oltre che favorire l’interscambio fra i ‘dialetti’ delle discipline particolari in vista della costruzione collettiva di una (sempre rivedibile) prospettiva ’sapienziale’ sulle domande cruciali che ci assillano nel breve passaggio sul pianetino che abitiamo. Giuseppe Savagnone e Vittorio Villa, per fortuna di questa città, sono tra i sempre più rari pensatori che non si limitano a stabilire ex cathedra i propri percorsi di studio ma sanno anche lasciarsi dettare l’agenda - anzi, la ‘cogitanda’ - dalle domande della gente ‘comune’ (che poi, attraverso il pagamento delle imposte, è anche la finanziatrice dei filosofi che vivono con un salario statale).

b) Si può essere davvero laici se si è davvero cattolici?

Savagnone ha offerto una visione della laicità che costituisce, probabilmente, il massimo di apertura possibile nell’ottica di un cattolico ortodosso. Dopo la laurea in filosofia negli anni ‘70, mentre per tre anni ho seguito i corsi di una Scuola di perfezionamento in scienze morali e sociali presso l’Università statale di Roma, ho anche seguito per quattro anni un corso di teologia presso l’Università del Laterano: ed è stato molto istruttivo per capire che una prospettiva cattolica della laicità ha dei confini invalicabili. Lo ha all’interno della comunità ecclesiale perché, mentre per i protestanti la differenza fra il pastore e il fedele è di tipo esclusivamente funzionale, per i cattolici il prete è stato segnato - con il sacramento dell’ordine presbiterale - da un ‘carattere’ che lo ha trasformato ontologicamente, distanziandolo in maniera radicale e irreversibile dal resto del popolo dei credenti. Il suo modo di essere ‘re’, ‘pastore’ e ’sacerdote’ , rispetto al semplice battezzato, non si differenzia solo per grado, ma addirittura per natura. Con queste convinzioni - sulla cui fondatezza biblica ci sarebbe molto da obiettare - come si può ragionevolmente contare su una corresponsabilità paritetica fra clero e laici nell’ambito di una stessa parrocchia? Come si può seriamente prevedere una pari dignità fra un soggetto consacrato con un sacramento specifico e tutti gli altri soggetti che (pure se monaci o suore, a maggior ragione se restano nel mondo, celibi o coniugati) ne sono del tutto privi? La prassi dominante - per cui un parroco si comporta da autocrate nella sua parrocchia come un vescovo nella sua diocesi ed un papa nell’intera chiesa cattolica - rispecchia fedelmente la dottrina ufficiale, almeno quanto tale dottrina rispecchia altrettanto fedelmente una prassi precedente.
La situazione non cambia, anzi se mai si aggrava, se consideriamo l’autointerpretazione della chiesa cattolica rispetto al mondo dei laici non battezzati o comunque non credenti nella dottrina cattolica. Una chiesa che è sinceramente convinta di essere depositaria dell’unica rivelazione divina, anzi dotata del diritto-dovere di interpretarla rettamente e di applicarla correttamente lungo il corso dei secoli grazie ad una assistenza speciale e ininterrotta dello stesso Spirito di Dio, come potrebbe davvero dialogare con chi è privo di tanto carisma? E’ sin troppo ovvio che il dialogo non può che essere, nella più ottimistica delle ipotesi, un tentativo misericordioso e garbato di trarre l’interlocutore fuori dalla palude dell’errore e del peccato. Insomma: nonostante le apparenze dialogiche, la chiesa cattolica non può permettersi - in buona sostanza - che forme camuffate di monologo. L’attuale papa Benedetto XVI non perde occasione, in perfetta coerenza con quanto operato nei decenni precedenti da Prefetto della Congregazione per la dottrina e la morale, di mostrare in parole e gesti che cosa significhi rappresentare una chiesa “madre e maestra” che, per fedeltà ad una missione di origine celeste, non potrebbe - neppure se volesse - considerare “sorelle” non solo le comunità scientifiche e le società filosofiche, ma le stesse altre chiese cristiane non-cattoliche.

c) Il relativismo è sempre ‘progressista’?

Villa, da parte sua, ha offerto una visione della laicità incardinata nell’asse portante del relativismo, preoccupandosi di segnare la differenza fra ‘relativismo’ e ’scetticismo’ o, addirittura, ‘nichilismo’. Il suo ‘relativismo’ è soft, quasi un ‘prospettivismo’ che non esclude del tutto dei parametri di riferimento sociali: in ultima istanza, non esclude la struttura antropologica trascendentale (in senso kantiano). Si potrebbe discutere se questa prospettiva gnoseologica sia l’unica possibile per opporsi al dogmatismo, al fanatismo; se si debba necessariamente escludere che la mente umana possa afferrare qualche aspetto ‘oggettivo’ o, meglio, ‘assoluto’ del reale per mantenere aperto lo spazio del confronto dialettico. Ma questa pista di riflessione ci porterebbe troppo lontano. Dico solo che la storia del pensiero occidentale è affollata di filosofi che non sono stati relativisti, ma neppure dogmatici. E’ il caso di Aristotele, equamente distante dall’iper-realismo di Parmenide quanto dal proto-nichilismo di Gorgia, proprio come oggi Enrico Berti può collocarsi a pari distanza dal neo-parmenidismo di Emanuele Severino e dal gaio relativismo di Gianno Vattimo: “L’incontrovertibilità a cui aspira la dialettica (aristotelica)” - scrive ad esempio lo studioso neo-aristotelico padovano - non è affatto definitività, chiusura al dialogo, interruzione della ricerca, negazione della storicità della filosofia e del filosofare. Non è detto, infatti, anzi non accade mai, che, una volta dimostrata una tesi mediante una confutazione della sua contraddittoria, quest’ultima non risorga nuovamente in forma diversa e non richieda pertanto di essere nuovamente confutata. Al contrario, nella storia, cioè nel dialogo fra gli uomini, nascono continuamente nuove filosofie, le quali si propongono come contraddittorie (…) delle precedenti, con le quali è necessario confrontarsi sempre di nuovo, per vagliarle, saggiarle, tentarne la confutazione. Solo di questo processo, infatti, la filosofia vive. Nessuna tesi, pertanto, può mai considerarsi definitivamente dimostrata, perché essa può venire continuamente negata da nuove filosofie (o da nuove obiezioni), nei confronti delle quali si ha il dovere di rinnovare il procedimento dialettico, senza che si possa prevedere prima quale ne sarà l’esito (…): per cui, veramente, il processo dialettico non è mai finito. Ciò non significa, tuttavia, che esso sia inutile o inconcludente, come pensano coloro che cercano solo per cercare e non vogliono o non sanno mai veramente trovare. Ad ogni confutazione, infatti, si raggiunge la prova che la tesi dimostrata è la più valida tra quante ne sono state proposte, il che, dal punto di vista epistemologico, non è davvero poco e comunque è molto di più della posizione, sostanzialmente scettica ed autocontraddittoria , secondo cui nessuna tesi vale più delle altre. Nel considerare la propria tesi più valida delle altre non c’è nessuna superbia, né arroganza, né prepotenza (quale ci può essere, invece, nella posizione di chi esclude a priori, e dunque non permette, che ci sia una tesi valida), perché non è che si consideri più valida una tesi in quanto è la propria, ma al contrario si fa propria, cioè si accoglie, come è doveroso per onestà intellettuale, la tesi che si è trovata essere più valida attraverso appropriate argomentazioni, disposti anche a mutare la propria tesi, se questa non coincidesse con la più valida ” .
Mi voglio limitare ad evidenziare un aspetto della questione che la relazione di Vittorio Villa lascia - significativamente - in ombra. Il fatto che, in questi ultimissimi anni, il relativismo sia duramente attaccato da ambienti ecclesiastici e politico-culturali di stampo conservatore induce la maggioranza degli osservatori a supporre che, invece, difendere il relativismo sia - sempre e comunque - una posizione da progressisti, da emancipati. Ma è davvero così? O non è proprio un clima generalizzato relativistico - basato sulla svalutazione della ragione, della scienza, dell’argomentazione logicamente strutturata - che costituisce il terreno privilegiato per il successo delle istanze autoritarie? E’ quanto sostiene, ad esempio, lo psicologo sociale Giovanni Jervis in un fortunato pamphlet: “Il relativismo favorisce una confusione più vasta fra gli investimenti immaginari e le informazioni, con un tendenziale privilegiamento dei primi e una complementare svalutazione delle seconde. (…) Gli orientamenti relativistici (…) incoraggiano chi si basa su fanatismi di fede, anziché su informazioni di realtà” . Jervis attacca il relativismo, anche in chiave di critica autobiografica, da posizioni un po’ unilateralmente materialistiche e scientiste: ma le varie esemplificazioni che offre, attingendo a settori svariati del panorama culturale contemporaneo, possono essere esaminate anche da posizioni di realismo filosofico.

d) La laicità come proprium di una ragione ’sobria’

Queste mie osservazioni lasciano intravedere, in filigrana, una certa visione della laicità che non è né molto popolare né molto facile da sintetizzare in poche battute: essa si fonda sulla negazione della possibilità per gli esseri umani non di attingere principi teoretici ed etici assoluti, bensì di attingerli in maniera assoluta, esauriente ed esclusiva. In quanto non nega a priori la possibilità di una conoscenza meta-empirica e meta-storica, questa laicità si espone allo sguardo diffidente dei relativisti, ‘duri’ o ‘flessibili’ che siano, così come dei loro confutatori neo-positivistici alla Jervis; in quanto nega a priori la possibilità di una conoscenza definitiva, irrefutabile e imperfettibile di qualche modalità dell’essere, essa non può aspirare ad essere condivisa da chi idolatricamente ritiene che soggetti personali o istituzionali possano vantare crismi di ‘infallibilità‘.
Vorrei esprimermi in maniera un po’ più articolata.
A mio parere la visione della laicità in cui mi riconosco gode di un duplice registro di legittimità. Innanzitutto sul piano epistemico o epistemologico o gnoseologico: nell’epoca della lotta culturale fra ragione ‘forte’ (minoritaria) e ragione ‘debole’ (maggioritaria), osa percorrere il sentiero ( pressoché solitario) della ragione ’sobria’: una ‘ragione’ che non si auto-condanna né all’illusione di possedere questo o quell’ aspetto del mondo al punto da non poter essere smentita per principio né, di contro, al paradosso di cercare la verità a patto di non trovarla mai.
Ma anche dal punto di vista teologico (di una teologia ebraico-cristiana, non di una teologia cattolica nel senso di confessionalmente legata ai vincoli magisteriali dal Vaticano I ad oggi) questa visione della laicità ha una sua solida ragion d’essere. Da una parte, infatti, la Bibbia (nel Primo come nel Secondo Testamento) non disprezza né l’uso dell’intelligenza né la ricerca della sapienza-saggezza: solo alcune interpretazioni storiche della Bibbia hanno creato la conflittualità tra la Bibbia e la ragione filosofico- scientifica. Per questo, proprio in questi giorni, un biologo di orientamento evoluzionistico-darwiniano, ha voluto chiarire: “La laicità non consiste nel deridere la Bibbia, né le religioni, né le fedi o chi le possiede; non consiste nel trovarvi incongruenze per dimostrarne l’inattendibilità o l’irrazionalità; non consiste nel brandire Darwin come una torcia in grado di fugare le tenebre dell’socurantismo religioso; non consiste nel sostenere che la teoria della selezione naturale - essendo indubitabilmente una teoria solida e in grado di spiegare moltissime cose, persino noi stessi - renda obsoleta la sapienza proveniente da altre fonti di conoscenza, fossero anche quelle bibliche”. “Ma” - aggiunge opportunamente con efficace lucidità lo stesso Michele Luzzato - “voglio anche convincere chi mi legge - per mettere subito le cose in chiaro - che nessuno ha il diritto di dirci cosa significa la Bibbia ‘in verità ‘; nessuno ha il monopolio della sua interpretazione; nessuno può, sulla base della sua personale interpretazione, dettare le condizioni di vita e persino le norme di comportamento a quanti sostengono un punto di vista differente, sia esso interno alla Bibbia, proveniente da persone di fede, o esterno ad essa, sostenuto da atei miscredenti. Per mettere subito le cose molto in chiaro, voglio dire che nessuno, proprio nessuno, ha il diritto di dire a Beppino Englaro che la volontà espressa da sua figlia Eluana si oppone alla volontà di Dio. Nessuno tranne Dio. E faccio un passo oltre: voglio convincere chi mi legge di Dio che, indipendentemente dal fatto che Dio esista o meno, che sia fatto in un modo o nell’altro, che agisca nel mondo o lo osservi da un luogo distante (…), nessuno può dirsi pio, timorato e rispettoso della Sua volontà e al contempo depositario della Sua voce e delle Sue intenzioni. Questa sì che sarebbe una contraddizione evidente. Chi agisce così vive semmai distante da Dio, sostituendosi a Lui in un modo molto più grave di quanto non farebbero gli scienziati, accusati proprio di questo da persone che dovrebbero scrutarsi lungamente nel profondo dell’anima” .

lunedì 4 gennaio 2010

Una nuova rubrica di “filosofia-in-pratica”


Il magazine trimestrale della Filca - Cisl Lombardia, in un’ottica di diffusione anche in Sicilia (per un totale di 35.000 copie), mi ha proposto di aprire una “rubrica” di filosofia-in-pratica. Vi riporto qui la prima ‘puntata’: spero che dalla seconda in poi, grazie ai vostri interventi, possa diventare davvero uno spazio di dialogo con i filosofi che non sono tali per mestiere, ma per passione.
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Alla ricerca della felicità. 1
Manuale per Vip

Rubrica a cura di Augusto Cavadi
www.augustocavadi.eu

Eh, no. Mi dispiace. Se vi siete incuriositi a questa nuova rubrica perché immaginate che parli di questo o quel Vip (dall’inglese “very important person”), rimarrete delusi. Niente pettegolezzi, indiscrezioni, dicerie: l’ottanta per cento della carta stampata e delle televisioni ne è già zeppa!
Abbiamo voluto scegliere questa sigla, invece, come abbreviazione di “Vivere in pienezza”: perché vorremmo conversare (specialmente con l’aiuto di chi di voi vorrà scriverci) su un interrogativo ben più interessante di cosa facciano i personaggi pubblici ritenuti, a torto o a ragione, importanti. Vorremmo riflettere insieme su una domanda che riguarda la persona più importante per ciascuno di noi: sé stesso. L’unica di cui, alla fin dei conti, abbiamo la responsabilità; l’unica sulla cui sorte possiamo decidere ed incidere.
L’idea ci è venuta leggendo degli articoli recenti in cui grandi economisti e politici si dicevano insoddisfatti dell’abitudine, ormai consolidata, di misurare gli Stati del mondo in base al loro Pil (”Prodotto interno lordo”). Già nel 1968, in un celebre discorso, Robert Kennedy (uno dei fratelli del presidente John Kennedy e come lui assassinato per ragioni politiche) aveva espresso le sue critiche: “Non possiamo misurare i successi del Paese sulla base del Pil, che comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalla carneficina del fine settimana”. Oggi è stato il presidente francese Nicolas Sarkozy a incaricare una commissione di illustri economisti di vari Paesi di preparare un nuovo modo di misurare la qualità della vita: tenendo conto non solo il “prodotto interno lordo pro-capite”, ma anche altri fattori (la durata media della vita, il livello medio dell’istruzione scolastica, l’uso dei telefoni cellulari, la libertà di stampa, i crimini denunziati alla polizia, l’inquinamento ambientale, le diseguaglianze fra i redditi mensili). La proposta, insomma, è di passare dal Pil al Bil (”Benessere interno lordo”).

Probabilmente con gli strumenti della sociologia e della statistica non si può fare di più. Ma in questa rubrica vorremmo provare ad andare oltre i numeri generali. Prima di tutto perché, come è arcinoto, ingannano: se un direttore dei lavori si reca al ristorante due volte al giorno e il manovale mangia panino e coca-cola, risulta che chi lavora in un cantiere mangia - in media - una volta al giorno al ristorante. Secondariamente perché, al di là delle statistiche anonime, ci interessano i volti e le storie di ciascuno di noi. O, almeno, di chi voglia mettersi in gioco in prima persona: sia regalandosi dieci minuti di silenzio sia, se vuole, regalando a me ed altri lettori qualche frutto della riflessione in quei dieci minuti di silenzio.
Per fa che? Per passare non solo dal Pil al Bil, ma dal Bil al Vip: al “Vivere in pienezza”. Troppo frequentemente, infatti, la nostra vita è un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Troppo spesso viviamo ‘a mezzo servizio’. Troppo spesso avvertiamo che non solo non abbiamo quello che vorremmo avere, ma soprattutto non siamo quello che vorremmo essere. Ma, se vogliamo, possiamo aiutarci gli uni con gli altri: a riempire il bicchiere mezzo vuoto. A vivere la vita a pieni polmoni, ‘a full time’. A incrementare il nostro ben-essere autentico, non quel ‘benessere’ della pubblicità e di certa propaganda politica che, piuttosto, dovrebbe avere l’onestà di chiamarsi ben-avere.

Augusto Cavadi

Ortensio da Spinetoli commenta “In verità ci disse altro”


Ricevo, e volentieri socializzo ai pochi amici lettori di questo blog, gli stralci di una lettera che mi ha inviato mesi fa (l’ho trovata solo in questi giorni in cui mi sono dedicato a smaltire un po’ di lavoro arretrato) uno dei più apprezzati biblisti europei.

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Recanati 5.3.2009

Caro Augusto,

innanzitutto scusami del lungo, quasi imperdonabile ritardo con cui mi faccio vivo. Avevo delle piccole scadenze (…). In questo frangente l’Editore Falzea mi faceva arrivare il tuo volume “In verità ci disse altro”. Qualche giorno prima avevo ripreso in mano il tuo “Essere profeti oggi”. La linea è ancora la stessa, ovviamente, allargata e approfondita. E’ un testo eniclopedico che passa in rassegna i problemi più urgenti (biblici, filosofici, teologici, etici) dell’uomo oltre che del credente o del semplice cristiano. Io li ho appena sfiorati in “Bibbia e catechismo” (Paideia, Brescia 1999) e in “Gesù di Nazareth” (La Meridiana, Molfetta 2005) cercando appunto di l’iberare’ Dio dall’ebraismo e Gesù dal cristianesimo. E’ sempre problematico sapere quello che propriamente l’Uno e l’Altro si sono proposti di comunicare agli esseri umani, ai propri simili, ma è sempre lecito chiedersi se sia quello che la Bibbia e i vangeli dicono. E’ la questione prioritaria, più elementare che i competenti danno come risolta, ma che nella maggior parte dei credenti - comprese le stesse guide di primo, secondo e terzo piano - quasi ignorano. E qualcuno si è preoccupato di farglielo sapere. Ma quando il servizio non è richiesto finisce per non essere gradito e chi l’ha offerto va incontro solo a ‘disapprovazioni’.
(…)
Mi permetto di inviarti fotocopia di un testo preparato per “Adista”, dove uscirà in occasione del mio 60.mo di sacerdozio (12.3.1949).
Con la solita stima e simpatia,
Ortensio

Mario Trombino commenta “Chiedete e non vi sarà dato”


Il mio caro amico Mario Trombino, responsabile del bel sito web “www.ilgiardinodeipensieri.eu”, ha inserito una sua analisi critica (molto critica !) del mio libro “Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia pratica dell’amore” (Petite Plaisance, Pistoia 2009).
Ovviamente non condivido la sua tesi secondo cui il mio tentativo di riflettere filosoficamente sulla Bibbia (e su alcune interpretazioni teologiche di essa) sia un’operazione teologica e non filosofica. Ma se una persona intelligente come lui non ha preso sul serio alcune mie affermazioni (per esempio, quanto ho scritto a p. 14: “il bigotto considera la Bibbia come un testo dettato parola per parola da Dio stesso; il contro-bigotto si rifiuta di sfogliarla perché non condivide questa stessa fiducia ‘fondamentalistica’; il meta-bigotto la studia perché la considera - se non proprio, con Nothorp Frye, ‘il Grande Codice’ culturale dell’Occidente - come una biblioteca, accumulata in cinque secoli da una miriade di personaggi per lo più anonimi, d’interesse incredibile per capire la storia. Ovviamente una Bibbia de-teologizzata, liberata dal ’sequestro da parte del religioso’, per usare l’espressione di Henry Meschonnic nel suo “Un colpo di Bibbia in filosofia”, Medusa, Milano 2005″), posso sospettare di non essermi spiegato abbastanza bene…
Comunque il link della nota di Mario, per chi volesse farsi un’idea personale, è il seguente:
http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/trombino-6.htm

domenica 3 gennaio 2010

Don Lorenzo Milani e il Sud d’Italia


“Repubblica - Palermo”
3.1.2010

Augusto Cavadi

DON MILANI E IL SUD

Che nesso potrebbe vedersi fra l’opera di don Lorenzo Milani, il prete toscano morto nel 1967, e il Meridione italiano? Nel corso di un convegno se lo sono chiesti alcuni autorevoli studiosi e adesso gli Atti (Lorenzo Milani. Memoria e risorsa per una nuova cittadinanza, a cura di L. Di Santo e S. Tanzarella, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2009, pp. 204, euro 20,00) sono stati messi a disposizione del pubblico.
Si tratta di materiali interessantissimi per varie ragioni. Innanzitutto perché vi sono apporti pluridisciplinari che proiettano luci da posizioni diverse: storici (come Sergio Tanzarella e Anna Carfora), giornalisti (come Maurizio Di Giacomo e Luca Kocci), politologi (come Rocco d’Ambrosio), sociologi (come Umberto Santino), filosofi del diritto (come Luigi Di Santo), pedagogisti (come Giorgio Marcello), operatori pastorali (come Fabrizio Valletti) e teologi (come Cosimo Scordato e Antonio Mastantuono). La varietà delle competenze si intreccia, poi, con la pluralità delle provenienze territoriali e soprattutto ideali: atei e credenti hanno letto il contributo di don Milani a partire da formazioni ed esperienze differenti, spesso complementari.
Quali alcuni dei risultati principali di questa riflessione a più voci? Un po’ arbitrariamente si potrebbe sottolineare che “una questione meridionale esiste innanzitutto in termini di formazione e di differenti occasioni e possibilità che sono offerte o negate ai più giovani, la cui condizione permanente è ancora quella dell’esclusione nonostante coraggiose forme di resistenza di insegnanti e studenti”. Ma “la lotta all’analfabetismo” (diventato, frattanto, anche telematico) è solo il primo degli ambiti problematici del Meridione in cui spendere le intuizioni milaniane. Seguono infatti “l’impegno costante, tramite micro progetti locali, per l’utilizzo effettivo dell’acqua come pubblico di tutti”; “iniziative per ridurre e governare nei limiti del possibile il ricorso a lavoro nero e a quello minorile”; strategie educative per “far sì che, in una Italia sempre più multietnica e multireligiosa, sia possibile agevolare la formazione di quadri dirigenti a livello locale (inseriti in itinerari laboriosi e faticosi perché di lunga lena di educazione alla legalità) di uomini e donne extra-comunitari”; incentivare “l’uso sociale dei beni confiscati” ai mafiosi per concretizzare la “socializzazione dell’economia, riconvertendo in utilità sociale i prodotti dell’accumulazione illegale”.

Tra i molti pregi del volume va evidenziato la laicità con cui ci si è accostati a don Milani: laicità - distanza critica, libertà di giudizio - persino nei confronti della sua figura e del suo stile. Troppi infatti l’hanno mitizzato, dimenticando - come si lege nell’intervento di un prete palermitano che da decenni si spende per gli adolescenti dell’Albergheria di Palermo - che “l’esperienza milaniana, pur così coinvolgente, alla fine risulta più una testimonianza che un metodo trascrivibile in altre situazioni; ma, proprio in quanto testimonianza di un amore alla scuola della vita e alla vita della scuola, in quel singolare rapporto da lui vissuto con i suoi ragazzini, ha qualcosa di inattuale non nel senso che può essere considerato sorpassato, piuttosto nel senso che ha qualcosa di utopico e di profetico; in questo senso, se c’è qualcosa da apprendere dalla suddetta esperienza, non dobbiamo ricercarla soprattutto nelle ricette da offrire, quanto nello spirito che l’ha ispirata; rispetto alle modalità concrete non mancano esperienze anche più raffinate e più elaborate; rispetto allo spirito crediamo di avere ancora tutto da imparare”. Insegnanti disposti a scimmiottare slogan di don Milani (”Non bocciare”) ce ne sono; molti di meno disposti a ripercorrerne la fatica (”dare più scuola - e scuola di qualità - a chi ne avesse più bisogno”).

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Dalla Prefazione di Sergio Tanzarella

“L’azione pastorale e civile di don Lorenzo Milani può ispirare la formazione delle coscienze delle genti del sud d’Italia aiutandole a superare la rassegnazione e il giogo delle associazioni criminali e della politica ridotta a clientela e dominio? Per rispondere a questa domanda io e Maurizio Di Giacomo organizzammo a Napoli nel 2007 un convegno presso l’Istituto di storia del cristianesimo della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (sez. san Luigi). Questo libro raccoglie quasi tutte le relazioni di quell’intensa giornata alla quale parteciparono una inattesa quantità di persone dalle più disparate provenienze e tutte in qualche modo interessate o sipirate dalla testimonianza di Lorenzo Milani a quarant’anni dalla morte. Si materializzò allora la stessa Italia descritta da Milani nel 1966 e che solidarizzava con le sue lettere ai cappellani militari e ai giudici: ‘è un’Italia sconosciuta questa che scrive e si sente vicina a noi perché abbiamo detto cose che moltissimi intuivano anche se non sapevano dirle bene come l’abbiamo dette noi standoci sopra a lungo come abbiamo fatto’. Ci apparve così concretamente la sua attualità, per nulla toccata dalla quantità di fango, falsità e bugie che sia da vivo sia da morto hanno tentato di deformarne l’immagine”.

La violenza delle feste: il senso perduto del natale


“Repubblica - Palermo”
2.1.2010

Augusto Cavadi
LA VIOLENZA DELLE FESTE

Le statistiche parlano chiaro: da natale a capodanno la convivenza continua stretta implacabile tra familiari fa scoppiare liti, e talora persino tragedie, che nel corso dell’anno risultano meno frequenti e meno dirompenti. A conferma della tesi puntualmente ribadita da mia nonna Giovanna ogni fine d’anno: “Le feste non dovrebbero arrivare mai”. Perché questo disastro annunziato? Evidentemente cova, fra la retorica cattolico-borghese della sacralità della famiglia e l’effettività delle relazioni umane, una contraddizione permanente che piccole mutazioni della routine abituale bastano a far esplodere.
Le vie di scampo possibili sono dunque due: o si cancellano dal calendario ricorrenze così micidiali per la salute psico-fisica o si prova a rivedere il modo di concepirle e di viverle. Le ragioni per cui non mi convincerebbe la prima soluzione sono state diffuse via internet da un gruppo di associazioni cristiane italiane: “la festività del natale è sorta come ricorrenza religiosa; poi, nel tempo, senza perdere per i credenti il significato originario, è divenuta la festa degli affetti e delle relazioni sicché è ormai una festa di tutti e tutte, credenti e non credenti. Ricorda la comparsa nel mondo di una grandissima buona notizia: l’eguaglianza di tutti gli esseri umani. Questa idea dell’eguaglianza, che per i credenti deriva dall’essere tutti e tutte figli e figlie di Dio e che comunque si radica nella stessa natura umana, è stata assunta nei secoli e fatta propria da correnti di pensiero e da movimenti politici; su di essa sono andati fondandosi i diritti a tutela di ogni persona via via conquistati con la lotta di tanti popoli”. Dunque: non c’è bisogno di abolire il natale, se mai gli si può affiancare col tempo qualche altra ricorrenza altrettanto significativa (come la conclusione del ramadan).
Ma è proprio dalle righe di questa lettera aperta, indirizzata alle immigrate e agli immigrati che vivono e lavorano nel nostro paese, che può trarre spunti di revisione critica chi propende per la seconda soluzione. Essa ci dice infatti che il fascino autentico del natale consiste nella sua dimensione universale, al di là delle barriere etniche, linguistiche e religiose: se questo messaggio di apertura planetaria viene tradito, se si fa dell’inerme bambino medio-orientale di Betlemme una bandiera identitaria contro gli stranieri (tentazione prevalente nel Settentrione) o un pretesto per la chiusura familistica nel privato (tentazione prevalente nel Meridione), il natale non è più natale. Si capovolge nel contrario della sua essenza. I primi cristiani hanno quasi da zero inventato un nome per indicare l’amore annunziato da Gesù di Nazareth, tanto diverso dalla solidarietà nazionalistica fra Ebrei e dall’amicizia elitaria e paritaria dei Greci: agape . Con questo vocabolo intesero una attenzione gratuita e benevolente nei confronti di chi è talmente misero da non essere neppure in grado di accogliere la cura e di renderne grazie: nei confronti dei “poveri di spirito” (che nel suo ultimo libro Erri De Luca propone di tradurre, più letteralmente, “l’abbattuto di vento”). Intesero una preoccupazione estremamente concreta verso il benessere altrui (a cominciare da quanti sono calpestati dalle ingiustizie sociali e umiliati dalle avversità naturali): qualcosa di ben diverso, dunque, da quella logica del dare in vista di una ricompensa (sociale o ultraterrena) a cui si è ridotta la pelosa e selettiva ‘carità‘ dei giorni festivi.
Di questa auto-donazione feriale, che nelle sue modalità più alte può diventare servizio professionale e impegno politico, nessuna chiesa e nessuna civiltà possiede il monopolio: come si legge nel vangelo, essa risplende - laicamente - non fra chi dice “Signore, Signore!”, ma nella storia effettiva delle donne e degli uomini che ritengono insopportabile un mondo in cui le minoranze privilegiate godono, senza rimorsi, i frutti di rapine antiche e di meccanismi di sfruttamento attuali. Se a livello personale, familiare e civico riuscissimo a invertire la tendenza dominante, il natale potrebbe diventare la festa del risarcimento dei deboli (un segnale promettente in questa direzione il moltiplicarsi, come dono reciproco, di adozioni a distanza e di altri contributi economici a favore di cause socialmente rilevanti). E indurre anche nonna Giovanna a mutare opinione.