sabato 31 dicembre 2011

Il giudice Livatino: ’santo’ perché?


“Centonove” 16.12.2011

BEATIFICAZIONE ANTIMAFIA
Il 21 settembre del 1990 alcuni mafiosi falcidiarono Rosario Angelo Livatino, il “giudice ragazzino” (secondo la definizione spregiativa di Cossiga, il peggior presidente della Repubblica italiana) i cui genitori avrebbero inspirato qualche anno dopo, del tutto involontariamente, il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi. Giunge adesso notizia che, in questi giorni, è stato avviato ufficialmente, presso il Tribunale diocesano di Agrigento, l’iter che potrebbe portare - eventualmente – alla sua canonizzazione, da parte della Chiesa cattolica: una notizia che suggerisce varie considerazioni, talora di segno opposto, sintetizzabili in due questioni principali.
La prima è di ordine generale: ha ancora senso beatificare un credente? Da una parte, infatti, è un modo di indicare al popolo di Dio -e, più ampiamente, alla società – una testimonianza esemplare di discepolato evangelico; dall’altra, però, si corre il rischio di strappare quella testimonianza all’ambito della quotidianità, di rinchiuderla (persino materialmente) in una nicchia, facendone più un oggetto di venerazione (se non addirittura un feticcio cui richiedere favori) che un modello da seguire creativamente. Ma questa è una problematica troppo ampia e radicale per poterla dirimere in poche righe.
Più pertinente al caso concreto risulta, invece, una seconda questione. Se si accetta la logica cattolica della canonizzazione, non può fare che piacere se un siciliano venga segnalato all’attenzione di una opinione pubblica planetaria per ragioni positive, a (parziale) compenso della nomea regalataci da siciliani meno nobili ma non meno noti. Sempre nella logica cattolica, poi, diventa centrale un interrogativo: per quali ragioni il magistrato siciliano sarà - o sarebbe – dichiarato ‘santo’ ? Detto altrimenti: per quali virtù eroiche, per quali aspetti della sua personalità e delle sue scelte di vita, sarà - o sarebbe – elevato a esempio per la comunità dei credenti?
Sono, infatti, percorribili due strade, solo apparentemente simili se non addirittura interscambiabili. La prima - personalmente ritengo sia la più auspicabile – indicherebbe nella resistenza alle minacce mafiose il cuore della sua santità evangelica: egli verrebbe riconosciuto – per riprendere una felice espressione di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi – “martire della giustizia e, indirettamente, martire della fede”. Si riattualizzerebbe il pensiero di San Tommaso d’Aquino e di tanti teologi della liberazione, a giudizio del quali dare la vita per difendere alcuni principi etici (la libertà, la verità, la fedeltà ai compiti civili) equivale a dare la vita per Dio, che di quei principi è fonte e garante.
Diverso sarebbe il percorso che arrivasse a dichiarare la santità di Livatino non anche, ma solo, per la sua fede teologale, per la sua vita intima di preghiera, per la sua affabilità umana, per la sua devozione ai genitori…lasciando in ombra le circostanze della sua morte. Certo: morire di mafia non può significare, eo ipso, essere considerato un cristiano esemplare (se non altro per rispetto a quelle vittime di mafia che, in vita, hanno consapevolmente scelto di non dirsi cristiani). Ma se, come nel caso di Livatino, la scelta di una certa professione - e soprattutto la scelta di fare in una certa maniera la professione intrapresa – fossero dettate non solo da validi e nobili motivazioni laiche, bensì anche da una coscienza credente, perché non presentarlo come un esempio di martirio cristiano? Perché non cogliere al volo questa occasione per proclamare che, nella Chiesa cattolica, tra i “valori non negoziabili” (anzi, a maggior ragione di altri più frequentemente richiamati) rientra a pieno titolo la lotta contro la corruzione sistemica, la intimidazione violenta, la mentalità del compromesso? Gli antecedenti di don Giuseppe Diana (ucciso dalla Camorra) e di don Pino Puglisi (ucciso da Cosa nostra) non lasciano ben sperare: del primo non si è neppure avviato il processo di canonizzazione (quasi ad avvalorare le interpretazioni denigratorie del suo assassinio diffuse immediatamente dai camorristi e dai loro pennivendoli); del secondo il processo di canonizzazione, benché arrivato a Roma, si è arenato nelle stanze dei Sacri Palazzi. Evidentemente c’è almeno una delle convinzioni ribadite in vita da Rosario Livatino che stenta a far breccia al di là del Tevere: “Alla fine, Dio non ci chiederà se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”.

Augusto Cavadi

mercoledì 28 dicembre 2011

Le festività di fine d’anno come occasione di nuova progettazione


“REPUBBLICA – PALERMO”
28.12.2011

SE LE FESTE CI RIVELASSERO IL SEGRETO DELLA MESCOLANZA

Natale, capodanno, epifania: feste in fila, inanellate, che ciascuno vivrà a modo suo. Secondo la propria visione del mondo che può implicare una delle molte fedi religiose presenti ormai in Sicilia (dall’ebraismo al cattolicesimo, dal protestantesimo all’islamismo, dall’induismo al taoismo, al buddhismo, al confucianesimo, al baha-i) o nessuna (anche l’ateismo, non necessariamente suggerito da furie consumistiche, ma meditato e degno di rispetto, è ampiamente rappresentato nella nostra regione come nel resto dell’Europa contemporanea). Che nel cuore del Mediterraneo via sia un’isola dove questa convivenza di credi e di filosofie sia quotidiana è già una buona notizia: tanto più apprezzabile se comparata a secoli e secoli - sino all’avvento della Repubblica italiana – di diffidenze e persecuzioni (almeno da quando, nel 1492, la regina Isabella di Castiglia non spezzò la pacifica convivenza fra le tre religioni del Libro intimando la cacciata degli ebrei e dei musulmani). E se comparata alla ventata di razzismo xenofobo che - alimentato da nostalgici del nazifascismo, dalla Lega e da frange ringalluzzite di cattolici reazionari – ancora in questi giorni è esploso in città di gloriose tradizioni civiche come Torino e Firenze.
Se la tolleranza è un passo importante - una conquista da presidiare per renderla irreversibile – non è ancora una meta. Nel futuro dell’Europa mediterranea (in cui il ruolo della Sicilia non è certo storicamente trascurabile) c’è ancora molto cammino da compiere: c’è da passare dalla tolleranza (dalla sopportazione, dal permettere che anche l’intruso mangi le briciole che cadono dalla nostra tavola) alla cooperazione, alla sinergia. La memoria del passato ce lo insegna senza equivoci: i vertici della nostra civiltà sono stati toccati quando le culture più distanti (come ad esempio i Normanni di lingua francese e gli Arabi), invece di tentare di distruggersi sulla base di rapporti di forza militare, hanno imparato a contaminarsi e a impegnarsi nella produzione di opere comuni. Cosa sarebbe Palermo senza la Cattedrale, il Palazzo reale, S. Maria dell’Ammiraglio, S. Giovanni degli eremiti e tanti altri gioielli dell’arte arabo-normanna? Cosa sarebbe la Sicilia privata da gemme uniche al mondo come il Duomo di Monreale e la Cattedrale di Cefalù?
Al di là della facile retorica parolaia, queste feste potrebbero costituire un’occasione di riflessione e soprattutto di progettazione per la società civile, per le organizzazioni politiche, per i candidati a sindaci delle nostre città: come trasformare il disagio dell’immigrazione, più o meno clandestina, in risorsa economica e morale? Quali settori (dall’agricoltura al turismo) potrebbero trovare nelle energie fresche, e spesso assai qualificate, degli immigrati una possibilità di rilancio e di potenziamento? Sarei tentato di rispolverare un mio vecchio pallino, solo apparentemente provocatorio: perché non imitiamo l’elasticità mentale e la duttilità operativa delle cosche mafiose che sanno intrecciare abilmente le proprie strategie con le criminalità internazionali con cui le vicende storiche e i fenomeni sociologici le mettono in contatto?
Certo, per far questo in maniera costruttiva e durevole occorre avere la predisposizione culturale adatta. Gli studiosi di scienze umane, di filosofia e di teologia dovrebbero contribuire - molto più vivacemente di quanto accada per ora – a un mutamento di mentalità: aiutando noi occidentali a liberarci dal pregiudizio eurocentrico, dal complesso di superiorità nei confronti dei popoli che per secoli abbiamo bollato come ‘infedeli’ e ‘primitivi’. Se i Bambin Gesù dei nostri presepi non avessero le fattezze di rubicondi biondini con gli occhi azzurri, ma più realistici tratti di neonati bruni dagli occhi scuri (come tutti i bambini nordafricani che nascono in Palestina), sarebbe una prima, preziosa, inversione di tendenza. E la Sicilia potrebbe ritornare a essere ciò che è stata in altre sue epoche gloriose: un’anticipazione profetica di ciò che dovrà essere l’umanità futura se non sceglie il suicidio collettivo.

Augusto Cavadi

sabato 24 dicembre 2011

Perché non regalarvi l’Agenda dell’antimafia 2011?


24 Dicembre 2010
“Centonove” 23.12.2010

“Ricordati di ricordare/ coloro che caddero/ lottando per costruire/ un’altra storia/ e un’altra terra”: comincia così il bel testo poetico di Umberto Santino che apre, anche per il 2011, l’ “Agenda dell’antimafia”. Più precisamente, “un libro-agenda per legare memoria storica e impegni del fare quotidiano”, edito dalla casa editrice Di Girolamo di Trapani ha pubblicato e curato dal Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” di Palermo (reperibile in tutte le librerie grazie alla distribuzione delle Dehoniane di Bologna). Infatti, come nelle edizioni precedenti, ogni giorno dell’anno viene ricordato un personaggio o un episodio significativo nella storia della mafia e soprattutto della lotta contro la mafia: così viene salvata la memoria non solo di eroi celebri ma anche di tante vittime che, per le ragioni più diverse, rischiano di cadere nell’oblio collettivo. E, come ogni anno, si sceglie un tema che dà il taglio specifico alle pagine di approfondimento che intercalano la sequenza dei giorni: per il 2011 il tema della scuola e dell’educazione. Da qui anche la presenza di disegni di bambini, frequentanti decine di scuole siciliane, che con i loro colori compensano la vena di tristezza che un lungo elenco di caduti inevitabilmente comporta. E’ chiaro, comunque, che - come si evince dalla strofa conclusiva del testo poetico di Santino - l’intento fondamentale non è certo il ripiegamento sconfortato sul passato: ” Ricordati di ricordare/ quanto più difficile/ è il cammino/ e la meta più lontana/ perché / le mani dei vivi/ e le mani dei morti/ aprono la strada”. E non è per caso che, tra le associazioni che sponsorizzano la pubblicazione, ci siano l’Arci- Sicilia, la Fondazione Don Peppe Diana e i giovani di Addiopizzo.

Auguri per il natale 2011, il capodanno 2012 e l’epifania 2012


Un augurio affettuoso di buon Natale e di sereno Duemiladodici: che la memoria di Gandhi ci ispiri e ci sostenga nel riconoscere e combattere (dentro di noi prima, immediatamente dopo negli altri) i “peccati sociali” che compromettono la dignità umana:

1. politica senza principi;
2. affari senza moralità;
3. scienza senza umanità;
4. conoscenza senza carattere;
5. ricchezza senza lavoro;
6. divertimento senza consapevolezza;
7. religione senza sobrietà;
8. diritti senza responsabilità.

“Il pretesto”: la risposta valdese al Codice da Vinci


“Centonove” 23.12.2011

LA RISPOSTA VALDESE AL “CODICE DA VINCI”

Il nome della rosa e Il codice da Vinci hanno inaugurato un genere letterario che, con qualche approssimazione, potremmo denominare “giallo teologico”. Non è facile inserirsi in questo alveo senza apparire né noiosi né copioni: Sergio Velluto, con Il pretesto (Claudiana, Torino 2011, pp. 307, euro 14,90) c’è riuscito brillantemente. Gli ingredienti tipici ci sono tutti: un codice medievale, un’associazione segreta reazionaria, un’altra associazione altrettanto segreta di stampo evangelico, i Servizi segreti vaticani, una coppia all’alba dell’innamoramento, un ispettore di polizia, qualche cadavere qua e là…Velluto li sa mixare con maestria, intrecciando suspense ad humour, erudizione storica e riferimenti all’attualità, pathos religioso e analisi psicologica. Raccontare la vicenda sarebbe crudele nei confronti del candidato lettore perché uno dei pregi del libro è proprio nel susseguirsi di colpi di scena: il corso degli avvenimenti non si svolge mai secondo modalità prevedibili. A rendere ancora più dinamico il registro narrativo è l’intreccio, capitolo per capitolo, di tre vicende che solo alla fine del libro riveleranno con chiarezza i nessi reciproci: una si svolge nelle valli alpine, a cavallo fra Francia e Italia, dal XVI al XVII secolo; un’altra si svolge a Torino nel XXI secolo; una terza, infine, sempre nel XXI secolo, ma negli Stati Uniti d’America.
Tra le sorprese esplicite che attendono il lettore nelle ultime pagine (sino a quella sorta di “titoli di coda” in cui si viene aggiornati sull’esito esistenziale dei principali protagonisti) ne va segnalata una che può non apparire tale ma che per me lo è stata. Mi riferisco al fatto che l’appartenenza dell’autore e della casa editrice al mondo valdese - e soprattutto le vicende iniziali del romanzo – lascerebbe supporre che il ruolo di ‘cattivi’ venga giocato dalle gerarchie cattoliche o, per lo meno, dai Servizi segreti del Vaticano: invece (ma non aggiungo altro!) alla fine non sarà come appariva all’inizio. Così, oltre che divertire e appassionare letterariamente, l’opera di Sergio Velluto consegna anche un messaggio di tolleranza, anzi di fratellanza. E lo mette proprio sulle labbra del capo dello spionaggio vaticano che si rivolge al capo della plurisecolare confraternita protestante: “Non penso che in questa aurora di millennio si possa continuarla a pensare in questo modo. Voi a pensare che noi siamo Satana, l’anticristo, e noi a ritenervi eretici da eliminare. La storia deve pur servire a qualcosa. E se non la storia almeno la maturità a cui sta arrivando l’umanità intera”. Un lieto fine, dunque? Per certi versi, sì. Ma attenzione alle ultime pagine: ci sono tutti i presupposti perché, chiusa la storia di un enigmatico codice antico, se ne possa riaprire domani un’altra. Con un altro codice, ancor più misterioso, per protagonista.

Augusto Cavadi

lunedì 12 dicembre 2011

Nino Cangemi recensisce “La bellezza della politica”


Il coraggio della provocazione

www.siciliainformazioni.com
12.12.2012

Il coraggio della provocazione. Pochi ce l’hanno. Sicuramente non manca ad Augusto Cavadi e a Elisabetta Poma, che firmano un saggio, edito da Di Girolamo, dal titolo che, considerati i tempi, più provocatorio non poteva essere: “La bellezza della politica”.
Si può dire oggi che “la politica è bella” quando si sono appena ascoltate le intercettazioni di un colloquio tra parlamentari che si fanno i conti sulla durata della legislatura e si mostrano disponibili a “vendere” il proprio voto?
I cattivi esempi di chi pur rappresentando la collettività si è occupato di tutto tranne che del bene pubblico hanno immiserito il significato stesso della parola “politica”, che si allontana da quello originario, legato alla sua etimologia: “politica” come arte del governo della comunità, la polis. Il libro di Cavadi e Poma, coraggiosamente, vuol fare riscoprire quel significato. E gli autori sono ancora più temerari: oltre alla “politica” vogliono recuperare l’”ideologia” che alla politica è intimamente connessa.
I primi interrogativi che Cavadi e Poma si pongono sono infatti: le ideologie sono tramontate? E se le ideologie sono crollate è un bene? Le risposte che offrono sono articolate e invitano alla riflessione. L’ideologia come “apparato di idee guida (riguardanti l’uomo, la società, lo Stato, l’economia, l’istruzione, la sanità…) che un determinato gruppo sociale elabora e tenta di attuare mediante l’azione politica” non è mai morta. Semmai, nelle azioni delle forze politiche, prevalgono emotività e sentimenti che ridimensionano, nel confronto con i cittadini, il peso delle idee e delle scelte razionali. E si va sempre più affermando in parte della collettività un rifiuto della politica e della ideologia che, in quanto richiama la difesa dei soli interessi economici e tornaconti personali, è esso stesso ideologia, per quanto inconsapevole e frammentaria.
Il saggio, che ha finalità pedagogiche ( non a caso entrambi gli autori operano nelle scuole), passa in rassegna le ideologie a cui fanno appello gli attuali schieramenti politici in Europa: il liberalismo, il comunismo, la socialdemocrazia, il fascismo, la dottrina sociale cattolica, l’ambientalismo, il conservatorismo, l’anarchismo.
Ciascuna ideologia è descritta sinteticamente evidenziandosene “il nucleo generatore”, la “concezione dell’uomo”, la “concezione della società”, la “concezione dello Stato”, la “concezione dell’economia”, la “concezione dell’educazione”, la “concezione della religione”. L’impostazione schematica dello studio agevola nei lettori la comprensione dei tratti distintivi delle varie ideologie e facilita la comparazione tra le differenti visioni della realtà che alle ideologie sono sottese.
Tuttavia, se nel saggio –destinato principalmente agli studenti e a chi vuole approdare al mondo politico con una basilare cognizione di causa - prevale l’intento divulgativo ed esemplificativo, non manca lo stimolo ad approfondire gli argomenti. In tal senso si segnalano le tante “finestre” che si intersecano alla trattazione pedagogica, in cui vengono riportate pagine fondamentali per analizzare più a fondo gli apparati di idee esposti. Non solo, ma nell’ultima parte del testo gli autori propongono riflessioni su alcuni temi che proiettano verso il futuro della politica e il superamento delle ideologie del Novecento. Temi attualissimi che spingono al dibattito: la responsabilità dell’uomo nei confronti delle condizioni presenti e future, i limiti del potere dell’uomo verso la natura, l’ampliamento dell’ambito istituzionale della politica da non circoscrivere più ai soli partiti, il rapporto tra realismo e utopia in una visione non più contrapposta, l’allargamento delle conoscenze non più patrimonio di élites ma di un nucleo più vasto di soggetti, il controllo dell’operato dei rappresentanti.
Tutto ciò fa de “La bellezza della politica” un libro da consigliare non solo a chi, malgrado tutto, conserva la passione del confronto civile e costruttivo nel governo della comunità, ma anche a chi, sopraffatto da pessimismo e scetticismo, tende a rinchiudersi in se stesso e a subire passivamente le scelte dei propri rappresentanti.

Nino Cangemi

martedì 6 dicembre 2011

Luciano Sesta su “In verità ci disse altro”


Ricevo, e pubblico con gratitudine, un saggio molto critico del prof. Luciano Sesta, dell’Università di Palermo, sul mio volume “In verità ci disse altro”.
Il testo è stato pubblicato su www.sentinelledifrontiera.org/riflessioni4.htm

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E il Verbo si fece Idea - Nota Critica di Luciano Sesta.

Superamento del cristianesimo e rifiuto della storia
nella teologia “laica” di Augusto Cavadi

Luciano Sesta

È una ben misera vita, si legge nel Fedone, quella di chi non è disposto a riflettere in profondità su ciò che, se fosse vero, sarebbe la cosa più importante, anzi, l’unica cosa che conta realmente. E, in effetti, quando siamo chiamati a compiere scelte esistenziali di grande importanza, in cui è in gioco il significato da dare alla nostra vita, tutti noi sentiamo con particolare urgenza il bisogno di sapere come stanno effettivamente le cose: sentiamo, in breve, il bisogno di conoscere la verità. L’ultima fatica di Augusto Cavadi, In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani , ha il pregevole merito di intercettare questo bisogno e di rilanciare la questione della verità del cristianesimo come una salutare provocazione per tutti coloro che, credenti, agnostici o atei, vivono la loro condizione esistenziale più per stanca abitudine che per consapevole convinzione. La verità a cui pensa Cavadi, infatti, non ha nulla a che vedere con un possesso dogmatico, chiamando, piuttosto, a un continuo e incessante impegno di ricerca che non riposa mai su acquisizioni sicure e definitive, al riparo da ulteriori critiche o smentite. In tal senso la suggestiva espressione del titolo, secondo cui Cristo “in verità ci disse altro”, non va certo intesa come l’incipit di una nuova rivelazione, ma come un invito – che a tratti assume toni fortemente provocatori – a confrontarsi con il proprio percorso critico. Un percorso che, nelle quattro sezioni in cui è suddiviso il testo, intitolate rispettivamente Questioni di metodo (pp. 13-32), Dio (pp. 35-57), Cristo (pp. 61-160) e Mondo (pp. 163-202), attraversa quasi tutte le grandi tematiche coinvolte dall’esperienza storica e dottrinale del cristianesimo. Non potendo presentare, nel breve spazio di una nota, la lettura che l’Autore ci offre di ciascuna di esse, ci concentriamo su quello che ci sembra il Leitmotiv dell’intero volume, e cioè la critica e il superamento di quello che Cavadi, sulla scia di Hans Küng, chiama il “paradigma cattolico-romano” (pp. 89-106). Il modello di cristianesimo da cui In verità ci disse altro prende le distanze e che, al tempo stesso, suggerisce le particolari modalità del suo superamento, è infatti quello della Chiesa cattolica. Anche quando discute della religione in generale, le riserve dell’Autore riguardano, quasi sempre, quei modi di vivere la fede che si incarnano, esemplarmente, nel cattolicesimo, e lo stesso Capitolo Primo del testo, intitolato La prospettiva oltre-cristiana, è di fatto una decisa contestazione del cattolicesimo e delle sue pretese (pp. 13-32).
Quali sono queste pretese?
Essenzialmente due: 1) quella che Gesù di Nazaret, il rabbi galileo, sia veramente il Figlio di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti gli uomini; 2) e quella che Egli, come Risorto e mediante lo Spirito del Padre, sia vivo e presente nella Chiesa, e cioè in coloro che nel corso della storia lo seguono dopo aver creduto ai testimoni della sua Parola. Questi due assunti, secondo Cavadi, hanno trasformato il cristianesimo cattolico in un immenso sistema dottrinale e istituzionale che ha finito per soffocare l’essenziale semplicità del messaggio di Cristo, che consisterebbe, al di là di dogmi e precetti morali, nell’«accoglienza-riproposizione dell’amore come senso della vita» (p. 190). Si tratta, com’è noto, di una tesi ricorrente nella storia del cristianesimo, che Cavadi, confortato da copiose citazioni, fra gli altri, di Hans Küng, Eugen Drewermann e Luigi Lombardi Vallauri, cerca di dimostrare adottando uno schema storiografico di tipo romantico, secondo cui la purezza essenziale di un evento coinciderebbe con la sua nascita, che la storia successiva avrebbe progressivamente equivocato. Significativa, al riguardo, è la domanda posta sul risvolto di copertina del volume: «Possiamo riscoprire il messaggio di Gesù di Nazaret dopo venti secoli di incrostazioni che l’hanno appesantito e deformato?».
A proposito di quest’ultimo aspetto, si potrebbe far notare, tuttavia, che se venti secoli di incrostazioni, oltre ad aver appesantito il messaggio di Cristo, non ce lo avessero anche consegnato, probabilmente non ci sarebbe alcun interesse a riscoprirlo. L’errore metodologico, qui, consiste nel voler ricostruire un’ipsissima vox Jesu isolata idealmente da ogni contaminazione storica, e di misurare, in base a essa, quella stessa Chiesa che, prendendo sul serio tale voce, ce l’ha trasmessa rendendola attuale. Non a caso, i vangeli che si tratterebbe di riscoprire, nella prospettiva di Cavadi, sono proprio quelli canonici, e cioè i vangeli frutto di una decisione interpretativa della Chiesa, che ha incluso nel canone dei libri ispirati alcuni testi escludendone altri. Ora, però, se si ritiene che questa decisione interpretativa sia non solo fallibile ma anche ideologica – e Cavadi lo sostiene con forza –, allora per giudicare il cattolicesimo dovrebbero essere utilizzati non soltanto i vangeli canonici, ma anche, e soprattutto, quelli che la Chiesa ha scartato, e cioè i vangeli apocrifi e gnostici. Ma Cavadi si guarda bene dall’attingere a questi testi. Il Cristo etereo, mago bizzoso e arbitrario, maschilista e nemico della sessualità che essi a volte ci presentano, in effetti, stona con il modello di cristianesimo laico che In verità ci disse altro propone al lettore. Sorprende, peraltro, che gli stessi vangeli canonici, benché Cavadi dichiari di giovarsi delle più recenti acquisizioni esegetiche, non siano citati quasi mai.
Quest’ultima circostanza, in cui il “vero” messaggio di Cristo viene riscoperto prescindendo dai documenti che ce ne danno notizia e dalla testimonianza di coloro che lo hanno accolto facendone una ragione di vita, autorizza a sospettare che il cristianesimo a cui pensa Cavadi quando ne propone il superamento non sia quello di Gesù di Nazaret: non sia, cioè, quello che storicamente è nato e si è poi diffuso tramite la predicazione apostolica. Che sia così è dimostrato, fra l’altro, anche dal modo in cui Cavadi legge il rapporto fra i vangeli e la comunità che li ha redatti, custoditi e trasmessi. Gli scritti del Nuovo Testamento che ci narrano di Gesù non sarebbero dei veri e propri documenti storici, secondo Cavadi, perché «non sono registrazioni in diretta di personaggi e avvenimenti, ma sono maturati progressivamente nel corso di decenni» (p. 65). Qui, però, forse si confondono “storia” e “cronaca”: se fossero storici solo i documenti che riportano avvenimenti “in diretta”, allora nessuno dei documenti che noi oggi definiamo “storici” lo sarebbero. Rifiutando l’idea che il messaggio di Cristo si lasci cogliere, nella sua autenticità, proprio a partire dalla risonanza che esso ha trovato nella vita di coloro che lo hanno accolto, Cavadi rifiuta non soltanto la logica dell’Incarnazione propria del cristianesimo, ma anche la dimensione storica di ogni evento del passato, che ci raggiunge sempre attraverso una mediazione linguistica e culturale. È forse per questo rifiuto che In verità ci disse altro legge ogni evoluzione dottrinale all’interno della tradizione cattolica come un incoerente tentativo di «salvare capre e cavoli» (p. 22). A questo proposito, un maggior riguardo per i testi evangelici avrebbe potuto attirare l’attenzione, anche solo per respingerlo, su Gv 16, 12: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo versetto giovanneo lascia intendere che, sin dall’inizio, alla comunità cristiana non fosse estranea l’idea di una progressiva scoperta della verità – e dunque di una sua costante ricerca –, i cui molteplici aspetti sono illuminati a partire dalle sollecitazioni che le varie epoche storiche e i vari contesti culturali impongono alla fede. Trattando invece la dottrina cattolica come un sistema monolitico di verità eterne la cui credibilità sarebbe smentita da ogni forma, anche minima, di variazione o di sviluppo, Cavadi sembra dimenticare che l’identità del cristianesimo è un’identità storica. Non è, dunque, un’identità statica e immutabile, rispetto alla quale ogni cambiamento risulterebbe fatale, ma un’identità dinamica, che si sviluppa e cresce non a prescindere dal cambiamento ma grazie a esso. Allo stesso modo, come hanno sottolineato con insistenza anche i Padri, l’unità e la coerenza della Chiesa sono quelle proprie di un organismo vivente, che si mantiene attraverso la legge dell’assimilazione di elementi inizialmente estranei e che, di conseguenza, non è mai sempre identico a se stesso pur rimanendo lo stesso. Inquadrati all’interno di una tale prospettiva storica, anche i punti dottrinali oggettivamente più controversi, come quelli in cui la Chiesa corre maggiormente il rischio di predicare se stessa piuttosto che il vangelo, possono essere adeguatamente compresi. Ciò vale sia per il principio extra ecclesiam nulla salus, sia per il discusso dogma dell’infallibilità del Pontefice, dei quali Cavadi offre, peraltro, una versione decisamente caricaturale.
Rimane, indiscutibilmente, una certa estraneità fra quanto la fede cattolica professa e ciò che è umanamente accettabile. Una tale estraneità è spesso utilizzata da Cavadi – e non soltanto da lui – come una smentita della credibilità della Chiesa, senza mai sospettare che potrebbe anche essere letta come un indizio della trascendenza di cui essa ha fatto esperienza e da cui essa è nata . In tal senso l’incomprensibilità della predicazione – non soltanto su questioni dogmatiche ma anche morali –, lungi dal costituire il segno di un presunto anacronismo, si lascia leggere come il prolungamento storico della provocazione evangelica, e cioè di una sfida che, superato lo scandalo, dona, insieme alla fede, anche una superiore intelligenza delle cose. L’adagio gratia non destruit, sed supponit et perficit naturam troverebbe qui la sua corretta interpretazione, descrivendo un movimento che mentre conserva l’autonomia dell’umano nulla toglie alla dirompente novità del divino che viene a visitarne la storia. Dispiace, in questo senso, che Cavadi non si sia misurato con i grandi teologi cattolici che hanno sviluppato questa prospettiva. In effetti il paradigma cattolico viene presentato attraverso il filtro di una teologia fortemente risentita nei confronti della Chiesa di Roma, quale è soprattutto quella dei già menzionati Hans Küng ed Eugen Drewermann. Se fosse stato concesso anche un breve diritto di replica ad autori come Hans Urs von Balthasar, Yves Congar, Karl Rahner, Henri De Lubac, John-Henry Newman, Romano Guardini o lo stesso Joseph Ratzinger, il paradigma cattolico avrebbe mostrato un aspetto più confacente al suo effettivo spessore teologico. Un confronto critico con il cattolicesimo in cui questi nomi siano del tutto assenti rischia di contravvenire alle più elementari norme di ogni dialogo, prima fra tutte quella del riconoscimento, almeno a livello iniziale, di quanto l’interlocutore dice di se stesso.
Anche quando il nostro Autore riconosce una certa «grandezza» al paradigma cattolico-romano, vede in tale grandezza un aspetto della sua «pericolosità», che consisterebbe, essenzialmente, «nel voler risparmiare al credente i rischi di una vita vissuta al cospetto esclusivo di Dio, senza mediazioni» (p. 92). Dio, però, non è evidente, come lo stesso Cavadi riconosce (p. 41). Prescindere dalla mediazione, pertanto, non lascia l’uomo «al cospetto esclusivo di Dio», ma solo al cospetto di se stessi e delle proprie personali immagini di Dio, immagini che a loro volta, però, sarebbero anch’esse una forma di mediazione, e una pessima forma di mediazione, visto che essa avanzerebbe pretese di autolegittimazione simili a quelle che Cavadi rimprovera al cattolicesimo. Rifiutando la mediazione e l’autorità della Chiesa cattolica, in tal senso, non ci troviamo al cospetto di una maggiore purezza spirituale, ma finiamo per moltiplicare le mediazioni e le loro pretese di autolegittimazione. Andrebbe precisato, al riguardo, che la mediazione, prima ancora che essere una peculiarità del cattolicesimo, è in realtà una peculiarità dello stesso cristianesimo. Gesù Cristo, infatti, si presenta come il mediatore fra Dio e gli uomini, in un’ottica in cui la mediazione, essendo la stessa Incarnazione, lungi dal distogliere da Dio lo rende storicamente presente.
La rivelazione ebraico-cristiana, in effetti, si distingue da molte altre forme di rivelazione e di religione per il fatto di presentarsi come una storia della salvezza, e, dunque, come un processo in cui l’intervento di Dio e la risposta dell’uomo si intrecciano inseparabilmente fino al rischio di confondersi. Che il Verbo si sia davvero fatto carne significa, insomma, che esso si è fatto storia, accettando il rischio della contaminazione e, dunque, del fraintendimento e del rifiuto. Chi vuole comprendere, prima ancora che accogliere, questa rivelazione, è sfidato a riconoscere un Dio diverso dall’idea che ci siamo anticipatamente fatta di Lui. Solo in questo caso, in effetti, si tratterebbe di una vera e propria rivelazione, e cioè di una verità che non può essere in alcun modo anticipata o prevista. E tale sembra essere proprio l’Incarnazione. Diventando uomo, infatti, Dio, che è l’inconoscibile, l’invisibile e il totalmente altro, ha smentito il tipo di diversità da noi previsto e calcolato, secondo cui Egli sarebbe dovuto rimanere trascendente e inaccessibile o, come ama dire Cavadi, “senza nome”. Manifestandosi nella povertà dell’uomo Gesù, Egli ha mandato in aria ogni nostra previsione della sua trascendenza, presentandosi così come Colui che è realmente trascendente .
Combinando variamente elementi tratti dalla teologia liberale, Cavadi ritiene invece che «il nucleo generatore del cristianesimo primitivo» si spieghi «soltanto» in senso etico-mondano. E cioè ipotizzando che Gesù non abbia proclamato «un annunzio proiettato in una vita futura» né la propria divinità, ma un invito a «realizzare il Regno di Dio in questo mondo attraverso le opere dell’amore» (pp. 74-75). Questa diffusa ipotesi, come qualsiasi altra negazione che Gesù sia il Figlio di Dio, pone però un problema notorio, che Cavadi purtroppo non menziona nemmeno: un’attribuzione estrinseca di divinità a un semplice uomo non sembra in grado di spiegare effetti storici così imponenti come quelli che il cristianesimo ha provocato. L’esistenza di questi effetti, certamente, non dimostra la divinità di Gesù. Dimostra, però, che quello della sua pura umanità finisce per essere un articolo di fede uguale e contrario a quello della sua divinità. Accettando l’ipotesi del nostro Autore, inoltre, rimarrebbe inspiegabile come mai, nonostante questo invito all’amore di Dio e del prossimo non fosse né nuovo né un’esclusiva del vangelo (come ricorda lo stesso Cavadi), esso abbia avuto il successo che ha avuto solo all’interno del cristianesimo piuttosto che in altre sette e religioni. A dispetto della complessità delle questioni che suscita, la risposta a questa domanda è semplice: Cristo non ha portato un messaggio filantropico il cui valore l’uomo comprende già da se stesso, ma una novità sconcertante e insieme segretamente attesa. Solo questa novità può spiegare il cambiamento di rotta impresso dal cristianesimo alla storia. Una novità che consiste nell’annuncio che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Da quando questo annuncio ha fatto il suo ingresso nella storia, che Gesù di Nazaret sia il Figlio di Dio è rimasta una vecchia diceria che non si è ancora riusciti a mettere a tacere . Una diceria che sembra resistere a tutte le confutazioni, come dimostra anche la recente ondata pubblicistica sulla figura di Gesù, che continua a metterlo sul banco degli imputati, ora per negare, ora per affermare la sua pretesa divinità. Che discutere di questa pretesa rimanga interessante a prescindere dalla possibilità di dimostrarla vera o falsa, dovrebbe far riflettere più di quanto il testo di Cavadi abbia fatto. Negando senza troppi complimenti la divinità di Gesù, invece, In verità ci disse altro non colpisce soltanto gli astratti dogmi di una gerarchia corrotta e prepotente, ma anche quella che è una speranza radicata nel cuore di ogni uomo. Una speranza a cui non è facile rinunciare, e che sembra rimanere indifferente di fronte a ogni vecchio e nuovo smascheramento illuministico del cristianesimo. Un Cristo modello di amore filantropico, in effetti, può soddisfare le esigenze di qualche intellettuale in buona salute. Ma quelle dei poveri e dei colpiti dalle tragedie e dai lutti no: lì c’è bisogno del Risorto.

L’agenda dell’antimafia per tutto il 2012


“Repubblica – Palermo”
4.12.2011

ANTIMAFIA OGNI GIORNO
Centro Impastato

L’AGENDA DELL’ANTIMAFIA 2012
Di Girolamo
Pagine 250
euro 10,00

Con puntualità vede la luce, anche per il 2012, il Libro-agenda dell’antimafia che il Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” pubblica per i tipi dell’editore Di Girolamo. La struttura rimane costante: ogni giorno viene evocata una data rilevante nella storia della resistenza al sistema di dominio mafioso (ricordando un eroe, una strage, una festività civile) e, di quando in quando, intere pagine sono dedicate a illustrare importanti pubblicazioni sulla tematica. La struttura costante viene, poi, modulata ogni anno secondo un’angolazione particolare. Come si evince sin dalla vignetta in copertina (con lo scambio di battute fra due omini disegnati da Sergio Staino: “Voscenza è favorevole alle carriere separate?” “Dipende. Tra PM e giudici sì. Tra mafia e politica, no”), il registro di questa edizione è satirico: nella convinzione (espressa da Umberto Santino ) che “la satira ha dato, e può dare, un contributo essenziale per demistificare il mito della mafia, depurandola dai luoghi comuni, ridicolizzandola e mostrandola per quello che è: un’organizzazione criminale, feroce e sanguinaria, e denudando i suoi rapporti con un potere troppo spesso connivente”. Rapporti soggetti a momenti di crisi: come quando la mafia, per salvare il buon nome, avverte l’esigenza di prendere le distanze dalla politica, ritenendola troppo squalificata e inquinante.

Augusto Cavadi

Prigionieri della burocrazia


“Repubblica – Palermo”
2.12. 2011

PRIGIONIERI DELLA BUROCRAZIA
E’ stato in italiano stentato che la vicina di casa nigeriana mi ha raccontato di essersi recata agli uffici municipali di via Lazio per chiedere di essere registrata come residente e di “non aver capito nulla”. Sommessamente, aggiungeva la richiesta di una mano d’aiuto: “Mio marito ed io lavoriamo tutto il giorno e non ci viene facile trovare il tempo per ritornare una seconda volta”. Il giorno dopo ci siamo recati all’anagrafe e, dopo il debito turno allo sportello, un impiegato gentile ci ha spiegato che, trattandosi di una famiglia immigrata dall’Africa, bisognava ritornare un mercoledì nel pomeriggio. Il mercoledì successivo abbiamo riattraversato la città e siamo stati ricevuti al primo piano da una delle sei impiegate (le altre cinque, ognuna davanti al proprio tavolo di lavoro, forse per mancanza di meglio, seguivano con attenzione il dialogo): “Sì, la documentazione che avete in mano è completa e va consegnata a me, ma non la posso accettare adesso perché siete qui senza appuntamento”. “Mi scusi, signora: ma Lei ha altro da fare in questo momento? Ci sono persone che hanno chiesto appuntamento e che – in un luogo a me invisibile – stanno attendendo il turno? Non è possibile che mi rivolga a qualcuna di queste sue colleghe che stanno seguendo in diretta la nostra conversazione?”. “No, non c’è nessuno. L’iter potrà sembrarle folle, ma non dipende da me. Tutte noi qui presenti abbiamo l’obbligo di accettare l’avvio di una pratica solo su appuntamento”. Giro intorno lo sguardo interrogativo su ognuna delle impiegate circostanti: mi rispondono con un soave sorriso di conferma. Forse a non far nulla si stanno annoiando, ma non hanno scampo. La collega deve essere proprio nel giusto! “Va bene, non capisco ma mi adeguo: ci dia un appuntamento per il prossimo mercoledì”. “Mi dispiace davvero, lo darei volentieri, ma non mi è consentito”. “Non le è consentito perché è obbligatorio chiederlo via internet o via telefono?” “No, lo diamo solo di presenza. Ma solo di mattina. Lei deve tornare un altro giorno, in orario antimeridiano, farsi dare un appuntamento con me e poi ritornare un mercoledì in orario pomeridiano”. La guardo attonito. Chiedo di correggermi se ho capito male: “L’altro ieri sono venuto una prima volta e mi hanno detto di ritornare di mercoledì pomeriggio; oggi è mercoledì pomeriggio e lei mi sta chiedendo di tornare una qualsiasi mattina; in quella qualsiasi mattina mi si darà un appuntamento per il primo mercoledì libero; e solo allora - al termine del quarto viaggio dalla borgata marinara in cui vivo sino all’incrocio con la circonvallazione - potrò avviare la pratica di questa signora africana. In attesa di ritornare, una quinta volta, per ritirare (se non sopravverranno intoppi) il certificato di residenza”. “No, nessun equivoco: ha capito benissimo”. Chiedo allora di parlare con il capo ufficio, ma la risposta è quasi superflua: “Vuole che a quest’ora, di pomeriggio, sia qui?”. Non mi resta che raccogliere le carte e, mogio mogio, riprendere la strada di casa. Mentre lavora in qualche remoto angolo del cervello il tarlo d’una catena di interrogativi (“Ma quanto sadismo è necessario per ideare una simile procedura burocratica? Palermo non è una città europea? Davvero non c’è nessuna autorità civile che possa individuare e punire esemplarmente quei burocrati che si divertono ad umiliare la gente ‘comune’ e che si fanno belli procurando ad amici e clienti i certificati con un cenno al fattorino del proprio ufficio?”), la vicina di casa mi chiede con candore di spiegarle la conclusione della trattativa. “Signora” – è stato tutto ciò che sono riuscito a risponderle – “non è questione di italiano: le confesso che ho capito ancora meno di quanto abbia capito lei la volta scorsa”.

Augusto Cavadi

sabato 3 dicembre 2011

Ci vediamo a Palermo lunedì 5 dicembre...?


“GIARDINO COSTA” EX VERDE TERRASI
(INGRESSI DA VIALE LAZIO E DA VIA BRIGATA VERONA)

LUNEDI 5 DICEMBRE
ORE 18.15

AUGUSTO CAVADI ED ELISA POMA
PRESENTANO IL PROPRIO LIBRO

LA BELLEZZA DELLA POLITICA.
ATTRAVERSO, E OLTRE, LE IDEOLOGIE DEL NOVECENTO
DI GIROLAMO EDITORE.

INTERVIENE GIORGIO CAVADI (Dirigente scolastico)
MODERA IL DIBATTITO ROBERTO PUGLISI (quotidiano online LiveSicilia.it)

giovedì 1 dicembre 2011

sabato 26 novembre 2011

LE RIVOLTE DEI RAGAZZI
E LE COLPE DEGLI ADULTI


“Repubblica” - Palermo
12.11.2011

Con Roberto Tripodi, nonostante un antico rapporto di stima e di comune militanza nel movimento antimafia, mi è capitato di polemizzare anche da queste colonne. Non è certo, dunque, per solidarietà “a prescindere” che ritengo meritevole di attenzione una sua iniziativa coraggiosa e preveggente. Mi riferisco, come sanno i lettori dell’edizione di giovedì 27 ottobre, alla circolare sui provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti che, occupando i locali della scuola, impediranno di fatto a tanti altri lo svolgimento regolare delle lezioni. Una iniziativa che merita di essere discussa in un dibattito pubblico a cui non possono continuare a sottrarsi (come è avvenuto negli ultimi decenni) gli adulti a qualsiasi titolo responsabili dell’educazione delle giovani generazioni, dai genitori ai politici, dai docenti ai dirigenti dell’amministrazione pubblica. Capisco che si possa dissentire, o in buona fede o per evitare astutamente l’impopolarità; ma non capisco perché questo dissenso non debba diventare argomentazione logica e controproposta pratica.
Nell’attesa che gli adulti si pronunzino apertamente (sottovoce lo fanno, sinceramente o ipocritamente, tutti i genitori quando vengono a colloquio con gli insegnanti e dichiarano la loro impotenza pedagogica nei confronti di decisioni dei figli che non condividono) possiamo solo tentare di dialogare con i giovani che, in varie modalità (anche rispondendo alle domande del cronista), sostengono le proprie ragioni. Che sono sintetizzabili in due punti cruciali.
Primo: il governo italiano ha demolito, nell’ultimo ventennio, la scuola statale. In queste condizioni, la protesta - anche formalmente illegale – è l’unico strumento per esprimere dissenso. Secondo: a decidere la sospensione delle lezioni e l’occupazione dei locali è sempre una maggioranza di studenti che si contano in assemblea, dunque è in nome delle procedure democratiche che la minoranza deve adeguarsi.
Che cosa opporre a queste due argomentazioni, apparentemente ineccepibili? Allo stato attuale della scuola, temo che non ci sia nulla da obiettare. Infatti un confronto su questioni così cruciali presupporrebbe un linguaggio comune, una base concettuale e valoriale condivisa: ma è proprio tale presupposto che manca. Manca perché gli studenti sono totalmente all’oscuro dei principi e delle regole della Costituzione; perché non hanno gli elementi storici e teorici per distinguere la lotta politica che distrugge, con la violenza emotiva, dalla lotta politica che costruisce, con la forza delle proposte e della partecipazione attiva; perché ignorano i nessi fra i diversi progetti di società (di destra, di centro o di sinistra) e le rispettive, conseguenti, concezioni di scuola.
Sarebbe troppo comodo, però, fermarsi a questo stadio della riflessione. Gli studenti si illudono che, facendo parlare di sé per qualche settimana i giornali e i talk show televisivi, stanno davvero modificando la politica scolastica dei governi in carica e che l’alzata di mano di mille studenti con la voglia di anticipare le vacanze natalizie sia esercizio di democrazia (anche se novecento resteranno a casa per tre settimane lasciando ai duri e puri di presidiare i locali scolastici da fantomatiche irruzioni della polizia): verissimo. Ma sono essi stessi i principali responsabili di queste convinzioni infondate, di queste scelte autolesionistiche? Che cosa abbiamo fatto noi adulti - che cosa stiamo facendo – per orientarli nella direzione della coerenza, dell’impegno metodico, del cambiamento strutturale e duraturo? Non ci sono scorciatoie. La società si trasforma con la forza delle idee e con la pazienza della mobilitazione politica. Ed è su entrambi i fronti che abbiamo tradito i bisogni dei nostri ragazzi.
Dal punto di vista della formazione culturale, con il pretesto che “a scuola non si fa politica” (divieto sacrosanto) non gli diamo nessuna formazione politica (omissione imperdonabile). Sforniamo intere generazioni analfabete dal punto di vista dei principi elementari della politologia (relegando ai margini, o espellendo del tutto, persino l’ora settimanale di educazione civica). Dal punto di vista, poi, degli spazi di aggregazione politica, con il pretesto che “i giovani devono autogestirsi” , nella vita dei partiti e dei sindacati li manteniamo a debita distanza, concedendogli solo il diritto di fare il tifo per questo o quell’altro leader maturo (e non di rado appassito). Così, senza idee e senza canali di partecipazione effettiva alla determinazione delle scelte politiche, i giovani si avviano al destino amaro della maggior parte dei loro padri: dalla fase rivoluzionaria dell’adolescenza a una quotidianità adulta fatta o di rassegnazione o di complicità con chi ha in mano, di volta in volta, qualche brandello di potere.
Le prossime scadenze elettorali potrebbero costituire un’occasione per invertire la tendenza se i partiti tradizionali e le nuove aggregazioni cittadine provassero (come hanno provato, negli ultimi tre anni, le associazioni palermitane aderenti ai “Movimenti civici siciliani” che sabato 29 ottobre hanno presentato, a Palazzo delle Aquile, i lavori svolti e i progetti futuri) a inquadrare il dibattito - pur necessario – sui nomi dei candidati e sulle alleanze tattiche nel più ampio orizzonte della formazione intellettuale, etica e metodologica dei cittadini. Lo so che è banale ripeterlo, ma è ancora più irritante che tale ripetizione sia ancora necessaria: ogni città avrà gli amministratori che si merita.

Ci vediamo lunedì 28 novembre a Trapani?




sabato 19 novembre 2011

PRIMA I LADRI, POI LE MULTE. L’ODISSEA DI UNO SCOOTER


“Repubblica – Palermo”
9.11.2011

Qualora anche a voi capitasse - come all’Antonio Albanese di un indimenticabile sketch – di subire il furto del ‘motorino’, sappiate che si possono realizzare, in ordine decrescente di fortuna, tre possibilità. La prima è che la polizia vi chiami e vi restituisca (in condizioni più o meno buone) la refurtiva. La seconda è che nessuno trovi più il ciclomotore e vi rassegniate alla disgrazia (ce ne sono di molto peggiori!). E la terza? Alla terza non avevo mai pensato. Anzi, francamente, non ritenevo che fosse neppure immaginabile, prima di diventarne - del tutto involontariamente – protagonista.
Può capitare, infatti, che i ladri riducano a uno scheletro malconcio il vostro amato mezzo di trasporto, ma dimentichino di toglierli la targa e lo abbandonino in un angolo semioscuro del quartiere Capo.
In questa ipotesi, prima o poi, qualche vigile urbano potrebbe notare il relitto meccanico e, invece di consultare gli archivi delle Forze dell’ordine o anche soltanto del Pra (Registro automobilistico), elabora l’idea geniale di inviarti a casa una…multa di parecchie decine di euro. Per aver lasciato, in stato di evidente abbandono, il tuo scooter. Incredulo, mi sono recato al quartier generale dei vigili urbani di via Dogali e, dopo una paziente attesa di quasi due ore, sono stato finalmente ricevuto.
Ho esibito l’attestato di cancellazione del titolo di proprietà nonché l’assicurazione intestata al nuovo ciclomotore e, solo allora, mi è stato concesso il diritto di redigere un ricorso amministrativo.
“Come mai, prima di appiopparmi la sanzione e farmi perdere mezza giornata di lavoro, non avete consultato gli elenchi dei mezzi rubati negli ultimi anni?”. La risposta è stata talmente spiazzante da risuonare incredibile:
“Non abbiamo accesso a quei dati”. Veramente sul verbale inviatomi si legge esattamente il contrario:
“Sul veicolo rinvenuto non risulta denuncia di furto, come da accertamenti effettuati dall’Ufficio presso la Questura di Palermo”).
Comunque, presentato il mio ricorso scritto, m’illudevo di aver chiuso la querelle. Così, quando dopo due mesi trovo l’invito a ritirare presso l’Ufficio postale una raccomandata spedita dai Vigili Urbani, mi ci fiondo allegramente, sicuro di essere arrivato alla parola ‘fine’. Invece…era una seconda multa, emessa in altra data, a firma di altri agenti. Che erano passati da quello stesso spiazzale e, ignari di essere stati preceduti tre mesi prima da colleghi, reduplicano l’ammenda.
E la mia via crucis ricomincia daccapo.
Morale dell’incubo: se ti rubano un ciclomotore, non sperare nella collaborazione della polizia municipale di Palermo. Anzi, per la precisione: spera intensamente che nessun vigile si accorga mai di cosa sia rimasto, dopo la depredazione, del tuo motoveicolo. Potresti dover sommare, al danno, la beffa di un…secondo, terzo danno. E in questo caso ti chiederesti se sia così in tutta Italia, in tutta Europa, o se è un privilegio della tua città dover augurarti che l’Amministrazione comunale latiti. Perché, se si fa viva, è per complicarti la vita.

mercoledì 16 novembre 2011

Il coraggio della morte.


“La Cittadella” Maggio-Giugno 2010

L’invito - che ho lanciato nel primo numero di questo periodico - di farci “una bella ragionata” è stato accolto da più di un lettore. Puntata dopo puntata, spero che riusciremo a toccare tutti gli argomenti su cui qualcuno di voi vorrà attrarre l’attenzione. Cominciamo oggi con un tema davvero cruciale per noi tutti, sollevato da Serena Zaffuto (Palermo): “La morte è un argomento su cui nessuno può parlare con certezza perché nessuno sa realmente che cosa lo aspetti al termine della sua vita: e così nascono tutte le congetture, le teorie, addirittura le religioni. Insomma, è qualcosa che in tutti noi, da sempre, costituisce un punto interrogativo che allo stesso tempo ci affascina e spaventa, perché l’uomo ha timore di ciò che non conosce. Socrate, secondo me, ha dimostrato la sua saggezza quando, al processo, ha sostenuto: << Una di queste due cose è il morire: o è come un non essere più nulla; o è proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro luogo. E se è assenza di percezione come un sonno, quando dormendo non si vede niente, neanche un sogno, allora la morte sarebbe un meraviglioso guadagno.[…] Se d'altra parte la morte è un emigrare da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che dunque tutti i morti sono là, o giudici, che bene ci può essere più grande di questo?>> Egli non ha paura della morte, di abbracciare qualcosa a lui sconosciuto: è pronto a scoprire cosa c’è dopo la fine della vita. La sua scelta non è unica nella storia dell’umanità: tutt’oggi gli uomini mettono a repentaglio, e a volte sacrificano la vita, in vista di un bene maggiore, la giustizia. Quanti uomini e donne abbiamo visto, per esempio, esporsi e lottare pubblicamente contro la mafia? La loro morte è stata sempre significativa, perché ha costituito un punto di svolta nella nostra società e ci sta permettendo, lentamente, di sconfiggere questa organizzazione criminale. In un film che ho visto un personaggio diceva :<< Non devi temere la morte, devi temere una vita non vissuta. Non è necessario vivere per sempre, basta solamente vivere>> “.
Serena evoca il tema della morte collegandosi a un grande filosofo greco (Socrate) e lo fa con accenti molto personali: riterrei che qualsiasi commento da parte mia potrebbe togliere, non certo aggiungere, lucidità. Posso solo osservare che, se è attuale la testimonianza etica di Socrate, ciò dipende dal fatto che anche il suo bivio teorico è rimasto intatto. Anche per noi del XXI secolo la morte o è annichilimento (e dunque non può costituire la porta di accesso a nessun inferno) o è transito ad un nuovo modo di esistere (Parnaso, Paradiso, Resurrezione, Metempsicosi…). In entrambi i casi, solo chi ha usato male la vita - per fare male e senza fare bene ad altri - ha ragione di temere l’Al-di-là. Chi, pur fra errori e imperfezioni, ha cercato di vivere autenticamente non può che andare incontro alla morte con occhio curioso e cuore sereno.

lunedì 14 novembre 2011

Ci vediamo a Palermo venerdì 18 alle 17,15?


Venerdi 18 novembre ore 17.15 nella sala Magna di Palazzo Steri, piazza Marina 61, Palermo, dibattito sul libro di Vito Mancuso “Io e Dio. Una guida dei perplessi”, Garzanti editore.
Introduce il dibattito Augusto Cavadi (consulente filosofico).
Coordina Franco Lo Piparo direttore del Dipartimento FIERI-AGLAIA.
Sarà presente l’autore.

domenica 13 novembre 2011

Alcibiade Pederini intervista Augusto sulla teologia dei mafiosi


“Diogene”
Settembre 2011
La teologia dei mafiosi.

Come è stato accolto il testo?
Quando Vito Mancuso mi chiese se avessi un testo di teologia ‘critica’, da proporre alle edizioni San Paolo di Cinisello Balsamo, risposi che avevo da anni nel cassetto un plico difficile da collocare editorialmente: troppo ‘teologico’ per gli editori ‘laici’, troppo ‘laico’ per gli editori confessionali. Incoraggiato a proporre comunque il dattiloscritto, ebbi la (lieta) sorpresa di vederlo pubblicato. Evidentemente i responsabili della casa editrice cattolica avevano intuito che Il Dio dei mafiosi non era un libro contro qualcuno, ma per capire enigmi imbarazzanti per tanti. Non si trattava, come scrisse “Il foglio”, di un libro che fingeva di colpire la mafia per colpire la Chiesa, ma come vide più acutamente Gianni Vattimo, su “L’espresso”, un tentativo di onestà intellettuale. Un tentativo di iniziare a rispondere alla domanda che - per decisione concordata fra me e l’editrice - si legge nella quarta di copertina: “Come è possibile che una società a stragrande maggioranza cattolica partorisca Cosa nostra e stidde, ’ndrangheta, camorra e Sacra corona unita? Un interrogativo del genere ne coinvolge, a valanga, molti altri. Impegnativi e impertinenti. E questo potrebbe spiegare perché lo si è posto assai raramente. Per rispondere, l’autore ha enucleato i tratti essenziali della teologia dei mafiosi; ha scoperto preoccupanti rassomiglianze con la teologia <>; ha delineato, per sommi capi, una teologia critica <> alternativa rispetto alla visione teologica mafiosa. Questo percorso intellettuale affronta gli aspetti culturali di un fenomeno complesso come la mafia e si rivela utile per ampliare l’analisi scientifica e per affinare le strategie di prevenzione e di contrasto”.
Il punto di partenza non poteva che essere una rappresentazione riepilogativa della mafia sulla base degli studi scientifici più accreditati (rappresentazione da me sintetizzata recentemente nel volumetto La mafia spiegata ai turisti che l’editore Di Girolamo ha immesso nel mercato anche in versione francese, spagnolo, inglese, tedesco, russo, giapponese ed esperanto): una associazione di cinquemila criminali che perseguono il duplice scopo del potere e dell’arricchimento mediante l’alternarsi di violenza e seduzione culturale. Solo all’interno di questa visione della mafia – che è dunque anche un soggetto politico con una propria ‘filosofia’ – è possibile enucleare una concezione della religione.
Ma quali sono i tratti principali della teologia dei mafiosi?
Il loro Dio è un padrino più che un Padre; un Onnipotente senza tenerezza; un Trascendente senza immanenza; un Sovrano accessibile solo attraverso la ‘raccomandazione’ dei santi intercessori; un Giudice freddo che esige il sangue del Figlio per riparare le offese degli uomini…Questi lineamenti sono molto ‘cattolici’ ma poco ‘evangelici’: evidentemente la teologia mafiosa ha saccheggiato un patrimonio dottrinario, simbolico, morale - il patrimonio cattolico – molto distante dal messaggio originario di Gesù e dei suoi primi discepoli (come ho cercato di mostrare in un libro immediatamente precedente e in qualche modo propedeutico a Il Dio dei mafiosi: In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani, Falzea, Reggio Calabria 2008) . Torna alla memoria la fulminante sentenza di Nietzsche: “C’è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce”.
Se il quadro è, sostanzialmente, realistico, la teologia cattolica deve profondamente rivedere sé stessa: senza questa ri-fondazione culturale non sarà possibile una vera e duratura conversione della Chiesa, attualmente troppo simile a un’organizzazione dogmatica, verticistica, gerarchica, sessuofobica, maschilista…insomma a un’organizzazione mafiosa. Per questo, nella stessa quarta di copertina cui ho fatto cenno poco sopra, abbiamo sintetizzato il succo del mio saggio con una frase provocatoria, ma a scopi costruttivi e non scandalistici: “Come può la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e frequentare le chiese? Qualcosa certamente non funziona: o nella loro testa o nella teologia cattolica. O in tutte e due”.

sabato 12 novembre 2011

Ma è ancora possibile salvare la Chiesa cattolica?


“Centonove”
11.11.2011

“Salviamo la chiesa”

“Da Roma, per esperienza, di fronte a un libro tanto scomodo faranno di tutto se non per condannarlo, almeno per farlo passare sotto silenzio. Spero pertanto nel sostegno della comunità ecclesiale e dell’opinione pubblica, dei teologi, e auspico anche dei vescovi disposti al dialogo, per destare la gerarchia romana- ostinata sulle sue posizioni ideologiche e quasi completamente tutelata sotto l’aspetto giuridico e finanziario – e indurla a non ignorare la patogenesi presentata nelle pagine seguenti, la spiegazione dello sviluppo e delle conseguenze della malattia di cui soffre la Chiesa cattolica, e a non continuare a rifiutare il dialogo e le terapie scomode che s’impongono”: così l’anziano teologo tedesco Hans Küng in una delle pagine iniziali della sua ultima fatica tradotta in italiano, Salviamo la Chiesa (Rizzoli, Milano 2011, pp. 300, euro 20).
I mali della Chiesa cattolica attuale sono numerosi (e molto più difficilmente ammessi dei mali del passato), ma secondo Küng hanno una radice capitale: “dall’XI secolo il papato si è trasformato sempre più in un’istituzione di stampo monarchico-assolutistico, che ha dominato la storia della Chiesa cattolica” provocando tre spaccature: nell’XI secolo con la Chiesa d’oriente (oggi denominata “ortodosssa”); nel XVI secolo con le Chiese anglicane e luterane (oggi denominate “protestanti”); nel XIX secolo con il mondo moderno, le sue acquisizioni teoriche e i suoi valori etico-politici (a cominciare dalla libertà di pensiero, di parola e di religione: la quale ultima implica anche la libertà dalla religione, cioè il diritto di vivere anche senza professare un determinato credo confessionale). Personalmente aggiungerei una quarta spaccatura: lo “scisma sommerso” (per riprendere una formula di Pietro Prini) della stragrande maggioranza dei cattolici che, continuando a professarsi tali, in realtà se ne fregano radicalmente di ciò che il magistero ufficiale, gerarchico, insegna sia sul piano dogmatico che sul piano morale.
Ho l’impressione, però, che questa volta Hans Küng non arrivi sino al fondo della questione. Che il papa rivendichi potere assoluto è certamente una causa importante del baratro in cui si sta cacciando la Chiesa cattolica e da cui solo una ‘miracolosa’ inversione di tendenza (a cominciare da un successore di Benedetto XVI che la pensi assai diversamente da lui) potrà salvarla. Ma, a sua volta, questa pretesa monopolistica del papa non è forse effetto di equivoci ancor più radicali? Personalmente sono convinto che, sino a quando i cattolici riterranno che la Bibbia è depositaria dell’unica rivelazione divina e che Gesù Cristo sia l’unica incarnazione della Parola di Dio, sarà logicamente conseguente ammettere che un duplice tesoro così prezioso non può essere stato affidato da Dio al mare burrascoso della storia umana e che è stato necessario istituire un organo infallibile a custodia perenne della Scrittura e del dogma dell’incarnazione del Verbo. Solo se anche i cattolici - come hanno già capito alcuni di loro, insieme a teologi presenti in tutte le altre chiese cristiane – rivedranno con onestà intellettuale i due presupposti (biblico e cristologico), potranno liberarsi dalla pretesa del papato di pronunziare la parola definitiva. Che significa, con più precisione, liberarsi dai due (falsi) presupposti indicati? Significa ammettere, insieme a teologi di statura planetaria come Raimundo Panikkar o Leonardo Boff, che Dio si è rivelato “anche” nella Bibbia ma non “solo” in essa (perché la Parola di Dio splende anche nei libri di Platone, nei Veda induisti, nel Corano musulmano, nelle poesie di Leopardi…); e che essa si sia incarnata “anche” in Gesù di Nazareth ma non “solo” in lui (perché essa si è fatta carne anche in Socrate, in Buddha, in Francesco d’Assisi, in Gandhi…). Solo se si esce da una prospettiva tribale, che scambia la propria tradizione per l’unica storia universale e il proprio campanile per l’ombelico del mondo, si potrà togliere al papato di Roma ogni giustificazione teologica: esso può restare a patto di ritornare ad essere ciò che era nei primi secoli dell’era cristiana, un simbolo di unità della molteplice varietà di chiese. Il papa non più come “vicario di Cristo”, ma come “primus inter pares”: come fratello maggiore nella ricerca del Mistero che ci abbraccia e ci supera, come esempio di coerenza con i principi di semplicità e di condivisione evangelica. Solo in quanto discepolo del Maestro, al papa può essere riconosciuto il compito di “presiedere nella carità” l’assemblea dei fedeli che, appoggiandosi fraternamente l’uno con l’altra, battono – insieme alle donne e agli uomini di ogni religione e di nessuna religione – i sentieri della liberazione e della giustizia.

Augusto Cavadi

giovedì 10 novembre 2011

Mugno recensisce il libro che presento venerdì 11 alla Mondadori


“La Sicilia”
5.11.2011
C’è anche una bellezza della politica
In un tempo di crisi imperanti, in cui le idee e la pratica politiche sembrano mordere il freno e mostrarsi deficitarie, ecco un denso e ben documentato saggio, di Elisabetta Poma e Augusto Cavadi, che prova a illuminare l’altra faccia, quella pulita e positiva, dell’impegno a favore della collettività e dell’adesione a “progetti” di gestione e di cambiamento delle società umane: “La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento” (Trapani, Di Girolamo Editore, 2011). Il fare politico può essere, infatti, gioioso, esaltante, edificante. In ogni caso, esso è necessario, ineludibile, incombente. Allora i nostri autori presentano una vera e propria mappa delle principali scuole di pensiero politico dello scorso secolo, analizzandole in modo non superficiale ma, al contempo, senza pedanterie. Esse vengono, inoltre, sintetizzate in un “Quadro sinottico delle ideologie” di agevole consultazione, anche per un eventuale uso didattico del volume. Scorrono così i tratti fondamentali del liberalismo, del comunismo, della socialdemocrazia, del fascismo, della dottrina sociale cattolica, del conservatorismo, dell’ambientalismo, dell’anarchismo. Ciascuna di queste “dottrine” viene letta sulla scorta della propria concezione dell’uomo, della società, dello Stato, dell’economia, dell’educazione, della religione. Ad esempio, se l’anarchismo ritiene l’educazione «costituzionalmente sterile, ingiusta ed impossibile (…). Deve realizzarsi solo come autoeducazione in contesti extra-istituzionali», il liberalismo la propugna «mirata al senso critico dell’individuo; basata su dati empirici; attraverso istituzioni statali e private in concorrenza». Dall’osservazione incrociata dei vari “tasselli” o “nuclei generativi” dei vari indirizzi, è possibile tentare un’interpretazione del nostro tempo e, soprattutto, provare a proiettarsi verso il domani. Gli autori del volume, entrambi docenti, pur tenendo ben presente la dimensione divulgativa e istruttiva della loro opera, non si sottraggono certo alla complessità dei temi affrontati. Mettono, ad esempio, in guardia dal rischio dell’interessata propaganda denigratoria nei confronti della politica da parte di chi punta a tenere lontani i cittadini dalla “cosa pubblica”. Provano anche a ribaltare il luogo comune secondo il quale le “ideologie” sarebbero “morte”, anch’esso “promosso”, talvolta, col velato obiettivo di scoraggiare la partecipazione dei cittadini alla vita sociale. Il volume, tra un capitolo e l’altro, intercala delle pagine “memorabili” di eminenti studiosi del passato e del nostro tempo, da Giuseppe Prezzolini a Emmanuel Mounier, da Errico Malatesta a Gunter Grass. Esaurita la traversata lungo le ideologie del Novecento, Cavadi e Poma si mettono alla prova con le “Prospettive per il XXI secolo” e, soprattutto, con una concreta ipotesi di percorso, scandita in vari punti, segnatamente sviscerati: “essere responsabili”, per cominciare. Riconoscere “l’ambiguità costitutiva dell’essere umano”. Saper fare i conti con “l’irriducibile pluralità dei poteri effettivi” («Questa pluralità di forze brulicanti rivela l’ingenuità di tutti i tentativi ideologici di catturare in schemi definitivi l’incessante divenire della storia»). I due saggisti si soffermano anche sul binomio “maggioranze silenziose” e “minoranze critiche”. Propongono, ancora, di “coniugare realismo ed utopia” («Non si può non partire dalla conoscenza più obiettiva e razionale possibile degli individui, dei loro rapporti sociali, delle dinamiche storiche»); occorrerà, in ogni caso, ad avviso degli autori del libro, “democratizzare la conoscenza” e “controllare i rappresentanti”. Il volume contiene anche una ricca appendice bibliografica.
Salvatore Mugno

lunedì 7 novembre 2011

Ci vediamo a Palermo (alla Mondadori)
venerdì 11 novembre?


Venerdì 11 novembre alle 17,30,
presso la Mondadori di via Ruggero Settimo,
Nadia Spallitta presenterà, con gli autori,
il libro di Augusto Cavadi e di Elisa Poma
“La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento”
(Di Girolamo, Trapani 2011, pp. 194, euro 9.90).
Introduce e modera Francesco Palazzo (“Repubblica – Palermo”).


sabato 5 novembre 2011

SOGNANDO LA CONCA D’ORO


“Palermo, dove siamo stati otto giorni, era deliziosa. Come posizione è la più bella città del mondo, passa la vita sognando nella Conca d’Oro, una valle squisita distesa tra due mari”. Così Oscal Wilde in una lettera del 16 aprile 1900 spedita da Roma, poche settimane dopo il suo viaggio nell’isola. Purtroppo la Palermo di oggi si è svegliata da quel “sogno nella Conca d’Oro” e guarda – con occhi sbarrati dallo stupore prima, con sguardo assuefatto e rassegnato ormai – lo scempio edilizio che continua imperterrito, fra abusi e condoni.
Per fortuna la mano rapace di noi palermitani non è (ancora ?) arrivata a deturpare le bellezze artistiche come la Cappella Palatina: “In nessun luogo, nemmeno a Ravenna, ho visto mosaici così. Dal pavimento alla cupola del soffitto è tutta oro, ci si sente veramente come seduti in grembo a un gran favo di miele a guardare gli angeli che cantano; e guardare gli angeli, o comunque le persone che cantano, è molto più simpatico che ascoltarli”. Nella memoria del poeta irlandese rimangono impressi anche il Duomo di Monreale (“con i suoi chiostri”) e la Cattedrale di Palermo, ma ancor di più alcuni giovani. In particolare due categorie: i cocchieri e i seminaristi.
Tra i primi (“ragazzi modellati nel modo più squisito”) Wilde ha amato Salvatore, Francesco e soprattutto Manuele: li ha amati, apprezzati, al punto da convincersi che “la razza si vede da loro, non dai cavalli della Sicilia”. Per vederli più spesso possibile, si faceva condurre “spesso” in carrozza dall’albergo a Monreale.
Tra i secondi stringe “grande amicizia con un giovane seminarista che abitava nella Cattedrale di Palermo, con altri undici in una stanzetta sotto il tetto, come uccelli”. Dapprima è questo “giovane amico, a nome Giuseppe Lo Verde”, a dare informazioni sulla Chiesa madre del capoluogo regionale; ma, dal terzo giorno in poi, è Wilde a raccontargli di Federico II e della sua favolosa Corte poetica, prendendo spunto dal “massiccio sarcofago di porfirio” (“una cosa sublime, nuda e mostruosa, color sangue, sostenuta da leoni, che hanno colto un po’ dell’ira dell’animo irrequieto del grande Imperatore”). Tra un’istruzione e l’altra, il seminarista quindicenne “molto dolce” confida al poeta straniero (già processato, condannato e incarcerato per omosessualità) le motivazioni – per la verità assai diffuse nel Meridione sino ad anni recentissimi – che lo avevano indotto a intraprendere la carriera ecclesiastica: “Mio padre fa il cuoco, ed è poverissimo, e a casa siamo in parecchi, così mi è sembrato bene che in una casetta piccola come la nostra ci fosse una bocca di meno da sfamare”. Queste confidenze di sapore “singolarmente medievale” colpiscono Wilde che le rammenta e le riporta nella lettera al suo amico Robert Ross, ma a suo dire anche Giuseppe, dai “bellissimi occhi”, era rimasto segnato da quei brevi incontri: “Gli ho regalato un librino di devozioni, molto grazioso, e contenente molte più figure che preghiere”; “gli ho dato anche molte lire, e gli ho predetto un cappello cardinalizio, se fosse rimasto molto buono, e non mi avesse più dimenticato. Lui ha detto che non mi avrebbe dimenticato mai più; e veramente non credo che mi dimenticherà, perché ogni giorno lo baciavo dietro l’altare maggiore”.
Del passaggio di Oscar Wilde da Palermo non restano tracce, se non la testimonianza di un poeta minore (Achille Leto) raccolta da un parente e amico più giovane, lo storico Gaetano Falzone, che ne riferisce in una memoria all’Accademia delle lettere , delle scienze e delle arti di Palermo del 29 novembre 1979. Ma fra il giovane letterato siciliano e il maturo vate irlandese non scoccò alcuna scintilla, al di là di un fugace incontro occasionale ai tavolini di un caffè (ai Quattro Canti, da tempo scomparso) dove Leto riconobbe Wilde per via delle foto che circolavano da anni sulla stampa internazionale. Risulta che l’esteta - a giudizio del quale lo scetticismo va coltivato con moderazione se non lo si vuole trasformare in una fede troppo rigida – non fosse in vena di conoscenze e di rapporti sociali, quanto di concentrazione meditativa: non frequentò nessuno dei salotti buoni della Palermo del Liberty (Whitacker, Gangi, Trabia), preferì aggirarsi anonimamente per le vie della città, “trasandato e scontroso”, ma con “un grosso fiore all’occhiello”. Aveva sostenuto che i guai dell’anima si curano con i sensi così come i mali dei sensi si curano con l’anima, ma avvertiva di essere arrivato ad una fase dell’esistenza in cui non sono più possibili rimedi d’alcun genere. Si lasciò alle spalle il capoluogo dell’isola siciliana e, via Napoli e Roma, tornò in patria, dove si spense appena tre mesi dopo.

mercoledì 2 novembre 2011

IL GIUDICE RAGAZZINO. SANTO PERCHE’?


Il 6 ottobre si è avviato ufficialmente, presso il Tribunale diocesano di Agrigento, l’iter che potrebbe portare - eventualmente – alla canonizzazione, da parte della Chiesa cattolica, di Rosario Angelo Livatino, il “giudice ragazzino” di Canicattì falcidiato dalla mafia il 21 settembre del 1990. La notizia suggerisce varie considerazioni, talora di segno contrario, che potrebbero riassumersi in due questioni principali.
La prima è di ordine generale: ad una riflessione critica approfondita ha ancora senso beatificare un credente? Da una parte, infatti, è un modo di indicare al popolo di Dio -e, più ampiamente, alla società – una testimonianza esemplare di discepolato evangelico; dall’altra, però, si corre il rischio di strappare quella testimonianza all’ambito della quotidianità, di rinchiuderla (persino materialmente) in una nicchia, facendone più un oggetto di venerazione (se non addirittura un destinatario di richiesta di grazie) che un modello da seguire creativamente. Ma questa è una problematica troppo ampia e radicale per poterla dirimere nell’occasione.
Più pertinente al caso concreto risulta, invece, una seconda questione. Se si accetta la logica cattolica della canonizzazione, diventa centrale capire per quali ragioni il magistrato siciliano sarà - o sarebbe – dichiarato ‘santo’. Detto altrimenti: per quali virtù eroiche, per quali aspetti della sua personalità e delle sue scelte di vita, sarà - o sarebbe – elevato a esempio per la comunità dei credenti. Mi pare, infatti, che siano percorribili due strade, solo apparentemente simili se non addirittura interscambiabili. La prima - personalmente ritengo sia la più auspicabile – indicherebbe nella resistenza alle minacce mafiose il cuore della sua santità evangelica: egli verrebbe riconosciuto – per riprendere una felice espressione di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi – “martire della giustizia e, indirettamente, martire della fede”. Si riattualizzerebbe il pensiero di San Tommaso d’Aquino e di tanti teologi della liberazione, a giudizio del quali dare la vita per difendere alcuni principi etici (la libertà, la verità, la fedeltà ai compiti civili) equivale a dare la vita per Dio, che di quei principi è fonte e garante.
Diverso sarebbe il percorso che arrivasse a dichiarare la santità di Livatino non anche, ma solo, per la sua fede teologale, per la sua vita intima di preghiera, per la sua affabilità umana, per la sua devozione ai genitori…lasciando in ombra le circostanze della sua morte. Certo: morire di mafia non può significare, eo ipso, essere considerato un cristiano esemplare (se non altro per rispetto a quelle vittime di mafia che, in vita, hanno consapevolmente scelto di non dirsi cristiani). Ma se, come nel caso di Livatino, la scelta di una certa professione - e soprattutto la scelta di fare in una certa maniera la professione intrapresa – fossero dettate non solo da validi e nobili motivazioni laiche, bensì anche da una coscienza credente, perché non presentarlo come un esempio di martirio cristiano? Perché non cogliere al volo questa occasione per proclamare che, nella Chiesa cattolica, tra i “valori non negoziabili” (anzi, a maggior ragione di altri più frequentemente richiamati) rientra a pieno titolo la lotta contro la corruzione sistemica, la intimidazione violenta, la mentalità del compromesso? Gli antecedenti di don Giuseppe Diana (ucciso dalla Camorra) e di don Pino Puglisi (ucciso da Cosa nostra) non lasciano ben sperare: del primo non si è neppure avviato il processo di canonizzazione (quasi ad avvalorare le interpretazioni denigratorie del suo assassinio diffuse immediatamente dai camorristi e dai loro pennivendoli); del secondo il processo di canonizzazione, benché arrivato a Roma, si è arenato nelle stanze dei Sacri Palazzi. Evidentemente c’è almeno una delle convinzioni ribadite in vita da Rosario Livatino che stenta a far breccia nelle mura vaticane: “Alla fine, Dio non ci chiederà se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”.

martedì 1 novembre 2011

Gesù, questo sconosciuto


“Centonove”
28.11.2011
GESU’ , QUESTO SCONOSCIUTO

Che cosa riteniamo di sapere sul cristianesimo? (Quasi) tutto. Che cosa sappiamo davvero? (Quasi) niente. E’ una presunzione di informazione che condividiamo un po’ tutti gli italiani (credenti, atei o agnostici): preti e suore non meno di chi non mette mai piede in chiesa. Sulla base di questo “supposto sapere” ci dichiariamo cristiani o meno.
Ma quanto c’è di vero - cioè di storicamente e biblicamente attendibile – nell’idea di cristianesimo che diamo per scontata, per ovvia, per stranota sia quando l’abbracciamo con entusiasmo sia quando la rigettiamo con sdegno? Lo so; la domanda è imbarazzante. Può risuonare persino impertinente nell’epoca in cui sembra di dover optare per un’alternativa secca: o credere dogmaticamente o non credere per nulla. Eppure, se qualcuno nutre almeno un piccolo dubbio sulla propria conoscenza del cristianesimo, ha a disposizione non solo libri grossi e impegnativi ma - da qualche mese – anche un volumetto più agile da tenere in mano e, soprattutto, da consultare. In “Chi è Gesù di Nazareth? Nuove idee dopo il Concilio” ( www.ilmiolibro.it, pp. 238 , euro 15) Elio Rindone, docete di filosofia e baccelliere in teologia, con tono dimesso, direi mansueto, rivolta come un calzino bucato la dottrina cristiana, anzi - più limitatamente – cattolica, in circolazione e restituisce una rappresentazione della persona e della vita di Cristo molto più aderente alle fonti scientificamente studiate.
Nell’impossibilità di ripercorrere le tappe della sua analisi, vado subito all’esssenziale, alla chiave di volta da cui dipende l’intera costruzione: chi è stato Gesù? La dogmatica cattolica, fedelmente riprodotta e divulgata dalla catechesi, risponde: una Persona divina (la seconda persona della Santissima Trinità) che, senza cessare di essere Dio, ha assunto anche la natura umana (dunque un’anima e un corpo in tutto simili ai nostri). Egli è “vero Dio e vero uomo”. Ebbene, questa risposta non è risultata soddisfacente nel IV secolo quando è stata formulata dal Concilio di Nicea; non è stata accettata in questi due millenni da una serie di chiese cristiane legate al modo di esprimersi dei primi tre secoli; non convince più – neppure oggi - centinaia, anzi migliaia di teologi cristiani di ogni confessione religiosa. Per tante ragioni, la più seria delle quali è che non si tratta di una dottrina fondata sulla Scrittura (cioè sulla fonte principale della fede per qualsiasi cristiano). Quest’ultima asserzione può suscitare stupore (almeno in chi legga la Bibbia in generale, i vangeli in particolare, con occhi ingenui, del tutto privi di quell’attrezzatura esegetica con cui ormai da decenni abbiamo imparato a leggere l’Iliade o l’Eneide o la Divina Commedia): non dicono forse gli evangelisti, più volte, che Gesù è “il figlio di Dio”? Come negare che egli si è presentato come un semplice profeta, bensì come l’incarnazione unica e irripetibile del Dio eterno?
Per secoli l’umanità ha creduto che Ettore e Achille siano stati personaggi storici; che Enea abbia davvero portato il padre Anchise sulle spalle; ricordo che anche mia nonna abbassava la voce quando mi confidava che, secondo lei, maestra elementare, non era vero che Dante era sceso all’inferno e ne era risalito poi sino al paradiso. Oggi non lo crediamo più e insegniamo ai nostri ragazzi, appena quattordicenni, a distinguere il significato delle parole nel mondo greco, nel mondo romano, nel mondo medievale e nel mondo contemporaneo. Così i biblisti non hanno più dubbi: oggi “figlio di Dio” significa, o può significare, “Essere trascendente della stessa natura di Dio” , ma nel I secolo dell’era cristiana significava, senza possibilità di equivoci, “Messia, Servo e Unto del Signore, Inviato”. Dunque Gesù non ha mai preteso di essere più che un uomo né i suoi discepoli lo hanno adorato come adoravano Javhé. Credere in lui non significa accettare una matematica paradossale (1+1+1=1), bensì qualcosa di più facile da capire e di più difficile da vivere: che la nostra esistenza ha senso solo se viviamo l’agape del Padre, solo se pratichiamo quotidianamente la sua donazione totale e gratuita a tutti, a cominciare dagli impoveriti della terra.
Queste scoperte, che il Concilio Vaticano II (cui allude il sottotitolo del libro) ha reso un po’ meno segrete, possono suscitare reazioni assai diverse. Mi limito solo alle reazioni di quanti hanno accettato di informarsi e che hanno realmente capito la posta in gioco. La prima che ho registrato è anche la reazione più diffusa: e chi se ne frega? Io non ho mai creduto, già per conto mio, che Gesù fosse Dio, anzi non credo neppure che esista un Dio qualsiasi: questi dibattiti sono controversie clericali che non si scalfiscono. Una seconda reazione che ho registrato è, in qualche modo, di segno opposto: la mia fede non si è mai basata sullo studio delle fonti cristiane, dunque non dipende dai mutamenti di opinione fra gli esperti. Per me Gesù è un mito: un mito che dà senso alla mia vita e, spero, alla mia morte. Sono entrato in comunione con lui attraverso canali che non hanno nulla a che fare con la ragione, le scienze bibliche, storiche e letterarie: e i miei canali continueranno a funzionare comunque, a prescindere da cosa gli studiosi potranno appurare, con maggiore o minore certezza. Una terza reazione, decisamente di minoranza (ma è in questa che mi riconosco ed è quella che mi augurerei per tanti contemporanei soprattutto giovani), è invece un insieme di sospiro di sollievo e di rimboccamento di maniche. Un sospiro di sollievo: Dio non mi chiede di credere in enigmi metafisici, in dogmi misteriosi (Tre persone della stessa natura, una Persona con due nature)…ma mi parla attraverso un uomo concreto, reale, che ha sperimentato una relazione intima col Padre comune (in questo senso è per me un modello da imitare) ma anche momenti di angosciosa solitudine e di terrore davanti alla morte (in questo senso è per me un compagno che ha percorso la stessa strada che mi attende). Gesù Cristo non è dunque il Pantocrator che mi fissa – tenero ma lontanissimo - dall’interno della cupola dello splendido Duomo di Monreale: è piuttosto un viandante di Galilea che ha vissuto intensamente la fedeltà al progetto salvifico di Dio per questa terra, per questa società. Se tutto ciò mi libera dal timore di non avere mai abbastanza fede (chi è davvero convinto della dogmatica cristiana?), non per questo mi deresponsabilizza. Anzi ! Mentre prima – quando credevo di credere – ritenevo che il più fosse fatto, adesso capisco che credere che Gesù è stato illuminato da Dio non è la méta, bensì l’inizio: se è mio fratello, ciò che a lui è stato possibile, è chiesto anche a me. Non ho alibi. Anch’io sono chiamato come lui a vivere ogni giorno, col desiderio e con le pratiche, l’avvento del regno di Dio: un regno di solidarietà, di convivialità, di condivisione. Rispetto a questo progetto di vita, in cui consiste la ‘vera’ fede, sono sempre indietro. E non mi resta che la preghiera di Kierkegaard: “Salvaci dall’errore di volerti ammirare o adorare rapiti di ammirazione invece di voler imitarti e assomigliarti”.

Augusto Cavadi