mercoledì 31 dicembre 2014

PAOLO CALABRO’ RACCONTA MAURICE BELLET


“La prima radice”
(periodico online: www.laprimaradice.it)
30.12.2014

LA VERITA’ CAMMINA CON NOI: PAOLO CALABRO’ RACCONTA     MAURICE     BELLET

    Non è facile incontrare qualcuno che conosca l’opera di Maurice Bellet (Parigi, 1923) nonostante abbia pubblicato decine di libri, di saggi, di articoli tradotti in italiano, spagnolo, tedesco, olandese, inglese, portoghese, brasiliano e cinese. E non è facile, suppongo, perché un tipo come lui non fa scuola: è troppo originale. E troppo sospetto. In quanto prete cattolico (dal 1949) e teologo è visto con diffidenza dagli ambienti filosofici e, in quanto psicanalista, è visto con diffidenza dai teologi e dai filosofi.
      Per fortuna (di Bellet, ma anche di noi lettori curiosi di stimoli spirituali) c’è un appassionato studioso italiano, Paolo Calabrò, che ha confezionato una esauriente summa del pensiero belletiano, intrecciando notazioni personali e ampi brani antologici: La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell’umano di Maurice Bellet, Prefazione di Stefano Santasilia, Il prato, Saonara (Padova) 2014, pp. 250, euro 18,00. La sostanziosa monografia è scandita in otto capitoli e sigillata da un’interessante intervista dell’autore a Bellet, qui edita per la prima volta. Ripercorriamoli quasi telegraficamente.
      Il primo capitolo raccoglie le idee del pensatore francese in ambito filosofico (della commissione del suo dottorato alla Sorbona facevano parte Ricoeur e Levinas). In dialogo con Cartesio, egli sostiene che “il peggiore nemico della ragione è il ‘razionalismo’ che la identifica temerariamente con le sue tesi e i suoi pregiudizi. La ragione è domanda, questa è la sua grandezza, e la domanda lavora nella ragione stessa, fino ai suoi principi e fondamenti” (p. 21).
      Nel secondo capitolo sono richiamate alcune prospettive di Bellet in campo teologico. Egli denunzia il “Dio perverso” del cristianesimo tradizionale, quel “Dio esigente” per il quale “in materia di morale tre cose sono permesse: la prima, niente; la seconda, niente; la terza, niente” (p. 79). E vi oppone il Dio dell’agape, della “tenerezza”: un Dio per il quale, come ha insegnato il Nazareno, “la legge di ogni legge” è “che vivano tutti” (p. 95); che nessuno osi giudicare il fratello, neppure dall’alto di una (presunta) ortodossia dottrinale.
     Nel terzo capitolo, dedicato alla psicanalisi, Bellet ricorda che “non si può vivere al di fuori di ciò che si è psicologicamente”. Commenta Calabrò: “la teologia cristiana può anche odiare la psicologia come nemico acerrimo, ma non può passare sopra a questa conclusione. Ciò che vale per il corpo (nessun uomo può fare il pugno più grande della sua mano – diceva Montaigne), vale anche per la mente e per i desideri – consci e inconsci – che vi si annidano” (p. 111).
     La concezione antropologica di Bellet, riassunta nel quarto capitolo, ruota intorno al perno dell’amore, di “quella realtà senza la quale non c’è vita umana, non c’è umanità. Volontà e pensiero, senza quest’amore, non sono che furore e paura” (p. 124). Nemico dell’amore, dunque dell’umanità dell’uomo, è prioritariamnete “il potere, il gusto del potere, la brama di dominio, di farsi obbedire o, meglio ancora, di essere il maestro o padrone delle anime e delel coscienze, signori sugli spiriti e sui cuori. E’ forse l’avere misconosciuto la potenza di questo bisogno, la sua capacità di insinuarsi in tutto, di accaparrarsi le migliori cause, che ha fatto scivolare le rivoluzioni dall’intenzione generosa all’oppressione sistematica” (p. 130).  La manifestazione più ‘pura’ (tra molte virgolette) di questa “brama di dominio” è la “crudeltà”: quel duplice movimento, che consiste nel divorare e nel vomitare l’altro, “all’opera in due malattie-simbolo di quest’epoca: l’anoressia e la bulimia” (p. 129). Anticamera e, poi, effetto di questa tendenza a manovrare crudelmente i propri simili è  la sete di denaro: “Di tutto ciò che i ricchi, popoli e individui, accaparrano, cosa è necessario alla fame pura e anche al gusto della festa? Molto poco. Il resto è fame falsa che instaura il regno della crudeltà. E’ però un regno invisibile perfino a coloro che vi si trovano dentro” (p. 132).
     In una visione antropologica multidimensionale, pluriprospettica, non poteva mancare il capitolo sull’economia: che è, appunto, il quinto. In esso si distingue ciò che l’attività economica è riuscita a realizzare (il soddisfacimento di bisogni) da ciò che è riuscita a suscitare (il desiderio di voglie, di capricci) con l’intento di non soddisfarlo mai definitivamente (pena il proprio suicidio). In quest’ultima accezione  - capitalistica – l’economia tratta solo di beni quantificabili, negando in essi (e nell’essere umano) la rilevanza di ciò che non ha prezzo (e che proprio per questo è più prezioso). Oppure riducendo ciò che non ha prezzo a un dato quantificabile: come quando denomina “risorse umane” l’insieme dei lavoratori, livellandoli al piano del petrolio o del carbone. Se si pensava che lo sfruttamento fosse il punto più basso di degradazione raggiungibile, ci si sbagliava: oggi la società pullula di “esclusi” dal sitema produttivo la cui più altra aspirazione sarebbe di diventare degli “sfruttati”. In questo contesto ognuno può impegnarsi a “creare l’inedito”, lavorando “negli interstizi (ad esempio, nelle associazioni senza scopo di lucro) e ai margini , diffondendo la propria opinione”, per riaprire spazi all’astinenza  (“dall’eccesso di cibo a quello di benzina, di immagini e di chiacchiere”) in funzione della gratuità (“contemplazione, lettura, pensiero, conversazione, gioco, passeggio, arte ecc.”) (pp. 152 – 153).
     Alla poliedrica produzione di Bellet appartengono anche quattro romanzi. Il sesto capitolo della monografia di Calabrò è dedicato a raccontarne la trama, non senza l’avvertenza che del quarto (I viali del Lussemburgo) è possibile leggere la traduzione italiana edita da Servitium (Sotto il Monte, 1997).
     Nel 2004 Bellet ha pubblicato il saggio Le paradoxe infini. Pour une science de l’humain : all’esposizione dei passaggi principali di questo testo è dedicato  il settimo, penultimo capitolo.  In principio il pensatore francese fissa due criteri (strettamente intrecciati): fare scienza significa cercare incondizionatamente la verità (fosse pure, per uno scettico, la verità che non si possono attingere verità) e servirsi di qualsiasi ‘mezzo’ per raggiungerla (senza sottomettersi a priori a un determinato metodo che, valido in un contesto, potrebbe risultare invalido in un altro). Applicare questa idea di scienza all’essere umano significa rinunziare a comode oggettivazioni e sperimentare, mediante l’ascolto, “lo sconcertante” (p. 185). Cos’è, dunque, l’umano? Bellet prova a caratterizzarlo mediante le nozioni di “limite” e di “cammino”. Come si esprime Calabrò, “il limite si caratterizza come ciò che de-finisce l’uomo , è ciò che si manifesta all’incontro con l’inumano. Non sappiamo cosa sia l’umano, ma sappiamo dove smette di esserlo” (p. 187) . Poiché questo limite muta nella storia, è soltanto nella storia che possiamo realizzare una sempre meno imperfetta esperienza dell’umano. Ne risente la nozione stessa di verità: vero non è tanto il discorso universale, bensì “ogni pensiero che riconosce il proprio limite ed accetta di farsi ascolto” (p. 189).
    L’ottavo, e ultimo, capitolo è intitolato Sullo stile ma, in realtà, le considerazioni sullo stile comunicativo di Bellet occupano solo la prima metà del capitolo; la seconda, infatti, è dedicata a discutere alcuni critici (J.-M. Maldamé, C.   –R. Monteil, S. Santasilia e R. Panikkar) del pensatore francese. Come nella intervista (Rifiutare la distruzione) che segue immediatamente, è possibile qui cogliere il nucleo generatore e l’anima ispiratrice della vasta e variegata produzione di Bellet: “C’è una seconda volta!” per tutti, anche per chi ritiene di essere condannato alla disperazione, ai “bassifondi” della società e dell’esistenza (pp. 223 – 224).
    Il prezioso volume è sigillato da una Conclusione dell’autore, da un’ampia Bibliografia (dove si dà notizia anche del sito ufficiale di Maurice Bellet in lingua italiana: www.mauricebellet.it) e da un Glossario dei termini e indice dei nomi.
   Sarebbe troppo lungo, per lo spazio di una recensione, riprendere e discutere i temi su cui Bellet esprime, insieme a considerazioni acute e condivisibili,  opinioni meno convincenti. Una per tutte (ma davvero radicale) riguarda il funzionamento del “pensiero teologico o filosofico” la cui “verità deriverebbe dagli effetti positivi che produce sulla persona che lo riceve” (p. 214). Bellet vi riconosce “il vero criterio di verità”: ma non è piuttosto la tentazione da cui provare a preservarsi? La ricerca intellettuale (proprio quando non è del mero intelletto ma coinvolge il soggetto nella sua globalità) deve lasciarsi sorprendere da ciò che incontra, evitando di privilegiare ciò che incoraggia e motiva e di chiudere gli occhi su ciò che atterrisce e paralizza. La filosofia, avvertiva già Hegel, non può essere consolatrice a tutti i costi. Nella mia (per quanto poco significativa) esperienza personale ho dovuto tante volte abbandonare punti di vista confortanti e tonificanti esistenzialmente solo perché, a un esame oggettivo, risultati infondati. Alla lunga, certo, ho sperimentato anch’io “effetti positivi”, ma negli snodi cruciali è stato davvero duro abbracciare amare verità al posto di dolci, illusorie menzogne.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
     

     
     

martedì 30 dicembre 2014

VIVERE O VEGETARE ?


“Monitor”

28.11.2014



VIVERE O VEGETARE ?



     Pochi di voi, forse, sono iscritti agli aggiornamenti del blog di Bruno Vergani (www.brunovergani.it). E’ un amico a me molto caro per molte ragioni, tra le quali primeggia una: è il più filosofo dei miei amici “non-filosofi” (intendo, ovviamente, “non-filosofi” per professione). Vive tra i trulli pugliesi in una sorta di eremo (con la mite moglie Laura e una corte innumerevole di felini) guadagnandosi da vivere  con l’arte delle erbe ereditata da una madre streghesca: è, insomma, un erborista in senso originario, autentico, non un commerciante che rivende al minuto prodotti industriali acquistati all’ingrosso. Ho detto che si guadagna da vivere col suo mestiere (o, meglio, con la sua arte): e, per lui, “vivere” è molto più che vegetare. E’ mangiare e dormire,  vestirsi e fare l’amore, viaggiare e accogliere ospiti (a cominciare dai due figli che lavorano lontano): ma è anche leggere e scrivere, pensare e inventare.

   Uno dei suoi post più recenti è intitolato “L’antieroe”: “Eccolo al risveglio con miriadi di possibilità e qualche obbligazione, ma è un giorno lavorativo: si alza, rinuncia alle possibilità e ottempera le obbligazioni. In questo optare talvolta il piacere personale coincide col principio di realtà, sovente diverge, allora implementa un compromesso un po’ nevrotico: adempie l’obbligo sviluppando col pensiero nuove possibilità, talora correlate alla concretezza del presente, di tanto in tanto libere e universali, eppure in quel espandersi non trascura ciò che sta facendo. Qualcuno riesce a fare di meglio?”.

   Come tema di riflessione per i lettori di questa rubrica non c’è male: come conciliare i nostri sogni con i nostri doveri quotidiani?

     Ognuno di noi ha motivi sufficienti per accogliere questa provocazione, per riflettervi con calma e, eventualmente, per dare alla  direzione della propria piccola storia una sterzata. Se la filosofia non diventa scelta pratica, decisione effettiva, gesto concreto…non è vera filosofia. Resta solo una caricatura intellettualistica per fare sorridere lo spettatore.

      In particolare le righe di Bruno Vergani ci interpellano sulla nostra attività lavorativa. Vero è che già trovare un lavoro, o inventarselo e avviarlo, è stato per molti di noi un successo: ma che prezzo psicologico, emotivo, siamo disposti a pagare per non restare inoccupati? Che per un tratto della nostra esistenza si sia disposti a qualsiasi mestiere pur di acquistare autonomia dalla famiglia d’origine, è comprensibilissimo. Meno comprensibile è che un lavoro occasionale per il quale non ci sentiamo tagliati diventi il nostro destino definitivo.

      In questa ipotesi, infatti, ne va della nostra felicità: o, se la parola risulta eccessiva, della nostra serenità interiore. Le condizioni del nostro lavoro infatti sono le condizioni di metà della nostra giornata: se le avvertiamo come pesanti, soffocanti, difficilmente potremo compensarle con le esperienze e le attività della seconda metà della giornata. Certo, non tutti abbiamo la fortuna che Merleau-Ponty attribuiva alla sua professione di filosofo (“Fare della propria passione il proprio mestiere”); ma tutti possiamo impegnarci ad avvicinarci, a piccoli passi, verso l’identificazione di ciò che amiamo con ciò che ci può sfamare.



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

domenica 28 dicembre 2014

LA MORTE DI NINO ALONGI CIFRA DEL FALLIMENTO DEL RINNOVAMENTO DI PALERMO


 “Repubblica – Palermo”
28.12.2014
LA “PRIMAVERA” DI PALERMO E ORLANDO: QUEL CHE ALONGI CAPI’ IN ANTICIPO

La morte di Nino Alongi, avvenuta esattamente un mese fa, non è soltanto un doloroso addio per quanti l’abbiamo avuto maestro di serietà umana (al punto da saper sorridere ironicamente degli altri e di sé stesso), impegno professionale (come docente di filosofia e storia nei licei), rigore politico (come fondatore del movimento “Una città per l’uomo”) e eleganza di scrittura (come direttore della rivista “CxU” prima, come opinionista dell’edizione palermitana di  “Repubblica” poi); ma anche la cifra simbolica della fine di una fase importante della storia palermitana. La fase, intendo, che viene abitualmente denominata – non senza trionfalismo eccessivo – “primavera di Palermo”.
     Infatti già nel pieno svolgimento degi eventi Nino Alongi  - e non da solo – mise in evidenza non solo gli inevitabili limiti umani di quell’esperienza politica (se è vero il detto siciliano che chi mangia fa molliche), ma anche i  difetti genetici, costitutivi, che ne minavano intrinsecamente il futuro.  Di molti di quei difetti identificavamo una radice comune nell’individualismo superoministico di Leoluca Orlando. Egli infatti, sapendo di  possedere numerose e preziose doti (di intelligenza, di intuito, di istruzione, di esperienze europee, di fantasia immaginativa, di loquela, di libertà dall’ossessione del denaro a ogni costo  and so on), si trovava lucidamente davanti due strade: mettere a servizio di un progetto condiviso quelle doti davvero notevoli oppure accentrare su di sé le energie che fervevano in città. E, consapevolmente, scelse la seconda opzione.
          Per realizzarla furono necessari alcuni passaggi cruciali. Innanzitutto si dovette auto-convincere di essere un fiore nel deserto, dimenticando  - o continuando a ignorare – che, negli stessi anni in cui egli poteva studiare diritto in Germania e frequentare rampolli altolocati di varie nazionalità, altri più o meno coetanei lavoravano silenziosamente nei quartieri, nelle scuole, nella sanità, nella magistratura, in qualche raro settore pulito della stampa e della comunicazione, persino in qualche enclave onesta all’interno dei sindacati assetati di favori e clientele. Secondo passaggio: separare nettamente i “suoi” dagli “altri” (nella convinzione che gli “altri” non potevano restare osservatori critici ma dovevano o diventare discepoli o essere considerati nemici). Come disse nel corso di un’assemblea al liceo Umberto, “quando si è in guerra, non si discutono le decisioni del generale: o si obbedisce o si è disertori”. Con questo criterio gli fu sempre più difficile mantenere relazioni cooperative con le persone serie (da Sciascia a Falcone) e sempre più facile circondarsi di ominicchi e quaraquaqua (molti dei quali si affrettarono, flaianamente, a correre in aiuto del vincitore quando la “Rete” fu surclassata da “Forza Italia”). In questa logica, Orlando non accettò patti organici con nessuna sigla, neppure con quella “Una città per l’uomo” che aveva rotto con l’egemonia democristiana molti anni prima di lui stesso.
    Terzo passaggio: alimentare, attraverso iniziative propagandistiche sempre meno credibili, il mito del “sindaco antimafia” che trasforma Palermo nella capitale mondiale della legalità. In continuità con i viceré spagnoli, insomma, la politica divenne sempre più spettacolo; l’immagine più rilevante dei fatti; l’eccezionalità della festa – o del festino – più significativa dell’ordinarietà dei giorni feriali.
            La strategia orlandiana  non poteva non portare al dissolvimento della “Rete” e alla rivincita nel governo di Palermo del centro-destra peggiore d’Italia. Un governo così clientelare e inefficace da rendere, agli occhi degli elettori,  il ritorno di Orlando come il minore dei mali possibili. E’ ciò che si può verificare in questi mesi? Difficile rispondere. Certo è che intere zone della città sono preda o della sporcizia (vedi le vie che costeggiano in entrata l’autostrada da Messina) o dell’illegalità (vedi automobili posteggiate in zone rimozione, persino in fila doppia, e bancarelle enormi di venditori ambulanti nelle corsie preferenziali dei bus, in strade di accesso alla città come via Oreto o di uscita come corso Tukory).
           Ma se Orlando non sembra all’altezza delle sue promesse elettorali di due anni fa, su un punto almeno ha ragione da vendere: è riuscito a esportare in Italia il suo modello. Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini (al di là delle differenze innegabili) incarnano – tentano di incarnare – la figura dell’uomo solo al comando. Al di là dei meriti, o dei demeriti, del duce di turno, gli italiani sappiamo che è un metodo destinato alla catastrofe. Ma, anche se non lo confessiamo volentieri, è un metodo che sopportiamo senza troppe resistenze perché ci esonera dalla responsabilità di investire energie, tempo e attenzione nella costruzione di “una città per l’uomo”.

Augusto Cavadi

sabato 27 dicembre 2014

LA GIORNATA MONDIALE DELLA FILOSOFIA SECONDO L'UNESCO


“Monitor” (Settimanale trapanese)
21.11.2014

LA GIORNATA MONDIALE DELLA FILOSOFIA SECONDO L’UNESCO

    Giovedì 20 novembre   - come il terzo giovedì di novembre di ogni anno – si è celebrata la Giornata mondiale della filosofia proclamata dall’Unesco. Nell’immaginario collettivo sarebbe la festa di quel piccolo nucleo di  sfaccendati che, non avendo nulla di meglio da fare nella vita (o, avendolo, non sapendolo fare) , si pongono domande sballate a cui è impossibile dare risposte sensate. Come ho sentito una volta da qualche parte, i filosofi costruiscono castelli per aria; i pazzi corrono ad abitarli e gli psicoterapeuti riscuotono l’affitto.
     Chi non condivida questa visione comico-catastrofica della filosofia suppone che a festeggiarla siano i professori di filosofia che ancora non sono stati buttati fuori dagli istituti secondari superiori e dalle università: professori la cui unica funzione sembrerebbe di formare nuovi…professori di filosofia che, a loro volta, si formeranno i propri successori in un circolo autoreferenziale del tutto estraneo rispetto alla società e del tutto ignorato, a sua volta, dalla società.
     Tuttavia, per avere un quadro più completo, bisogna sapere che da circa trent’anni si va diffondendo una diversa interpretazione della filosofia e conseguentemente del ruolo del filosofo: la filosofia come riflessione critica sull’esperienza quotidiana e il filosofo come professionista a servizio di quei non-filosofi di professione che desiderano confrontarsi liberamente e razionalmente con un interlocutore sulle proprie problematiche esistenziali o etiche o comunque di pertinenza filosofica.
    Intesa così, la filosofia non è privilegio di pochi eletti (o di pochi deietti), ma il diritto-dovere di ogni cittadino responsabile: dunque, almeno potenzialmente e in linea di principio, di tutti gli uomini e le donne del pianeta.
   Trapani è una città non del tutto estranea rispetto a queste nuove pratiche filosofiche. Innanzitutto perché è l’unica città siciliana a contare due filosofi-consulenti ufficialmente riconosciuti dall’associazione nazionale “Phronesis”: anzi, per la precisione, due filosofe (Norma Romano e Anna Giliberti) che hanno attivato diverse iniziative (tra cui soprattutto i “dialoghi filosofici”) nell’ambito della filosofia-in-pratica. Una di loro, Norma Romano, è riuscita addirittura a far arrivare a Trapani  per una conferenza pubblica (in occasione della Giornata mondiale della filosofia di alcuni anni fa) Gerd Achenbach, il celebre iniziatore della Philosophische Praxis (che in italiano si è tradotto, abbastanza approssimativamente, come Consulenza filosofica). E sempre a Trapani, come è ormai noto ai venticinque lettori di questa rubrica, mi è stato affidato il compito di gestire degli “aperitivi filosofici” mensili in un noto locale del centro storico. In provincia si sono già realizzati, su iniziativa dell’associazione culturale “La Calendula” (diretta da Ambrogio Caltagirone), degli eventi di “filosofia per tutti”, quali nel maggio di quest’anno la riuscitissima “Aegusa Philosophiana. Una filosofia d’a-mare”. Altri eventi sono già in programma per i prossimi mesi.
       Insomma, chi vuole delle occasioni per pensare con la propria testa  - e non in solitudine solipsistica, ma in contesti colloquiali e conviviali – anche a Trapani non ha che da scegliere: potrà scoprire che, nelle fasi buie della vita personale e collettiva, la filosofia può diventare una risorsa di resistenza interiore e politica.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

giovedì 25 dicembre 2014

IL TEMPO SECONDO PIPPO DI VITA


PREFAZIONE AL LIBRO:
 PIPPO DI VITA, Il tempo. Riflessioni filosofiche, Mohicani, Palermo 2014

    Quando Pippo Di Vita mi ha chiesto due parole introduttive alla sua silloge di componimenti in versi sono rimasto spiazzato: che ha da dire un filosofo su un testo d’ispirazione poetica? Alla fine mi sono arreso per due motivi. Il primo, l’affetto per l’autore: una persona che dice solo cose che crede e che si sforza di vivere con coerenza ciò che dice. Il secondo, la tematica che fa da filo rosso dell’intera raccolta: il tempo, oggetto non esclusivo della filosofia ma certamente ad essa pertinente. Almeno dai tempi in cui il vescovo-filosofo Agostino di Tagaste scriveva, nelle sue Confessioni, di sapere cosa  fosse il tempo se nessuno glielo chiedeva e di non saperlo più se qualcuno lo interrogava in proposito.
    Per troppi secoli la mentalità Classica (greca, romana, cristiano-medievale) ha ignorato la dimensione temporale o l’ha considerata una copia scadente della ‘vera’ realtà (eterna, immobile). La Modernità ci ha regalato invece una forte consapevolezza storica: l’uomo e la natura che lo circonda sono in perenne divenire e questo continuo mutamento incide molto più profondamente di quanto non si ritenga abitualmente.
     La riflessione sul passaggio ininterrotto da un prima a un poi è arrivata, con la filosofia contemporanea, a uno stadio difficilmente superabile: con Hegel nell’Ottocento e con Heidegger nel Novecento, è l’Essere stesso ad essere concepito come Storia, come Tempo. E’ questa un’intuizione particolarmente profonda o il tipico esempio di un’intuizione filosofica perspicace che viene esasperata da chi l’ha sperimentata? Non è un bivio di poco. Condividere lo storicismo assoluto (per cui tutto ciò che è, è storico; e nulla può essere concepito come esistente al di fuori della storia) significa rinunziare a qualsiasi principio o valore o criterio che non sia nato storicamente e che non sia destinato a inabissarsi nel fiume della storia.  La prospettiva è di accettare non solo la relatività, ma anche il relativismo; in alcuni casi, e in alcuni sensi, persino il nichilismo.
      Intediamoci: queste considerazioni non vogliono dimostrare qualche tesi. Affermare che , se l’Essere è tempo,  non abbiamo alcuna eternità cui aspirare, non può significare: “Allora, illudiamoci che non sia così e optiamo per un’alternativa più confortante per le nostre angosce” . No: la filosofia non deve essere un sedativo delle paure umane. Deve provare ad aprire gli occhi sulla verità: quale che sia. (Tanto accettare la più amara delle verità è più dignitoso la più suggestiva delle menzogne).
      In queste composizioni liriche  - se non prendo un abbaglio – Pippo Di Vita cammina su un crinale affascinante e rischioso (affascinante perché rischioso): fra una visione del tempo come una delle dimensioni che può assumere l’Essere e un’altra visione del tempo come l’essenza più intima dell’Essere in quanto tale. Fra una prospettiva in cui ci sono enti temporali ma anche enti a-temporali (verità logiche,  matematiche, ontologiche, etiche…) ; “Perché siamo il nostro tempo/Il dopo è infinito senza corso” (da Il Tempo);  e una prospettiva in cui esistono solo enti temporali (che producono, nella storia, ‘prodotti’ illusoriamente metastorici): “Cambiare fa paura a chi è povero d’intenti/a chi resta fisso nel suo cantuccio per paura del travaglio/ eppure non si è mai uguali al giorno prima/ perché la vita è un vortice che muta in ogni istante” (da Cambiamento) .
     E poiché il suo registro linguistico, per quanto pregno di valenze teoretiche, è letterario-poetico, non ha nessun dovere di sciogliere la felice ambiguità: gli basta accompagnarci sulla linea di confine fra il tempo categoriale e il tempo trascendentale. Anche se la sua propensione, per ragioni sentimentali più che razionali,  emerge chiaramente in più luoghi: “La vita è un po’ come dormire/sogno e realtà/ si inseguono alacremente/ed al risveglio/il tempo non è più tempo/ma un tuffo placido nell’infinito” (Sonno).

Augusto Cavadi
Filosofo consulente
www.augustocavadi.com
 

mercoledì 24 dicembre 2014

AD AGRIGENTO, QUANDO IL PAPA NON SI CHIAMAVA FRANCESCO


“Siciliajournal” 23.12.2014

  

LE VICENDE DI UN PRETE AGRIGENTINO QUANDO IL PAPA NON SI CHIAMAVA FRANCESCO



Chi, come me, ha conosciuto di recente Damiano Zambito, leggendo il suo volumetto Quando non c’era Papa Francesco. Storia di un’esperienza religiosa in terra di Sicilia (Grauss, Napoli – Roma 2014, pp. 85, euro 10,00)  scopre con un po’ di sorpresa che il distinto professore in congedo per raggiunti limiti d’età è stato, mezzo secolo prima, uno scatenato pretino che – chitarra in mano – girava la diocesi di Agrigento per animare gruppi giovanili cattolici e contagiare lo spirito innovatore del Concilio Vaticano II (1962 – 1965).

   Come alcuni di noi si è illuso di poter contribuire, con la propria conversione, alla conversione del pachiderma istituzionale che si è autodenominato Chiesa “cattolica”: e perché di illusione si sia trattato il lettore lo scopre proprio attraverso questa breve narrazione autobiografica.

    Nel 1959 egli si iscrive alla Facoltà teologica di Napoli, nella sezione San Luigi di Posillipo, gestita dai Padri Gesuiti. Per il seminarista proveniente dal profondo Sud è quasi un choc (benefico): “A fronte di un regolamento paramilitare vigente nel Seminario di Agrigento, con prefetti, squadre che si muovevano da uno spazio all’altro in fila e in silenzio, punizioni più o meno blande a seconda del senso di equilibrio del caposquadra di turno, passeggiate in periferia che iniziavano e terminavano in fila per due e in silenzio, a Posillipo la struttura e l’organizzazione della vita comunitaria concedevano ampi spazi di libertà e di responsabilità personale che creavano le condizioni per una crescita umana assolutamente impensabile ad Agrigento. Per esempio, ogni settimana eravamo sollecitati ad uscire in città, per fare visite o acquisti o per organizzare attività sportive ed ogni mese potevamo recarci per una giornata intera in una località a nostra scelta: Sorrento, Capri, Pompei, Montevergine ecc.” (p. 44). Anche “il livello culturale dell’insegnamento della teologia era notevolmente più elevato rispetto ad Agrigento” e “il metodo di insegnamento era completamente diverso: veniva dato molto spazio alle interpretazioni più recenti e demitizzanti della Bibbia e ad una lettura di taglio esistenziale della teologia  (pp. 44 - 45). Sono anni in cui  il futuro don Damiano conosce le esperienze di don Milani, frequenta il carcere minorile di Nisida, va settimanalmente a Roma per pranzare e conversare con i vescovi brasiliani partecipanti alle sessioni del Concilio ecumenico (sono i prelati che, invece di arrivare uno ad uno su automobili private guidate dai propri autisti, affittano un pullman per muoversi insieme, a costi minori, dalle modeste residenze di suore dove sono albergati). E in quegli anni il giovane Zambito matura un proposito che avrebbe contrassegnato le sue vicende successive: “Non farò mai alcuna affermazione teologica che non abbia un chiaro riferimento alla concreta vita dell’uomo” (p. 45).

    Quando egli viene ordinato presbitero, la diocesi di Agrigento è sostanzialmente la stessa dei tempi del vescovo Giovan Battista Peruzzo, vittima a Santo Stefano Quisquina nel  1945 di un attentato di mafia, non per eroismo civico ma a causa di un anticomunismo viscerale che gli “aveva fatto incontrare sulla sua strada e,  talora, stringendo alleanze con politici spregiudicati e con mafiosi senza scrupoli” (p. 14). Perciò l’attivismo del neo assistente diocesano dell’Azione cattolica giovanile non può non suscitare i primi sospetti nell’entourage del vescovo successivo, monsignor Giuseppe Petralia. Sospetti che diventano sempre più precisi ogni qual volta si delinea uno scontro fra la vecchia mentalità conservatrice e i nuovi stili liturgici: come digerire un prete che, per consolare i ragazzi delle parrocchie più chiuse alle novità, gli raccomanda: “Lasciate che il parroco si faccia i canti suoi, voi fatevi i canti vostri” (p. 32)?

     Il nodo più delicato è comunque il rapporto fra l’unità ecclesiale (indiscutibile in questioni di fede) e l’unità politica (che, secondo il vescovo dell’epoca, doveva realizzarsi all’interno della Democrazia cristiana). Zambito riporta lettere allucinanti come la circolare che un parroco di Castrofilippo indirizza a un giro di fedeli di cui si fida, in occasione di una elezione amministrativa degli anni Settanta: “ Caro Salvatore I. e sposa, a nome di S. Antonio e mio personale ti chiedo il favore di votare la lista ‘Statua della libertà’ in riconoscenza dei 15 milioni fatti assegnare alla nostra Chiesa che dagli altri è stata sempre abbandonata. Non negrami questo grande favore in questo momento e sii fedele a S. Antonio e a me. Mostra con il tuo voto quanto ami la nostra chiesa e manitieni il segreto di questa mia preghiera. Non me lo negare e mantieni il segreto di questa mia preghiera. Grazie, saluti e benedizioni. Il Parroco” (p. 72).

    Ribellarsi a questo andazzo non è una mera questione di strategia ‘pastorale’. E’ piuttosto il campo di applicazione di una nuova visione etica secondo la quale (proprio come per Gesù e le chiese dei primi secoli) il “peccato” principale non è saltare una messa domenicale o toccarsi i genitali a letto, quanto sfruttare il lavoro di un proprio fratello o tessere relazioni corruttive dentro le istituzioni. La prospettiva etica, a sua volta, dipende da una interpretazione più fedele dell’insegnamento originario: “la Buona Novella annunziata ai poveri, agli ultimi, ai perseguitati, i quali sono beati perché saranno i primi , non nell’altra vita, ma a cominciare da questa. A questo obiettivo deve tendere l’impegno politico-sociale dei credenti, i quali devono lottare perché  tra loro non ci siano più poveri ’ come nella primitiva comunità cristiana” (p. 42). 



Augusto Cavadi

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martedì 23 dicembre 2014

BILANCIO DEL CONVEGNO INTERCULTURALE SULLE SPIRITUALITA' NEL MEDITERRANEO


“Adista Tempi nuovi”  
22.11.2014

UN LINGUAGGIO COMUNE PER UN ETHOS CONDIVISO

       Un bilancio del convegno interconfessionale La dimensione spirituale della vita nel Mediterraneo. Il sé e l’altro: identità e accoglienza (svoltosi a Palermo dal 29 al 31 ottobre ) non è facile. Il dato più misurabile è ovviamente quantitativo: nelle cinque sessioni si sono avvicendate in media 60-70 presenze (considerando picchi più alti e livelli più bassi). Questo dato è rivelativo di un obiettivo qualitativo perseguito e sostanzialmente raggiunto (se si prescinde da una o due relazioni un po’ più tecniche ed esposte  - con il supporto del cartaceo sott’occhi - in maniera meno diretta): coinvolgere un pubblico ampio, ben al di là degli specialisti della storia del pensiero e delle tradizioni. A riprova di una delle ipotesi di lavoro originarie: conoscere le linee essenziali delle concezioni sapienziali altrui è non solo diritto, e dovere, di ogni cittadino, ma anche desiderio diffuso. Si avverte, insomma, l’esigenza di capire meglio da quale universo simbolico proviene la domestica induista, il collega di ufficio buddhista, l’idraulico musulmano…
       Meno facile da misurare il raggiungimento di un secondo obiettivo del comitato promotore di carattere non solo conoscitivo (che non sarebbe già poco), ma anche operativo: mettere in grado professionisti e politici, commercianti e operatori turistici, di rapportarsi con gli stranieri – avendo imparato un minimo di alfabeto interculturale e interconfessionale - in maniera più adeguata e più fruttuosa.
       Merita, infine, di essere segnalata una peculiarità nell’impostazione e nell’effettivo svolgimento del convegno (che, nelle intenzioni degli organizzatori, dovrebbe costituire il primo di una serie di appuntamenti annuali tesi a fare, o a rifare,  di Palermo un giardino delle sapienze): il coinvolgimento a pieno titolo di prospettive per varie ragioni escluse da incontri del genere.  
        Innanzitutto si è cercato di dare voce (anche grazie a un gruppo musicale di ricerca etnologica) alla religiosità popolare, illetterata, “bassa”, i cui miti ancestrali costituiscono l’humus senza il quale non si interpretano in maniera adeguata le credenze e i simboli delle confessioni di fede “alte”. Inoltre si è dato lo spazio adeguato al cosiddetto “politeismo pagano” che, come è stato efficacemente dimostrato dal relatore incaricato del tema, lungi dall’essere un reperto archeologico tramontato per sempre, rivive e fiorisce periodicamente (nella nostra epoca in maniera particolarmente eloquente). Infine  si è valorizzato l’approccio filosofico-razionale, non in opposizione ma a titolo di servizio critico delle religioni tradizionali. E’ noto infatti l’adagio di  Hans Kung: “Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni; - non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni; non cè dialogo fra le religioni senza un’ethos condiviso”. Ebbene, questo ethos comune chi, e come, lo deve indicare e circoscrivere? Schillebeeckx notava che si tratta di un cantiere aperto al quale ognuno deve apportare un mattoncino, senza pretese di superiorità sugli altri. Ma in un cantiere gli operai devono scambiarsi opinioni, esperienze, intuizioni: in che lingua? E’ necessario una registro comunicativo per così dire universale in cui i costruttori dell’etica possano parlarsi e cooperare. E’ questo il ruolo della filosofia oggi se prende consapevolezza di essere più di una mera tecnica argomentativa; di essere anche un modo di vivere; di essere una saggezza spirituale che evidenzia ciò su cui ogni spiritualità confessionale deve poggiare (ascolto della natura, contemplazione della bellezza, rispetto della dignità di ogni essere umano, consapevolezza della propria relatività, gusto del silenzio, sincera curiosità per ciò che spiazza per la sua alterità, senso della giustizia e della solidarietà e così via). 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

lunedì 22 dicembre 2014

L'ESSERE UMANO E' POTENZIALMENTE LIBERO ?


“Monitor”, 7.11.2014


FORSE NON LIBERO, CERTAMENTE LIBERABILE
     L’uomo è libero? La settimana scorsa abbiamo riflettuto su questa domanda analizzando pregi e difetti delle tre, più diffuse, risposte possibili (non lo è perché una Volontà superiore lo determina; non lo è perché fa parte di una Materia in evoluzione deterministica; lo è perché un Essere superiore lo ha voluto tale). 
     Se la questione teorica è difficile, più agevole  - mi pare – il risvolto pratico: liberi o non-liberi dal punto di vista della nostra essenza umana, tutti comunque abbiamo bisogno di liberarci dai vincoli. In attesa di risolvere intellettualmente la questione (ammesso che ci si possa riuscire), possiamo dunque affrontarla operativamente: passare, insomma, dall’interrogativo sulla libertà all’impegno per la liberazione.
      Da che cosa liberarci ? Il buon senso ci indirizza innanzitutto verso le catene materiali. E ha ragione. Non siamo liberi sino a quando non abbiamo da mangiare e da curarci, da vestirci e da spostarci da una città all’altra. Una filosofia realistica sa che siamo corpo (e non che ‘abbiamo’ un corpo): le frustrazioni materiali ci impediscono qualsiasi fioritura.
       Il nostro essere corporeo è anche sessuato: c’è una povertà economica, ma c’è anche una povertà sessuale. Che non è solo, né principalmente, bisogno di “fare sesso” nel senso genitale dell’espressione, ma anche bisogno di affettività, di tenerezza, di complicità emotiva. Una filosofia realistica non può fare a meno di riflettere su questo genere di miseria di cui tanti individui sono prigionieri per handicap fisici o per pregiudizi morali, per spiritualismi deleteri proclamati soprattutto da maestri e predicatori dalla vita personale molto ‘materialistica’.
       Liberarsi dai vincoli economici e affettivi, certo; ma non basta. La filosofia ci indica la necessità di liberarci dai vincoli politici: chi di noi supponesse di essere libero in una dittatura solo perché benestante, sarebbe un illuso. Il benessere economico è condizione necessaria, ma non ancora sufficiente: abbiamo l’esigenza di pensare liberamente e di esprimere altrettanto liberamente le nostre opinioni.
        Le democrazie contemporanee ci attestano che neppure la libertà politica, però, è tutto. Si può essere politicamente liberi di pensare e di esprimersi, ma privi di idee e di parole. L’ignoranza, la superficialità, l’irriflessività sono catene interiori da cui nessuno può liberarci, tranne noi stessi. Proprio come le nostre catene morali: se siamo egoisti, avari, insensibili alle sofferenze degli altri viventi (uomini o animali che siano), nessuno Stato (e nessuna Chiesa) ci potranno trasformare in soggetti altruisti, generosi,  sensibili. In questi giorni la brava attrice Anna Marchesini ha dichiarato, in una trasmissione televisiva, di non aver capito ancora che senso abbia vivere. La filosofia può fornire, tra altre, questa risposta: nasciamo per liberarci dalle catene esteriori e interiori, per diventare in pienezza ciò che siamo solo in potenza. Il senso della vita sta nel lavorare ogni giorno per rendere sempre più libera la nostra esistenza e l’esistenzza di chi sta al mondo (vicino o lontano rispetto all’angoluccio che abitiamo).
Augusto Cavadi
acavadi@alice.it

domenica 21 dicembre 2014

UNA GUIDA INSOLITA DELLA CITTA' DI PALERMO SECONDO MARCELLO BENFANTE


“Repubblica – Palermo”
17.12.14

ARANCINE E BAROCCO: GUIDA ALL’INDECIFRABILE
 
Un’ennesima guida di Palermo, si dirà. Nient’affatto, “Palermo” (Di Girolamo editore, pagine 172, euro 9,90)  di Augusto Cavadi è davvero un’idea diversa di perlustrazione culturale della città.
Lo stesso sottotitolo, “Guida insolita alla scoperta di una città indecifrabile”, da un lato rivendica l’originalità della proposta, non assimilabile ad altre di taglio settoriale, e dall’altro dichiara in anticipo l’inanità della propria impresa.
Il lettore sappia subito che sarà condotto nel groviglio inestricabile di una città gelosa dei propri misteri, che non si lascia scrutare e interpretare con facili paradigmi.
Ma il fruitore è anche avvertito da una nota introduttiva che la guida che si appresta a leggere si confessa incompleta. La città indecifrabile è un percorso infinito e labirintico che ad ogni svolta propone nuovi bivi.
Cavadi indica quindi una metodologia collettiva che coinvolge i lettori in uno scambio di “indicazioni” e “suggerimenti” integrativi. Il che, altra innovazione, fa di questo libro un work in progress interattivo.
Al contrario di tanti baedeker ad uso turistico, la guida eteroclita di Cavadi non esclude dal proprio oggetto il contesto quotidiano e pragmatico, la cosiddetta cultura materiale, a partire dall’argomento imprescindibile del cibo: “chi conosce Palermo sa che è il luogo dell’incontro – e del contrasto – fra poesia e prosa, fra picchi di bellezza e ferite orride”.
Questa condizione contraddittoria e bipolare (tra l’arancina e lo stupor mundi, la stigghiola e Gagini) è analizzata in una sorta di mosaico in cui ciascuna tessera-luogo viene narrata sulla base del suo patrimonio bibliografico, ma anche con una serie di notazioni e informazioni attualissime e utilissime al visitatore: dalle gelaterie alle trattorie, dai mezzi pubblici o privati ai bed and breakfast, dagli itinerari per il viaggiatore che dispone di poco tempo a quelli per chi può permettersi escursioni più ampie, e così via con un’ottica pedagogica e di servizio.
Il puzzle che sortisce da questo accurato esame, se non esaustivo, è senz’altro esauriente. Cavadi aggrega brani di ben 47 scrittori (in senso lato), da Robero Alajmo a Pietro Zullino (autore di una celebre “Guida ai misteri e piaceri di Palermo”).
Tale nutrita schiera presenta i più illustri viaggiatori del Grand Tour (a cominciare ovviamente da Goethe), i geografi arabi, i grandi scrittori siciliani (con in testa Consolo) e non, le leve più recenti, i cultori della nostra memoria. Perfino qualche comico. E se è vero che qualcuno manca all’appello, certamente sarà introdotto in una prossima edizione.
                            Marcello Benfante

venerdì 19 dicembre 2014

DON PINO PUGLISI E IL FIGLIO DI UNO DEI SUOI ASSASSINI


“Monitor” 12.12. 2014

DON PUGLISI E IL FIGLIO DI UNO DEI SUOI ASSASSINI
  Ora che l’eco di una notizia di cronaca si va spegnendo (mi riferisco alla decisione della Curia di Palermo di negare al figlio di uno dei due boss Graviano la cresima in quella stessa cattedrale dove è sepolto don Giuseppe Puglisi, la vittima più illustre del suo papà), è possibile una riflessione più serena, ma anche più ampia e più radicale?
   Già nei giorni immediatamente successivi alla notizia ho anch’io rilasciato delle dichiarazioni sul tema ad alcuni colleghi giornalisti che mi hanno interpellato (fra i quali il giovane ma promettente marsalese Giacomo Di Girolamo per “Il fatto quotidiano”: http://www.tp24.it/2014/11/25/antimafia/augusto-cavadi-i-mafiosi-non-cambiano-sono-sempre-inseriti-nella-societa-siciliana/87583 ) : ora, però, è  tempo di riprendere e organizzare meglio quelle prime considerazioni a caldo.
    A me la decisione di negare al giovane Graviano (che non ha mai conosciuto il padre perché concepito in provetta mentre era già in carcere sotto regime strettissimo, il 41 bis) la cresima in cattedrale, con centinaia di coetanei alunni come lui del Centro educativo ignaziano (l’ex Gonzaga, per intenderci), non mi ha convinto e continua a non convincermi.
    Gli scenari che riesco a immaginare sono, essenzialmente, due.
    Il primo scenario (che francamente ritengo meno probabile) è che, nel corso della preparazione al sacramento della confermazione del battesimo, i Gesuiti abbiano spiegato ben bene l’incompatibilità fra il vangelo e la lupara; fra il messaggio rivoluzionario della sobrietà e della condivisione, da una parte, e la filosofia del dominio e della ricchezza a qualsiasi costo, dall’altra.  Ammesso e non concesso che questo primo scenario sia stato veritiero, al ragazzino non si sarebbe dovuta negare la cresima in cattedrale. Infatti perché negargliela se ha accettato l’invito alla conversione evangelica?  Perché non chiedergli anzi un gesto di particolare omaggio alla tomba di don Pino Puglisi? Se, al contrario, egli ha mostrato di restare  abbarbicato alla tradizione mafiosa di famiglia, la cresima doveva essergli rifiutata non solo in cattedrale, ma anche nella più sperduta e microscopica  chiesetta della diocesi.  Doveva essergli rifiutata e basta. Senza compromessi…gesuitici.
     Purtroppo temo che lo scenario più probabile sia stato un altro. Al giovane Graviano è stata impartita la “solita” preparazione alla cresima, con quattro formulette catechistiche e qualche generico invito al buonismo. Quando, trent’anni fa, insegnavo al Gonzaga avevamo tra gli alunni del liceo il figlio del sindaco  Ciancimino, la figlia dell’eurodeputato andreottiano Lima, la figlia del ministro democristiano Gioia…e non mi pare che i miei colleghi di allora insistessero molto sulla critica etica allo stile di vita dei genitori. Qualche anno fa sono ritornato come commissario esterno agli esami di maturità e ho trovato la stessa aria di ipocrisia da parte dei dirigenti e di quasi tutti i docenti, compattamente schierati nel difendere a oltranza non solo gli alunni meritevoli (ce n’erano di davvero brillanti, e come !), ma anche altri che non si orientavano minimamente ma vantavano cognomi altolocati e amicizie influenti. Se questo scenario è più realistico, il cardinale arcivescovo Romeo ha sbagliato lo stesso a vietare la cattedrale all’erede di un boss di Brancaccio: avrebbe dovuto chiedere, indagare, verificare che tipo di educazione in generale, e che tipo di evangelizzazione in particolare, vengono impartiti in una delle scuole cattoliche più prestigiose di Palermo. Perché ognuno raccoglie ciò che semina e non può pretendere raccolti abbondanti là dove ci fosse stata una semina distratta, superficiale.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
  

giovedì 18 dicembre 2014

FRANCESCO DI PALO SULLA "RIVOLUZIONE A PARTIRE DA SE' "


“Comunicazione filosofica”, n° 33, novembre 2014 
Recensione

Augusto Cavadi, La rivoluzione, ma a partire da sé. Un sogno ancora praticabile, IPOC, Milano 2014, pp.108.

L’attività bibliografica di Augusto Cavadi (Palermo, 1950), docente di storia e filosofia presso il Liceo classico “G. Garibaldi” di Palermo e consulente filosofico di “Phronesis”, è assai vasta e variegata. Oltre a scrivere di filosofia e teologia, da decenni Cavadi è impegnato in prima persona in uno strenuo Kulturkampf contro mafia e mentalità affini, sia attraverso la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” da lui fondata nel 1992, sia dalle colonne dell’edizione palermitana de La Repubblica. Ma il tratto distintivo del nostro, il suo dinamico “ecce homo”, è la disinvolta semplicità con cui riesce ad incarnare il binomio “filosofia-vita”, nelle molteplici attività di pratica filosofica da lui ispirate e condotte, dalle “Vacanze filosofiche” al “Festival della filosofia di strada”. Il filo rosso di tali pratiche è quello di creare le condizioni umane ed ambientali più adatte affinché la gente possa concretamente fare filosofia, mettendosi in gioco in prima persona, a prescindere dai “tecnicismi” della materia. In tre parole, si tratta dell’arte di “mediare”, “stimolare”, “ascoltare”.

Se l’ascolto è, in certo senso, propedeutico (e successivo) alla scrittura, l’ultima fatica editoriale di Cavadi si prefigge di dar corpo a quell’azione di mediazione culturale e di stimolo che caratterizza il suo impegno filosofico e civile de visu. Lo stile è semplice, diretto, a volte quasi “confidenziale”, senza fronzoli accademici. Il tema che viene preso di petto di grande attualità: il “disimpegno”, l’abulia intellettuale, morale, esistenziale e politica che, per alcuni versi, caratterizza la società contemporanea, sintomo e causa, a sua volta, di un disagio, un “mal di vivere”, che, certo, riguarda tutti, ma investe in prima battuta e in maniera più cruda i nostri giovani. Ecco perché ne consiglio la lettura soprattutto a chi a scuola ci sta, sforzandosi ancora di credere, nonostante tutto, nella sua – personale e dell’istituzione – alta missione formativa e civile. Può servire come spunto di riflessione da condividere con i ragazzi, anche in classe, ma non ne escludo affatto un utilizzo “auto-terapeutico”. Un “tonico” da assumere in quei momenti di “grigiore” esistenziale e professionale in cui le nostre personali capacità di auto-motivazione e di attribuzione di senso, tra i banchi di scuola, vengono messe a dura prova.

Questa sorta di vademecum dell’ “orientamento autobiografico” si articola in dieci passaggi progressivi, corrispondenti ad altrettanti capitoletti.

Uscire dal disimpegno. Che, al giorno d’oggi, non è l’otium di classica memoria, ma piuttosto indizio di una dilagante crisi spirituale. Non ci s’impegna più in nulla, perché tutto appare indifferente, svuotato di significato. Per poter dedicare la propria vita a qualcosa che valga davvero la pena è necessario “credere” in un ideale. Tramontate le ideologie e le grandi narrazioni storico-politiche che pure, dopo la morte di Dio annunciata dal folle uomo della Gaia Scienza nietzschiana, hanno caratterizzato il cosiddetto “Secolo breve”, ci si ritrova sempre più spesso confinati nel proprio piccolo io, all’insegna di un individualismo spinto all’estremo, banalizzante e, dunque, “soffocante”, fonte di infelicità. Eppure, a ben guardare, l’assunzione di questa prospettiva, nella quale più che vivere “ci si lascia vivere”, presuppone l’accoglimento, quasi sempre acritico ed irriflesso, di un’ideologia talmente totalizzante da confondersi quasi con la percezione della realtà stessa, al punto da farci convinti che «la realizzazione autentica di un uomo si possa misurare con il metro della carriera, del successo economico, della scalata al potere politico, delle esperienze sessuali da collezionismo tronfio».

Un primo orientamento: darsi un progetto. Discusse diagnosi e prognosi, rimanendo sempre su un terreno, per così dire, empirico e zetetico, mai dogmatico, il nostro suggerisce che il primo passo per uscire da questo stato endemico di inerzia esistenziale debba consistere nel rivitalizzare la propria capacità progettuale. Si potrebbe cominciare col ritagliarsi uno spazio quotidiano di riflessione, magari nutrito di buone letture e di condivisione dialogica e comunitaria. Poi, strada facendo, occorrerebbe darsi una “gradualità di obiettivi”, distinguendo ciò che è fondamentale e fine a se stesso, da ciò che è solamente accessorio o strumentale. Il che, naturalmente, richiede un auto-esame attento e coscienzioso, di chiara ispirazione socratica. Non è cosa facile. Perché sulle prime bisogna vincere le proprie resistenze personali, facendo emergere la reale trama su cui ciascuno intesse, spesso in maniera incosciente, opere e giorni. E, si sa, conoscersi fa “male”, è medicina ben amara da mandar giù. “Progettare” significa saper cogliere, nell’odierna sinfonia del “politeismo di valori”, l’ “accordo” che meglio esprime la propria natura interiore, per poi adottarlo consapevolmente ed intenzionalmente nel quotidiano. In ultimo, pur senza assolutizzare ciò che “Assoluto” non può essere, occorre che il singolo, come ci ricorda Kierkegaard, si assuma la responsabilità della sua scelta.

Un secondo orientamento: essere fedeli al reale. Il termine “realtà” è certamente problematico, oggetto di ricerca filosofica. Ma con questa espressione s’intende qui la capacità di trascendere i ristretti confini del “soggettivismo” (o egocentrismo) che caratterizza il pensiero dominante del nostro tempo, con le sue derive relativistiche e nichilistiche, mettendosi in ascolto del mondo fenomenico, interiore ed esteriore, e riscoprendo la gioia e lo stupore di provare a “leggere” il mondo come se ogni volta fosse la prima. All’inizio ci vuole molto coraggio, perché gli stereotipi, le etichette che appiccichiamo sulle cose, sono come grucce alle quali c’appoggiamo, zoppicando, di giorno in giorno. Allora provare a ricrearsi un “senso del reale” significa d’emblée gettarle via, assumersi il rischio della vertigine, mettendosi alla prova. Un vero e proprio “cammino iniziatico”, che l’autore esemplifica menzionando, tra gli altri, il Siddharta di Hermann Hesse. Nelle piccole come nelle grandi cose, il mondo fa risuonare la sua voce, ci sfida ad andare oltre gli angusti confini del nostro piccolo io, c’impone la necessità di dar significato a ciò che è. Dal problema del male, della sofferenza, del destino di morte che caratterizza la nostra e l’altrui finitudine, veniamo sollecitati, bruscamente, a prender posizione rispetto ai fatti della vita. Lì, dove c’attende l’Altro.

Un terzo orientamento: non perdere la fiducia nell’essere umano. L’Altro, seguendo il pensiero di Emmanuel Lévinas, è innanzitutto il suo volto, quel “prossimo-persona” che costituisce la pietra angolare della nostra tradizione etica e spirituale. Cavadi, pur svolgendo la sua riflessione all’insegna del “laicamente corretto”, non fa certo mistero, tra le pieghe del testo (e palesemente nell’introduzione), della sua originaria ispirazione cristiano-cattolica, sia pure da anni oltrepassata in una prospettiva di saggezza planetaria “oltre-cristiana” e “multiversale” – lo dico a beneficio del lettore che s’imbattesse per la prima volta in uno scritto del nostro. L’esperienza dell’Altro è, per sua natura, ambigua. Dalle persone con le quali si è intrecciata – e s’intreccia – la nostra esperienza di vita, abbiamo sin qui ricavato tutto e il contrario di tutto: grandi affetti, emozioni, slanci ideali, ma anche chiusure, cocenti delusioni, persino sofferenze inaudite. Se poi allarghiamo lo sguardo dalla nostra storia personale alla storia dell’umanità, il quadro si tinge di tinte immensamente più fosche. Eppure, dobbiamo prender atto che se non coltiviamo una “fiducia” di fondo nelle possibilità etiche e spirituali dell’umanità che è in noi e nel prossimo – “fiducia” o “fede” cristianamente declinata – ebbene, ogni forma di progettualità e d’impegno sfiorisce e vien meno. Ci s’impegna per l’uomo e perché nell’uomo si spera.

Un quarto orientamento: la fiducia nell’amore. Senza amore, senza passione, senza dedizione per qualcosa di “ulteriore”, per un ideale – che, a ben guardare, ha sempre la “faccia”, lo sguardo di qualcuno - non si esce dalle secche dell’insignificanza, dell’inautenticità cui si condanna chi “sceglie di non scegliere”. Ma coltivare l’ideale di una società migliore significa imparare a superare la dimensione meramente storica e materiale dell’uomo, idolatrata e poi tradita, ad esempio, dalle forme di socialismo reale espresse nel corso del XX secolo, che pure, sulla carta, s’ispiravano ad una concezione filosofica, quella marxista, di orientamento umanistico e filantropico. D’altro canto, non sulla convinzione dogmatica di possedere la Verità si fonderà la speranza di una società più giusta, bensì sul riconoscimento che la dimensione della ricerca della Verità – o, transitivamente, di Dio – è autenticamente costitutiva della natura umana e, dunque, insopprimibile. Cavadi esprime questo concetto facendo sua una definizione di Giorgio La Pira: «una città andrà bene per il cristiano quando ogni uomo avrà una casa e anche Dio avrà la sua». Una casa aperta a tutti, credenti e laici – atei compresi, perché l’unico “ateismo” che andrebbe bandito è quello che, in maniera violenta e settaria, confligge con un certo teismo altrettanto intollerante ed oscurantista – per “pregare” ovvero, parafrasando il teologo gesuita, Karl Rahner, “per porsi, con spirito di accettazione, dinanzi al mistero ineffabile di Dio” (o della Vita). Ma quale Dio? Il divino, l’ineffabile, non può che caratterizzarsi come “trascendenza”, “ulteriorità”, “mistero”, “Al di là di tutto”. Tanto più se vogliamo provare ad armonizzare la nostra scelta di vita con la causa di un rinnovamento della dimensione spirituale dell’uomo a livello planetario, in senso ecumenico e trans-culturale. In questa direzione dobbiamo orientare i nostri passi, coltivando fedeltà al reale, fiducia nell’essere umano e nell’amore. E lungo la strada, cammin facendo, può capitarci di avvertire la presenza di un altro viandante, Gesù di Nazareth, uno che non ha “verità prêt-à-porter” da suggerirci, né leggi da dettarci, né liturgie da imporci, bensì con la sua presenza ci fa concretamente dono della possibilità di un modo di vivere riassumibile nella formula: « “Abbi fiducia nel Padre e renditi solidale con i fratelli”. Non è la risposta a tutti i problemi della vita, ma è la chiave per affrontarli nella prospettiva vera». Si può prendere o lasciare. Ma da soli, alla fine, non si va da nessuna parte.

La dimensione personale dell’impegno. Stabiliti i criteri valoriali fondamentali, l’autore prova a tradurli in suggerimenti pratici. Anche in questo caso, socraticamente, egli si astiene dal trasformarli in “dogmi”. Si tratta di indicazioni che ognuno proverà a sperimentare a modo suo, a seconda delle inclinazioni personali e delle condizioni socio-ambientali in cui si trova. Ecco, in sintesi, come si declina questa sorta di “tetrafarmaco” per la cura di sé: 1) vigilanza intellettuale, quella che gli stoici antichi chiamavano prosoché, ovvero sforzarsi di maturare – soprattutto a scuola utinam! – una disposizione pratica verso la riflessione, la rielaborazione critica delle informazioni e delle idee, la creazione di uno “spazio interiore” in cui possa scoccare, meraviglia, la scintilla della libertà; 2) fruizione della bellezza: educarsi alla bellezza, alla placida-sconvolgente pratica dell’inutile, del fine a se stesso, riscoprire l’arte della contemplazione (“teoresi”) attraverso il quotidiano esercizio del leggere buoni libri, della degustazione di una mostra o di un museo, dell’ascolto di un brano di musica classica, a parziale compensazione dell’influsso operato dal pensiero dominante, superficialmente utilitarista, economicista e tecnocratico; 3) sobrietà e rispetto ecologico: prendere coscienza della naturale interrelazione di tutto col tutto e trasformarla in comportamenti moralmente ed ecologicamente sostenibili, dal risparmio di cibo ed acqua, all’uso di mezzi non inquinanti per spostarsi, alla questione del corretto riciclaggio della spazzatura, ecc.; 4) dialogo, senza riserve: la più socratica delle massime – dialogare, dialogare sempre dialogare (con gli altri, ma anche con se stessi): ne abbiamo un bisogno quasi disperato in una società dove la capacità di ascoltarsi vicendevolmente risulta sempre più compromessa, un bisogno che dà quasi dolore fisico.

La dimensione sociale dell’impegno. Dall’ambito personale a quello sociale (ma già prendersi cura di sé rappresenta, in un certo senso, una forma di impegno “sociale”), ovvero a quella del volontariato. Non come partecipazione una tantum, a tempo perso, per motivi fintamente filantropici a questa o quella iniziativa, ma come impegno serio, costante, fattivo e critico, sia, se possibile, nella dimensione locale, sia in quella nazionale e globale. Perché come ci ricorda Antonio Gramsci «il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte ed ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile».

La dimensione politica dell’impegno. Tralasciare la sfera dell’impegno politico – nonostante si sia oggi ben lontani dalle condizioni “naturalmente politiche” in cui viveva l’uomo greco – è impossibile. Del resto, come recita il noto adagio, “se non ti occupi di politica, sarà comunque lei ad occuparsi di te”. Anche in questo caso non esiste una ricetta precisa: già cercare di utilizzare correttamente i mezzi istituzionali a nostra disposizione per controllare chi è preposto alla cura della cosa pubblica è gran cosa. Importante è formarsi una coscienza politica sin da giovani. Alla fine, però, politica significa militanza. Non si può far veramente politica senza schierarsi. A condizione che la politica mantenga un “volto umano”, ovvero che non sia separata dal retroterra intellettuale e morale dei suoi attori, ingenerando contraddizioni, artefici e sofisticazioni che lo stesso Machiavelli guarderebbe con estremo fastidio. Alcuni “mezzi”, ad esempio la “non-violenza”, non possono essere, a nessun costo, oggetto di negoziazione: ne va dell’integrità della persona che agisce e della comunità nel suo complesso. Con l’augurio che i figli dei nostri figli possano crescere in un paese in cui “onestà” e “furbizia”, “fattività” e “successo” non abbiano lo stesso – dolorosamente contraddittorio – corso presso la pubblica opinione.

Vivere felici: da dove parte, e dove arriva, la vera rivoluzione. In ultima istanza, il tema della “rivoluzione” e dell’ “impegno”, in termini pratico-filosofici ha come punto di partenza e punto d’arrivo, circolarmente coincidente, quello della felicità, felicità “desiderata”, felicità “disperata”, felicità realisticamente possibile. Ma anche felicità scelta e praticata consapevolmente, almeno come conato, tentativo che ogni giorno si rinnova nell’esperienza personale. La ricerca della felicità in filosofia non può andar disgiunta dalla domanda intorno all’uomo (chi sono?) e intorno al senso della vita (perché sono? da dove vengo, dove vado?). Perciò la questione del viver felice non può esser correttamente posta se non adottando quello spirito multi-prospettico e complessivo al medesimo tempo (“complessivo” nel senso di capace di accostarsi alla totalità e di coglierne la complessità armonica delle parti) che è e rimane peculiare dell’indagine filosofica. Di fare filosofia, insomma, abbiamo bisogno, di questa “rivoluzione”, sempre attuale proprio perché così “inattuale”. Questo è il significato, in essenza, del libro di Cavadi. Significato che, come ho mostrato sopra, nel suo caso non si limita a giacere supinamente sul piano libresco dell’esercizio intellettuale – peraltro fondamentale – ma s’industria a tradursi in modo di vivere, si fa appello, richiamo, che è al contempo seduttivo ed irritante, perché attrae, convince, ma poi richiama all’ordine, alla durezza della realtà, alla fatica dell’impegno quotidiano.

Alcuni compagni di viaggio. Il libro si chiude con una bibliografia commentata “autobiograficamente”. I “compagni di viaggio” sono le letture con cui Cavadi ha “scritto” la sua storia personale, che lo hanno spinto da giovane ad impegnarsi nello studio, nel volontariato, in politica, che lo hanno sorretto nei momenti difficili, lo hanno ispirato quando il richiamo di affetti e spiritualità si faceva insistente e finanche mordace. Quest’ultimo capitoletto è un po’ una confessione, che, se possibile, rendere ancor più prezioso il libro: “ho scritto di me, eccomi qua”. È un gesto di parresìa.

Francesco Dipalo