venerdì 29 aprile 2016

CI VEDIAMO A CASTELLAMMARE DEL GOLFO DAL 29 APRILE AL 2 MAGGIO 2016 ?

Mancano solo POCHE ORE  all'inizio della Terza edizione del "Festival d'a-Mare" a Castellammare del Golfo ! 
Sono davvero felice di raccogliere minuto dopo minuto nuove adesioni: sinora più di 150 iscrizioni per le passeggiate filosofiche, i laboratori di con-filosofia, i dibattiti, le conferenze, le colazioni filosofiche...Serge Latouche, Chiara Zanella, Marta Mancini e Orlando Franceschelli sono già arrivati: domani arriva anche Diego Fusaro. 
Avere insieme tanti filosofi, maestri nel dialogare con i non-addetti-ai-lavori, in uno dei luoghi più belli della, Sicilia è un evento raro: mi sarebbe dispiaciuto davvero se si fosse SPRECATA L'OCCASIONE che con non poca fatica, e senza scopo di lucro, abbiamo preparato per accrescere consapevolezza e gusto di vivere !
Vi ricordo che, per ogni informazione sul programma basta andare alla pagina FB Filosofia d'amare; per richieste di aiuto logistico potete scrivere a filosofiadamare@virgilio.it oppure al 328.3369985. L'hotel convenzionato, anche se tutto occupato, vi farà avere una sistemazione in un hotel vicino ad esso collegato: quindi chiamate pure allo 0924/30511 o scrivete a info@puntanordest.com. 
E' possibile partecipare anche solo a qualcuno degli eventi del Festival: ma ci si deve fornire del 'pass' presso la Segreteria organizzativa (al costo di 10,00 euro) che è valido per tutti i quattro giorni del Festival.

lunedì 25 aprile 2016

PER UN 25 APRILE BELLO E VERO

Da "Micromega" di oggi

Questo 25 Aprile


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di Angelo d’Orsi

L’anno scorso abbiamo festeggiato il 70° della Liberazione; e noi di MicroMega un piccolo, ma non irrilevante contributo, lo abbiamo dato, con un fascicolo speciale (un primo “Almanacco di Storia”), intitolato, semplicemente, “Ora e sempre Resistenza”. Quel titolo rinvia al testo, celebre, dettata da Piero Calamandrei per la lapide affissa nel cortile del municipio di Cuneo (“Lo avrai camerata Kesserling /il tuo monumento…”); ma quel titolo, al di là della sua giustificata enfasi retorica, ci richiama a un dovere, che oggi, più di un anno fa, più di cinque o dieci anni fa, appare imprescindibile e cogente. Il dovere di difendere quella libertà, quei diritti politici, quello Stato sociale che la lotta dei partigiani ci ha consegnato.

Certo la liberazione dal nazifascismo fu opera anche delle truppe alleate (non dimentichiamo tuttavia il prezzo pagato dalle popolazioni civili italiane, dalle città distrutte dai bombardamenti…), ma il contenuto sociale dell’Italia repubblicana nacque esclusivamente dall’opera sapiente e preveggente dei Costituenti, che raccoglievano le istanze profonde del partigianato. E quel contenuto fu espresso in un documento, un testo di poche essenziali e densissime pagine, senza fronzoli, che si chiama Costituzione Italiana: il prodotto, certo imperfetto, ma nell’insieme di straordinario valore, su tutti i piani (non escluso quello stilistico-lessicale, come proprio Calamandrei mise in evidenza), del lavoro rapido e intenso di un pugno di rappresentanti delle forze politiche che avevano costituito il tessuto antifascista del Paese; ma nel contempo quel testo raccoglieva il bisogno di rinnovamento, le ansie persino palingenetiche di vastissime masse popolari, di ceti medi, di contadini, di classe operaia e della parte più illuminata della borghesia.

Quel testo, nella sua forma quasi perfetta, bilanciava quasi perfettamente, pure con qualche forzatura in un senso o nell’altro, le diverse anime dell’Assemblea Costituente: la laica, la cattolica, la socialista, la comunista. Quel documento era, insieme, un trattatello di diritto pubblico (che disegnava mirabilmente ruoli e funzioni dei soggetti istituzionali, equilibrando con sagacia i diversi poteri dello Stato), un saggio storico (che seppelliva la pagina fascista della vicenda italiana), un manifesto programmatico (che impegnava la Repubblica di cui era carta costitutiva a disegnare un futuro di pur relativa giustizia e progresso sociale).

Perché ho detto che oggi l’anniversario del XXV Aprile è persino più importante di quello “tondo” del 70°? Perché, addirittura, ritengo che sia più importante di tutti quelli che lo hanno preceduto? La risposta è ovvia. Neppure nei tempi peggiori dello scelbismo, del craxismo, del berlusconismo, la Costituzione è stata in pericolo come ora. Quando Berlusconi e sodali tentarono di alterarla, furono fermati dal voto popolare. E comunque quel voto, allora, godeva del sostegno del principale partito di opposizione, il cosiddetto “Partito democratico”. Ma se guardiamo a quel medesimo partito oggi, a ben riflettere, non possiamo esclamare: “Quam mutatus ab illo!”: Matteo Renzi, in fondo, non ha fatto che portare a termine la mutazione genetica del partito, che oggi ha perso qualsiasi residuo aggancio non soltanto con la tradizione del comunismo italiano (ben diversa da quella del comunismo staliniano), ma con l’intero bagaglio della sinistra; da barriera fondamentale contro i tentativi di manomissione della Carta costituzionale ne è diventato il primo artefice.

Oggi, perciò, la battaglia  per difendere quella che il guitto Benigni aveva decantato come “la (Costituzione) più bella del mondo”, salvo poi saltare sul carrarmato renziano che sparava contro quella stessa Costituzione, parte da un handicap: in Parlamento, in sostanza, ci sono forze di minoranza, e per di più eterogenee, che proveranno a resistere, ossia a fare opposizione; su fronte opposto, forza di maggioranza, c’è il PD: la sua dirigenza, incredibile erede, di buona parte delle anime dell’Assemblea Costituente, è il motore primo della “riforma” costituzionale, portata avanti in modo arrogante, contro la quasi totalità dei costituzionalisti italiani, e larghissima parte del mondo intellettuale.

Per preparare il terreno a questo terremoto istituzionale, ci hanno detto che la Costituzione è antiquata: eppure non ha ancora compiuto il settimo decennio. Quelle dei Paesi di grande tradizione democratica, dal Regno Unito agli Usa, durano da secoli.  E per abolire il Senato (finta abolizione, peraltro, come quella delle Province) hanno usato la propaganda antipolitica più becera, quella che dovrebbe toccare il cuore dell’italiano medio, che si indentifica  nel portafogli: ridurre i costi della politica. Ma chiunque sa che i costi sono ridicoli, e che alla fine, non diminuiranno affatto, ma in compenso accanto a una Camera di nominati dal partito di maggioranza relativa che prende la maggioranza assoluta dei seggi, si affiancherà un Senato di designati dai Consigli regionali e dalle principali città: doppio incarico, con quale beneficio per l’efficienza del sistema non si vede. Ma con una perdita secca della possibilità di quel controllo incrociato fra le due Camere che è fondamentale per evitare errori, sviste, svarioni…

Il PD, che questa “impresa” ha portato avanti con determinazione degna di miglior causa, a prezzo di rompere ogni tessuto sociale, di frantumare definitivamente lo spirito residuale della stessa unità “ciellenistica”, si presenta come la vera destra “perbene” in Italia: dato che non è riuscito alla sua leadership del PD di “aiutare” la trasformazione di Forza Italia e della Lega Nord in forze di destra “moderna” ed “europea”, oggi quella dirigenza ha deciso, in fondo coerentemente, che toccava al PD rappresentare quella destra che in Italia latitava. Ed ecco, appunto che il PD diventa, nella sua larga maggioranza, con qualche brontolio discorde della cosiddetta “minoranza interna”, il guastatore della Costituzione.

La Costituzione che alcuni dei più vecchi esponenti di quel partito si ostinano a riconoscere essere “nata dalla Resistenza”, e vengono tollerati, nell’attesa che la natura faccia il suo corso e li spazzi via. Come Renzi, la sua potentissima e incompetentissima ministra Boschi, con l’ausilio di impresentabili figure pubbliche a cominciare da Denis Verdini, si apprestano a fare non solo con la Costituzione, ma con lo Stato liberaldemocratico: il combinato disposto legge elettorale (il famigerato Italicum) e “riforma costituzionale”, pone le basi per un “superamento” morbido della stessa forma democratica. Se poi aggiungiamo il controllo che ormai in modo quasi totale Renzi esercita sulla Rai (più in generale direi sulla radiotelevisione italiana), gli accorpamenti di testate giornalistiche, le nomine alla testa delle grandi holding pubbliche, delle istituzioni (dal Consiglio superiore della Magistratura alle diverse forze armate e servizi di sicurezza), il regime è disegnato.

Oggi, perciò, in attesa dei referendum d’autunno, la celebrazione della Liberazione deve rappresentare un monito e un impegno per quanti si rendono conto che la posta in palio è enorme. E si chiama Welfare, si chiama diritti sindacali, princìpi di libertà, possibilità di effettiva partecipazione alla cosa pubblica, sovranità del Potere legislativo (il Parlamento, ridotto a manipolo di ascari obbedienti), indipendenza del “Terzo Potere” (l’ordine giudiziario, non a caso sottoposto ormai ad attacchi quotidiani dal presidente del Consiglio o da suoi emissari, come ai tempi di Berlusconi)…; l’elenco è troppo lungo.

In breve, oggi ribadire, in ogni situazione e contesto, il motto “Ora e sempre Resistenza”, è tutt’altro che un gesto rituale: oggi è e deve essere un grido di battaglia. Che è appena cominciata. E va portata fino alla sua conclusione. Difendere la Resistenza, oggi, salvaguardare la Costituzione che è il frutto più rilevante di quella stagione eroica del ’43-45, significa dire NO alla “deforma” renziana, no all’Italicum, no alla fine dello Stato di diritto, anche se l’operazione ci viene presentata come esempio del necessario ricupero di una “modernità” della “vecchia” Italia. Se questa è la modernità, se questo è essere riformatori, ebbene, proclamiamoci francamente conservatori. Ci sono cose da conservare, senza vergognarsene; e la Costituzione repubblicana (con il suo patrimonio politico, culturale e sociale, frutto della lotta armata contro il regime mussoliniano) è al primo posto tra esse.

(25 aprile 2016)

venerdì 22 aprile 2016

MEDITARE LAICAMENTE CON LUIGI LOMBARDI VALLAURI


“CENTONOVE”
14.4.2106

MEDITARE IN OCCIDENTE

   Negli anni 2004, 2005 e 2007 , nel terzo canale radiofonico della Rai, Luigi Lombardi Vallauri ha tenuto delle trasmissioni per lo meno insolite: un “corso” di iniziazione a un genere inedito di  meditazione  nel quale il metodo orientale viene sperimentato su contenuti forniti dalle scienze occidentali. Per anni quelle trasmissioni sono state ascoltate e ri-ascoltate dal sito della Rai, ma adesso c’è la possibilità di fruirne su un registro differente (con i pregi e gli svantaggi del caso): sono state infatti trascritte, raccolte e pubblicate nel volume “Meditare in Occidente, Corso di mistica laica” (Le Lettere, Firenze 2015, pp.  346, euro 23,80).
   Innanzitutto, cosa intende l’autore per “meditazione”? “Meditazione è per me l’insieme delle pratiche, fisiche e psicospirituali, capaci di propiziare un incontro diretto, intuitivo-vissuto, con l’altamente significativo” (p. 7). Ma perché specificare “in Occidente” ? Perché noi occidentali, una volta disillusi dalle “grandi narrazioni” teologico-religiose, abbiamo perduto il gusto della meditazione. La maggior parte di noi non l’ha mai sperimentata e i pochi che ci hanno provato hanno ritenuto necessario far finta di essere nati e cresciuti in Oriente. Qui invece si vuole provare a “meditare da occidentali, perché siamo occidentali”; ma senza rinunziare ai suggerimenti provenienti dalle tradizioni asiatiche, nella convinzione che sia urgente una “sintesi Oriente – Occidente” dal momento che “il meglio delle grandi tradizioni culturali forse si salva non all’interno chiuso dell’una o dell’altra, ma all’intersezione dell’una con l’altra. Per esempio l’India tende a degenerare, se rimane chiusa al proprio interno, in superstizione, e d’altra parte un mondo completamente dominato dalla cultura euro-americana, diciamo mcdonaldizzato, sarebbe spaventoso” (p. 23).
     Chiarito il titolo, resta da interpretare il sottotitolo: mistica laica. Non è un ossimoro, una contraddizione in termini ? Così sarebbe se – com’è d’uso abitualmente – si riservasse il vocabolo “mistica”  esclusivamente a “esperienze originate da rivelazioni religiose”. Ma così non è mai stato e nel XX secolo Wittgenstein ce l’ha ricordato con la sua proverbiale icasticità: “Che il mondo è, è il mistico”. Come commenta Lombardi Vallauri, “nulla di più laico del constatare che esiste un mondo; al tempo stesso nulla che possa suscitare un più abissale stupore: la vittoria dell’essere, di un qualche essere, di una qualche storia dell’essere, sul non essere ! Proprio l’intersoggettivo indubitabile, il banale-evidente assoluto, semplicemente il mondo, è il prodigio ontologico insondabile” (p. 7). Insomma, la mistica  - lungi dall’essere monopolio esclusivo di monaci e suore (ammesso che lo sia davvero !) – è “un humanum laico, è laica come sono laici la matematica, il viaggio, l’innamoramento, l’arte, tutte le cose vere e belle, indipendenti dalla religione. Parlare di mistica è serio e non facoltativo, come parlare di pane” (p. 21).
    Così , dopo aver chiarito l’atteggiamento più adatto alla meditazione (la “pacificazione profonda” o samadhi e la “consapevolezza discernente” o vipassana), l’autore perlustra vari aspetti del mondo in cui siamo immersi: l’infinitamente grande (la nostra galassia tra miliardi di altre galassie); l’infinitamente piccolo (gli atomi e i protoni e i neutroni); l’infinitamente complesso (il nostro organismo biologico di circa “centomila miliardi di cellule”); l’infinito di incomprensibilità (come fa il nostro cervello a ricevere elementi biochimici e a produrre “concetti coscienti”?); le emozioni che avvertiamo quando facciamo esperienze erotiche, estetiche, ontologiche, vocazionali, avventurali e di tenerezza-responsabilità; la matematica; la fisica; la paleontologia; la cultura nelle sue varie versioni planetarie; la religione; gli stati d’animo negativi (“quelli che mi fanno vivere meno”); i paesaggi più significativi e l’attitudine migliore per incontrarli (“anima di paesaggio”): alta montagna, città, cielo, ecosistemi selvaggi, mare e deserto, corpo di donna, acqua, aleph.
     Mi rendo conto che ho potuto restituire poco più dello scheletro di questo libro davvero originale (e, a mio parere, imperdibile soprattutto da chi dedica la maggior parte dell’esistenza alle scienze “dure” più o meno “esatte”); ma spero che susciti la curiosità di verificare quanta spiritualità a-confessionale possa ancora veicolare una riflessione seriamente, e sobriamente, filosofica.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 20 aprile 2016

DIVORZIATI E PROSTITUTI: TUTTI FELICEMENTE NELLA STESSA BARCA !


“Niente di personale”

20.4.2016



DIVORZIATI E PROSTITUTI: TUTTI FELICEMENTE NELLA STESSA BARCA



   Una delle caratteristiche del giornalismo di qualità è senz’altro il coraggio di scrivere ciò che si ritiene vero, anche quando le proprie righe possono urtare i potenti. E, nei decenni del suo lavoro di vaticanista de “L’Espresso”, Sandro Magister ci aveva abituato a questa parresìa (come i Greci e i primi cristiani chiamavano la franchezza nel dire pane al pane e vino al vino, senza riserve mentali né tattiche diplomatiche). Ma da alcuni anni Magister ha trasformato il coraggio in acredine sistemica; la sincerità in aggressività metodica; la finezza della denuncia in strategia  demolitrice, capziosa e “ a prescindere”. Il bersaglio centrale di questa continua, testarda polemica è papa Francesco I : cardinali, vescovi e teologi a lui fedeli sono obiettivi secondari.

   Chi segua il blog che Magister aggiorna quotidianamente può verificare a quali punte di ingiustizia arrivino i suoi attacchi. L’ultimo (al momento in cui scrivo) riguarda la Lettera “Amoris laetitia” in cui, come è noto, il papa affida ai vescovi locali la responsabilità di discernere  - caso per caso – quali divorziati risposati siano da ammettere alla comunione eucaristica. E che fa il buon Sandro ? Pubblica la lettera di un prete argentino che racconta di una prostituta che, invece di “approfittare” della misericordia divina, se ne stava su un banco in fondo alla chiesa consapevole dei suoi peccati e non si accostava alla sacra mensa. Il parallelo fra i divorziati e la prostituta è evidente: i primi dovrebbero lasciar cadere la possibilità aperta dal papa e seguire, piuttosto, l’esempio della meretrice.

   Ciò che addolora in questa operazione bassamente avvocatesca (dunque, per evitare malintesi tra me e i miei amici avvocati, non bassa perché da avvocati ma bassa perché  da avvocato di bassa lega) è che rivela una presunzione pari solo all’ignoranza biblica e teologica. Essa infatti suggerisce un’equiparazione fantasiosa fra chi si trova a vivere una vita di coppia, riconosciuta legittimamente da uno Stato, e chi si trova a vivere vendendo il proprio corpo a sconosciuti approfittatori. Ma – ammessa e non concessa questa equiparazione – un papa deve o non deve seguire come modello Gesù di Nazareth? Quello stesso rabbi che ha detto di essere venuto per i malati e non per i sani, per i peccatori e non per i giusti? Quello stesso che ha bloccato la lapidazione di una adultera per mano di fanatici benpensanti e ha lodato la prostituta che gli profumava i piedi in un convito pubblico?

    Di tutto questo Sandro Magister non sa nulla. O nulla vuole saperne. Per lui è più importante che un papa segua l’insegnamento dogmatico, moralistico, sessuofobico della Chiesa cattolica dal  Concilio di Trento (XVI secolo) a Benedetto XVI piuttosto che la rivoluzionaria “novella” del Cristo. Che tristezza vedere conservatori che non sanno cosa davvero valga la pena di conservare, tradizionalisti che ignorano la tradizione originaria perché abbagliati dalla tradizione recente!  Che amarezza vedere avventurosi incendiari che si avviano alla quiescenza da pompieri premurosi ! “Non giudicate affinché non siate voi stessi giudicati da Dio!” si legge in Matteo, 7, 1: ed è sconcertante constatare che l’Annunziatore di queste parole di liberazione e di mitezza sia stato trasformato, dopo la sua morte, nel Giudice universale della Cappella Sistina. Non meno sconcertante constatare che, nel XXI secolo, ci sono persone istruite che non si scandalizzano neppure di questo.



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

www.nientedipersonale.com/2016/04/20/divorziati-e-prostituti-tutti-felicemente-nella-stessa-barca/

martedì 19 aprile 2016

VITO MANCUSO A PALERMO, GIOVEDI' 21 APRILE ALLE ORE 20,30

Giovedì 21 aprile 2016, alle ore 20.30, nella Chiesa di S. Francesco Saverio all'Albergheria (Palermo), Vito Mancuso presenterà il suo ultimo libro: Dio e il suo destino.
Dopo un mio brevissimo saluto introduttivo, Nuccio Vara dialogherà con l'autore.

lunedì 18 aprile 2016

MARIA D'ASARO SULLA 'MIA', SULLA 'NOSTRA', " LEGALITA' "

Ricevo e volentieri rilancio, con gratitudine, dal mio blog il 'post' di Maria D'Asaro (che potete trovare anche su http://maridasolcare.blogspot.it/2016/04/legalita-va-cercando-che-si-cara.html  )

lunedì 18 aprile 2016


Legalità va cercando, che si cara ...

Ieri pomeriggio, presso l’aula consiliare del Comune di Trabia, si è discusso di legalità assieme all’autore del libretto omonimo, prof. Augusto Cavadi. 
Ecco una sintesi del mio intervento:
       Il prof.Cavadi ci fornisce in questo libretto tanto sintetico ed essenziale, quanto prezioso, una informazione ‘basica’ su un concetto – quello di legalità - purtroppo poco masticato e “introiettato” dai noi cittadini. In Italia c'è molta confusione sulla concezione e sulla pratica della legalità: in Sicilia c’è forse un difetto di legalità, a Bergamo magari un eccesso, che sfiora il legalismo:  (…) Sicuramente il concetto di legalità  necessita di “inculturazione”, va cioè legato all’antropologia, alla cultura, alla riflessione dei cittadini.  
Il prof. Cavadi ci ricorda innanzitutto, con don Ciotti, che le leggi - da quelle relative al codice della strada alle norme giuridiche più  rilevanti - sono l’impalcatura del patto sociale e della convivenza civile e che esse nascono per difendere i diritti di tutti, soprattutto dei meno forti e dei meno fortunati: forse non sarebbero necessarie solo in un’ipotetica società composta da buoni e onesti, in una sorta di agognato paradiso terrestre. 
L’autore fornisce poi alcuni chiarimenti sulla differenza tra legalità e legalismo (la legalità è una virtù solo quando è saggia ricerca della giustizia, altrimenti diviene legalismo) e sulla distinzione e l’inscindibilità tra legalità e giustizia.  Tale distinzione ci ricorda che solo in teoria tutto ciò che è legale è giusto: in pratica può capitare che è legale un comportamento ingiusto e viceversa è illegale un comportamento giusto (ricordiamo la “legalità” nazista dello sterminio degli ebrei).
La legalità quindi rimanda alla giustizia come suo fondamento e ci induce, prima di tutto, a chiederci cosa sia la giustizia: intanto la giustizia (considerata dall’etica cristiana una delle quattro virtù cardinali) è dare a ciascuno il suo, ciò che gli spetta, ciò a cui ha diritto. Quindi una legalità senza ricerca della giustizia è una legalità morta, senza speranza; di conseguenza la sfera giuridica non è autonoma rispetto alle  sfere dell’agire politico e dell’etica.  
Cosa deve fare un buon cittadino? Conoscere le leggi, discernerne il fondamento alla luce di alcuni strumenti importanti, rispettarle con fedeltà se non confliggono con i predetti strumenti. Ha però il diritto/dovere di resistere alle leggi ingiuste e di concorrere alla creazione di leggi giuste. Il cittadino deve essere quindi soggetto attivo della politica. Deve quindi:
  • Prima di tutto conoscere:  L’arte di vivere la legalità comporta un paziente esercizio che deve iniziare dalla conoscenza, da una corretta  informazione delle norme.
  • Poi, alla luce di  tre strumenti importanti: 1) Dichiarazione dei diritti dell’uomo (10.12.1948); 2) Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950); 3) Costituzione italiana (1947) è necessario discernere il fondamento di equità e giustizia della norma.
  • Dopo il discernimento, è necessaria la fedeltà alle leggi. Quando una norma, stabilita seconde procedure legali, non confligge con la nostra coscienza morale, essa va rispettata con fedeltà. Perché una legalità democratica interiorizzata, vissuta non per paura delle sanzioni, è fattore irrinunciabile di bene comune. Gandhi, pur ribadendo che la disubbidienza civile è un diritto intrinseco del cittadino, puntualizza che “un democratico è un amante della disciplina.” Solo chi normalmente obbedisce alle leggi, acquista il diritto alla disobbedienza civile. Solo chi dimostra di sapere rispettare le leggi giuste a costo di rimetterci ha il diritto di opporsi a quelle leggi che gli risultano ingiuste e/o immorali. 
  • Resistere alle leggi ingiuste è un diritto e un dovere. La resistenza per ragioni etiche a norme ingiuste si differenzia dal ribellismo per ragioni di interesse privato perché chi resiste alla legalità ingiusta è disposto a pagare le conseguenze della propria disobbedienza. Lo hanno dimostrato in tanti: nell'Antigone, scritta da Sofocle nel 442 a.C., una donna, Antigone, disobbedisce al comando del re Creonte che vieta di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice; nel 1955, una donna in carne e ossa, Rosa Parks, nella cittadina di Montgomery, in Alabama, negli USA, rifiuta di alzarsi dal posto dell’autobus assegnato ai cittadini di pelle bianca: grazie al suo gesto coraggioso, Martin Luther King inizia la lotta contro la segregazione razziale;  Nelson Mandela trascorre 27 anni in carcere, in un’isoletta sperduta, per la sua lotta contro l'apartheid in Sudafrica; don Lorenzo Milani, negli anni '60, quando fare il militare e imbracciare le armi in Italia era obbligatorio, fu sostenitore dell’obiezione di coscienza: celebre la sua frase: "L’obbedienza non è più una virtù"; ricordiamo infine Franz Jagerstatter e Dietrich Bonhoeffer, un contadino austriaco e un teologo luterano tedesco che pagarono con la vita la resistenza al Nazismo.
  • Ma non è sufficiente resistere alle leggi ingiuste; tale resistenza esige di farsi controproposta pubblica e quindi di essere creativa e propositiva: “La politica è la risposta senza la quale ogni possibile resistenza all’illegalità istituzionale o si spegne per stanchezza o diventa eversione distruttiva" (Lettera di Giacomo Ulivi, partigiano morto nella lotta di liberazione)
Il prof Cavadi ci ricorda quindi il legame inscindibile tra giustizia, legalità, politica: senza giustizia la legalità si degrada a legalismo, senza azione politica non possiamo ottenere leggi giuste e operare per il miglioramento della società.  
Oggi ci sono dei rischi per la tenuta democratico-legalitaria-partecipativa della nostra società: intanto la difficoltà di costruire e implementare il senso della "communitas" in una società liquida e priva di punti di riferimento: morte le grandi narrazioni politiche, morte le ideologie, cosa è nato al loro posto? Esaurito il ruolo dei partiti tradizionali, come fare politica oggi? I social network ci aiutano davvero a costruire partecipazione politica? E’ la rete la soluzione all’astensionismo? Possiamo limitarci ai “mi piace” per costruire partecipazione? Poiché è eroico resistere alle leggi ingiuste, dobbiamo essere sentinelle capaci di prevenzione: dobbiamo contribuire a deliberare norme eque. E' più che mai necessario riscoprire il senso profondo dell’affermazione di Paolo VI: "La politica è la più alta forma di carità". E’ quindi necessaria la partecipazione consapevole, matura e vigile dei cittadini: è indispensabile un paziente e continuo esercizio di democrazia, a partire dal condominio al Comune e via via alle assemblee legislative più ampie e inclusive, evitando ignoranza, qualunquismo, astensionismo, deleghe, voti di scambio. 
Cosa fare infine come donne, come cittadine per l’affermazione della triade legalità/giustizia/ partecipazione politica? Quale può essere il valore aggiunto della partecipazione delle donne alla politica? Forse quella di essere testimoni credibili di una legalità che serve, di una legalità che sia servizio e non serva dei poteri forti; è necessario fecondare la politica con il senso femminile della cura: la cura dell'ambiente, la cura dei soggetti più bisognosi di attenzione e di tutela. Dobbiamo aumentare il PIL: prodotto interno di legalità, di una legalità che sia impregnata di giustizia e partecipazione politica. Perché, come ci ricorda lo studioso Umberto Santino all’inizio del libretto: "Gli eroi continueranno a morire se gli uomini comuni non impareranno a vivere"
                                                                                                                 Maria D'Asaro 



venerdì 15 aprile 2016

ANDRO' A VOTARE. VOTERO' SI'. MA LA POLITICA SI FA 365 GIORNI L'ANNO....


Perché al referendum voterò sì, anche se non serve a niente

La prima cosa che dobbiamo fare è capire per bene di cosa tratta il referendum. Seguite il mio ragionamento. In Italia si estraggono sia gas che petrolio, sia sulla terraferma che in mare. Disinteressiamoci di gas e petrolio estratti sulla terraferma perché il referendum non tratta di questo. Interessiamoci invece di gas e petrolio estratti in mare. La prima distinzione da fare è:
  • gas e petrolio estratti entro le 12 miglia (22,2 km) dalla costa;
  • gas e petrolio estratti oltre le 12 miglia (22,2 km) dalla costa.
Il quesito del referendum tratta solamente di gas e petrolio estratti entro le dodici miglia (22,2 km) dalla costa. Non tratta quindi delle trivellazioni di gas e petrolio sulla terraferma e oltre le dodici miglia dalla costa.
Ora vediamo di capire per cosa stiamo andando a votare.Ogni compagnia petrolifera che decide di trivellare deve chiedere una concessione allo Stato. Una concessione è l’autorizzazione a esplorare e costruire piattaforme in un determinato tratto di mare. La domanda che sorge spontanea è: quante piattaforme ci sono entro le dodici miglia dalla costa? La risposta è 92 ma attenzione, anche qui va fatta una importantissima distinzione. Delle 92 piattaforme sono 48 quelle eroganti (cioè che estraggono gas e petrolio). Le restanti servono per permettere a quelle 48 di funzionare. Le 48 piattaforme eroganti entro le 12 miglia dalla costa sono divise in:
  • 39 piattaforme che estraggono gas;
  • 9 piattaforme che estraggono petrolio.
Queste sono le piattaforme interessate dal quesito referendario. Adesso che abbiamo capito di cosa stiamo parlando, possiamo procedere a capire cosa chiede il referendum.
Queste 48 piattaforme sono state costruite perché lo Stato ha in passato concesso alle compagnie petrolifere il permesso di esplorare quei tratti di mare dove ora sorgono le piattaforme di estrazione. Ma nel 2015 è cambiato qualcosa perché è stata approvata la legge di stabilità per il 2016. Con la legge di stabilità 2016 lo Stato decide di non dare più concessioni per nuove trivellazioni entro le dodici miglia (22,2 km) dalla costa. Di conseguenza dal 2016 in poi le compagnie petrolifere potranno chiedere il permesso di trivellare il mare oltre le dodici miglia dalla costa oppure sulla terraferma, ma non potranno più effettuare nuove trivellazioni entro le dodici miglia dalla costa.
Ma cosa dice la legge di stabilità del 2016 sulle piattaforme entro le dodici miglia dalla costa già costruite e in attività? Dice che il permesso di trivellare un certo tratto di mare (cioè la “concessione”) può essere rinnovato dalla compagnia petrolifera fino all’esaurimento del giacimento. Insomma, il succo è che con la legge di stabilità 2016 vengono impedite le nuove trivellazioni entro le dodici miglia, ma quelle già esistenti possono essere sfruttate finché non finiscono il gas e il petrolio da estrarre. E siamo finalmente arrivati al quesito referendario.
Andremo a votare il 17 aprile per decidere se vogliamo che per le piattaforme entro le 12 miglia dalla costa e per le concessioni date prima della legge di stabilità del 2016 tali piattaforme debbano:
  • continuare ad estrarre gas e petrolio fino ad esaurimento dei giacimenti (voto NO);
  • cessare l’attività di estrazione anche se i giacimenti non sono esauriti (voto SÌ).
Chiarito il motivo per cui siamo chiamati a votare il 17 aprile, è ora di farci una opinione in merito. Vediamo di citare qualche dato per capire come sono strutturati i consumi energetici in Italia per capire quale sarebbe l’impatto del referendum. Iniziamo dicendo che l’Italia è un paese fortemente dipendente dalle importazioni per quanto riguarda l’energia. Infatti sulla totalità del fabbisogno energetico italiano, gas e petrolio estratti in Italia contribuiscono solo per il 10% del totale dei consumi. Ciò significa che il restante 90% di fabbisogno energetico in Italia è garantito dalle importazioni di petrolio e gas. Nel 10% di petrolio e gas estratti in Italia sono comprese le estrazioni sulla terraferma e in mare, sia entro che oltre le dodici miglia. Le estrazioni di gas e petrolio entro le dodici miglia, oggetto del referendum, sono quindi una frazione del 10% del totale dei consumi (il dato in esame è riferito al 2014). Nello specifico, tale frazione è pari al 2,1% per il gas e 0,8% per il petrolio, sul totale del 10% di gas e petrolio estratti in Italia. Ciò significa che, sulla totalità del consumi italiani, la vittoria del SÌ comporterebbe una mancanza di un totale di 2,9% sul totale dei consumi italiani, e di conseguenza un ulteriore approvvigionamento estero per sopperire a tale mancanza. Tale mancanza del 2,9% sui consumi totali non avverrebbe il giorno successivo alla vittoria del SÌ. Le concessioni relative alle piattaforme interessate dal referendum hanno in realtà una scadenza ben precisa, che in caso di vittoria del SÌ non verrebbe prorogata. Le prime concessioni scadono nel 2016, le ultime scadranno nel 2027. Quindi gli effetti del referendum non sarebbero immediati ma diluiti nel tempo. Ci sono inoltre nove piattaforme entro le dodici miglia che hanno richiesto la proroga prima della legge di stabilità del 2016 e verranno di sicuro autorizzate a continuare le trivellazioni.
Nella formazione di una opinione propria c’è anche da considerare la questione ambientale. È vero che una piattaforma di estrazione, sia essa di gas o di petrolio, costituisce un pericolo costante per le nostre coste. Ma è anche vero che fino ad oggi in Italia l’unico incidente fu una fuga di gas metano a Ravenna negli anni ’60. Se consideriamo anche che in Italia le perforazioni offshore (cioè in mare aperto) si effettuano fin dagli anni ’50 possiamo concludere che il rischio ambientale, benché sempre presente, non può essere il motivo principale per votare SÌ e cessare ogni trivellazione entro le dodici miglia. Sulla questione ambientale i promotori del NO affermano che dismettendo le piattaforme entro le dodici miglia, dovendo dipendere in maniera maggiore dalle importazioni, i nostri porti si riempirebbero di grandi navi petroliere. Questo non è vero per un motivo semplicissimo: le centrali termoelettriche utilizzate in Italia vengono alimentate per il 60% da gas naturale e solo per il 4% da petrolio e derivati (per il 20% dal carbone e il restante 16% da fonti fossili varie). Il gas in Italia viene importato utilizzando gasdotti provenienti dalla Russia, che da sola ci fornisce il 50% del gas totale che importiamo. La restante metà è divisa fra Paesi Bassi, Norvegia, Algeria e Libia. Nessuna nave in transito quindi, ma un maggiore utilizzo di gasdotti già esistenti e funzionanti.
Va affrontata la questione della perdita di lavoro di chi opera sulle piattaforme che dovrebbero essere dismesse se vincesse il SÌ. Abbiamo già detto che l’effetto del SÌ verrebbe spalmato in dieci anni, un tempo congruo per permettere alle aziende e ai lavoratori di trovare un accordo per evitare ogni licenziamento, magari dirottando quegli stessi lavoratori sulle piattaforme oltre le dodici miglia che se vincesse il SÌ verrebbero sicuramente potenziate per bilanciare la dismissione di quelle entro le dodici miglia. Non credo quindi che la perdita di lavoro degli addetti sia un motivo valido per votare NO al referendum, perché anche votando SÌ e dismettendo le trivelle entro le dodici miglia quegli addetti non rimarrebbero a mio parere senza lavoro.
Bisogna anche porsi il problema della fine che faranno le piattaforme dismesse. La legge obbliga le compagnie petrolifere a smontare le piattaforme e chiudere i fori di trivellazione. Ma potrebbe nascere un contenzioso fra tali compagnie e lo Stato. Le compagnie potrebbero cioè contestare allo Stato i mancati introiti relativi alle piattaforme che sono obbligate a dismettere. È una possibilità che considero remota, ma che se dovesse verificarsi lascerebbe le piattaforme dismesse lì dove sono in attesa della risoluzione del contenzioso. Penso a questo punto, dopo aver sciorinato dati su dati, di avere dato abbastanza spunti al lettore per crearsi una propria opinione e decidere cosa votare al referendum del 17 aprile.Adesso esporrò la mia opinione sul referendum.
Quello che penso è che votare NO sia inutile perché non produrrebbe alcun risultato. Allo stesso modo penso anche che votare SÌ sia inutile perché produrrebbe un cambiamento minuscolo (perdita di meno del 3% del fabbisogno energetico annuo) e in un arco di tempo di dieci anni. Insomma, a mio parere è inutile votare per il SÌ tanto quanto votare per il NO. Ma il referendum comunque ci sarà, dei soldi pubblici verranno spesi per permettere a noi cittadini di esprimerci e sento quindi il dovere di andare a votare. Dopo averci riflettuto molto ho deciso che al referendum del 17 aprile voterò SÌ. Il motivo è che votare SÌ – e quindi bloccare il rinnovo delle concessioni per i siti di estrazione entro le dodici miglia – pur non sconvolgendo nulla in termini puramente tecnici, rappresenta il segnale che è ora di smettere di investire sulle risorse fossili e dirottare gli investimenti verso le risorse rinnovabili. Non è un processo istantaneo, è da stupidi pensare che l’esito del referendum possa nel giro di un giorno modificare le scelte energetiche dell’ultimo secolo.
Votando SÌ il popolo italiano manda un segnale forte all’attuale Governo e a quelli che seguiranno affermando che la strada delle rinnovabili è quella giusta. Qualche riga sopra ho citato dei dati su quali siano i combustibili fossi che alimentano le centrali termoelettriche. Tali centrali termoelettriche alimentate a combustibili fossili producono il 63,5% di tutto il fabbisogno di energia elettrica in Italia. La restante parte di energia elettrica consumata in Italia, ben il 36,5%, è prodotta da fonti rinnovabili. Questo dato ci dice che la strada delle rinnovabili è già stata imboccata. Votando SÌ voglio affermare il mio auspicio che questa strada venga percorsa con sempre più convinzione e determinazione con l’obiettivo di arrivare, non da un giorno all’altro ma lavorando giorno per giorno, a ridurre notevolmente la dipendenza dell’Italia dalle importazioni e favorire così il rilancio della nostra economia.
Jafar al-Saqili

Per approfondire il dibattito suscitato da questo articolo si può andare al seguente link:
//parlamente.com/2016/03/29/perche-al-referendum-votero-si-anche-se-non-serve a-niente/

giovedì 14 aprile 2016

I TURISTI SONO IL NOSTRO VERO PETROLIO !


  “Repubblica – Palermo”
14.4.2016

 I TURISTI SONO IL NOSTRO PETROLIO !
 Sì, è verissimo – come sostiene il sindaco Orlando – che ancora troppi operatori del turismo non hanno capito che il nostro petrolio sono i visitatori in cerca di bellezze naturali e artistiche. Ma è altrettanto vero che i tempi di maturazione civica di molti palermitani maturerebbero se, almeno per qualche settimana all’anno, si attuassero delle campagne straordinarie di controlli e conseguente repressione delle trasgressioni rilevate. Facciamo due o tre esempi a caso, fra numerosissimi altri possibili.
    Ogni giorno passo davanti a Villa Igea, uno degli hotel più prestigiosi della città. I turisti possono entrarvi o uscirne solo in taxi: a piedi è impossibile fare i due passi sino al porticciolo dell’Acquasanta perché i marciapiedi (o ciò che ne è rimasto) sono abitualmente intasati da sacchi di rifiuti, mobili in disuso o auto posteggiate. Neppure sotto il naso – e gli occhi – degli ospiti siamo in grado di mantenere la decenza? Se poi qualcuno di loro decide per guidare da sé l’automobile si trova subito davanti a una curva cieca, e in discesa, dove abitualmente viene ignorato il divieto assoluto di sosta. Il bar costituisce una tentazione troppo forte persino per carabinieri e polizia: le loro vetture di servizio si fermano, sì, ma – invece di multare i trasgressori della zona rimozione – vi si affiancano per il rito del caffè quotidiano.
    Cambiamo scenario. Proprio qualche giorno fa la mia amica Maria, che gestisce un B & B nel cuore di Palermo, mi chiedeva di rappresentare il disagio di tre differenti coppie di  suoi ospiti che, in giorni e orari differenti, erano andati in autobus a Mondello. Ciascuna delle tre coppie, al ritorno, aveva raccontato le malversazioni subite da un branco di ragazzini (di entrambi i sessi) che spadroneggiavano nella totale indifferenza di passeggeri autoctoni e dell’autista: chi era stato provocato con la cuffia dell’I-pod a pochi centimetri dall’orecchio, chi era stato ripetutamente spinto da qualcuno che fingeva - fra le risate dei compagni – di perdere l’equilibrio. Una delle signore tedesche, incinta, ha deciso di tornare in taxi per evitare altri traumi.
   A proposito di bus, poche settimane fa ho sventato (parzialmente per la verità) un borseggio ai miei danni sul bus più affollato (il 101 che parte dalla stazione ferroviaria e arriva a piazza Giovanni Paolo II). Il ladro ha gettato subito per terra il portafoglio sottrattomi con destrezza ed è subito sceso dalla vettura: un complice, a cui intanto erano state consegnate le mie banconote sotto gli occhi di due signore che glielo hanno rinfacciato  vanamente (come stabilire che i soldi nella sua tasca fossero proprio i miei?) , si è dichiarato molto stupito di apprendere che fossi palermitano e non, come aveva supposto, un forestiero. Mi chiedo se in qualche bus vi sia mai di servizio un poliziotto in borghese che possa intervenire in questi casi di emergenza.
    Comunque non è vero che i turisti vengono trattati sempre peggio degli autoctoni: per esempio i tassisti trattano turisti e palermitani alla stessa, pessima, stregua. Ci sarebbe un accordo (a suo tempo pubblicizzato) con il Comune su dei prezzi standard tra l’aeroporto e la città: 35, 40 e 45 euro a seconda delle zone urbane di destinazione. Bene: qualcuno è riuscito a  pagare meno di 50 euro? Una volta perché il passeggero ha due bagagli, un’altra volta perché è in compagnia di altri due passeggeri, un’altra volta ancora perché è sera tardi o perché è giorno festivo…Ma allora perché non lo scriviamo chiaro e tondo che l’accordo vale per un single che viaggio, da solo e senza bagagli, nelle ore diurne dei giorni feriali ?

Augusto Cavadi

lunedì 11 aprile 2016

CI VEDIAMO MERCOLEDI' 13 APRILE 2016 A PALERMO?

MERCOLEDI' 13 aprile 2016 alle  ore 20,15 presso i locali della Comunità di ricerca El Shaddai 
di via Cesare Beccaria 9 (vicino Palazzo Gamma di fronte al Velodromo di Palermo),
conversazione con Augusto Cavadi e Franco Chinnici, autori del volumetto
 "Filosofare in carcere. Un'esperienza di filosofia-in-pratica all'Ucciardone di Palermo"
(Diogene Multimedia, Bologna 2016).

Tema della serata:  "Dentro e fuori le mura del carcere: quali passaggi possibili? ".

domenica 10 aprile 2016

SULLA CRISI DELLA SCUOLA CATTOLICA (SECONDO INTERVENTO) E REPLICA DI FILIPPONE

Su "www.tuttavia.eu"  (sito dell'Ufficio per la pastorale della Diocesi di Palermo) è stato ospitato un mio intervento (diverso dal precedente pubblicato qualche giorno fa su "Repubblica - Palermo") sulla crisi delle scuole cattoliche. Di seguito è stata pubblicata (a firma di Nicola Filippone, attuale preside del Liceo "Don Bosco" di Palermo) una replica di cui ho capito tutto, tranne il rimprovero di aver qualificato "confessionale" una scuola dei Salesiani( ?!).

PERCHE' LE SCUOLE CATTOLICHE HANNO FATTO IL LORO TEMPO
   Come è stato evidenziato da recenti notizie di cronaca, anche in Sicilia le scuole cattoliche registrano un preoccupante calo di iscrizioni. Insieme al dato statistico si riporta, di solito, come causa principale  - se non addirittura unica – la diminuzione dei contributi statali: e così si lascia supporre che basterebbe ripristinarli, o addirittura incrementarli, per risolvere la questione.
     Questo approccio mi pare superficiale e, in quanto tale, poco istruttivo sia per chi è contrario sia per chi è favorevole   - in linea di principio – all’attività delle scuole private di ispirazione cattolica.
     Riterrei più illuminante scavare un po’ più a fondo e rintracciare delle motivazioni più reali. Tra le quali distinguerei motivazioni epocali (e, come tali, ineliminabili) e motivazioni contingenti (potenzialmente emendabili).
     Tra le motivazioni epocali va innanzitutto nominata l’eclissi delle “grandi narrazioni” ideologiche. Per decenni, in piena guerra più o meno “fredda” fra il modello occidentale capitalistico e il modello sovietico social-comunista, molte famiglie hanno affrontato anche a costo di qualche sacrificio le spese per l’istruzione privata dei figli pur di sottrarli (soprattutto dal 1968 in poi) ai condizionamenti culturali dei professori di “sinistra”. Ma, con il crollo del muro di Berlino nel 1989 e con il dominio del “pensiero unico” liberal-borghese, il “pericolo rosso” è quasi del tutto scomparso dallo scenario contemporaneo: perché  investire denaro per prevenire pestilenze estinte?
     Scartate le motivazioni politiche, potrebbero restare in lizza le motivazioni teologico-pastorali: mando i miei figli dalle suore o dai preti perché così possano ricevere quell’educazione cattolica che nessuna scuola statale mi garantisce. Ma, da questo punto di vista, la scuola cattolica ha perduto appeal sia per ragioni storico-epocali che per ragioni contingenti. Per ragioni storico-epocali: la secolarizzazione ha segnato la mentalità e le abitudini di molte famiglie e, rispetto solo ad alcune generazioni precedenti, il numero dei cattolici praticanti è sceso vistosamente (dal 90% al 20 % circa). E’ ovvio che genitori che non frequentano abitualmente la messa domenicale  - e ancor meno rispettano altri “precetti della Chiesa” – non siano motivati a investire parte del bilancio familiare per indurre i figli a diventare ciò che essi non sono (più). E quella minoranza di genitori cattolici che, invece, continua a praticare la religione cattolica ? Almeno questa non sarà interessata a iscrivere i figli in scuole confessionali? Qui emerge una spiegazione legata a dati contingenti, per quanto numerosi. La dichiarazione “Non sono più cattolico perché sono stato educato dalle Orsoline o dai Gesuiti o dai Salesiani…” è ormai diventata un leit-motiv. Che l’overdose di preghiere del mattino, rosari, novene, viae crucis, ritiri spirituali…provochi negli animi infantili e giovanili una sazietà facile a diventare allergia è un dato troppo noto per esigere qui delle dimostrazioni argomentate. Per un paradosso soltanto apparente si potrebbe, dunque, evincere che, se una coppia di genitori vuole avere qualche speranza di allevare figli praticanti, deve guardarsi da ogni forma di accanimento catechetico e lasciare che cerchino (e forse trovino) da sé la strada migliore.
       Se le scuole cattoliche non servono né a proteggere dallo “spettro del comunismo” né dalla disaffezione verso le pratiche religiose, non avrebbero proprio nessun’altra funzione educativa da assolvere? Alla luce anche del magistero di papa Francesco I si potrebbe rispondere che ad esse  resterebbe una mission preziosa: essere delle officine dell’agape, dei laboratori della solidarietà, delle oasi di fratellanza. I genitori potrebbero continuare a investire in esse qualora garantissero una formazione alla serietà degli studi, alla sobrietà dei consumi, alla cooperazione fra compagni, alla cura dei deboli, alla legalità democratica, alla nonviolenza nei rapporti fra singoli e fra Stati, al rispetto dell’ambiente, al gusto della meditazione contemplativa…Ma – se siamo disposti alla sincerità almeno con noi stessi – possiamo rispondere affermativamente alla domanda se questi princìpi, questi valori, sono coltivati nelle scuole cattoliche come e più che nelle scuole statali?  In una delle scuole cattoliche più prestigiose di Palermo ho insegnato negli anni Settanta e vi sono ritornato, recentemente, come commissario esterno per gli esami di maturità liceale. Il ricordo era di una scuola né peggiore né migliore delle scuole pubbliche in cui ho insegnato negli ultimi quarant’anni: ma ho trovato un livello di deontologia professionale inferiore alla media. Le pressioni, i tentativi di raccomandazione, le strategie più varie per condizionare la correttezza dei giudizi scolastici hanno scandalizzato, e francamente scoraggiato, tre dei quattro commissari esterni (la quarta collega, dopo alcuni giorni di ostentato e aggressivo legalismo, ha alla fine improvvisamente mutato atteggiamento  contribuendo, con il proprio voto aggiunto ai voti dei commissari interni,  a decisioni palesemente ingiuste). Se questa mia dolorosa esperienza non è stata un episodio isolato, ma la conferma di un trend abituale,   perché i genitori cattolici dovrebbe sprecare denaro per un tipo di scuola privata che non si differenzia, sostanzialmente, da altri meno costosi diplomifici?

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

LA REPLICA DEL PROF.  NICOLA FILIPPONE
Ho letto con molto interesse l’articolo di Augusto Cavadi sulle scuole paritarie e ho apprezzato la lucidità della sua analisi alla quale peraltro sono abituati i suoi lettori. Desidero aggiungere un modesto contributo a quanto da lui scritto, basandolo sulla mia esperienza ultraventennale di docente di un istituto cattolico nel quale, da cinque anni, ho anche la responsabilità della presidenza.
   A quelle da lui considerate - e ritenute ormai in parte superate - dobbiamo aggiungere altre ragioni, ancora estremamente valide e attuali, che possono indurre una famiglia a scegliere la scuola cattolica. Per esempio preferirne una incentrata sulla persona del ragazzo. Tale motivazione, che si ispira anche alla carta costituzionale, si attua innanzitutto nella costruzione e nel mantenimento di una relazione con ciascun allievo fin dal momento dell’iscrizione, che non avviene soltanto attraverso la compilazione di un modulo (nella statale on line), ma dopo un incontro e un colloquio con la famiglia e principalmente col ragazzo che desidera frequentare. Essa continuerà lungo l’intero percorso di studi e coinvolgerà, almeno per ciò che riguarda la nostra realtà, tutti i responsabili dell’educazione, dal direttore agli animatori, dal preside ai docenti, dallo psicologo al confessore, questi ultimi solo se richiesti. Ritengo che tale aspetto sia quello più atteso da alunni e famiglie e costituisca oggi la marcia in più che una scuola debba offrire. È certamente impegnativo (personalmente tengo circa 500 colloqui l’anno), ma necessario e imprescindibile. Anche perché quella del profitto è ormai soltanto una delle dimensioni concernenti la vita dello studente. Egli è fondamentalmente desideroso di un ambiente in cui sia ascoltato, considerato, voluto bene, in cui trovi la serenità che spesso manca a casa, indispensabile per un buon rendimento.
   Tutto ciò crea le premesse ad un’altra importante motivazione: fare in modo che il giovane percepisca la scuola non solamente come istituzione da frequentare, ma come luogo in cui vivere. Non come uno spazio in cui stare cinque o sei ore, ma come una realtà che gli appartiene, dove può fermarsi anche dopo il suono dell’ultima campana ed entrare in qualunque momento della giornata. La scuola assume così la connotazione di una casa in cui i ragazzi rimangono o tornano per studiare, per partecipare alle varie attività proposte (teatro, sport, approfondimenti culturali, recuperi), oppure semplicemente per affermare, con la loro presenza, un diritto associato al piacere di respirare un’aria familiare, di rivisitare, in un’ottica più distesa delle ore di lezione, degli ambienti che sentono loro. Queste sensazioni non scaturiscono dal pagamento di una retta, che in qualche modo assegnerebbe la quota di un bene di cui fruire, ma dalla consapevolezza di far parte di una realtà in virtù di una relazione che non si esaurisce mai, come dimostra l’incessante flusso di exallievi che continuano a frequentare l’istituto dove sono vissuti per anni o a iscrivervi i loro figli. Mi permetto di ribadire quanto dissi un anno fa in un convegno cittadino, alla presenza di varie autorità politiche, accademiche e scolastiche: sono fermamente convinto che il fenomeno delle occupazioni esprima questo desiderio di vivere la scuola, insito in ogni studente. Fino a quando se ne continuerà a parlare o in termini ideologici o, peggio ancora, come di un sistematico stratagemma per anticipare le vacanze di Natale, non se ne verrà mai a capo.
   Spesso i genitori scelgono la scuola paritaria (e dunque pubblica, non privata!) cattolica perché vogliono ancora che i figli ricevano una formazione. Questo concetto, toccato pure da Cavadi, è delicato e controverso perché formare un alunno potrebbe significare plasmarlo e dunque imporgli dall’esterno una forma ideologica o dottrinale. Ma in un’accezione per così dire metafisica la forma non è un involucro, un mero rivestimento, ma una componente sostanziale. Formare può voler dire allora aiutare il ragazzo a scoprire la sua essenza profonda, accompagnarlo nella scoperta e nell’accettazione di sé.
   Ancora qualche precisazione. Preferisco sorvolare sull’aggettivo “confessionale” con cui il prof. Cavadi si riferisce alle scuole cattoliche perché sono sicuro si sia trattato di una svista, lo stimo troppo per credere che abbia potuto usarlo con convinzione. Io non so quale sia stata la sua esperienza, ma posso assicurare, e con me centinaia di allievi e migliaia di exallievi, che nel mio istituto non si esercita nessuna forma di “accanimento catechetico”. Non vorrei scandalizzare nessuno, ma posso dichiarare di lavorare in una scuola laica, nell’accezione più nobile, che però non rinuncia alla sua identità cattolica e salesiana, che promuove la sintesi di cultura e Vangelo e che educa alla solidarietà e anche alla carità. E tuttavia essa opera nel rispetto delle libertà di ciascuno e tra i suoi alunni ha annoverato cattolici, musulmani, protestanti, agnostici e atei, iscritti a gruppi di ispirazione marxista o di estrema destra, aderenti al Movimento per la Vita, ecologisti e liberali o del tutto indifferenti verso la politica. Per noi vale sempre quello che ci ha consegnato Don Bosco: mi basta sapere che siete giovani perché vi ami assai. Siamo convinti che i principi cristiani siano pure antropologici e che attraverso di essi si debba contribuire alla costruzione di una società migliore, giusta e onesta, ma crediamo che la libertà sia un bene dinanzi al quale Dio stesso si ferma.
   Quanto alla dolorosa esperienza vissuta dal prof. Cavadi agli esami di Stato, non credo si debba generalizzare, non so quali elementi egli abbia per affermare che non si sia trattato di un caso isolato e che ci sia addirittura un “trend abituale”. Così come vorrei capire quali strumenti di valutazione egli abbia per misurare la deontologia professionale e giudicare quella delle scuole cattoliche “inferiore alla media”. Qual è la media? Per quello che può valere, la mia è una testimonianza che contiene un trend opposto, sono stato commissario interno d’esami innumerevoli volte - cominciai nel 1998 - ho sperimentato tutte le riforme e quindi ho praticato tutte le tipologie finora attuate. Non ricordo nessuna defezione da parte dei colleghi esterni e, tranne un anno in cui avemmo una presidente che iniquamente si accanì contro i ragazzi per evidenti motivi ideologici e pregiudizievoli, con tutti gli altri ho sempre trascorso momenti molto belli a livello umano e professionale, con alcuni continuiamo a sentirci, a scambiarci gli auguri e di molti di essi mi è capitato di cogliere il desiderio di tornare, che in qualche caso si è pure avverato.
   Un’ultima riflessione sul buono scuola, come è stato ampiamente spiegato la scuola cattolica non chiede soldi, ma si batte per la libertà di educazione, così come previsto dai costituenti. È troppo evidente che finché una scelta sarà subordinata al pagamento di una retta, non sarà mai libera. Pur tuttavia al “Don Bosco Ranchibile” anche quest’anno gli iscritti sono stati numerosi e di ciò siamo grati alle tante famiglie che con notevoli sacrifici non rinunciano all’esercizio di un loro diritto.

Nicola Filippone, preside del liceo "Don Bosco" di Palermo

QUALCHE BREVE NOTA SUPPLEMENTARE DI AUGUSTO CAVADI ALLA REPLICA DEL D.S. NICOLA FILIPPONE

Sono molto grato al preside Filippone per la garbata replica, ma  - poiché parla di un liceo in cui non ho mai messo piede in vita mia - avrei preferito che fosse stato invitato a rispondermi un rappresentante di qualche altro liceo cattolico dove ho insegnato per anni e dove sono tornato alcuni anni fa come commissario governativo per gli esami di maturità: per esempio il liceo "G******" . Sarebbe lungo soddisfare la curiosità del mio cortese interlocutore (che dichiara di non conoscere la mia esperienza), ma almeno qualche cenno glielo debbo. Alcuni giorni prima degli esami una signora si è presentata alle 15 nell'ufficio della presidente della commissione, ha spiegato di essere "cognata dell'onorevole M********"  e di essere venuta per "raccomandare i nipoti". Poi, quando sono iniziati gli esami, una professoressa dell'Istituto che non vedevo da vent'anni è venuta a trovarmi per "segnalarmi" un ragazzo che stavamo esaminando in quei giorni. Accanto a ragazzi davvero in gamba e preparati, ne abbiamo trovati di incredibilmente ignoranti. Ne ricordo uno in difficoltà a cui la collega di latino chiese, in extremis, di parlare almeno un po' di Catullo: "Non ho avuto il tempo di studiare il programma di greco" fu la risposta...Le mie domande sulla Costituzione italiana erano solitamente accolte dagli studenti con uno sguardo spaesato, nonostante - come d'obbligo ministeriale - si trattasse di un argomento regolarmente inserito nel programma consegnato. A un certo punto ho chiesto alla preside del liceo di dirci, per i singoli candidati, quali "sufficienze" fossero autentiche e quali gonfiate: ma ha risposto, mentendo clamorosamente, che erano tutte valutazione meritate ! Alla fine, dopo logoranti trattative, avevamo concordato di promuovere tutti tranne tre "indifendibili" (che, cioè, non avevano raggiunto neppure la media del "quattro" tra scritti e orali). Ma, quando l'indomani ci siamo rivisti per firmare i verbali, una docente esterna dichiarò di non aver dormito tutta la notte e di aver cambiato idea: avrebbe votato, insieme a tutti e tre i membri interni, per la promozione dell'intera classe! Così avvenne provocando in noi colleghi, insieme a uno stupore enorme, il sospetto che all'improvvisa 'conversione' notturna avesse contribuito la stretta parentela della professoressa con l'onorevole S****** (in quel momento presidente del *************  ****  *********). La presidente della commissione e i restanti due membri, nel congedarci dal rettore gesuita dell' Istituto, ci tenemmo a esternare la nostra totale disapprovazione per l'esperienza professionale che avevamo vissuto. 
  Qualche giorno dopo ho ricevuto una mail anonima di un alunno che mi rinfacciava una grave mancanza pedagogica: proprio il giorno d'inizio degli scritti avevo avuto il sadismo di pubblicare, sulla prima pagina dell'edizione palermitana di "Repubblica", un editoriale in cui avevo affermato che tutti gli alunni vanno trattati equamente e, se proprio una differenza si dovesse fare, la si dovrebbe a sfavore di quanti risultassero consenzienti con le "raccomandazioni" di familiari e amici.
 Chiudo (lasciando ai due o tre lettori masochisti arrivati sin qui di giudicare con la propria testa tutti gli altri argomenti del professor Filippone) con un augurio: che il caso del suo liceo salesiano rappresenti la "media" degli istituti cattolici molto meglio del liceo ********* della medesima città.
Augusto Cavadi 
www.augustocavadi.com

domenica 3 aprile 2016

LA CRISI DELLE SCUOLE CATTOLICHE (PRIMO INTERVENTO)


“Repubblica – Palermo”
31.3.2016

LA CRISI DELLE SCUOLE CATTOLICHE NON E’ SOLO ECONOMICA

      Il calo d’iscrizioni nelle scuole cattoliche in Sicilia  – di cui si è occupato un servizio della nostra testata - è certamente legato a contingenze finanziarie, soprattutto al combinato disposto  di riduzione dei contributi pubblici e impoverimento dei bilanci familiari. Ma sarebbe un po’ riduttivo limitarsi a questo livello di analisi. Al di sopra, o al di sotto, agiscono infatti motivazioni culturali su cui varrebbe la pena accendere le luci della riflessione. Mi riferisco, innanzitutto, al mutamento di mentalità politica: fasce sempre più nutrite di popolazione capiscono che lo Stato non può esigere imposte senza offrire servizi. Chi  - volentieri o a collo storto – paga le tasse ha imparato a pretendere la gratuità (o quasi) del soddisfacimento di alcuni diritti primari come la sanità e l’istruzione. La credibilità dello Stato dipende sempre di più dalla sua capacità di essere, e di mostrarsi, Stato sociale: Welfare State.
      Ma il mutamento culturale riguarda anche il punto di vista ideologico-pedagogico. Una motivazione tradizionale induceva molti genitori a iscrivere i figli in scuole cattoliche per garantirgli un ambiente protetto, una sorta di  serra extra-territoriale in cui potessero evitare le influenze negative di ideologie pericolose (più o meno imparentate con lo spettro del comunismo) e ricevere un’educazione religiosa. Ma, dopo la crisi delle “grandi narrazioni”, la prima di queste due ragioni è venuta meno: in quale scuola statale un ragazzo corre il rischio di diventare “troppo” di sinistra ? Si può discutere se questa scomparsa sia un bene o un male per la società, ma non si può certo negare che sia un dato oggettivo e notorio. Spendere soldi per difendere la progenie da nefasti influssi rivoluzionari sarebbe come investirli in tende protettive anti-tempeste di sabbia al Polo Nord. Nell’epoca del “pensiero unico” - intessuto di individualismo, competitività, rampantismo sociale, liberismo economicista, lusso esibizionistico, xenofobia – è da questa “visione del mondo” che, se mai, le famiglie dovrebbero tentare di difendere i figli. Però non passa neppure dall’anticamera del cervello: una solida formazione borghese-perbenista, ai nostri giorni, può riuscire sempre utile nella vita. 
       Ma, almeno, funziona la seconda motivazione? Le scuole cattoliche, dalle materne alle medie superiori, assicurano una formazione religiosa maggiore delle scuole statali? Basta interrogare gli ex-alunni e soprattutto le ex-alunne per sapere che la risposta è negativa.
        E’ negativa se, un po’ sommariamente, s’intende per “educazione religiosa” l’affezione alle pratiche liturgiche, alla preghiera personale o di gruppo, allo studio delle Scritture. La precocità  ( e non di rado l’insistenza) di alcune forme di catechesi ottengono  - di norma – l’effetto contrario a ciò che si propongono: messe e novene, ritiri spirituali e raduni oceanici in piazza San Pietro, provocano un senso di sazietà che qualche volta assomiglia al disgusto. Per non parlare degli effetti controproducenti di omelie unilateralmente incentrate sulla “purezza sessuale” e sui modelli di “famiglia cattolica”. Espressioni come “I miei figli non vogliono sentir parlare di religione: sono stati otto anni a scuola dalle suore” sono ormai diventate dei ritornelli.
       La situazione non appare molto diversa se, in accordo con le nuove prospettive teologiche di cui anche papa Francesco si sta facendo portavoce, intendiamo per “educazione religiosa” – ben al di là dell’addestramento a pratiche confessionali - la formazione di una coscienza evangelica. Sono le scuole cattoliche una palestra di sincerità con sé stessi e con gli altri, di cooperazione fra compagni di classe, di sobrietà nei consumi, di solidarietà verso gli strati sociali più deboli, di legalità democratica, , di attenzione all’ambiente? Anche sulla base di recenti esperienze professionali devo, con tristezza, rispondere anche qui negativamente. E’ una tradizione che viene da lontano:  ho sulla punta della lingua vari nomi di protagonisti attuali della cronaca politica che, educati in prestigiosi istituti cattolici, non hanno certo offerto  testimonianze esemplari dal punto di vista etico. Non che – invece – nelle scuole statali quei principi (che sono anche evangelici, ma condivisi dalle coscienze laiche più mature) siano coltivati meglio: ma, se non si vede nessuna differenza (e qualche volta la si nota a vantaggio delle scuole statali) , a che pro le famiglie dovrebbero impegnarsi a spendere di più ?

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com