mercoledì 25 luglio 2007

SICILIA? PICCHIARE LE DONNE E COPPOLE STORTE


“Repubblica - Palermo” 25.7.07

Augusto Cavadi


LA FALSA DIFESA DELL’ORGOGLIO REGIONALE

Prima la fotografia del mafioso coi turisti che sbarcano dalla nave da crociera; poi la dichiarazione del ministro degli Interni sul maschilismo violento dei siciliani. E subito scattano le proteste bipartisan in nome del regionalismo offeso. La Royal Caribbean è costretta a chiedere scusa e a promettere solennemente che nessuno dei suoi collaboratori avrebbe indossato la coppola (neppure per scherzo: la performance è riservata a Cuffaro quando va da Santoro) e lo stesso Amato si precipita a precisare ciò che, dal contesto del suo intervento, qualsiasi ascoltatore di buon senso (se non prevenuto per avversione ideologica) aveva già capito: che a picchiare le donne in famiglia non sono i siciliani di oggi, ma i siciliani (anzi, numerosi siciliani) delle generazioni precedenti.

Sappiamo che far leva sull’orgoglio degli isolani costa poco e rende (dal punto di vista del consenso, anche elettorale) molto. Ma ciò non giustifica le scomposte espressioni di sciovinismo provinciale offerte da alcuni politici (soprattutto, non esclusivamente, di centrodestra).

Circa la seconda accusa , perché non riconoscere che si tratta - sostanzialmente - di una constatazione? Gli italiani del 2007 ci scandalizziamo ad ogni piè sospinto di usi, costumi, riti e simboli di altre civiltà (soprattutto islamiche), dimenticando - o facendo finta di dimenticare - che solo di recente la secolarizzazione ha comportato l’abolizione (e neppure totale e non sappiamo se irreversibile) di analoghi usi e costumi in voga da noi. Angelino Alfano, coordinatore siciliano di Forza Italia, non vedendo in giro nessun maschio che picchia sorelle, mogli e figlie, ha interpellato amici e parenti (”Questi violenti costumi non sono mai esistiti. Non soddisfatto della mia memoria, ho chiesto subito informazioni ai miei genitori, ai loro amici e persino a mia nonna. A nessuno risulta che, in Sicilia, fosse costume abituale picchiare la donna”): forse, con un’idea un po’ meno ristretta di ‘violenza’, la sua mini indagine storico-sociologica avrebbe dato risultati ben diversi. Quando frequentavo il liceo la stampa nazionale segnalò il coraggio di Franca Viola, una ragazza di Alcamo che - per la prima volta nella storia siciliana (1965) - rifiutava il matrimonio riparatore dopo essere stata rapita da uno spasimante a lei sgradito. Quando frequentavo l’università (1969 - 1973) , alcune colleghe venivano a lezione con un velo che le copriva quasi interamente lasciando visibili solo gli occhi e una parte del viso: si trattava di giovani suore cattoliche che, per la prima volta nella storia delle loro Congregazioni, erano state autorizzate a studiare in luoghi pubblici e promiscui. E non si è dovuto attendere la legge n. 442 del 5 agosto 1981 per vedere cancellatala l’attenuante del delitto d’onore (quasi sempre a vantaggio di un marito o di un padre geloso) dal codice penale italiano? Capisco che un ministro della Repubblica dovrebbe saper rinunziare al vezzo professorale, alla Ratzinger, di innamorarsi della battuta tagliente, al punto da non valutarne l’impatto mediatico (ricordate la citazione del papa a Ratisbona?). Amato va corretto tuttavia perché la sua infelice espressione si presta ad essere interpretata come generalizzazione di fenomeni che, per quanto diffusi in una cultura, non possono attribuirsi alla totalità dei soggetti appartenenti a quella cultura (né alla siciliana né - ma questo non l’ho sentito da nessuno - alla pakistana). E anche perché lascia in ombra la tragica verità (ricordata dalle dichiarazioni di alcune donne, come Anna Finocchiaro e Piera Fallucca) che la violenza sulle donne non solo non è un’esclusiva dei siciliani d’altri tempi ma neppure dei paesi di tradizione musulmana: è un malcostume planetario. Solo qualche mese fa le amiche della redazione di “Mezzocielo” hanno dedicato un intero numero alla violenza contro le donne: e non era né una ricognizione storica né un’indagine antropologica su popolazioni di continenti lontani…

Per quanto riguarda, poi, la prima querelle, non c’è molto da aggiungere a quanto altri hanno osservato tempo fa a proposito della polemica sugli sceneggiati televisivi dedicati alla mafia: scandaloso non è raccontare (più o meno bene, con un romanzo o con un film o con una canzone) la mafia, ma che ci sia ancora una mafia da raccontare. Oggi possiamo dire: chi si indigna perché nell’immaginario collettivo internazionale la Sicilia richiama la lupara, che cosa ha fatto e che cosa sta facendo perché questo nesso sfumi nella memoria e si rarefaccia e si riduca a mero luogo comune? Non so se sul pianeta esista una regione governata da un politico che, negli ultimi anni, ha visto inquisire, processare e condannare per reati mafiosi numerosi colleghi di giunta, sodali di partito, amici personali. E che lui stesso sia sotto processo con accuse gravissime oscillanti fra il concorso esterno in associazione mafiosa e il favoreggiamento.

Se la compagnia navale che ha fatto fotografare i turisti accanto ad un burlone travestito da mafioso merita qualche obiezione, è per ragioni opposte a quelle sinora ascoltate: ironizzare sul potere mafioso è sì un modo di togliergli ogni aura di intoccabile sacralità (e di liberare i turisti dalla preoccupazione ingiustificata di diventare bersagli di sparatorie alla Far West) , ma rischia di rafforzare in noi siciliani la convinzione che si tratti, alla fin fine, di una zavorra tollerabile.

venerdì 20 luglio 2007

LA SCUOLA ITALIANA: ECCESSIVA BONTA’?


“Repubblica - Palermo” 20.7.07

Augusto Cavadi



MA BOCCIARE PUO’ ESSERE DEMOCRATICO

“Non bastano le bocciature a ridare valore alla maturità“: questo il titolo (e il senso) dell’intervento di Maurizio Muraglia sull’edizione di domenica 15. Forse per mancanza di spazio, questa volta l’autore (che non è solo un’opinionista, ma il coordinatore provinciale di una serissima associazione di docenti progressisti) si ferma alla diagnosi senza accennare, neppure sinteticamente, a quale possa essere la terapia. Ma se nelle lamentele è facile trovare consensi, le divergenze si profilano quando si passa alle proposte concrete di soluzione. Ed è significativo che queste divergenze tagliano, trasversalmente, gli schieramenti ideologici e politici mettendo in evidenza come - su determinate problematiche - la spaccatura fra ‘destra’ e ’sinistra’ sia molto meno rilevante che fra buon senso e miopia culturale. Quando, ad esempio, si cita con toni squalificanti la riforma Gentile del 1923, si dimentica - o si ignora - che il progetto originario (snaturato su molti punti dal filtro del regime fascista) aveva assimilato gli apporti di liberali come Croce e socialisti come Salvemini, che non per caso si dichiararono subito entusiasti. Che dopo più di ottanta anni - e quali anni ! - si dovesse mettere mano al sistema scolastico è evidente; molto meno che si dovesse scardinare, nella normativa e ancor più nella prassi quotidiana, ogni criterio di selezione per meriti. Invece è proprio qui il cuore della questione, la radice di tutti i mali.


Una maestra elementare a me molto cara, poche settimane fa, ha proposto che un alunno (le cui assenze durante l’anno scolastico erano state sproporzionatamente maggiori rispetto alle presenze, con consequenziali risultati disastrosi sul piano didattico) non fosse ammesso alla classe successiva. Le colleghe, in sede di conversazioni preliminari, si erano dichiarate d’accordo ma quando - al momento degli scrutini - la dirigente ha apostrofato con sarcasmo l’insegnante che proponeva la bocciatura (”E’ arrivata la giustiziera della notte!”), le altre si sono immediatamente allineate in buon ordine votando compatte per la promozione.

Qualche giorno dopo, a pranzo con un ragazzo liceale promosso a pieni voti all’ultima classe, è capitato di scambiare due paroline su Kant. Ero curioso di sondare cosa pensasse un adolescente di oggi dell’etica kantiana ma, dopo le prime battute, mi sono reso conto che parlavamo di due autori diversi: il mio giovane interlocutore attribuiva al pensatore tedesco del Settecento le idee di Cartesio, pensatore francese del secolo precedente. Non ho potuto trattenere un’espressione di stupore, ma la risposta mi ha lasciato senza parole: “Sa, Kant l’ho studiato un mese fa, ma come vuole la nostra insegnante: un riassunto del manuale in adozione e via! Tanto il sette in pagella, con questo metodo, lo abbiamo assicurato tutti”.

Muraglia sostiene che all’esame di maturità i commissari esterni non hanno il compito di verificare se un nove in matematica o in greco è veramente un nove, quanto piuttosto di “far emergere lo spessore culturale dello studente”, ossia se “il candidato sia diventato capace di trasformare quel che ha imparato in cultura, in capacità di porre e porsi problemi, in sguardo critico sulla realtà“. Perfetto. Non ci si potrebbe esprimere meglio. Ma a Muraglia sarà capitato, come a me sino a quando la vita non mi ha insegnato a stendere pietosi veli di silenzio, di chiedere in sede di esame di maturità che cosa il candidato pensasse - lui personalmente - della decisione di Antigone di seppellire il cadavere del fratello nonostante il divieto del re e di sentirsi obiettare: “Scusi, professore, ma non mi pare che in programma ci sia il paragrafo in cui si risponde a questa domanda”. A parte il fatto che, ancor più radicalmente, anche il ragazzo più sveglio e più giudizioso non può essere preciso nella sua valutazione del gesto di Antigone se la confonde con Elettra o con Clitemnestra…

Nessun filtro alle elementari, nessun filtro alle secondarie superiori: ma almeno all’università? Che ormai le Facoltà assomiglino ad anonimi esaminifici in cui un 18 non si nega a nessuno, lo ammettono quasi tutti i docenti. Dopo la laurea, ci sarebbe - prima dell’insegnamento - la barriera o di un concorso pubblico o di un corso di specializzazione in S.S.I.S. Per quanto riguarda la Ssis, devo accontentarmi delle confidenze di professori che vi lavorano da anni: quando sarebbe il caso di negare ad un candidato l’abilitazione all’insegnamento, c’è sempre in commissione un collega che lo ha seguito nel percorso universitario (certe volte persino per la tesi finale) e si oppone con tutta la sua autorevolezza alla non-abilitazione. Per quanto riguarda i concorsi pubblici, invece, ho parecchie e tristi esperienze dirette. Una delle ultime volte ho invitato un candidato all’insegnamento nei licei a consegnare, a noi della commissione addetta alla vigilanza durante gli scritti, un manuale da cui aveva iniziato a copiare sottobanco. Con sguardo attonito, l’interessato chiese se anche per la prova del giorno successivo avrebbe incontrato di nuovo me: “Se è questa la previsione, è meglio che torni a casa e mi risparmi i soldi dell’albergo. Ma sappia che lei sta commettendo una grave ingiustizia: mi sta proibendo di consultare il manuale, mentre tutti i miei colleghi che sono presenti nelle altre venti aule di questo istituto stanno copiando tranquillamente col tacito consenso delle commissioni”. Sulle conseguenze che avrei dovuto trarre io (o farlo copiare o darmi per malato il giorno dopo), l’aspirante docente aveva torto (e, infatti, non ebbe da ribattere nulla alla mia semplice domanda se si sarebbe augurato per un suo figliolo un insegnante come lui). Ma sulla fotografia della situazione generale di lassismo permissivo aveva ragione da vendere. La tragedia della scuola italiana - o per lo meno siciliana - comincia proprio da qui. Inflazionare i titoli di studio anziché socializzare le conoscenze non è democrazia, ma demagogia. Perciò è preparare generazioni di sudditi illudendosi di lavorare per la giustizia sociale.

mercoledì 18 luglio 2007

UNA ANALISI ANTROPOLOGICA DEGLI STUDIOSI DI CIVILTA’ ANTICHE


“Repubblica - Palermo” 18.7.07

Augusto Cavadi


FILOLOGIA PER LA VITA QUOTIDIANA

L’antropologo studia i propri simili con atteggiamento - almeno intenzionalmente - asettico: senza ira moralistica né zelo apologetico. Sappiamo che cosa succede quando un medico o un avvocato o uno spacciatore di cocaina decide di raccontare, con atteggiamento antropologico, mentalità e comportamenti quotidiani dei suoi colleghi: un pandemonio. Qualcosa del genere provoca un professore universitario quando analizza, con sguardo scientificamente oggettivo, la propria categoria. Se l’ultimo libro di Andrea Cozzo (La tribù degli antichisti. Un’etnografia ad opera di un suo membro, Carocci, Roma 2006) non ha suscitato un vespaio analogo lo si deve - probabilmente - al fatto che gli studiosi di civiltà antiche, in particolare della civiltà greca, sono pochi, sono molto educati e, se proprio devono reagire alle provocazioni di un eretico della loro chiesa, preferiscono metodi discreti dagli effetti di lungo periodo.

Peccato. Perché il libro del docente universitario palermitano non è soltanto intelligentemente provocatorio ma propositivo. Solleva questioni che, almeno per chi vive nella Magna Grecia, sono ineludibili e ricorrenti (basti pensare alla domanda imbarazzante che tutti i ragazzini che si iscrivono al primo anno dei licei classici pongono al docente di turno: a che serve studiare il greco?) e offre risposte che, per quanto opinabili, sono meditate e argomentate. Infatti si preoccupa, preliminarmente, di evocare le risposte ufficiali più diffuse e solo dopo averne saggiato la consistenza tratteggia la propria convinzione. Per restare nell’esempio, Cozzo richiama alcune opinioni sulla cui parzialità raramente si è disposti a discutere (i Greci vanno studiati perché avevano gli stessi interrogativi che abbiamo noi oggi; oppure perché rappresentano un modello superiore di umanesimo; oppure perché conoscerne la lingua ci permette di capire senza vocabolario molte parole dell’italiano di oggi; oppure perché la frequenza con i loro testi ci educa al gusto estetico e all’eleganza nel nostro modo di esprimerci…) e si diverte - con serietà talora tragica - a ribaltarle per vederne l’altro lato, chiedendosi ad esempio, con Salvatore Settis, se i Greci vanno ancora studiati perché ci assomigliano o non piuttosto perché sono diversi, lontani, altri.

Non avrei né lo spazio né la competenza tecnica per entrare nei dettagli del volume, ma non posso esonerarmi da due osservazioni di interesse generale. La prima è che il libro costituisce una felice esemplificazione di ciò che ogni professionista dovrebbe fare qualche volta nella vita: chiedersi che senso abbia il proprio lavoro. Cozzo ricorre ad una citazione illuminante di Nietzsche che riguarda un certo settore di attività ma che ogni lettore può senza difficoltà estendere al proprio ambito: “Esiste un modo per occuparsi di filologia, ed è frequente. Ci si getta sventatamente - o si è gettati - su un qualche argomento: di lì si guarda a destra e a sinistra, si trovano molte cose buone e originali. Ma in un momento di debolezza ci si domanda: ‘Che diavolo mi importa di tutto ciò?’. Frattanto si è invecchiati, ci si è abituati, e si continua su quella strada, come nel matrimonio”.

La seconda osservazione ci tocca, più da vicino, come cittadini di Palermo. Si può fare ricerca storica o cinema, giornalismo o imprenditoria, poesia o politica come se vivessimo a Stoccolma o a Sidney? Che ogni attività, soprattutto se di valenza marcatamente intellettuale, implichi una presa di distanza dal proprio contesto sociale immediato è fisiologico: come potremmo ipotizzare scenari di cambiamento se fossimo immersi nella marea sino ai capelli? Ma una cosa è fare un passo indietro metodologico - per poi ritornare nel proprio ambiente con la testa alleggerita da certe tensioni e arricchita da nuove intuizioni - e tutta un’altra cosa è illudersi, in nome di privilegi fortuiti e quasi sempre immeritati, di poter mettere definitivamente fra parentesi i drammi che si consumano appena fuori dalla nostra campana di vetro opaco. Cozzo lo sa dire nella maniera semplice e convincente di chi vive effettivamente certi sentimenti (e non è un caso che da anni egli abbia attivato dei corsi di Teoria e pratica della nonviolenza nella nostra Facoltà di lettere e filosofia e si dedichi a sperimentare metodi di lotta contro il sistema di potere mafioso ispirati a Gandhi e a Danilo Dolci). Libri come questo - confessa egli a un certo punto - nascono da domande che mi sono posto “mentre mi guardavo intorno e vedevo guerre, povertà, problemi sociali, violenze grandi e piccole e le sofferenze connesse: lontane, nei posti di cui leggevo sui giornali, o vicine, nelle strade adiacenti al parco ormai cementificato in cui si stende la strada che si chiama forse un po’ narcisticamente viale delle Scienze su cui sorge il mio dipartimento. Bastava alzare gli occhi da Omero, dall’apparato critico di Tucidide, dalle figure retoriche della critica letteraria (…), per vedere che là, davanti alla finestra, si attuavano prevaricazioni, si aggiravano mendicanti, si litigava, si giustificavano guerre, si discuteva cercando di prevalere sull’interlocutore, si faceva forza sull’età, sul sapere, sul genere sessuale, sulla gerarchia”. Forse chiunque di noi, pungolato da questo insolito insegnante universitario che gira in jeans e magliette da mercatino rionale anche là dove giacca e cravatta servono come simboli di uno status invidiabile, potrebbe riconoscersi nel suo gesto di autocoscienza critica: “E’ bastato alzare lo sguardo dai libri per rendermi conto che il mondo è più grande di me con i miei libri e che io vivo in quel mondo e non sono innocente rispetto a ciò che avviene in esso”.

venerdì 13 luglio 2007

UNA SPIRITUALITA’ LAICA E’ PRATICABILE?


“Centonove” 13.7.07

Augusto  Cavadi

QUANDO LO SPIRITO E’ LAICO

In uno dei suoi libri Romano Guardini racconta di due giapponesi  - giunti in Europa per partecipare ad un congresso internazionale di filosofia -  che, al secondo giorno, salutano con proverbiale cortesia e tornano a casa con questa giustificazione: “Qui si parla tutto il giorno, non c’è nessuna pausa di silenzio per riflettere”. Che cosa avrebbero detto i due visitatori orientali se si fossero trovati coinvolti, dalle nostre parti, in una riunione di partito o in una seduta dell’assemblea regionale? Sulla base di simili preoccupazioni il presidente Bertinotti sta curando l’apertura, alla Camera dei deputati, di una stanza di meditazione aconfessionale che possa favorire tra i suoi colleghi l’attuazione del saggio consiglio sanremese: “Prima di sparare (opinioni estemporanee), pensa”.

E’ un segnale che, rettamente interpretato, potrebbe contribuire a modificare attitudini mentali e comportamentali. In realtà come la nostra, infatti, vige una sorta di alternativa secca: o spiritualità o laicità. Dove per ’spiritualità‘ si intende, subito e soltanto, la spiritualità teologico - cattolica  (messe, processioni, viae crucis, meditazioni bibliche) e per  ‘laicità‘, altrettanto riduttivamente, un mix di scetticismo e di pragmatismo (dunque: abilità dialettica, progettualità operativa, ironia nei confronti delle domande esistenziali). Questa devastante logica dell’ aut - aut  spiega, in radice, molti episodi di cronaca quotidiana: ad esempio il rifiuto di molte amministrazioni comunali di destinare uno spazio ai funerali di chi, al termine di una vita ispirata a valori civili, abbia espresso il desiderio di  non concluderla in una chiesa cristiana o in una moschea islamica.

Ma non si possono ipotizzare strade nuove?  Non è possibile che, accanto ai luoghi della spiritualità confessionale (cattolica, protestante, islamica o ebraica, antica come l’induista o recente come la  new age)  - e senza alcuna competizione polemica rispetto ad essi - una città davvero democratica e pluralistica favorisca l’attivazione di spazi in cui elaborare, sperimentare, condividere delle modalità di spiritualità laica? A giudicare da certe voci  sembrerebbe di no: i più accesi fra gli atei ( in paradossale accordo con i credenti più dogmatici) affermano che laicità debba implicare un’opera di smantellamento teorico e ostruzionismo pratico nei riguardi di ogni chiesa. Non qualche volta e per legittima difesa da eventuali, puntuali, ingerenze  delle gerarchie vaticane, ma sempre e per principio. Eppure questa prospettiva polemica (a prescindere da altre considerazioni) non sembra strategicamente la più efficace: rischia, del tutto involontariamente, di attizzare complessi di persecuzione e, quel che è più grave, sottrae tempo ed energie alla costruzione di alternative credibili e praticabili.

Il raccoglimento, le pause di silenzio, la contemplazione del bello, l’invocazione interiore al Mistero, la convivialità fraterna: dimensioni ’spirituali’ che non appartengono, in esclusiva, a nessuna tradizione storica perché costitutive della struttura antropologica universale. Ma il mondo laico sembra dimentircarsene. E’ molto bravo nel protestare per l’invadenza delle chiese, molto meno nell’approntare spazi e metodi che rispondano alle esigenze di senso diffuse nella società. Che significherebbe, in concreto, circoscrivere il monopolio teologico - confessionale della spiritualità non in maniera precipuamente aggressiva bensì offrendo, in positivo, occasioni di maturazione umana e di condivisione amicale? A Palermo, ad esempio,  non sono mancati in questi decenni dei tentativi di sperimentare aggregazioni in nome di ideali  differenti dalla tradizione cattolica mediterranea (circoli yoga, centri di meditazione buddhista, associazioni culturali dove si leggono poesie, si ascolta musica non commerciale, ci si aiuta a capire delle pitture e così via). Da qualche anno, coordinate dall’avvocato Pietro Spalla, si svolgono con puntualità quindicinale delle “cenette filosofiche per …non filosofi” e, coordinate dal sociologo Giovanni La Fiura, degli incontri mensili di spiritualità laica (sotto l’etichetta autoironica di “domeniche di chi non ha chiesa”). In questa direzione, poi, la Scuola di formazione etico - politica “G. Falcone” ha tenuto il decimo seminario estivo di “spiritualità e politica” (l’ 8, 9 e 10 giugno a Gibilmanna col titolo “La laicità in gioco”). Ad introdurre gli incontri sono stati Marcello Vigli (autore del recentissimo volume della Dedalo Contaminazioni.  Un percorso di laicità  fuori dai templi delle ideologie e delle religioni), Giovanni D’Anna (un docente, padre di famiglia, che anni fa è stato il primo palermitano consacrato “diacono permanente” nella chiesa cattolica: dunque un battezzato non destinato a procedere verso il presbiterato) e Vittorio Villa (docente di filosofia del diritto e attento studioso, non certo asetticamente distaccato, del “relativismo”).Sono piccole zattere nel mare della quotidianità, ma non è detto che non si moltiplichino con presupposti e prospettive di diverso orientamento culturale. In ogni caso sono un appello a non rassegnarsi: la secolarizzazione - il progressivo tramonto di credenze e simbologie religiose tradizionali - non deve necessariamente portare a trascorrere le serate ad eccitarsi davanti ai quiz televisivi né le domeniche ad annoiarsi se i negozi restano chiusi. Altrimenti non stupiamoci se qualcuno, anche giovane,  per sfuggire all’asfissia della banalità, preferisce tornare al rosario della nonna o alla medium che parla con i trapassati.

giovedì 12 luglio 2007

PARTITO DEMOCRATICO E SINISTRA RADICALE


“Repubblica – Palermo” 12.7.07

Augusto Cavadi

LA DOPPIA ANIMA RIFORMISTA DEL CENTROSINISTRA SICILIANO

All’affollata assemblea convocata, lunedì sera, da “Primavera siciliana” nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo, Rita Borsellino  - rispondendo ad alcune sollecitazioni -  ha spiegato che  il suo ruolo di leader attuale dell’Unione non le consente di aderire all’una (Partito democratico) o all’altra (Sinistra democratica) delle due principali gambe in cui si sta strutturando l’attuale schieramento di centro-sinistra. E che suo compito è piuttosto di “fare sintesi” fra le istanze culturali e politiche delle due formazioni.


Per la genesi della sua candidatura e per le modalità con cui si sono svolte, sinora, le vicende all’Ars, è difficile contestare la posizione della Borsellino. Altrettanto chiaro è che non sarebbe auspicabile un medesimo atteggiamento di equidistanza  - o anche solo di equivicinanza - da parte di tutti gli altri cittadini che si riconoscono nei principi valoriali del progressismo: se ognuno si riservasse il diritto di non decidere, di non posizionarsi, mantenendo un nobile distacco  dalle strettoie organizzative, con che diritto potrebbe poi lamentarsi se nelle strutture partitiche prevalgono gli arrivisti o (nei casi migliori) i naviganti a vista? Parafrasando don Milani potremmo dire che se quanti sono disposti a servire la politica eviteranno di perdere tempo nelle sezioni di partito, le frequenteranno solo quanti hanno intenzione di servirsi della politica.

Ma - ciò detto - va aggiunto che l’opzione non è per nulla facile. Quale persona di media onestà se la sentirebbe di aderire ad un Partito democratico siciliano dove non mancano le nostalgie dei bei tempi passati (e - perchè no ? - anche futuri) in cui Cuffaro supportava le giunte di centro-sinistra con la sua strabiliante macchina clientelare? E quale persona di media intelligenza se la sentirebbe di aderire ad una Sinistra democratica siciliana affollata di profeti dell’utopia che, nei rari casi in cui arrivano ad amministrare un pezzettino d’istituzione, oscillano fra inefficienza e darwiniano adattamento all’ambiente? 

Allo stato, “riformismo” suona come sinonimo di moderatismo, gestione dell’esistente e continuismo con il peggio che abbiamo saputo esprimere dall’autonomia ad oggi; “radicalismo” suona come sinonimo di ribellismo, mancanza di progettualità razionale e impaziente intolleranza. Se la situazione permane in questi termini, che prospettive di cooperazione strategica restano? Un tenue filo di speranza sarebbe costituito da un processo di riqualificazione dei due arti dell’Unione. Da un inserimento (o da una valorizzazione se già inseriti) , nei gangli del Partito democratico, di soggetti che intendano il riformismo come via realistica alla trasformazione di un sistema che usa la libertà come alibi per non praticare la giustizia sociale. E nei gangli della Sinistra democratica di soggetti che intendano l’utopia come méta verso cui tendere instancabilmente, non come alibi per esonerarsi dalla fatica quotidiana di realizzare nel microcosmo in cui si ha potere il cambiamento che si sogna ad occhi aperti nel macrocosmo. Insomma se le due case che si stanno costruendo anche in Sicilia ospiteranno riformisti che vogliano riformare e rivoluzionari che non si affezionino alla logica del “tutto o niente”, la sintesi per cui lavora la Borsellino sarà un po’ più che il lodevole proposito di una donna di buon senso prestata alla politica militante.

giovedì 5 luglio 2007

STORIA DEL PRIMO PENTITO DI MAFIA


“Repubblica – Palermo”5.7.07

Augusto Cavadi 

L’EREDITÀ DEL PENTITO VITALE, L’UOMO DI VETRO 

D’accordo: non è un capolavoro. Ma neppure un film tanto brutto da giustificare una sala quasi del tutto deserta nell’unica proiezione domenicale prevista in tutta la città. E, per giunta, in uno dei rarissimi cinematografi di periferia: proprio a due passi dalla casa dove il protagonista  - il giovane Leonardo Vitale - ha vissuto, ha ammazzato, si è pentito sinceramente di aver imbroccato una strada senza senso ed è stato a sua volta ucciso per vendetta dai mafiosi che aveva ‘tradito’ fidando in un sistema giudiziario del tutto impreparato (siamo agli inizi degli anni Settanta) a gestire simili ‘collaboratori’.
Perché i palermitani non fanno la fila per vedere L’uomo di vetro? Vogliamo supporre che il flop sia dovuto principalmente al calendario e che, proiettato in un’arena all’aperto, possa attrarre un numero più significativo di spettatori. Se, infatti, esteticamente è un prodotto artistico per il quale sarebbe esagerato spendere l’aggettivo imperdibile, dal punto di vista storico-culturale costituisce un’offerta coraggiosa e istruttiva. Coraggiosa perché, con i rischi del caso, prova a non usare la storia come pretesto per una fiction e a mostrare come in certi casi essa si snoda in maniera così enigmatica e ingarbugliata da risultare più fantasiosa di molte invenzioni letterarie. Istruttiva perché istruttiva è stata, per molti versi, la vicenda di Leonardo Vitale. Essa infatti, mostrando che se un soggetto racconta davvero cos’è la mafia rischia di essere scambiato per un pazzo, mostra  - per conseguenza logica - che nella vita sociale e politica siciliana si sono svolte e continuano a svolgersi vicende incredibili, assurde, inaccettabili per una coscienza mediamente sana. Vicende - alla lettera - pazzesche. Quando gli storici dovranno raccontare che un presidente del governo nazionale viene osannato dall’opinione pubblica perché in sede giudiziaria si stabilisce che per anni ha trattato con i mafiosi, ma solo sino a una certa data, sì che per quel reato caduto in prescrizione non può più essere condannato; o che un presidente del governo regionale viene rieletto a schiacciante maggioranza quando ancora sono in corso i processi che lo vedono imputato di accuse gravissime riguardanti i suoi rapporti con i mafiosi e i loro referenti politici; quando gli storici dovranno raccontare questi fatti oggettivi alle generazioni di domani, rischieranno anche loro di essere scambiati per folli o per manipolatori? Forse la sentenza shakespeariana sulla storia umana simile al vaneggiamento notturno di un idiota in preda all’ubriachezza, valida per l’Inghilterra elisabettiana e per ogni epoca, in Sicilia lo è un po’  più che altrove.Ma Leonardo Vitale, oltre a essere scambiato per folle perché raccontava cose (vere) pazzesche, non era anche davvero un po’ folle? Pare che su questo non ci fossero dubbi.  Ciò però, lungi dall’inficiarla, accreditava   - meglio: avrebbe dovuto accreditare - la sua testimonianza. Se uno zio ti accompagna quando hai tredici anni ad ammazzare un cane, a quindici un cavallo,  a diciassette un uomo che non conosci e che non ti ha fatto nulla di male; se cinque anni dopo ti suggerisce di ucciderne un altro, senza che tu ne sappia la ragione; se a trent’anni prendi coscienza dell’idiozia di questa condizione esistenziale e sociale, è più ovvio che resti sano di mente o che qualcosa ti si scombussoli? Uno che confessasse tali colpe in perfetto equilibrio intellettuale ed emotivo sarebbe davvero più credibile di uno che - proprio come effetto di esperienze allucinanti realmente vissute - dà segni di sconforto, spaesamento, talora autolesionismo? Uscendo dal cinema, un’amica che ha conosciuto da vicino le vicende narrate si chiedeva  - senza darsi una risposta netta - se il pregio di rendere onore alla memoria di uno dei pochi ‘pentiti’ autentici non fosse controbilanciato, in negativo, dal messaggio di scoraggiamento che può arrivare a chi apprenda, anche dalle didascalie finali, la quasi totale inutilità del sacrificio di Vitale (la maggior parte degli insospettabili da lui accusati furono rilasciati o comunque assolti per mancanza di prove). Capisco l’interrogativo, ma la verità storica  - come ogni altra verità - non dev’essere edificante a tutti i costi. Merita di essere preservata dallo scempio e dall’oblìo per se stessa, indipendentemente dai risvolti morali o dalle ricadute politiche. E, poi, siamo proprio sicuri che decisioni sul momento fallimentari non comportino, nel lungo periodo, conseguenze preziose? In Cose di Cosa Nostra Falcone mostrava di pensarla diversamente: “Leonardo Vitale con le sue rivelazioni del 1973 ci ha offerto due importanti conferme: l’esattezza delle informazioni che avrebbero fornito dopo diversi anni Buscetta, Contorno e Marino Mannoia; l’assoluta inerzia dello stato nei confronti di coloro che dall’interno di Cosa Nostra deecidono di parlare”. Della seconda conferma, ad essere sinceri, saremmo lieti di farne a meno.