domenica 29 aprile 2018

LAVORARE ANCHE IL PRIMO MAGGIO ?



   LAVORARE ANCHE IL PRIMO MAGGIO ?

         Il Primo Maggio, come il 25 Aprile e in molte altre festività,  numerosi  lavoratori (nei trasporti, nella sanità, nell’ordine pubblico, nel turismo…) saranno impegnati necessariamente . Ma quanti lo saranno ingiustificatamente, solo in omaggio al consumismo e al vuoto esistenziale che esso deve tentare di riempire? Grandi magazzini, ipermercati, boutique: persino le rivendite di una certa marca di divani perennemente in svendita da alcuni anni. E’ vero: nell’immediato questa liberalizzazione selvaggia del commercio favorisce titolari delle aziende, clienti e persino i dipendenti addetti alle vendite (almeno nei casi in cui gli venga riconosciuta l’indennità straordinaria del lavoro festivo). Ma alla lunga distanza? Siamo sicuri che il gioco (massacrante) valga la candela ?
La Bibbia (“codice culturale” dell’Occidente, a prescindere dall’eventuale origine soprannaturale), ripresa e adattata dal Corano, ha indotto i seguaci delle tre maggiori religioni monoteiste a stabilire come sacro un giorno di riposo settimanale: il venerdì (per gli islamici), il sabato (per gli ebrei), la domenica (per i cristiani). Il precetto della pausa, dell’intervallo fra una serie di fatiche e la successiva, mira certamente a ricordarsi dell’Eterno; ma, almeno altrettanto, a regalare una tregua agli esseri umani, agli altri animali, persino alla stessa terra. Che la prima motivazione, di ordine teologico, sia oggi offuscata e incerta è un dato di fatto (per molti versi comprensibile); ma perché misconoscere la seconda motivazione, di ordine antropologico?
     E’ qui in questione un’idea generale di uomo e un progetto complessivo di civiltà. Riteniamo che la felicità – o per lo meno la serenità – consista nell’acquistare e nel consumare o non piuttosto, più ancora, nel fruire di ciò che è bello e nel condividere ciò che si possiede? Come ripeteva Erich Fromm quando eravamo giovani, nell’avere (molto) o nell’essere (più) ? Vogliamo una società che corra verso l’autodistruzione di sé e del pianeta o, invece, che curi il benessere psicofisico di tutti i viventi ? Puntiamo sugli ideali olimpionici del “più veloce, più alto, più forte” o, secondo il suggerimento di Alexander Langer, del “più lento, più profondo, più dolce”?
    La politica dovrebbe dare una propria risposta. Ma, a parte ogni altra considerazione, sarà in seconda battuta: la prima mossa, l’imprinting, spetta alla cittadinanza. E noi, uomini e donne della strada, possiamo esprimere la nostra opinione, prima ancora che con il voto, con le nostre scelte economiche. Per esempio rifiutandoci di spendere, nei giorni festivi,  un solo euro per beni e servizi non strettamente indispensabili. Un costante, testardo, sciopero dei consumi – se praticato da consistenti settori della popolazione - potrebbe indurre gli imprenditori a rivedere la propria filosofia: forse sino al punto da intuire che la “decrescita felice” (Maurizio Pallante) restituirebbe a loro per primi il gusto di riscoprire le ricchezze gratuite della vita. Epicuro lo aveva insegnato secoli prima di Gesù: “Le cose buone e necessarie sono facili ad ottenersi. Difficili da conquistare sono le cose inutili e superflue”.

Augusto Cavadi








http://livesicilia.it/2018/04/29/quel-giorno-di-riposo-che-diventa-fatica_955464/

venerdì 27 aprile 2018

BULLISMO A SCUOLA: QUALCHE NOTA AUTOBIOGRAFICA

“Repubblica – Palermo”
25.4.2018

IL BULLISMO SCOLASTICO: QUALCHE CONSIDERAZIONE CHE NON HO UDITO IN GIRO

   “Dovrebbero pulire i wc della scuola a mani nude”. “No, bisognerebbe multare in maniera salata i genitori maggiorenni”. “Invece sarebbe meglio…”. Sugli episodi di bullismo contro docenti abbiamo letto e ascoltato di tutto: in effetti la scuola è un luogo da cui passiamo (quasi) tutti i cittadini e la tentazione di dire la propria è troppo forte per resistervi. Chi, però, dalla scuola è non solo passato per alcuni anni ma vi è rimasto per decenni a insegnare (secondo Levy-Strauss in “Tristi Tropici” una strategia inconscia per evitare di diventare adulti…) avrebbe voluto leggere o ascoltare anche considerazioni che non sono circolate.
La prima: che non è vero che si tratta di fenomeni recentissimi dovuti a una lunga litania di cause socio-psico-etico-politico- pedagogiche. Più di mezzo secolo fa, al Liceo Garibaldi di Palermo, alcuni miei compagni di classe chiedevano a mezza voce alla mite professoressa di italiano: “Scusi, signora but…na, potrei uscire?”, costringendo la docente a fare finta di non capire bene e ad affrettarsi a dare il permesso. Pochi anni dopo, da supplente di filosofia, fui chiamato al Liceo scientifico di Termini Imerese (che allora si trovava in una bella, ma vecchia sede). Un alunno, notoriamente di destra, dopo un’ora o due di lezione, mi intimò non so più che ordine aggiungendo che i fori alla parete dietro le mie spalle erano stati provocati dai colpi di pistola sparati contro il docente di ruolo che mi aveva preceduto. Mi limitai ad osservare che evidentemente in quella classe non si aveva una buona mira. Il giorno dopo un suo compagno di estrema sinistra mi spiegò che, in caso di disaccordo, mi avrebbe spaccato la sedia in testa. Gli risposi che, al suono della campana per l’intervallo, visto che era un maggiorenne (anzi, anche consigliere comunale di “Lotta continua”), sarei uscito a denunziarlo ai carabinieri per minacce a pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Sul momento sghignazzò, ma quando mi vide sulle scale verso l’uscita mi corse dietro e mi pregò di scusarlo per la “bravata”: lo perdonai solo a patto che chiedesse scusa davanti a tutti i compagni. Lo fece e in giornata si sparse la voce, anche grazie al commento di un bidello: “Ci vorrebbe un supplente di filosofia in ogni sezione!”. Alcuni anni dopo, nel liceo classico che avevo frequentato da alunno, fui chiamato a sostituire un collega di un’altra sezione perché i ragazzi avevano appiccato il fuoco alla cattedra e lo avevano accerchiato urlando a mo’ di pellirosse in girotondo. Quando vi misi piede per la prima volta vidi entrare cinque di loro, dopo la ricreazione, in identico assetto di guerra. Cercai di mantenermi calmo, chiesi i loro cognomi e man mano verbalizzai un rapporto al preside. Una delle ragazze mi obiettò che potevo farlo perché avevo la penna in mano. Allora le porsi la mia penna con gentilezza e la “sventurata” (citazione manzoniana a proposito della Monaca di Monza) redasse un rapporto su di me. Il preside, che li aveva sempre difeso, questa volta andò su tutte le furie e fu costretto a prendere finalmente provvedimenti.
  Come mai il dirigente scolastico per anni aveva taciuto? Qui tocchiamo una seconda considerazione: questi episodi (che adesso i social mediaamplificano e diffondono, ma che sono sempre avvenuti) presuppongono un clima generale di lassismo e di illegalità nell’istituto scolastico. E, se ciò avviene, il cinquanta per cento della responsabilità è dei presidi che vengono selezionati sulla base di varie prove, nessuna delle quali atte a misurarne l’autorevolezza morale, l’equilibrio psichico e il carisma dirigenziale. 
  Meravigliarsene sarebbe da sciocchi. Prima di diventare dirigenti, infatti, essi  - ecco una terza e ultima considerazione - sono stati insegnanti: e neanche gli insegnanti vengono valutati per le proprie doti umane. Basta (quando c’è) la preparazione tecnica nella propria disciplina e, se proprio va di lusso, si aggiunge la passione per la trasmissione delle proprie competenze: ma per comandare l’equipaggio di un aereo o per coordinare  un collegio di magistrati giudicanti sono necessarie tante altre qualità, senza le quali non si gode del prestigio minimo essenziale a svolgere in maniera dignitosa il proprio lavoro. 
Indubbiamente chi ritiene di avere davvero una buona dose di queste qualità le investe in campi dove esse sono riconosciute socialmente e economicamente  (come avviene con i piloti e i magistrati), non nell’insegnamento dove dal primo al quarantacinquesimo anno si resta “soldati semplici”. Ma questo aprirebbe tutto un altro discorso sull’organizzazione del sistema scolastico e universitario.

Augusto Cavadi

mercoledì 25 aprile 2018

PERCHE' LO SHOPPING ANCHE 25 APRILE E 1 MAGGIO ?



www.siciliainformazioni.com
24.4.2018

   E SE CI RIFIUTASSIMO DI FARE ACQUISTI
                                           IL 25 APRILE E L’1 MAGGIO ?

Quanti saranno gli ipermercati, i negozi, le aziende che rispetteranno la pausa di riposo dei dipendenti il 25 aprile e l’1 maggio ? Speriamo tutti, temiamo nessuno, prevediamo alcuni. I sindacati (abbandonati, un po’ a torto e un po’ a ragione dalla maggior parte dei lavoratori) tacciono. E i consumatori? Sanno – anzi: sappiamo – di essere, potenzialmente, dei consum-attori? Di poter influenzare le scelte strategiche di grandi, medie e piccole imprese quanto – o forse più – delle stesse decisioni legislative e amministrative? Che cosa succederebbe  se milioni di cittadini domani (Festa della Liberazione dal dominio nazi-fascista) e il Primo Maggio (Festa dei lavoratori) si astenessero – come abbiamo deciso mia moglie, io e alcuni amici –  dall’acquistare nei negozi aperti? Se anticipassimo alla vigilia, o posticipassimo al giorno successivo delle festività, le nostre compere non strettamente e urgentemente necessarie? Forse, l’anno prossimo (o negli anni prossimi), qualcosa muterebbe. E si avrebbe la riprova che la consapevolezza critica negli acquisti è – insieme al voto nella cabina elettorale – l’altra arma democratica a difesa delle nostre convinzioni.
   Già, le nostre convinzioni. Ma siamo davvero convinti che questa ipertrofia dei consumi (e, a monte, della produzione industriale) sia un danno non soltanto, immediato, per gli addetti alla distribuzione e alla vendita, ma, nella lunga distanza, per tutta la società? Che, secondo le teorie di economisti di tutto rispetto come Serge Latouche e Maurizio Pallanti, abbiamo bisogno di “de-crescere” dal punto di vista produttivo per poter crescere in servizi alla persona, tempo libero, occasioni di formazione culturale, relazioni umane significative? 
   Probabilmente il 90% degli Occidentali  - e del pianeta occidentalizzato – non arriva neppure a porsi questo genere di domande. Lo stile dei comportamenti abituali è dettato da motivazioni molto più elementari, basilari: la domenica e i giorni festivi vado a fare shopping (anche solo a mimare lo shopping dei benestanti) perché non trovo nulla di meglio da fare. Non sono appassionato di sport (né da vedere né ancor meno da praticare); mi stanca passeggiare in mezzo alla natura; non ho amici disposti a conversare con me intorno a una teiera o ascoltando musica classica; libri non ne tocco da quando ho smesso di studiarli per la laurea o per il concorso di carabiniere…Che c’è di più accessibile e gratificante di una giornata al Mega Centro Commerciale dove si possono persino posteggiare i bambini nell’angolo dei giochi  e i nonni, se proprio non vogliono restare a casa incollati come gli altri santi giorni davanti alla Tv, a un tavolino del bar con un gelato in mano?
   Pascal lo aveva spiegato nel XVII secolo, Schopenhauer e Leopardi lo hanno ribadito nel XIX: la noia è una brutta bestia e, pur di evitarla, siamo disposti a farci del male. Come soggetti individuali e come collettività. L’unico conforto  è che ogni perversione, estremizzata, perviene alla propria stessa dissoluzione: dunque anche l’umanità, se non opera un’inversione a U tanto radicale quanto improbabile, sta preparando la fossa in cui scomparirà definitivamente dalla faccia dell’universo. 

Augusto Cavadi

http://siciliainformazioni.com/augusto-cavadi/804117/se-ci-rifiutassimo-di-fare-acquisti-il-25-aprile-e-il-1-maggio

lunedì 23 aprile 2018

O COL VANGELO O CON SALVINI !

“Vi sarà una sola legge, per voi e per lo straniero (Numeri 15, 16)”
Solidarietà a don Alberto Vigorelli   querelato da  Salvini  e richiesta al Vicario Episcopale Patrizio  Garascia di ritirare quanto ha  detto. 
 Nel novembre del 2016 Don Alberto Vigorelli, della Comunità parrocchiale di   S.Francesco di Mariano Comense, disse durante l’omelia “O si sta col Vangelo o si sta con Salvini” a proposito dell’accoglienza allo straniero, dovere per ogni cristiano.
Salvini lo ha querelato per diffamazione.  La procedura giudiziaria, che don Alberto ha accolto con assoluta serenità, non si è fermata e si andrà a processo per decisione conosciuta in questi giorni.
Le Comunità cristiane di base della regione e “Noi Siamo chiesa” esprimono la loro completa e partecipe solidarietà a don Alberto per questa sua presa di posizione durante la celebrazione eucaristica. Sperano che essa sia condivisa in modo esplicito da tante realtà associative del mondo cattolico e dall’arcivescovo di Milano Mons. Mario Delpini.
Sono delusi e amareggiati per la dissociazione  di monsignor Patrizio Garascia, vicario episcopale di Monza,dalle chiare ed evangeliche parole di don Alberto. A nostro avviso  questa sua opportunistica e calcolata prudenza politica contraddice il dovere cristiano di esercitare coraggiosamente il dovere della testimonianza,  giudicando esplicitamente  i fatti della cronaca e della storia sulla base dell’ irrinunciabile criterio evangelico della fratellanza universale proclamata dal Padre e accredita la liceità di quell'egoismo  sociale che papa Francesco non si stanca di additare come uno dei maggiori peccati dei nostri tempi.
Le parole di don Alberto ricordano interventi simili del Card. Tettamanzi che pure furono a suo tempo clamorosamente contraddetti da esponenti leghisti. 
Le comunità cristiane di base e “Noi Siamo Chiesa” ricordano il messaggio che ci viene ancora, dopo mille e seicento anni, dal comportamento del vescovo Ambrogio con l’imperatore Teodosio dopo l’eccidio di Tessalonica. 
Le parole di don Vigorelli sono scaturite da autentico amore anche per Salvini e i leghisti, non usando contro di loro -come vuole far credere Garascia- ma a loro favore (chiedendo autentica conversione all'amore cristiano) quel Vangelo che lo stesso  Salvini ha peraltro così ostentatamente (e ipocritamente) esibito durante il suo ultimo  comizio in piazza Duomo.

Milano,  17 aprile 2018                       Le Comunità cristiane di Base della Lombardia
                                                                                   “Noi Siamo Chiesa”

domenica 22 aprile 2018

IL GESUITA R. LENAERS RISCRIVE IL CREDO PER L'UOMO DI OGGI

22.4.2018

IL CREDO RADICALMENTE RIPENSATO DA ROGER LEANERS, S.J.

  La quasi totalità delle persone che si dicono cattoliche aderisce a formule catechistiche sostanzialmente immodificate da cinque secoli (Concilio di Trento) a oggi. Le stesse formule che la quasi totalità delle persone che si dicono atee, o agnostiche, rifiuta con convinzione. Né le une né le altre sospettano che nell’ambito della teologia sono avvenuti, soprattutto negli ultimi decenni, dei terremoti paragonabili solo ai mutamenti radicali registratisi in fisica o in biologia.
   Questa ignoranza oggettiva dipende da molti fattori tra cui la tendenza dei teologi di professione a tacere, o a diffondere in dosi omeopatiche, i risultati delle loro ricerche. Così, mentre circolano ottime pubblicazioni divulgative in ambito scientifico, è molto più raro che avvenga altrettanto in ambito teologico: anche perché le chiese cristiane, e la chiesa cattolica in particolare, non approvano simili operazioni (e, per esempio, si affrettano a bollare come eretici autori come Vito Mancuso che provano a rompere la consegna del silenzio).
   Per ovviare a questi inconvenienti un coraggioso editore trapanese, Crispino Di Girolamo, ha accettato di pubblicare la trascrizione di una conferenza tenuta,  nel  2016 presso la Cascina Zaratin  a Motta di Livenza (Treviso)   , dall’anziano padre gesuita belga Roger Lenaers. Ne è risultato un  libretto (Cristiani nel XXI secolo ? Una ri-lettura radicale del Credo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2018, pp. 70, euro 8,00 ) che assomiglia molto a una dinamite in esplosione.  Nell’impossibilità di riassumerlo, mi limito ad accennare che esso è divisibile mentalmente in due parti: una destruense una costruens.
    Nella parte decostruttiva l’autore  - riprendendo tesi già espresse più ampiamente in altri volumi (come riporta, nel prezioso saggio introduttivo, don Ferdinando Sudati) – segnala le credenze tradizionali, spesso formulate addirittura come dogmi definitivi, che la cultura contemporanea non ritiene più sostenibili: dall’idea “teistica” di un Dio esterno al cosmo di cui avrebbe le redini a una concezione mitica di Gesù come uomo divino (o divinizzato); da una visione della Bibbia come “Parola di Dio” (e non di uomini concreti immersi nella storia) a una idea di Chiesa come struttura gerarchica in cui alcuni insegnano e comandano e tutti gli altri imparano e obbediscono…
    Cosa rimane allora del “Credo” plurisecolare proclamato in tutte le chiese del pianeta (con sempre maggiore distacco interiore, bisogna riconoscere, da parte dei fedeli e degli stessi ministri di culto)? Lenaers ritiene che stiamo assistendo al travaglio di un “granchio che sta abbandonando la sua corazza diventata troppo stretta”. O, in altri termini, alla transizione dal cristianesimo come “religione” al cristianesimo come “fede”  in un Mistero indicibile che ci abita interiormente e ci sollecita, piuttosto che a rispettare obblighi e divieti morali, a coltivare un amore sempre più intenso e continuo verso gli esseri viventi, animali compresi. 
    Che la rilettura del gesuita belga non sia esente da possibili obiezioni è confermato da alcune domande rivoltegli, in una sorta di allegato, da Gianfranco Cortinovis. Le risposte dell’autore, lungi dal chiudere le questioni, le rilanciano. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 20 aprile 2018

DOMENICA 22 APRILE ALLE ORE 11,00 "LA MAFIA DESNUDA"


Domenica 22 aprile 2018, dalle ore 11 alle ore 11 e 45, 
in Corso Vittorio Emanuele a Palermo 
- Via Collegio di Giusino, Isola Quasimodo- 
nell'ambito della manifestazione cittadina  "La via dei librai "
Francesco Palazzo e l'autore discuteranno 
dell'Associazione di volontariato culturale 
"Scuola di formazione etico - politica Giovanni Falcone", 
a partire dal volumetto di Augusto Cavadi, La mafia desnuda, Di Girolamo, Trapani 2018, 
pp. 112, euro 9,90 (distribuito in tutte le librerie fisiche e on line italiane).

mercoledì 18 aprile 2018

PROSSIMI EVENTI PRESSO LA CASA DELL'EQUITA' E DELLA BELLEZZA

CALENDARIO 7/2018
CASA DELL'EQUITA' E DELLA BELLEZZA
Via Nicolò Garzilli 43/a - Palermo

Care amiche e cari amici della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo, eccovi il settimo calendario del 2018 (riguarda le iniziative dal 19 al 30 aprile).
     Chi è veramente interessato a un evento ha la possibilità di segnarlo in anticipo nella propria agenda.

 giovedì 19 aprile dalle  20,15  alle 21,30: Augusto Cavadi presenta il nuovo libro di Roger Lenaers, Cristiani nel XXI secolo? Una ri-lettura radicale del Credo (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2018, pp, 70, euro 8,00). Organizza la Comunità di ricerca spirituale laica “Albert Schweitzer” (con possibilità di proseguire la serata in pizzeria).

* domenica 22 aprile dalle  10,15 alle 11,30:  Meditazione comunitariaa cura della Comunità di ricerca spirituale laica  “Albert Schweitzer”.

* giovedì 26 aprile dalle 20,15 alle 21,30: Carmine Palmeri tiene una conversazione su“Punti scottanti della storia del cristianesimo”. Organizza La Comunità di Libera ricerca spirituale “Albert Schweitzer” (con possibilità di proseguire la serata in pizzeria).

* Sabato 28 aprile dalle 9,30 alle 19,30 : Sergio Di Vita conduce un Laboratorio teorico-pratico sul“Teatro dell’Oppresso”. Per informazioni sui costi, sulle tematiche e sul pranzo consultare: https://vitadisergio.wufoo.com/forms/qud7utm1udernr/

* Domenica 29 aprile dalle 10,15 alle 11,30: Meditazione comunitariaa cura della Comunità di ricerca spirituale laica  “Albert Schweitzer”.

Intanto un affettuoso arrivederci.
Augusto Cavadi

PS: Si ricorda alle persone che vogliano partecipare a nostri eventi, e vivono lontano da Palermo, che presso la “Casa” stessa è disponibile un servizio di ospitalità anche per la notte, in cambio di un rimborso delle spese di mantenimento del servizio.

martedì 17 aprile 2018

IL LIBRETTO-DINAMITE DI ROGER LENAERS in tutta Italia

Lo presentiamo - e lo discutiamo insieme - a Palermo, presso la "Casa dell'equità e della bellezza" (via N. Garzilli 43/a), giovedì 19 aprile 2018 alle ore 20,15 
(poi - alle 21,30 - chi vuole può spostarsi e continuare la serata in pizzeria). 
     Ma anche chi non potesse partecipare si regali la possibilità di queste settanta paginette  illuminanti, opinabili, provocatorie, limpide, istruttive, sincere, profonde, sofferte, coraggiose, incoraggianti...Il libro è acquistabile nelle librerie fisiche (distribuito dalla San Paolo) e in tutte le librerie on-line. Costa solo 8,00 euro.

ANCORA UN ROMANZO SU PALERMO


www.siciliainformazioni.com
16.4.2018

Sulla scia luminosa di Rainer Maria Rilke, Wim Wenders  ha provato a raccontarci, in un celebre e riuscito film del 1987, cosa si muova nel cielo sopra Berlino. Più modestamente, ma anche più realisticamente, Mariceta Gandolfo prova a raccontarci cosa si muova Sotto il cielo di Palermo(La Zisa, Palermo 2017, pp. 143, euro 12,00) o, meglio, qualcosa di ciò che si è mosso sotto il cielo palermitano negli ultimi cento anni. Qualcosa: più precisamente alcune vicende delle famiglie dei suoi genitori, il dottor Nino e mamma Ela, intrecciate con le “microstorie” di parenti e amici, più o meno noti, appartenenti alla piccola e media borghesia cittadina.
    La narrazione, sostanzialmente biografica, non lo è in maniera esclusiva: infatti, come dichiara l’autrice in quarta di copertina, si tratta di “un misto di realtà e d’invenzione: autentiche le ricostruzioni storiche, tratte da fonti accreditate e dalla memoria orale; frutto di fantasia alcune vicende private che rispettano tuttavia carattere e temperamento dei personaggi reali”. 
    In questa narrazione Palermo non risulta mero palcoscenico né una sorta di telone dipinto come sfondo: come dichiara la stessa autrice, nello stesso luogo, si tratta di una vera e propria “protagonista del romanzo, con i suoi riti, le sue tradizioni e il suo dialetto colorito, attraverso le ripercussioni che la Storia avrà sulle vite dei personaggi”. Tra queste tradizioni non potevano mancare, di certo, almeno alcuni accenni alle delizie culinarie che aiutano a perdonare tante altre esperienze assai meno delizianti: se è vero, come spiega alla nipotina un personaggio de La lunga storia di Marianna Ucrìa, che l’inferno possiamo immaginarlo fedelmente come una specie di grande Palermo senza pasticcerie. Personalmente ho sottolineato la pagina dedicata alla “pasta al forno” (traduzione italiana dell’enigmatica pasta cu furnudialettale) (pp. 42 – 43).
     Raccontare Palermo è impossibile senza notare le sue molteplici contraddizioni che, ancor oggi, mutatis mutandis,  la rendono tanto interessante e stimolante quanto faticosa e scoraggiante. Per limitarmi a una sola evidenziazione: la contraddizione, nella Palermo  anteriore al boom economico degli anni Sessanta del Novecento, fra la ricchezza, parassitaria ed esibita, degli aristocratici di origine spagnola e la miseria, accettata come dato naturale da una maggioranza di proletariato e sotto-proletariato(nonostante occasionali vampate di ribellione, ma più fuori le mura della capitale che al suo interno: vedi i “Fasci siciliani” di fine Ottocento). Palermo è, storicamente, come quasi tutto il Regno delle Due Sicilie, una capitale senza borghesia colta e soprattutto produttiva, weberianamente intraprendente. Negli anni Venti, quando la nonna materna dell’autrice arrivò a Palermo dalla nativa Milano, trovò “due città: una era la città del popolo, con le viuzze, i mercati, la gente vestita poveramente che parlava ad alta voce in tono sguaiato con un orribile accento dalle vocali molto aperte, che viveva per strada, mettendo le sedie davanti all’ingresso delle abitazioni troppo piccole e buie per poter ospitare tante persone in una stanza; l’altra era la città dei nobili, con i suoi palazzi grandiosi, le ville magnifiche, le signore elegantissime che andavano due volte l’anno a Parigi per rinnovare il guardaroba, la Palermo dei ricevimenti, delle corse automobilistiche, del golf. Osservò tutto questo con i suoi acuti occhi azzurri e decise che non avrebbe fatto parte di nessuno dei due mondi: loro erano borghesi, venivano dalla più operosa città d’Italia, non si sarebbero mescolati al popolino ignorante, ma neanche alla nobiltà parassitaria, che viveva in modo grandioso ed era capace di bruciare in una sola notte, al tavolo da gioco o in una cena per cento invitati, le rendite di un anno intero delle loro campagne” (pp. 17 – 18). Lei, il marito commerciante, avrebbe riempito il vuoto storico nel mezzo dei due strati sociali opposti: come i Florio, i Whitaker, gli Ingham, i Woodhouse, i Caflisch…
 Due notazione in chiusura.
 La prima è una precisazione. A proposito dello sbarco delle truppe statunitensi in Sicilia nel 1943, e della nomina a sindaci di vari mafiosi, l’autrice scrive che “la mafia era così entrata ufficialmente in politica, infiltrandosi nel principale partito di governo, comprandosi il voto degli elettori” (p. 72). Ma è davvero questo il momento in cui la mafia entra in politica o vi era entrata a metà del secolo precedente? Anzi: la mafia non era diventata mafia proprio quando era entrata nei gangli dello Stato? Lo dimostra, con una serie impressionante di testimonianze, Umberto Santino nel suo recente La mafia dimenticata. D’altronde è proprio in nome di un ambiguo antifascismo dei mafiosi (di quei mafiosi che non erano riusciti a riciclarsi nei quadri del Partito fascista e che erano stati perseguiti dal regime, almeno sino al trasferimento del prefetto Mori) che essi vengono nominati sindaci.
 La seconda notazione apre uno spiraglio sul futuro. Infatti, come avviene di norma, anche in questo libro lo sguardo attento e curioso sul passato suggerisce – pur senza proporselo intenzionalmente -  delle idee per l’immediato futuro. Un esempio lo traggo dalle righe iniziali di pagina 51: “Mondello è tutt’ora bellissima, ma a quei tempi doveva essere una specie di paradiso: anche le foto in bianco e nero lasciano intuire la trasparenza dell’acqua, il bianco accecante della sabbia, il verde fitto dei giardini e dei palmeti. Una volta, quando vennero a Palermo lo zio Ernesto e la zia Dina, i ragazzi, in loro compagnia, avevano preso il battello a vapore che collegava giornalmente il porto di Palermo col porticciolo di Mondello e quella gita per mare era rimasta indelebilmente impressa nei loro cuori”. Dunque l’idea di un collegamento giornaliero fra Palermo e Mondello via mare non è solo una bizzarra fantasia che mi accompagna da molti anni, ma è stata effettivamente realizzata quasi un secolo fa ! Perché non potrebbe realizzarsi nuovamente, magari estendendosi in estate tra porti siciliani più distanti ? 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


http://siciliainformazioni.com/augusto-cavadi/799250/sotto-il-cielo-di-palermo-cosa-e-accaduto-il-romanzo-della-gandolfo

sabato 14 aprile 2018

IL BIGLIETTO PER IL BUS: MEDAGLIA D'ORO A CHI LO COMPRA E LO VIDIMA




“Repubblica – Palermo”
14.4.2018

L’ENIGMA DEL BUS: IL BIGLIETTO NON SI TROVA E, SE SI TROVA, NON SI TIMBRA

Bus e tram sono l’unica alternativa al caos tossico della mobilità urbana effettivamente accessibile a una popolazione mediamente non proprio benestante come la palermitana. Perché, allora, se ne trascura irresponsabilmente la funzionalità?
 Il buongiono, anzi il cattivo giorno, si vede sin dall’inizio: sei a una fermata del bus, fosse pure un capolinea, e nessuna tabella – né stampata né tanto meno elettronica – ti informa su quando potrai salire in una vettura, o per lo meno su quando sarebbe teoricamente previsto. Ti affidi agli imperscrutabili decreti della provvidenza o del caso o del destino, a seconda della tua prospettiva filosofica preferita. Non è così non solo a Milano o a Torino, ma neppure in città più piccole di Palermo come Brescia o Trento.
  Una volta sopra il bus noti con sorpresa che nessuno vidima il biglietto: tutti abbonati? Il dubbio amletico ti accompagna per l’intero tragitto dal momento che – se non sei su una linea centrale come il 101 – è statisticamente assai probabile che non vedrai nessun controllore. Decine di volte a settimana, centinaia di volte l’anno utilizzo una linea che dalla periferia (Vergine Maria) arriva al centro città (piazza Crispi, più nota come piazza Croci): posso attestare, anche sotto giuramento davanti a una corte giudiziaria, che il controllore non passa più di una volta ogni mille. E forse è meglio così. Infatti, quando passa, succede di tutto: da passeggeri che tirano fuori dalla tasca il biglietto per timbrarlo come se non fossero già su da molte fermate a passeggeri che sostengono di dover scendere con urgenza perché non si erano accorti di esser saliti sulla vettura sbagliata. Ciò che di più diseducativo – diseducativo per i ragazzi, ma non meno per gli adulti – è il caso non infrequente di passeggeri (ormai arcinoti) che sfidano apertamente il (rarissimo) controllore: “Non ho il biglietto né ho i soldi per comprarlo. Mi avete mandato cinquanta multe a casa: mandatemene altre cinquanta!”.  Non so in altre occasioni, ma quando sono stato testimone della scena la signora o il signore in questione sono rimasti seduti e il controllore ha preferito fare spallucce e sorvolare. Facile immaginare i commenti di quei pochi passeggeri che, pur non nuotando nell’oro, di ritorno dal cimitero dei Rotoli si erano forniti del titolo di viaggio prescritto: infatti la differenza fra il povero-povero e il povero-così-così non è facile da determinare e per quest’ultimo suona offensiva l’indulgenza riservata al primo. Non sarebbe preferibile che l’Amat prevedesse, ovviamente sulla base di documentazione oggettiva, degli abbonamenti gratuiti per i nullatenenti anziché lasciare all’arbitrio di alcuni (passeggeri) dichiararsi impossibilitati a pagare e di altri (controllori) accettare l’estemporanea dichiarazione di indigenza? E’ sin troppo nota la legge sociologica per cui i comportamenti illeciti sono molto più contagiosi dei comportamenti civici.
   A scoraggiare i quali, infine, l’Amat contribuisce con due incredibili fenomeni. Il primo: due o tre rivendite autorizzate mancano di biglietti da vendere, allora ti rechi in uno dei pochi punti della città dove sono in vendita direttamente dall’Amat, ma non di rado – una volta al mese, una volta ogni tre mesi? – il passeggero armato di buona volontà si sente rispondere: “Ne siamo sprovvisti, sono esauriti”. Che una volta ogni dieci anni possa accadere questo sarebbe strano, ma comprensibile; stranissimo, e incomprensibilissimo, è che questo disservizio si verifiche più volte in un anno. Stento a ipotizzare che ciò avvenga in aziende, pubbliche o private, nel mondo civile: chi può permettersi di perdere centinaia, forse migliaia di euro, solo perché ci si rivolge in ritardo a una tipografia o ci si rivolge tempestivamente a una tipografia che consegna i biglietti in ritardo?
    Come se la penuria di biglietti – quasi fosse una carestia dovuta a eventi metereologici imprevedibili – non fosse abbastanza, l’Amat aggiunge autolesionisticamente un’altra furbata: lascia una vettura su tre con la macchinetta vidimatrice fuori servizio. Il passeggero  che ha deciso di pagare il biglietto anche per compensare i molti che non lo fanno e quindi per non far chiudere un servizio pubblico essenziale; che non ha trovato dal giornalaio sotto casa i biglietti da acquistare e ha fatto il giro del quartiere per procurarsene; una volta salito sul bus, infine, deve sentirsi dire dall’autista cui si è rivolto per verificare se , per caso, la macchinetta fosse spenta anziché rotta: “Usi una sua penna e segni ora, giorno, mese e anno sul biglietto: è come se fosse timbrato”. Se davvero ha con sé una penna funzionante, e la mette in funzione, merita almeno  una medaglia d’oro al valor civile. Cosa meritino i dirigenti dell’Azienda Municipalizzata Auto Trasporti non sta a me stabilirlo; toccherebbe piuttosto al Consiglio comunale e soprattutto alla Giunta in carica.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com



giovedì 12 aprile 2018

LA SETTIMANA PALERMITANA DELLA NONVIOLENZA: ULTIMI GIORNI

www.livesicilia.it
12.4.2018

LA VIA PRATICABILE DELLA NONVIOLENZA
Le religioni sono affilate come lame a doppio taglio: possono fare molto male, ma anche molto bene. Nella storia dell’umanità, complessivamente, che bilancio può trarsi? Personalmente non saprei rispondere. A chi snocciola meriti indiscussi d’istituzioni e personaggi religiosi, mi viene spontaneo opporre esemplificazioni di segno contrario. Tuttavia non ritengo onestamente sostenibile l’equazione religione uguale oppressione e sfruttamento delle masse.  Proprio in questi giorni, ad esempio, cade il cinquantesimo anniversario dell’assassinio del pastore battista Martin Luther King , il cui ruolo nell’emancipazione dei neri negli Stati Uniti d’America sarebbe  difficilmente esagerabile. Il suo “I have a dream” è diventato uno slogan – efficace, abusato e ambiguo come tutti gli slogan – ma ha certamente consegnato alla storia uno dei suoi protagonisti più amati. La città di Palermo, che gli ha dedicato già da tempo  una lapide dentro il Palazzo delle Aquile, non vuole lasciar passare sotto silenzio l’anniversario. Per questo  la Consulta della Pace della Nonviolenza, dei Diritti Umani e del Disarmo, in collaborazione con altre associazioni cittadine, ha voluto organizzare dal 4 al 13 aprile  la Settimana della nonviolenza: un cartello di eventi tesi a sensibilizzare e informare la cittadinanza sul tema della nonviolenza (per il programma completo e dettagliato vedi www.pressenza.com/it/2018/03/palermo-settimana-della-nonviolenza-4-13-aprile-2018). 
   Alcuni di questi eventi hanno caratteristiche comuni a iniziative in tutto il mondo per l’occasione: la conferenza di Pat Patfoort , antropologa belga, prevista venerdì 13 a chiusura della Settimana.  Altri appuntamenti, invece, sono segnati da alcuni fenomeni legati al nostro tempo e al nostro territorio. Mi riferisco, ad esempio,  a quella serie di eventi dedicati alla denunzia e al contrasto della violenza contro le donne, tra cui spicca, il dibattito  intorno al tema “Violenza nella nascita”, a cura dell'associazione “L'arte di Crescere” e del @Centro Antiviolenza "Lia Pipitone" , organizzato per giovedì 12. O anche al seminario a cura della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”, gestito da Enzo e Manfredi Sanfilippo, su “Metodi di lotta nonviolenta al sistema mafioso”, sulle orme di Danilo Dolci: un seminario in continuità con un convegno nazionale sullo stesso tema (i cui atti sono stati editi) organizzato a Palermo 13 anni fa e che è rimasto  l’unica iniziativa del genere mai realizzata. 
    Su ciascuna di queste tematiche gli equivoci possibili sono innumerevoli. La nonviolenza (scritta proprio senza trattino per evocare il termine positivo gandhiano) viene ancora confusa con il buonismo sentimentale o addirittura con la rassegnazione passiva: così intesa sarebbe più un aggravio che un alleggerimento dei drammi (come i femminicidi o il sistema di dominio mafioso) cui intende far fronte. Essa, al contrario, nei suoi esponenti classici (tra i quali l’umbro Aldo Capitini, ieri, e il palermitano Andrea Cozzo, oggi) è una strategia adottabile solo da chi ha il coraggio di guardare i conflitti senza girarsi dall’altra parte; di affrontarli a viso aperto; di contrastarli con una fermezza che solo i più coraggiosi possono scoprirsi dentro e con una lungimiranza tale da voler conquistare definitivamente la mente del nemico anziché limitarsi a tacitarla temporaneamente. Insomma: tra il ribellismo violento (che ha sfiancato i contestatori di ieri molto più dei padroni del mondo) e l’apatia rinunciataria (che caratterizza gli sfruttati di oggi, a cominciare dalle giovani generazioni quando non sono sotto l’ala protettiva di potenti genitori), la nonviolenza potrebbe costituire una via praticabile. E fruttuosa. 
 Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

lunedì 9 aprile 2018

I SICILIANI SPIEGATI AI TURISTI (puntata n. 17)

“Gattopardo”
Aprile 2018
 I SICILIANI SPIEGATI AI TURISTI (17. ma   puntata )

    In questa rubrica provo a spiegare ai turisti che vengono in Sicilia quel fenomeno strano, enigmatico, costituito dai … siciliani. Posso osare l’ardua impresa perché in Sicilia ci sono nato e vissuto per quasi settant’anni; e non da osservatore del tutto sprovvisto di attrezzi per leggere uomini e cose. Eppure…Eppure devo ammettere, con onestà, che di fronte a certi “misteri” non mi resta che arrendermi. 
   Quando, ad esempio,  con una coppia di amici tedeschi mi è capitato di fare una passeggiata dalla borgata di Vergine Maria verso Mondello, sulla stradina laterale dell’Addaura, sfiorando dall’alto l’immenso complesso di edifici dell’ex-istituto “Roosevelt”, cosa avrei potuto rispondere alla domanda: “Perché questi edifici su una costa così bella, da cui si ammira un panorama incantevole, sono disabitati e abbandonati? Perché non diventa una struttura polivalente - gestita da cooperative di giovani disoccupati - per eventi culturali, ricevimenti di nozze, feste di compleanno, turismo giovanile, funerali laici? E se  l’amministrazione regionale non vuole, o non sa, metterli a frutto né intende affidarli a imprenditori privati, perché non li demolisce restituendo la costa al suo splendore originario?” (Meno male – penso tra me e me – che non sappiano che a poche centinaia di metri da qui abbiamo una caverna con iscrizioni preistoriche di interesse estremo, la cui visita è affidata alla disponibilità semi-volontaria di un custode difficilmente reperibile).
   O, quando, per fare un altro esempio, accompagno un collega di Torino per una visita medica al complesso ospedaliero “Enrico Albanese” (noto anche come “Ospizio marino”), disteso sulla costa fra la Tonnara Florio e Villa Igea, cosa rispondere alla domanda sulle ragioni per cui molti padiglioni sono in stato di abbandono né l’Azienda provinciale sanitaria – che lamenta continuamente mancanza di risorse finanziarie e di locali – li recupera, come farebbe qualsiasi altra Azienda (pubblica o privata), per risparmiare su altre spese e addirittura lucrare a beneficio della collettività?
  Il “Roosevelt” e l’ “Enrico Albanese” sono stati costruiti appositamente su due angoli di bellezza strepitosa: in nessuna nazione occidentale (ancor meno in Cina, forse neppure in Africa) gli amministratori pubblici consumerebbero sprechi del genere. Perché ciò che è ordinaria amministrazione in Trentino-Alto Adige o in Valle d’Aosta (per restare nei confini italiani) dev’essere considerato dalle nostre parti un sogno talmente irrealizzabile da non esaminarne e discuterne neppure la fattibilità? Di solito si risponde: perché non sarebbe possibile “mangiarci”. Ma in questi casi sarebbe una risposta non convincente. Infatti qualsiasi cinico potrebbe controbattere che opere del genere, oltre a garantire lavoro onesto a centinaia di cittadini, non escluderebbero margini per la corruzione, almeno nella fase di ristrutturazione e ammodernamento dei locali. Come fare a spiegare al visitatore che l’autolesionismo dei siciliani (della maggior parte dei siciliani, non di tutti: mi consta che alcuni imprenditori onesti hanno tentato invano di acquisire in affitto delle parti almeno di questi spazi) arriva al punto da non essere attratti né dal gusto di lasciare la propria terra più abitabile di come l’hanno trovata alla nascita né dalla seduzione della bustarella sottobanco? L’ignavia vince 1 a zero sia se si batte contro la dedizione al bene comune che contro l’avidità privata. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 6 aprile 2018

LE SCOMUNICHE AI MAFIOSI: ASPETTI PROBLEMATICI

Da questa mattina, sulla home page di www.repubblica.it, più precisamente nel blog "Il Dio dei mafiosi" curato da A. Bolzoni, è ospitato un post richiestomi sulla tematica delle scomuniche ai mafiosi:

    http://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/04/1711/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P33-S1.6-T1

Le scomuniche ai mafiosi, come le grida di manzoniana memoria, si sono moltiplicate in proporzione alla loro inefficacia. Già nel 1945 i vescovi siciliani ricordano che sono automaticamente (“ipso facto”) scomunicati “tutti i rei sia di rapina sia di omicidio”. Seguono anni di ambiguità sotto l’egida del cardinale Ruffini che non era un filo-mafioso, ma uno dei molti che (anche nella magistratura e società civile) riduceva la mafia a fenomeno delinquenziale come tanti nel mondo, senza  vederne lo spessore politico-economico. Nel 1993 Giovanni Paolo II, in visita in Sicilia, non usa il termine tecnico “scomunica” ma lancia ai mafiosi quel grido diventato celebre (“Convertiteti: una volta verrà il giudizio di Dio!”) che risuona ancora più eclatante di una mera dichiarazione canonica. Da allora, e specialmente dopo l’assassinio di don Puglisi e di don Diana, i vescovi ribadiscono che, anche senza una condanna esplicita, chi uccide o danneggia gravemente e intenzionalmente il prossimo si pone da solo fuori dalla comunione ecclesiale (ex communione). Si arriva così al recente pronunciamento di Francesco I nei pressi di Sibari il  21 giugno 2014: “I mafiosi sono scomunicati, non sono in comunione con Dio”.
      Chi segue i complessi rapporti fra Chiesa cattolica e mafie non può non constatare con soddisfazione la crescente consapevolezza, nei pastori e nei fedeli, dell’incompatibilità fra il vangelo e la lupara. Ma, con altrettanta lucidità, non può chiudere gli occhi su alcuni aspetti problematici della questione.
      Una prima considerazione: i mafiosi non vivono in una sfera vitrea fuori dal tempo e dallo spazio, risentono dei mutamenti culturali epocali esattamente come il resto dei cittadini. La secolarizzazione, che segna mentalità e costumi del Meridione, incide anche sul peso che essi danno agli aspetti teologici, liturgici e canonici. In alcune lettere intercettate e pubblicate, Matteo Messina Denaro confessa chiaramente di non ritenersi più cristiano: non crede più in Dio né in una vita dopo la morte.
     Una seconda considerazione: una cosa è condannare ex cathedra i mafiosi in generale e tutta un’altra cosa è applicare la condanna, nella concretezza dei territori specifici, ai singoli mafiosi in carne e ossa. Se sono papa o vescovo è relativamente facile comminare scomuniche; se sono parroco in un quartiere popolare di Catania, o in un piccolo borgo dell’Aspromonte, non è altrettanto facile negare a un noto boss il matrimonio in chiesa o il funerale religioso in pompa magna.
     Ma ciò che riterrei decisiva è una terza, e ultima, considerazione. Se scopro che la mia cucina è infestata da formiche o scarafaggi, prima di attrezzarmi d’ insetticidi, non mi chiederò che cosa attragga tanto gli sgraditissimi ospiti? Analogamente, prima di studiare strategie per cacciare i mafiosi dalla comunità ecclesiale, sarebbe più logico interrogarsi sulle ragioni per cui i mafiosi frequentano gli ambienti cattolici e tengono tanto a occupare posti di rilievo al loro interno (dirigenti di associazioni, superiori di confraternite rionali , amministratori di opere pie…). Si potrebbe scoprire una verità scomoda ma lampante: curie vescovili e parrocchie attirano mafiosi e amici di mafiosi, come il cacio attira i topi, perché sono luoghi dove girano soldi e si muovono leve di potere. Sarebbe così – si chiedono alcuni teologi più schietti – se le comunità cattoliche vivessero in maniera più sobria, più libera dall’affarismo economico, dalle relazioni con ministeri e assessorati, dalle manovre elettorali? Chiese più vicine allo stile evangelico  - alla solidarietà con gli impoveriti e gli emarginati; alla cura dell’ambiente naturale; all’osservanza delle regole democraticamente stabilite; al rispetto laico della libertà di coscienza di tutti… - sarebbero ancora appetibili agli occhi dei mafiosi ? O questi, piuttosto, se ne terrebbero lontani con sussieguo, come da congreghe di patetici idealisti?

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com