martedì 23 novembre 2004

MAFIA: LA DIFFERENZA FRA DC E PCI


“Repubblica- Palermo”, 23.11.04
Augusto Cavadi

La lontananza genetica fra mafia e Pci 

Come ha scritto Amelia Crisantino su queste colonne, Franco Nicastro ha capovolto  - nel suo Il bifrontismo del P.c.i – la convinzione diffusa, almeno negli ambienti di sinistra, che la Democrazia cristiana sia stata più irretita dal sistema mafioso rispetto al Partito comunista. Uno degli argomenti decisivi: i democristiani si alleavano con i mafiosi a titolo privato, i comunisti lo hanno fatto – o lo hanno tentato – come opzione meditata di un partito organizzato.

Non potevano tardare le reazioni “a caldo”, prima fra tutte di Salvatore Lupo che di storia della mafia s’intende almeno quanto di storia del socialismo. La sua preoccupazione principale: evitare che si arrivi, partendo dal corretto rifiuto della tesi che i democratici cristiani sono stati quasi tutti mafiosi, a negare la tesi (questa, sì, incontestabile) che i mafiosi sono stati quasi tutti democristiani. Perché questa alleanza fra Cosa nostra e Scudo crociato? Alludendo, suppongo, agli studi di teologi come don Cosimo Scordato e di storici del cristianesimo come don Francesco Stabile, Lupo tende a negare che questo strano connubio sia stato determinato “da fattori di solidarietà ideologica (il cattolicesimo), o da un qualche esplicito progetto legato alla guerra fredda, come si sente e si legge di sovente”. A suo parere la spiegazione è più terra terra: la Dc era al centro di un sistema di potere permeabile da tutti i gruppi di pressione, dunque a maggior ragione dal “più pericoloso ed efficiente di tutti i gruppi di pressione – la mafia”.

Personalmente riterrei che le affermazioni di Lupo siano interessanti, molto meno le sue negazioni. Capisco infatti l’utilità ermeneutica della sua opinione se proposta in aggiunta, non in sostituzione, delle altre da lui richiamate. E’ vero, infatti, che la mafia è “ben più antica dei partiti e dunque, a maggior ragione, della Democrazia cristiana”. Si potrebbe chiosare che essa corteggia (e, se corrisposta, amoreggia con)  chi si trova in una determinata epoca al potere: dunque si atteggia a filo-liberale al tempo del liberalismo, a filo-fascista al tempo del fascismo, a filo-democristiana al tempo dello strapotere democristiano, a filo- berlusconiana al tempo del berlusconismo…Se uno avesse ancora qualche dubbio in proposito, gli sarebbe sufficiente osservare come il consenso di certi ambienti mafiosi  si sia orientato verso i socialisti di Craxi quando Martelli era Ministro della Giustizia e verso l’Ulivo nei pochi anni in cui è stato al timone a Roma e a Palermo.

Detto questo in pieno accordo con Lupo, perché privarsi di andare un po’ oltre la “constatazione del fatto”? Forse la mafia non ha ragioni “ideologiche” per allearsi con questo o con quell’altro schieramento: ma perché escludere che questo o quell’altro schieramento abbia ragioni “ideologiche” per allearsi con la mafia? Lo sappiamo, almeno da Marx in poi: le ideologie camminano su gambe molto ‘materiali’. Ma ciò non significa – non lo significava neppure per Marx secondo la testimonianza dello stesso Engels – che si possa ridurre la storia a fattori economici o sociali. Ecco perché, con grande senso di autocritica, alcuni studiosi cattolici hanno avanzato il sospetto che la Chiesa nel suo insieme – e il partito cattolico in particolare – abbiano nutrito nei confronti del sistema mafioso una simpatia ispirata sia da inquietanti affinità elettive (entrambi i sistemi sono fortemente gerarchizzati, tradizionalisti, conservatori, dogmatici, maschilisti…) sia da comuni avversioni (contro il movimento socialista operaio e contadino e contro quell’Urss che sembrava incarnare il sogno dell’uguaglianza in terra). Ovviamente questo non significa identificare il sistema mafioso col sistema dottrinario e disciplinare cattolico, negando le irriducibilità che (per …grazia di Dio) permangono e che hanno portato, fra tanto altro, al martirio di preti come don Pino Puglisi o don Peppino Diana.

Se posso dirla proprio tutta, rivalutare più di quanto sembra fare Lupo la dimensione simbolica e culturale potrebbe consentire – inoltre - di decifrare meglio gli episodi sconcertanti riferiti da Franco Nicastro a proposito delle strane indulgenze del Pci verso questa o quella organizzazione mafiosa. Non è infatti impossibile che un apparato come il Partito comunista - fortemente gerarchizzato, dogmatico, maschilista, moralista, diffidente nei confronti della democrazia borghese e del pluralismo politico… – abbia potuto ipotizzare, almeno in qualche occasione,  di accordarsi con la mafia per combattere quello Stato liberale, timidamente temperato da socialdemocrazia, che era – o poteva apparire - il comune nemico.  Ma, per evitare polemiche superflue, va ribadito che neppure in questo caso, ovviamente, si possono cancellare le irriducibilità fra il sistema mafioso e il sistema dottrinario e disciplinare comunista: quelle incompatibilità strutturali, costitutive, genetiche che (per fortuna) rimangono e che hanno portato, fra tanto altro, al martirio di militanti comunisti come Cesare Terranova e Pio La Torre.

venerdì 12 novembre 2004

DIALOGO FRA RELIGIONI


“Repubblica – Palermo” 12.11.04

Augusto Cavadi


L’abbraccio tra islam e cristianesimo 

Venerdì 12 novembre: per molti una data come tante. Ma per centinaia di migliaia di cittadini italiani  - per  decine di migliaia di siciliani – coincide con una festa rilevante: la conclusione del Ramadan, periodo sacro di digiuno e preghiera. Per l’islamismo, qualcosa di paragonabile solo al nostro Natale o alla nostra Pasqua. Opportunamente, dunque, questo giorno è stato prescelto come Giornata nazionale per il dialogo cristiano - islamico: preziosa occasione per approfondire la reciproca conoscenza fra le due religioni e, conseguentemente, fra le diverse civiltà da esse influenzate – nel bene  e nel male - profondamente.

Già, perché si parte già col piede sbagliato se si ignorano questi due dati storici evidenti. Primo: l’islamismo non è identificabile con una civiltà (si è inculturato nella civiltà araba, ma anche in quella persiana, turca, indiana, palestinese, sudanese, egiziana, pakistana…) proprio come il cristianesimo, originatosi in ambiente ebraico, si è incarnato – modificandosi variamente – nella cultura greca, romana, franca, germanica, iberica, russa, sudamericana…Parlare di “scontro di civiltà”, a proposito di cristianesimo e islamismo, è  scorretto - prima che politicamente -  dal punto di vista storico.

Il secondo dato indiscutibile è che l’islamismo non è stato solo foriero di perversioni morali (spirito di intolleranza, aggressività verso gli infedeli, censure intellettuali, tendenze antifemministe, repressioni contro gli omosessuali) ma anche di elevazione culturale ed etica (studio scientifico della natura, solidarietà con i ceti più disagiati, contemplazione poetica, produzione artistica): esattamente come il cristianesimo è stato ispiratore di progressi civili ma anche di terribili oscurantismi. Non si può dunque affrontare il confronto con l’islamismo nel presupposto, più o meno tacito, che ‘noi’ illuminati ci degniamo di dialogare con ‘loro’, poveri barbari arretrati: gli uni e gli altri, infatti, abbiamo tanto meriti da  rivendicare quanto scheletri negli armadi. Sia all’interno delle diverse confessioni islamiche che all’interno delle diverse confessioni cristiane passa il confine davvero decisivo: fra fondamentalisti (integralisti e intolleranti) e spiriti autenticamente religiosi (dunque laicamente disposti all’autocritica, per quanto riguarda il passato, e aperti – nel presente - alla collaborazione con tutti gli uomini di retta volontà); fra chi  è prigioniero delle proprie tradizioni tribali e vuole usare il terrore per esportarle e chi, senza rinnegare una virgola del proprio patrimonio culturale, accetta come una conquista del progresso umano le regole del pluralismo e della democrazia.Che la questione della reciproca conoscenza fra cristiani ed islamici sia di particolare urgenza in Sicilia, dove cittadine come Mazara del Vallo sperimentano da decenni interessanti forme di integrazione solidale, è testimoniato da diverse iniziative di cui l’opinione pubblica non sempre è adeguatamente informata.Nel febbraio del 2004, ad esempio, la Facoltà teologica di Sicilia ha pubblicato con le Edizioni Paoline un testo (commissionato dalla Conferenza episcopale regionale) - Per un discernimento cristiano sull’Islam – che, pur con qualche reticenza di troppo, invita preti e laici credenti a moltiplicare, “in ogni diocesi, comunità e movimento”, le occasioni di formazione per “comprendere gli enunciati fondamentali dell’Islam”: sì da procurarsi “una conoscenza solida anche sotto il profilo linguistico, per un confronto delle tradizioni e dei principali testi di ogni confessione religiosa” - non solo cristiana ed islamica, ma anche ebraica – “nelle rispettive lingue originarie”.Amministratori illuminati, come il sindaco di Favara, hanno anche saputo dare concretezza a questa volontà di dialogo: dopo aver creato “Il giardino di Abid ” in onore del tunisino che si è sacrificato per salvare dei bagnanti siciliani (meritando la medaglia d’oro al valor civile), ha stipulato un gemellaggio con Menzel Temine, la città originaria del valoroso immigrato. Ha anche proposto, suscitando qualche polemica provinciale, la costruzione di un “Tempio della pace” aperto a chiunque voglia usarlo per incontri religiosi e celebrazioni spirituali. Nei prossimi giorni, infine,  si recherà in visita nel paese africano ‘gemello’ per realizzare i primi passaggi di un progetto di sviluppo finanziato dall’Unione europea. Sempre nei prossimi giorni (più esattamente: dal 14 al 17 novembre) il Ciss   - l’associazione palermitana che da decenni opera per la cooperazione internazionale fra i Sud del mondo – realizzerà la Prima rassegna di videodocumentari dedicati, in modo particolare, alla condizione dei rifugiati e degli immigrati in Sicilia.Proprio domani, infine,  nell’ambito di un convegno organizzato all’Hotel Costa Verde di Cefalù dalle cattolicissime ‘Comunità missionarie del Vangelo’, è previsto l’intervento di Khalid Chaouki, presidente dell’associazione italiana dei giovani musulmani. Gli è stato chiesto di parlare su “Islam e cristianesimo: un dialogo alla prova”, ma senza dimenticare di inquadrare la sua relazione all’interno del tema generale del convegno interreligioso, dal titolo sin troppo eloquente: E se Dio rifiuta la religione? Già, perché fra tante prospettive sulle religioni, sarebbe interessante tentare di riflettere  - almeno qualche volta –  dal punto di vista di Uno che ne sa qualcosa. Può darsi che, come si dice familiarmente, se ne vedrebbero delle belle. 

MAFIA E POLITICA


Centonove 12.11.04

Augusto Cavadi


AMICI COME PRIMA. ANZI, DI PIU’

Per quanto tecnicamente impossibile da seguire, darei al lettore un consiglio preliminare: evitare di leggere il nome dell’autore prima del libro. O, se proprio è inevitabile, non sciogliere il dubbio se si tratti dell’ex-segretario regionale siciliano (e attuale deputato dell’Ars) di Rifondazione comunista o di padre Pio da Pietralcina. Il principale merito del volume, infatti, è di lasciar parlare gli eventi, mettendo fra parentesi (per quanto è possibile) precomprensioni ideologiche e ottiche di parte. Di quali eventi si tratta? Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe in base al sottotitolo (Storie di mafia e politica nella Seconda Repubblica),  l’ambito della trattazione è più circoscritto: sono storie di mafia e politica della “Seconda Regione” (p. 52) dal 22 ottobre 1999 al febbraio del 2004 (proscioglimento del diessino Mirello Crisafulli dalle accuse di complicità con ambienti mafiosi).

Perché proprio quella data di partenza? Perché “quel giorno segna una svolta” (p. 21): l’onorevole Giulio Andreotti viene assolto in primo grado dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. “Una filosofia e una pratica del potere” (p. 22) – sia pure riprodotte in formato ‘bonsai’ e tradotte in dialetto – vengono riabilitate. Dall’andreottismo al cuffarismo: “Evvai!”, commenterebbe l’avvocatessa Bongiorno del collegio di difesa schierato contro la “procura della Repubblica rossa diretta da Giancarlo Caselli” (p. 21).

Da quel momento magistrati inquirenti, giornalisti, opinionisti e magistrati giudicanti non si stancano di registrare episodi incredibili di malcostume (che Forgione ha il merito di inanellare in sequenza cronologica sottraendoli all’oblìo inevitabile del lettore medio): viene arrestato Rosario Lo Bue (“il reggente di decine e decine di ettari di terreno di proprietà di Totò Riina”) e si scopre che il fratello è “campiere e reggente di tutti i terreni e delle proprietà”  del presidente della Regione Giuseppe Provenzano “nel territorio di Corleone” (p. 59); a Trapani, invece, la potente famiglia del senatore Tonino d’Alì,  “sottosegretario all’Interno con la delega alle prefetture” del governo Berlusconi bis (p. 66) , preferisce scegliere -  come “reggente delle terre e delle tenute (…) in contrada Zangara a Castelvetrano” – “uno dei patriarchi della mafia trapanese, Francesco Messina Denaro” (p. 64). Che la mafia si rapporti costitutivamente  con i politici, non è una novità: senza questa connessione sarebbe una delle tante associazioni criminali che infettano il pianeta. Nuovo è invece il fenomeno per cui molti mafiosi, non fidandosi abbastanza dei politici, imitino la scelta di alcuni imprenditori del Nord quando non si sono neppure loro fidati dei referenti politici: scendono, personalmente e direttamente, in campo. Così, a Favara, Giuseppe Nobile, “un medico analista con il pallino della politica” (p. 71), occupa contemporaneamente la poltrona di “rappresentante del mandamento di Favara” nella “cupola” agrigentina e di “presidente della Commissione provinciale per lo sviluppo economico e produttivo” (p. 72). Qualcosa di inquietantemente simile a Pantelleria dove il sindaco Alberto Di Marzo viene accusato, e condannato, perché gestiva – contemporaneamente – “il bilancio del Comune” e “il libro mastro del racket delle estorsioni nell’isola” (p. 110).

Impossibile rievocare tutti gli altri episodi pazientemente ricostruiti dall’autore. Chi vorrà, potrà ripercorrerli con agio sfogliando il libro. E magari arrivare alla conclusione bipartisan che politica ed etica non si identificano: nelle questioni politiche si può e si deve essere “elastici”, ma quando si toccano le corde dell’etica non si può non essere rigorosi e intransigenti. 

venerdì 5 novembre 2004

SPAZI PUBBLICI USI PRIVATI


Repubblica – Palermo 5.11.04

Augusto Cavadi


QUEGLI ALTOPARLANTI AL CIMITERO

Alle pendici di monte Pellegrino, fra le borgate marinare dell’Arenella e di Vergine Maria, si adagia il suggestivo cimitero dei Rotoli. E’ uno dei due più vasti camposanti della città e, come è uso fra noi siciliani, in questi giorni riceve la visita di migliaia di pellegrini. La pietas verso i defunti s’intreccia, sottilmente, con la necrofilia: l’osservatore stenta a decidersi fra il compiacimento e il rammarico. Ci si aspetterebbe che, almeno in questo segmento di tempo, il frastuono abituale (più di un ospite me lo ha fatto notare: Palermo non conosce le pause di silenzio delle altre città europee) cessasse. E con esso gli alterchi: effettivi, recitati, circoscritti, amplificati…Ma non è così. Ogni domenica il traffico enorme di automobili e di mezzi pubblici non è regolato dall’ombra di un vigile urbano. Se non fosse per i posteggiatori abusivi - qui un po’ meno arroganti e un po’ più efficienti perché giovani immigrati di colore nero – che gestiscono a modo loro il viavai, il caos sarebbe totale. In questi giorni eccezionali, qualche casco bianco lo si intravede: ma si tratta di presenze del tutto insufficienti rispetto alle necessità. Nessuno di loro, poi, osa obiettare qualcosa ai numerosissimi clienti che decidono di acquistare i fiori, di farsi prestare gli annaffiatoi, di restituire gli annaffiatoi ricevuti in prestito, senza mollare per un solo momento il volante dell’automobile. Anche a costo di creare ingorghi terrificanti e attese snervanti.

Superate le barriere dei metalli semoventi e dei loro gas asfissianti, una volta guadagnati i viali interni ti aspetteresti finalmente un po’ di pace. Temporanea, in attesa di quella definitiva.  Ma anche questa aspettativa è condannata a rimanere delusa. Per ben tre o quattro volte, infatti, degli altoparlanti attivati al massimo della loro potenza diffondono  - in maniera tale che nessun angolo del cimitero, anzi nessun angolo delle borgate limitrofe possa sfuggirvi -  le voci osannanti dei fedeli e quelle roboanti dei predicatori di turno. Sei un credente cattolico e hai già partecipato altrove ad una liturgia? Sei credente ma non cattolico e intendi partecipare, in un altro momento,  alla liturgia della tua chiesa? Non sei né cattolico né credente e non desideri partecipare a nessuna liturgia ma, solo, meditare in raccoglimento sulla tomba dei tuoi cari? Nessuna di queste ipotesi è contemplata. O, se prevista, sovranamente snobbata. Una volta che varchi la soglia del camposanto, devi – volente o nolente – essere coinvolto nella preghiera di quella sparuta minoranza di fedeli che, per ragioni rispettabilissime, hanno scelto quel luogo e quell’ora per onorare il loro Dio (senza preoccuparsi, altrettanto, di rispettare il loro prossimo).

Tutto questo sarebbe normale se quello spazio fosse – come, almeno sulla carta, non è – lo spazio privato di una determinata comunità religiosa. Ma si dà il caso che sia  - o sarebbe – del Comune di Palermo: dunque pubblico, laico, aconfessionale. Non so se in tutti i Paesi a maggioranza musulmana (per esempio anche in Turchia) avvenga ciò che mi ha impressionato in Iran: che all’ora della preghiera, gli altoparlanti delle moschee debbano invadere gli ambiti civili della piazza, del mercato, degli uffici per ricordare – imperiosamente – i doveri religiosi. So solo che ormai da mille anni la Sicilia non è più una regione a maggioranza islamica. Normanni e svevi, angioini e aragonesi, borboni e garibaldini non dovrebbero esser passati invano: almeno dall’illuminismo in poi, e soprattutto dall’entrata in vigore della costituzione repubblicana, dovrebbe essere chiara la demarcazione fra pubblico e privato. L’amministrazione municipale, specie se in mano a rappresentanti del pensiero liberale moderno, anzi post-moderno, dovrebbe garantire a ciascun cittadino il diritto di praticare la propria religione come quello di non praticarne alcuna. Dovrebbe incarnare l’ideale cavouriano di una libera Chiesa in un libero Stato. Dovrebbe rendere attuabile per ogni cittadino il desiderio di esprimere la propria fede, a patto di non intralciare l’analogo desiderio di ogni altro. Almeno una volta l’anno. Almeno di fronte a quel mistero della morte che – per riprendere la delicata poesia di Totò de Curtis – come una “livella” sfronda gli umani dalle differenze secondarie e dagli ingiusti privilegi.