venerdì 26 giugno 2009

UN PRETE E LA SUA COMUNITA’


Centonove 26.6.09

QUANDO IL VENTO RADUNA

Viaggiare è dirigersi verso méte precise, sapendo che sceglierne una è rinunziare - ogni volta - ad altre cento, altrettanto desiderabili. Ma è anche lasciarsi sorprendere da luoghi, eventi, incontri imprevisti. Lasciarsi trasportare da quel ’soffio’ vitale con cui in molte lingue - come la greca - si nomina altresì lo ’spirito’. Ed è così che, pellegrinando per l’Italia in risposta all’invito di chi vuole con-riflettere sul senso dell’uomo e del suo essere-nel-mondo, mi sono trovato a metà maggio nella Comunità Nazareth a Torre de’ Roveri in quel di Bergamo. Poche ore, ma abbastanza per avvertire ciò che rendeva ammirevole Pascal agli occhi di un feroce anti-cristiano come Nietzsche: “l’unione di calore, spirito e onestà“. Quando a mezzanotte mi sono congedato per raggiungere, grazie al passaggio di due amici affettuosi, una deliziosa tana milanese, mi è stato donato un libro: una sorta di chiave per decodificare ciò che avevo avvertito sentimentalmente, quasi subliminarmente.

In “Il vento ci ha raccolti” (San Paolo, Milano 2008), infatti, Oliviero Arzuffi mi ha raccontato una storia semplice e straordinaria cominciata trenta anni fa quando un prete, due ragazzi e una ragazza decidono di sfidare paure personali e pregiudizi ambientali per andare a vivere insieme. In nome di “una solida amicizia di anni, una conoscenza reciproca non superficiale, ma, soprattutto, un’idea forte: costruire una convivenza, una ‘comunità di vita’ la chiamavamo allora, fondata sull’accoglienza e il recupero delle persone che fanno più fatica a vivere”. Negli anni Settanta fondare comuni e comunità non era un’iniziativa così peregrina: originale era, in questo caso, farlo senza esigere preliminarmente l’adesione ad un credo, politico o religioso che fosse. Le esperienze basate su rigide ortodossie teologiche ed ideologiche si sono tutte dissolte mano a mano che quei presupposti si sono andati sfaldando, nonostante - anzi anche a causa - della rigidità psichica di ‘fondatori’ più o meno autoritari. Perché Nazareth resiste ancora, più attiva e feconda che mai? Perché Beppe, Tiziano, Giusy e don Emilio condividono non un programma redatto a tavolino e articolato sin nei dettagli, bensì “una ricerca dalle caratteristiche laiche”: “tanto è vero” - racconta oggi il prete - “che uno di noi quattro si proclamava ateo, non credente, ma sua ricerca di fede si rivelava indefessa e appassionata. Al punto che gli dicevo spesso che credeva più di me e di tutti noi messi insieme. A modo suo, certamente. ma la sua onestà, la sua generosità, la sua totale gratuità nello spendere la vita a favore di chi è all’ultimo posto e sta ai margini, costituivano un vero e proprio inno di grazie al Dio della vita”.
Sarebbe toccante (soprattutto per chi sa qualcosa del sudore, e non di rado delle lacrime, che ogni concretizzazione nel sociale comporta), ma troppo lungo, riprendere qui il racconto delle tante iniziative varate nei decenni dalla Comunità, quasi cerchi concentrici e centrifughi di un sasso lanciato nello stagno dell’egoismo individuale e dell’inerzia politica: il centro di formazione permanente “La Baita” a Costa Serina; la comunità “L’Aquilone” per bambini e ragazzi abusati in famiglia; la comunità “La Piccola Stella” per minori adolescenti con problemi psichiatrici; il gruppo “La Strada”, laboratorio di animazione e di feste; la rivista “L’incontro”; la casa editrice “Il sestante”; i progetti d’intervento in Slovenia, Croazia, Romania, Malawi, Bolivia…
Ciò che mi preme è, piuttosto, indicare una prospettiva problematica: aprire degli interrogativi, a partire da uno stupore ammirato. Tutto questo movimento - che sta per essere organizzato all’interno di un’unica Fondazione Aeeper (Associazione educativa per la Prevenzione e il Reinserimento) - è animato da un’ispirazione ‘cristiana’. Problematica, elastica, aperta al confronto e alla collaborazione, ma cristiana: “Dall’inizio (1967) la Parola di Dio, attraverso una fedele ‘Lectio divina’ settimanale, diventa l’alimento preferito e insostituibile del nostro cammino. L’Eucaristia è da sempre il momento centrale della nostra esperienza”. E ancora: “Analogamente alle prime comunità cristiane, il medesimo fondamento è posto al centro della nostra vita comunitaria: tutto quanto viene vissuto è costruito intorno alla certezza e alla coscienza profonda che Gesù, il Risorto, continua ad essere presente”. Di fronte a questa testimonianza evangelica, a credenti in Cristo e a non-credenti spetta inchinare il capo con gratitudine. Essa costituisce, infatti, un’esemplificazione, splendida nella sua carnalità, di quale riserva agapica (di amore gratuito ed efficace, intendo) possa scaturire da una fede orante interpretata e vissuta non come “forma di evasione o di consolazione, ma momento costitutivo di unità in cui le diverse strade, le diverse competenze, le diverse esperienze si ritrovano unite per integrarsi, per essere riconosciute e valorizzate ognuna nelle sue particolarità, nella sua bellezza, nei suoi limiti e nei suoi fallimenti alla luce del mistero di Dio”.
Se storie di questo genere risultano - oggettivamente - critica severa a tutte quelle forme cattoliche di aggregazione (parrocchie, comunità, associazioni, movimenti…) che tradiscono la portata originaria del vangelo riducendolo a totem identitario di tribù, piccole come famiglie o estese come la chiesa di una nazione, concentrate sul proprio ombelico e chiuse ai gemiti dell’umanità sofferente, esse interrogano con altrettanta silenziosa eloquenza anche le organizzazioni ‘laiche’ (nell’accezione comune di non-religiose, di a-confessionali): che ne è della preoccupazione per le tragedie individuali e collettive da parte degli attori istituzionali (dal parlamento e dal governo centrale sino alle amministrazioni locali) e delle innumerevoli organizzazioni sociali (partiti, sindacati, ong, onlus…)? L’agape - intesa quale atteggiamento costante di servizio preferenziale agli esseri viventi più indigenti - contraddistingue specificamente la ‘buona notizia’ di Gesù di Nazareth: ma deve restare modello di convivenza e progetto di azione esclusivamente cristiano? La Comunità di Torre de’ Roveri è riuscita nella non facile impresa di essenzializzare la sua fisionomia religiosa, spogliandola di superfetazioni intellettualistiche e moralistiche: il vangelo “ci dice addirittura che amare Dio vuol dire semplicemente amare chi ti sta accanto, chi ti sta vicino, concretamente. Di più: amarlo come si ama se stessi”. E’ utopistico sognare che ogni altra aggregazione religiosa (ebraica, islamica, induista, buddista…) o laica (massonica, socialista, anarchica, ambientalista…) compia un’analoga riscoperta delle proprie radici essenziali in modo da restituire alla circolarità sociale il meglio della propria tradizione, liberata da degenerazioni e orpelli accumulati nel tempo? In modo da contribuire a tener viva una costellazione di ‘valori’ (la dignità, la libertà, la giustizia, il senso critico, la solidarietà, il coraggio, la memoria, la fantasia…) che possono resistere ed incidere solo insieme, senza enfatizzazioni dell’uno a danno degli altri? E’ possibile progettare una società-puzzle in cui ogni ‘mattonella’ rivendichi la propria identità ma solo per incastrarsi con le altre, all’interno di un disegno complessivo di attenzione sistemica, ‘politica’, ai fratelli e alle sorelle deprivati?
Quanti - come i membri della Comunità di Nazareth e le centinaia di persone che le gravitano intorno - vivono la propria visione del mondo senza iattanza, con fedeltà alle proprie convinzioni ma non con presunzione di superiorità morale né di possesso monopolistico della verità, contribuiscono, con la piccola ‘tessera’ della loro consapevolezza profetica, alla costruzione di una società-mosaico nella quale soltanto il pianeta potrà sperare l’improbabile salvezza.

giovedì 25 giugno 2009

BUROCRAZIA NEGLI ANNI 2000


Repubblica - Palerm0 25.6.09

L’AVVENTURA BUROCRATICA DI UN MODULO PER L’ACQUA

Come da promesse pre-elettorali, un drappello di neoparlamentari “porterà la Sicilia in Europa”. Per la verità, alcuni sospettavamo di esserci già: ma essere europei e sapere di esserlo non sono esattamente la stessa cosa. Per agevolare il trasloco dell’isola a Strasburgo, noi cittadini potremmo cominciare ad agire da europei, smentendo la freddura (un po’ razzista, fra l’altro) sugli Stati Uniti d’America che continuano ad avere rapporti con la Sicilia perché è una delle poche regioni nordafricane a non avercela contro Israele.

In Europa, ad esempio, se devi riempire un modulo lo puoi scaricare da internet e se devi sapere il numero di un conto corrente postale su cui versare una somma lo puoi apprendere per telefono. A Palermo, invece, può capitarti ben altro. Come alla signora Maria che, rimasta senz’acqua nella sua casetta di campagna sperduta fra Mezzojuso e Campofelice di Fitalia, si è rivolta ad un gentile signore che opera in quella zona a nome dell’agenzia Acque Potabili Siciliane, la società per azioni che gestisce il Servizio Idrico Integrato dei Comuni della Provincia di Palermo, in forza della convenzione stipulata con l’Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale 1- Palermo (A.T.O. 1 PA). Questo operaio, molto gentilmente, si è recato all’ufficio di Marineo, ha prelevato dei moduli e ha invitato la signora Maria a presentarli presso lo stesso ufficio di Marineo o presso la sede centrale di Palermo. Un po’ perplessa per il fatto di non poter inviare né per posta né per fax né per internet i moduli compilati, la signora si rassegna a recarsi personalmente negli uffici palermitani delle Acque Potabili Siciliane. Ma qui l’attende una sorpresa: “Non siamo ancora, almeno per alcuni giorni, autorizzati a ricevere questi moduli, deve recarsi a consegnarli direttamente a Marineo “. “Ma non posso spedirli con una raccomandata postale con ricevuta di ritorno?”. “No, perchè a Marineo le lo dovranno consegnerare personalmente un altro modulo da riempire e comunicarle il numero di conto corrente postale su cui potrà versare il suo contributo per le spese del sopralluogo che richiede”. La signora, col capo chino e il sostegno del bastoncino su cui si appoggia a fatica, stava già abbandonando l’ufficio di via Ugo La Malfa per recarsi, nel caldo di una mattinata quasi estiva, a Marineo, quando qualcuno si è intromesso chiedendo di parlare direttamente col responsabile dell’ufficio. E’ bastata una sola domanda (”Se questa signora di ottantatre anni fosse sua madre, la manderebbe a cinquanta chilometri per ritirare un modulo in bianco e farsi comunicare un numero di conto corrente postale?”) perchè il dirigente capisse l’assurdità della prassi. Ha chiesto all’addetta di ri-telefonare alla collega di Marineo e di insistere affinché l’anziana cliente potesse inviare per fax la documentazione e ricevere, in risposta, il numero del conto corrente postale. Ovviamente la procedura è stata ritenuta praticabile e in pochi minuti il caso si è risolto. Tanto di cappello alla sensibilità umana e all’elasticità mentale di chi si è attivato per evitare una tortura supplementare ad un’ignara cittadina già provata dagli anni e dagli acciacchi; ma è lecito chiedersi perché, nel giugno del 2009, debba ottenersi come favore eccezionale un trattamento assolutamente logico, civile, che evita spreco di tempo, energie e consumi? Né si pensi che qualche impiegato abbia male interpretato la normativa vigente. Chiunque, accedendo al sito internet www.acquepotabilisiciliane.it, può entrare nella sezione “modulistica” ed apprendere che “per potere procedere alla Sua richiesta di sopralluogo per preventivo lavori, la pratica deve essere presentata presso uno dei nostri sportelli territoriali”. Incredibile, ma vero. Sarà difficile spiegarlo a un concittadino belga o olandese che, per avventura, dovesse richiedere un allacciamento idrico dalle nostre parti…Ma speriamo che, mentre qualcuno ci trasloca in Europa, un po’ di Europa si trasferisca in Sicilia.

lunedì 15 giugno 2009

Giusy Randazzo recensisce il mio
“E, per passione, la filosofia”


Apparsa il 15 giugno 2009 su 
www.mentelocale.it/leggere_scrivere/contenuti/index_html/id_contenuti_varint_23972

Recensione di Giusy Randazzo
su Augusto Cavadi,
E, per passione, la filosofia
Di Girolamo Editore, Trapani 2006
Nel 1998, studiando Jacques Maritain, lessi anche un testo che forniva una chiave di lettura per“alcune delle sue pagine più intense ed eloquenti”. Si trattava di un’antologia commentata che aveva lo scopo di consentire al filosofo tomista, come sosteneva il suo autore, di autopresentare la propria avventura esistenziale e teoretica. In realtà ciò che di quel testo mi colpì non fu né la scelta antologica né la chiave di lettura che di volta in volta veniva proposta, ma lo stile filosofico dell’autore, Augusto Cavadi, e la sua percezione del filosofare:

“La Filosofia è nata e si è arditamente propagata perché, prima di diventare proprietà privata dei professori, è stata un’esperienza esistenziale confidata da un testimone all’altro.[…] Purtroppo, però, la maggior parte di noi non ha tanta fortuna. L’iniziazione filosofica avviene mediante lezioni, libri, corsi universitari, seminari di studio, conferenze[…] Prevedibile, dunque, che simile studio della filosofia debba annoiare o, tutt’al più, incuriosire, senza trasformare intellettualmente ed eticamente chi vi si dedica. […] Che fare per ovviare agli inconvenienti di questa metodologia libresca e tendenzialmente nominalistica che rischia d’impoverire, anzi di snaturare del tutto, il significato dell’attività filosofica, riducendola se mai ad apprendimento d’idee archeologicamente interessanti oppure solo funzionali alla prassi politica?”

La risposta implicita di Cavadi era, sì, una sorta di appello ai filosofi di socializzare la loro conoscenza rinunciando alle lezioni catechetiche (come un tempo, Cavadi, aveva visto fare a Joseph de Finance che, anziano, trascorse qualche ora, nell’aula magna di un liceo, pronto e vivacissimo nel rispondere alle domande di un centinaio di studenti, attenti e raccolti come poche altre volte), ma anche di rivedere il valore e la natura della filosofia.

Fin da allora, Cavadi ricordava, che la filosofia in un certo senso non “serve” a niente (è, infatti, per costituzione, libera da presupposti e non si lascia piegare a strumentalizzazioni politiche o sociali o religiose), ma, in un altro senso, serve a tutto. Nella misura in cui si offre come momento di consapevolezza razionale, infatti, la filosofia consente non di fare “di più”, ma di compiere “meglio” le proprie azioni.
Nessuna sorpresa, dunque, quando nel 2006 Augusto Cavadi pubblica E, per passione, la filosofia e aggiunge il seguente sottotitolo: Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze.
Sull’utilità della filosofia, d’altronde, si è scritto tanto e la maggior parte dei filosofi concordano nel ritenere che non sia produttiva di alcunché. Martin Heidegger sosteneva che -è quanto mai esatto e perfettamente giusto dire che la filosofia non serve a niente-. Che la filosofia non abbia carattere strumentale lo ritiene anche Umberto Galimberti, che, a tal proposito, ne Il tramonto dell’Occidente, cita Heidegger, mentre ne Il gioco delle opinioni, riferisce di una risposta che si suole ritenere di Aristotele ovvero che “la filosofia non serve a niente perché non è una serva”. Aristotele in effetti scriveva nella Metafisica che la filosofia, consapevoli anche i primi filosofi, non ha alcuna utilità pratica -Ὄti δ’ οὐ ποιητική, δῆλον καὶ ἐκ τῶν πρώτων φιλοσοφησάντων˙- (Che poi la filosofia non sia produttiva, è manifesto anche ai primi pensatori filosofici- Metafisica, A 2, 982 b11).
Cavadi riprende Aristotele sin dall’inizio della sua argomentazione, riportando le parti più significative del capitolo 2° del I libro della Metafisica, in cui lo stagirita rimarca la libertà della filosofia, che non è asservita ad altro in quanto fine a se stessa, per tal motivo, se anche tutte le altre discipline possono considerarsi più necessarie della filosofia, nessuna le è superiore. A questo punto, è evidente che, se il convincimento della sua inutilità bastasse a dir tutto o in massima parte sulla filosofia, commetteremmo un sacrilegio; scriveva, infatti, Heidegger: “L’errore è soltanto di credere che, con questo, ogni giudizio sulla filosofia sia concluso.”
Tant’è che Augusto Cavadi non conclude affatto, tutt’altro: apre nuovi orizzonti nel filosofare, fornendo a ogni lettore la possibilità di entrare dentro le grandi tematiche filosofiche attraverso l’utile mediazione del filosofo, per prendere consapevolezza del proprio essere-nel-mondo, per rispondere alla propria domanda di senso, per osservare quanto di universale c’è nella propria vita particolare. E lo fa con un linguaggio attento, ma alla mano, che non dimentica di essere filosofico, di produrre meraviglia, anche ritraendosi delle volte o usando l’ironia o la battuta o semplicemente l’umiltà. D’altronde, come l’autore stesso, ci ricorda, il filosofo, pur riconoscendo la sua incompetenza professionale quando si tratta di lenire sofferenze psichiche o dirimere controversie amministrative, può offrire il proprio apporto ed essere invitato al tavolo degli esperti settoriali […] senza alterigia né complessi di inferiorità, per favorire la comunicazione fra gli interlocutori e per sollecitarli a guadagnare un altro punto di vista. Ma il filosofo soprattutto eviterà che ci si addormenti su luoghi comuni, soluzioni scontate e situazioni sclerotizzate. D’altronde non si filosofa soltanto per soddisfare la propria curiosità intellettuale, che già di per sé è una buona ragione poiché ci libera dalle catene dell’ignoranza, ma anche per interpretare diversamente la realtà, per cogliere, ad esempio, un senso nel dolore, che può fare la differenza tra cedere alla disperazione e resistere. Non è abbastanza? La filosofia “serve” anche a decondizionarci dall’educazione ricevuta, in modo da dare anche a chi è nato in Iran la possibilità di morire confuciano, a chi è nato in Cina la possibilità di morire islamico, a chiunque di morire ateo. […] La filosofia non insegna a cancellare le differenze, ma a vedervi delle risorse piuttosto che delle minacce.
In E, per passione, la filosofia, Cavadi, dà dunque delle buone ragioni (in chiave autoironica aggiunge un punto di domanda accanto a “buone”) per occuparsi della filosofia. In quel primo testo, di cui si diceva all’inizio (Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998), aveva già offerto un suggerimento a coloro che volessero avvicinarsi alla filosofia: -Il modo migliore per accostarsi alla filosofia sarebbe d’incontrare un filosofo in carne ed ossa ed entrare nella cerchia dei suoi amici più cari-.
Io l’ho fatto.

Bibliografia
Aristotele, Metafisica, Rusconi Libri (G. Reale, a cura di), Milano 1993
A. Cavadi, Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998
A. Cavadi, E, per passione, la filosofia, Di Girolamo Editore, Trapani 2006
U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli Editore, Milano 2005
U. Galimberti, Il gioco delle opinioni, Feltrinelli Editore, Milano 2004
M. Heidegger, Einführung in die Metaphhysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla Metafisica, Mursia, Milano 1968

venerdì 5 giugno 2009

Convegno di bioetica a Palermo (maggio 2009)


“Centonove”
5 giugno 2009
Liberi di scegliere sul nostro corpo

Quali sono i soggetti legittimati a decidere nelle scelte che riguardano il nostro corpo? Più radicalmente: qual è il significato della nozione di “autonomia della scelta” quando ci si trova di fronte a situazioni-limite (quali il concepimento, la nascita, la malattia e la morte)? Ha provato a rispondere a questi quesiti il Convegno intitolato “Autonomia e limite. Siamo liberi di scegliere?” promosso dalla Commissione bioetica della Tavola valdese e svoltosi, con l’accurata regia del dott. Enrico Cillari, mercoledì 14 maggio a Palermo presso l’Azienda ospedaliera “V. Cervello”. Ovviamente la casistica di cui si occupano i bioetici esige, al suo interno, precise distinzioni: per esempio le situazioni in cui è in ballo davvero solo il ‘proprio’ corpo (metodi anticoncezionali o testamento biologico) e le situazioni in cui è in gioco anche un corpo ‘altro’ (sia pur embrionale, come nei dilemmi riguardanti l’interruzione volontaria della gravidanza).

Il convegno si è limitato al (già molto vasto e delicato) ambito delle situazioni in cui il soggetto è alle prese esclusivamente con la propria vita o con la vita di persone molto care che però non sono più in grado di formulare con chiarezza inequivoca la propria volontà. Poniamo il caso della Englaro (evocato anche dalla presenza al convegno del prof. Carlo Alberto Defanti, il medico che è stato incaricato dai genitori di Eluana di accompagnarne il decesso): chi è competente a decidere? Questa la domanda di fondo, affrontata da biologi come Anna Rollier, medici quali Valentina Dubini e Demetrio Neri, da giuristi come Luca Nivarra, da filosofi come Caterina Botti e Sandro Mancini, ma anche da teologi, tra cui Erika Tomassone, Sergio Rostagno e don Cosimo Scordato. Tutti d’accordo nel dire che la nozione di “competenza” non dev’essere intesa in senso tecnico, cioè ristretto agli specialisti, ma che si deve sempre tenere conto anche della libertà individuale, che mai va guardata con sospetto, né identificata con l’arbitrio. “Lo sviluppo della scienza e della tecnica - ha dichiarato all’agenzia di stampa NEV, a conclusione dei lavori, Luca Savarino, coordinatore della Commissione bioetica - ha mutato le circostanze del morire e del vivere. La medicina rianimativa è in grado di vicariare molte funzioni essenziali per la sopravvivenza del corpo: in questo modo le tecnologie mediche rendono più lunga la vita, ma non sempre sono in grado di migliorarne la qualità. La medicina riproduttiva, d’altro canto, oggi può creare la vita in condizioni diverse da quelle del passato. Proprio il rapido mutamento delle tecniche mediche ha posto problemi nuovi e ha reso obsolete le vecchie risposte. Per questo motivo, il riferimento a principi immutabili, che è tipico di quella che viene comunemente chiamata bioetica religiosa, ma che probabilmente non è altro che la bioetica di una religione particolare, diventa insufficiente a risolvere i dilemmi etici che concretamente i diversi soggetti si trovano ad affrontare”. Nel corso dei lavori si è tentato di porre l’accento sulle situazioni concrete entro cui la responsabilità individuale è chiamata a decidere. “Uno dei convincimenti di fondo che hanno animato il lavoro della Commissione bioetica della Tavola valdese nella preparazione di questa giornata di studi rinvia precisamente all’idea che non sia possibile astrarre dal contesto entro cui le decisioni vengono prese: di qui la scelta di mettere a confronto operatori che lavorano concretamente sul campo con persone che mettono in opera una riflessione di stampo maggiormente teorico, sia essa di tipo giuridico, filosofico o teologico” ha concluso Savarino.

LA BARBARIE


“Centonove”
5 giugno 2009

MILLE AUSCHWITZ

Un recente viaggio ad Auschwitz e Birkenau (per accompagnare un gruppo di sindacalisti della Filca-Cisl in qualità di consulente filosofico-politico) mi ha indotto a riprendere in mano due libri istruttivi. Il primo - “Il flauto d’osso. Lager e letteratura”, La Giuntina, Firenze 1996 - è stato scritto da Stefano Zampieri e, a dodici anni dalla pubblicazione, non ha perduto una pennellata di smalto. Con uno stile personalissimo, che attraversa e scompiglia i generi letterari abituali, consente al lettore di entrare nel mondo inimmaginabile dei campi di concentramento e di sterminio in compagnia di alcuni degli autori che ne sono usciti vivi, anche se segnati indelebilmente nell’anima (cioè nell’intimo del corpo): Primo Levi, Erich Wiesel, Robert Antelme, Aldo Carpi, Paul Celan, Jean Améry, Victor Frankl, Liana Millu, Bruno Bettelheim.

A parte la fruibilità - anzi la godibilità - delle pagine, si tratta di un’operazione preziosa perché è una sorta di salvataggio al quadrato: la testimonianza degli autori - che hanno scritto per evitare che quegli eventi affondassero nel mare dell’oblio - va adesso, a sua volta, preservata dall’oblio. E non soltanto per pietas nei loro confronti. Quando si assiste allo smembramento progressivo dei legami sociali, allo sfaldamento delle organizzazioni partitiche e sindacali, come non “vedere il Lager come un estremo” piuttosto che “come una eccezione”? “La realtà che in esso si è prodotta è un effetto di coerenza radicale della società nazista la quale, a sua volta, non fu un semplice errore della storia, non fu la follia collettiva di milioni di uomini, ma un frutto sempre possibile (magari sotto altra veste) della società occidentale. Nel Lager, si è tentato un esperimento: la produzione d’un uomo artificiale, l’uomo obbediente, l’uomo ridotto a numero, l’uomo macchina destinato al lavoro, qualche che sia, anche il più improduttivo, il lavoro come dimensione puramente simbolica, privato della sua naturale capacità di produrre il necessario, di riprodurre l’uomo stesso, il lavoro come semplice esercizio di morte. Ma la condizione prima perché un simile esperimento potesse riuscire era proprio la condizione dell’isolamento individuale: che l’uomo fosse tagliato fuori da ogni relazione con gli altri uomini, che abdicasse alla sua naturale condizione di essere-con-altri, perché solo così l’uomo diviene soggetto, nel senso passivo di carne morta, di atomo ubbidiente nel grande organismo della società“. Insomma: “il problema dei testimoni” è “il nostro problema, e non è semplicemente problema teoretico, è la realtà stessa del nostro sapere, che si deve sapere fondato su quell’evento distruttivo, perché dopo di esso tutto è stato diverso, tutto è diverso. L’oblio qui è delittuoso, l’oblio è porsi fuori dalla storia stessa, nel campo della menzogna e della falsificazione”.
Meno originale nella scrittura, ma non meno chiaro ed efficace in obbedienza agli intenti palesemente didattici, è la monografia recentissima di Luigi Mozzillo “Pensare la barbarie con Levi e Herling”, Su Ali d’Aquila, Capua 2008. L’autore si propone - come recita il sottotitolo di questo Quaderno dell’Istituto Superiore Scienze Religiose “San Roberto Bellarmino” di Capua (Caserta) - di offrire “Appunti di lettura per ‘Se questo è un uomo’ e ‘Un mondo a parte’ “. Chi sia Primo Levi e cosa racconti in “Se questo è un uomo”, è noto a molti. Meno numerosi, senz’altro, quanti sanno invece chi sia Gustaw Herling-Grundzinski e che il suo “Un mondo a parte” è il racconto di due anni di prigionia nei gulag di Stalin. L’originalità del libro sta proprio nel tentativo, in gran parte riuscito, di mettere a confronto (dall’angolazione storico-oggettiva) gli orrori del nazionalsocialismo e del socialismo sovietico e (dal punto di vista della personalità dei due scrittori) la prospettiva tendenzialmente sociologica di Levi con la prospettiva tendenzialmente psicologica di Herling.
Circa la prima questione, si tratta di una comparazione che ha qualcosa di grottesco: come se si volesse stabilire se è più letale la cicuta o l’arsenico. Alcune differenze sono innegabili (nei campi di concentramento staliniani non c’erano camere a gas costruite per sterminare sistematicamente i prigionieri), ma altre somiglianze sono altrettanto innegabili (in alcuni gulag come Kolyma i prigionieri venivano intenzionalmente decimati mediante lavori forzati e angherie di ogni genere: proprio come nei lager nazisti). Circa la seconda questione, ho trovato interessante la sottolineatura delle angolazioni da cui scrivono Levi ed Herling, anche per spiegare certe ‘polemiche’ fra i due. Si sa, infatti, che Levi ha trovato incongruo mettere sullo stesso piano di gravità i campi stalinisti e i campi nazisti: solo in questi ultimi, infatti, si poteva finire internato e assassinato non per (vere o presunte) colpe soggettive, ma per il solo fatto di appartenere ad un’etnia, anche se si era un bambino o un minorato psichico o un anziano malato. Nonostante alcune espressioni che si sono prestate ad interpretazioni equivoche, neppure Herling intende ‘assimilare’ - oggettivamente - il sistema dei gulag al sistema dei lager ; egli però rivendica con forza l’assimilabilità delle sofferenze soggettive patite dalle vittime di Stalin e la loro dignità morale con le sofferenze e la dignità delle vittime di Hitler.
Entrambi comunque - Levi ed Herling - hanno scritto storie che prima sono state incise nella loro carne. ed entrambi le hanno scritte per tentare di portare i lettori “oltre il baratro creato dall’assurda barbarie del ventesimo secolo, per riacquistare un po’ di fiducia nel destino dell’uomo nel mondo”. Purtroppo, però, capitoli incredibilmente atroci - come le guerre fra Croati, Serbi e Bosniaci dopo lo scioglimento della Jugoslavia di Tito - non lasciano sperare in nulla di sereno per il futuro. E, se l’ignoranza non mi gioca brutti scherzi, le vittime dei Balcani nell’ultimo decennio del XX secolo attendono ancora un Levi o un Herling che ne salvino, almeno, la memoria.

mercoledì 3 giugno 2009

Ci vediamo sabato 6 giugno 2009 a Marsala?


Sabato 6 giugno, alle 17.30, a Marsala,
presso il Complesso monumentale San Pietro,
incontro pubblico sul tema “Fede, chiese e mafie”
a partire dal volume di Renato Salvaggio
“Vivere il vangelo in minoranza”, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2007.
Introdurranno Renato Salvaggio ed Augusto Cavadi.

lunedì 1 giugno 2009

CONSULENZA FILOSOFICA


"KOINE’", anno XVI, nn. 1 - 3

AA.VV., Filosofia e politica: che fare?, Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2009, pp. 318 - 319

N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007, pp. 120.

Come molti ricordano, Hegel notava con sottile ironia che chiunque voglia imparare un mestiere - ciabbatttino o medico - ritiene indispensabile sottoporsi ad apprendistato, mentre filosofi ci s’improvvisa scavalcando la fase dell’ iniziazione. Oggi si potrebbe aggiungere che, nell’ambito degli studi filosofici, nessuno si sognerebbe di pronunziarsi su un pensatore o su una corrente di pensiero se non avesse letto almeno un titolo della bibliografia attinente. Questa elementare cautela viene allegramente scavalcata in un solo caso: quando ci si pronunzia sulla Philosophische Praxis di Gerd Achenbach e, più in generale, sul variegato mondo delle filosofie-in-pratica. Qui, infatti, è come se gli ultimi venticinque anni fossero due o tre settimane; come se centinaia di volumi e di articoli scientifici, in tutte le principali lingue del mondo, non fossero stati scritti. Sarebbe ridicolo, se non fosse patetico, constatare come serissimi docenti universitari, che non aprono bocca su un argomento quando non sono informati e aggiornati, sono prontissimi a sparare sentenze ogni volta che vengono richiesti di un parere sulla “consulenza filosofica” o su qualche altra pratica filosofica (di cui non hanno la minima cognizione diretta).

Da qualche mese questa superficialità non ha più scusanti: due precursori di questo nuovo ‘paradigma’ filosofico hanno pubblicato degli strumenti propedeutici che, in poche ma incisive pagine, riescono a diradare pregiudizi e fraintendimenti (almeno in chi sia animato da sinceri intenti di comprensione). Il primo saggio (D. Miccione, La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007, pp. 126) ha carattere più divulgativo e presenta, con uno sguardo davvero planetario, la mappa attuale delle diverse ’scuole’. Il secondo, poi, a firma di Neri Pollastri, non è soltanto accessibile al vasto pubblico, ma anche dotato di notevole spessore teoretico. La tesi centrale dell’autore è inequivoca: la consulenza filosofica è “filosofia, e nient’altro. Non una professione d’aiuto, se non di mero aiuto al filosofare, cioè al pensare e al ricercare nuove forme di pensiero; non una professione d’ascolto, se non nel senso che, per dialogare, è sempre necessario anche ascoltare; non una terapia, perché anzi è il suo contrario, il suo radicale abbandono; non ‘cura di sé’, se non nel senso che, occupandosi del modo di pensare il mondo, si occuperà anche del modo in cui si pensa se stessi; non formazione, se non in un senso estremamente indebolito e allargato del termine; non una ‘tecnica’, perché priva di un obiettivo preciso e predeterminato, se non quello di cercare ciò che non si conosce. Dunque non rimane che ribadire quel che fin dalla sua origine si è intenzionalmente voluto che fosse: la consulenza filosofica è filosofia. E lo è a buon diritto, perché ne condivide i tratti caratteristici, salvo metterli in pratica su un terreno diverso da quello della filosofia tradizionale: nella realtà concreta e quotidiana; con individui particolari, e per giunta non filosofi; alla ricerca di una comprensione del senso degli aspetti minuti e particolari della realtà, più che delle universalità; ‘improvvisando’ creativamente in modo istantaneo, quindi producendo comprensioni del reale forse spesso meno profonde, ma sempre e comunque di tipo filosofico” (pp. 75 - 76).
Ma se è così, il movimento della filosofia-in-pratica lancia al mondo della filosofia una sfida, o meglio una richiesta: di essere contestata punto per punto come qualsiasi altra proposta filosofica (dunque opponendole argomentazione ad argomentazione), ma nel rispetto della sua specificità epistemologica. Le gare di nuoto sono regolamentari sia se si nuota sul dorso sia se si nuota a farfalla: nessuno si sognerebbe di rimproverare ad un atleta che opta per il primo stile di non adottare il secondo. Così fanno filosofia gli storici della filosofi, i teoretici sistematici e i filosofi-in-pratica: ma solo una spocchiosa intolleranza accademica (legata al paradosso di una disciplina che da alcuni secoli - a differenza di tutte le altre discipline dello scibile umano - non si preoccupa delle ricadute sulla società delle proprie acquisizioni) potrebbe tentare di negare cittadinanza filosofica a chi non accetta di situarsi, istituzionalmente, o come creatore di sistemi filosofici originali o come interprete dei sistemi elaborati altrove.

PRATICHE FILOSOFICHE


"KOINE’", anno XVI, nn. 1 – 3, gennaio-giugno 2009

AA.VV., Filosofia e politica: che fare?, Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2009, pp. 255 - 268

La filosofia-in-pratica e la politica.
Una discussione lacustre.

Breve premessa a chiarimento delle righe successive
All’inizio del terzo millennio sono stato invitato - non ricordo più da chi - a partecipare alla fondazione di un’associazione italiana per la consulenza filosofica (AICF) . Accostatomi ai pochi filosofi (e ai numerosi psicoterapeuti) interessati al processo di importazione nel nostro Paese della Philosophische Praxis proposta in Germania da Gerd Achenbach , ho scoperto - con qualche sorpresa e molta soddisfazione - che potevo dare un nome a ciò che avevo da sempre pensato e, molto imperfettamente, realizzato: fare filosofia non come mera ermeneutica dei testi ‘classici’ ma, anche e soprattutto, come occasione per trasformare la mia vita ed offrire ad altri - impegnati in ruoli sociali diversi - l’occasione di trasformare la loro. Mi riuscì dunque spontaneo raccontare in un volume le principali esperienze di filosofia-in-pratica: Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling (Rubbettino, 2003), arricchito da una Breve storia della consulenza filosofica a firma di Neri Pollastri, fu il primo libro sull’argomento pubblicato in Italia.

La filosofia, come è noto, vive di obiezioni e di contro-obiezioni. Nessuno stupore, perciò, se molte posizioni espresse in quel libro sono state contestate, in varie sedi, da vari lettori. Anzi, io stesso non le ripubblicherei esattamente come allora e le modificherei, in maniera più o meno incisiva, a cominciare dal sottotitolo in cui compare un sostantivo - counseling - che nessuna aggettivazione è riuscita a strappare alle originarie connotazioni psicologiche e psicoterapeutiche. Da allora, se proprio devo tradurre l’italiano ‘consulenza’, preferisco l’inglese consultation ed anzi, più radicalmente, preferisco tematizzare la ‘filosofia-in-pratica’ piuttosto che la più problematica delle sue differenti concretizzazioni, la ‘consulenza filosofica’ appunto.

“La consulenza filosofica non fa politica”
La premessa un po’ storica ed un po’ autobiografica mi era necessaria per inquadrare uno degli attacchi più virulenti, più divertenti ma forse anche più ingiusti, che il movimento delle ‘pratiche filosofiche’ abbia sinora registrato, almeno negli ambienti culturali nostrani. Mi riferisco al pamphlet , intelligentemente pungente quanto sommariamente documentato, Il business del pensiero. La consulenza filosofica fra cura di sé e terapia degli altri, pubblicato da Alessandro Dal Lago a Roma, per i tipi di Manifestolibri, nel 2007. In esso l’autore, prestigioso sociologo, elenca una lunga lista di capi d’accusa, di cui alcuni ridicolamente infondate ma altre di qualche pertinenza. E dunque meritevoli di una discussione più analitica.
La prima imputazione - che è anche l’unica che interessa il taglio di questa mia riflessione - è che “la CF non fa politica” (p. 16). Infatti, “tra i principi impliciti o espliciti della CF uno si segnala per la sua assenza, cioè il silenzio sulla politica. (…) A prima vista, si potrebbe pensare a una manifestazione di quella ‘prudenza’, o capacità di giudicare nelle questioni pratiche che Aristotele definisce phronesis. Infatti, gli esempi storici di CF in campo politico documentano più che altro fallimenti ed equivoci. Platone, in fondo, decise di praticare la CF in grande stile quando offrì i suoi servigi a Dionigi il Vecchio e poi a Dionigi il Giovane di Siracusa, benché il primo lo vendesse schiavo e il secondo lo rispedisse a casa due volte. Andò meglio ad Aristotele, ingaggiato da Filippo per istruire Alessandro, anche se quest’ultimo non sembra essere stato un esempio di phronesis aristotelica. Da parte sua, Alessandro si portò una specie di consulente, Callistene, nella sua avventura asiatica, ma alla prima occasione lo mise a morte perché il filosofo, per ingenuità politica o hubris teoretica (o probabilmente per entrambe) osò paragonare le sue imprese concettuali a quelle guerresche del re. Kant invece pensava che per garantire una pace stabile gli Stati dovessero tener conto delle massime dei filosofi, ma, ahimé, questo non è mai accaduto, a partire proprio dal suo re, Federico II, che passò gran parte del suo regno a cavallo, alla guida dei reggimenti prussiani. A dire il vero, il nostro tempo ha conosciuto un filosofo, o self-appointed tale, che ha esercitato il ruolo di consigliere del principe. Eppure non ce la sentiamo di additare il suo esempio ai giovani. Si tratta di Francis Fukuyama che, tra gli altri, ha ispirato lo sciagurato progetto iracheno di G.W.Bush” (p. 16).
Arrivato a questo punto della brillante arringa di Dal Lago contro l’impotenza politica della filosofia occidentale classica, il lettore si chiede chi sia davvero l’imputato: che c’entra, infatti, il movimento contemporaneo della Philosophische Praxis con Platone, Aristotele, Kant? E che c’entra con uno studioso - Fukuyama - che nessun filosofo consulente ha mai citato e che, da parte sua, non mostra di aver mai sentito parlare di consulenza filosofica? Ma si tratta di pazientare un po’. Non avendo elementi diretti per attaccare, su questo versante, la CF, il furbo sociologo genovese ci prova trasversalmente: voi consulenti filosofici siete a-politici non solo perché, in quanto filosofi, siete ‘oggettivamente’ eredi di celebri tromboni falliti (come Platone, Aristotele e Kant), ma anche perché vi rifate a Socrate come modello mitico fondativo e perché rientrate nel filone millenario dello gnosticismo.
Vediamo più da vicino il tenore, e le pezze giustificative, di questa duplice accusa.

La consulenza filosofica e il mito di Socrate
La prima: “Più che di un giustificato ritegno, la reticenza in materia di politica è il frutto di una scelta filosofica conseguente. il motto socratico Gnoti seauton (’conosci te stesso’), già iscritto nel tempio dell’oracolo di Delfi, potrebbe campeggiare sugli stendardi della CF. Che si tratti di soluzione dei problemi, ricerca del senso o malattia dell’esistenza, i consulenti si rivolgono alla soggettività dei consultanti nelle varie accezioni filosofiche (razionalità, psiche, anima) e non alla loro esistenza pubblica. Possono apparire all’orizzonte problemi collettivi (per esempio, etici o religiosi) o in senso lato sociali, e perfino politici. E’ chiaro però che la via della conoscenza, del giudizio e della deliberazione passa essenzialmente dall’interiorità, secondo l’ingiunzione agostiniana: Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habita veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et teipsum. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur (De vera religione, 39,72). Dunque, la CF non ignora il fuori. Semplicemente - in questo,davvero erede di una tradizione più che bimillenaria - lo subordina all’interiorità. Anche nelle sua accezioni meno spiritualiste, la CF spinge alla riflessione su di sé (che è pur sempre una sospensione dell’atteggiamento ordinario della vita quotidiana e della sua routine) come accesso privilegiato alla propria verità, e quindi al mondo esterno. Nulla di nuovo sotto il sole e di scandaloso, ovviamente. Solo che in questa mossa - che non è occasionale, bensì, soprattutto nelle versioni più estreme della CF, costitutiva di un modo di orientarsi nel mondo - l’esterno viene ridefinito radicalmente. L’esterno è essenzialmente un’ombra dell’interiorità” (pp. 16 - 17).
Chi conosce anche solo superficialmente la letteratura internazionale e italiana sulla consulenza filosofica (ovviamente mi riferisco esclusivamente a quanto pubblicato prima del libro di Dal Lago), non può non restare stupito della infondatezza di queste sue asserzioni tanto perentorie quanto prive di riferimenti documentali.
In primis, il riferimento alla figura di Socrate non è per nulla condiviso unanimamente nel mondo dei filosofi ‘pratici’. Se infatti ciò è vero per alcuni (”Socrate era veramente saggio ma diceva alla gente che non sapeva niente e questo ne era un segno, la riprova della sua saggezza! Il nostro pubblico conosce questo trucco e lo ama. Così dobbiamo trattare con ciò che la gente si aspetta da noi: una saggezza ‘ignorante’ e senza presunzione” ), non lo è per altri (”il dialogo socratico” è “solo una caricatura della prassi filosofica. Socrate, infatti, plagia i suoi discepoli. Credo, al contrario, che il filosofo dovrebbe farsi interprete dei bisogni, delle identità e delle convinzioni profonde di chi esprime la propria opinione e non portare l’altro, come faceva Socrate appunto, verso la propria teoria” ).

La consulenza filosofica come antidoto alla spoliticizzazione della filosofia occidentale
Comunque stiano le cose in rapporto a Socrate, più rilevante è andare al cuore della questione: ’subordinare’ l’azione politica, la prassi in generale, insomma “l’esterno”, alla mente, alla progettazione riflessiva, insomma alla “interiorità“, costituisce un errore teoretico e un peccato etico? Pensare che la “riflessione su di sé” sia presupposto e fondamento dell’agire storico-sociale significa, sic et simpliciter, ridurre il mondo a “un’ombra dell’interiorità“? Certo la tesi di Marx ed Engels - secondo i quali non è la coscienza a determinare la sfera sociale ma la sfera sociale a determinare la coscienza - ha una parziale verità: ma, come attesta involontariamente la biografia dei due fondatori del comunismo moderno, mette in luce l’altra metà dell’intero. In realtà mi pare evidente che ci sia un rapporto dialettico fra soggettività e oggettività e che il filosofo, come ogni altro essere riflessivo e attivo, è tanto figlio quanto padre della storia in cui è inserito. Una storia che documenta abbondantemente la sterilità delle “armi della critica” puramente intellettuale così come l’autolesionismo della “critica delle armi” quando venga esercitata senza presupposti teorici, senza vigilanza etica e senza prospettive progettuali lucide e condivise. Una storia, insomma, che è zeppa di “anime belle” generosamente dispensatrici di sogni irrealizzabili, ma ancor più di gruppi dirigenti che hanno rovinato le più ardite rivoluzioni per ignoranza dei dati scientifici, per incapacità di gestire la propria avidità di denaro e di potere e soprattutto per la mancanza di una visione sinottica sapienziale. “Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni”: non è un caso che il movimento della filosofia-in-pratica riconosca in Pierre Hadot , che non si è mai occupato di consulenza filosofica, uno dei propri punti di riferimento culturale.
Poiché, a differenza di Dal Lago, ritengo doveroso offrire al lettore prove documentali precise delle mie affermazioni, intendo non limitarmi ad argomentazioni indirette (quale potrebbe considerarsi il richiamo ad Hadot), ma approfondire la questione attingendo ad alcuni fra i più acuti studi sull’origine e il significato della filosofia-in-pratica (nella convinzione di maneggiare delle riflessioni che potrebbero rivelarsi illuminanti per la filosofia contemporanea tout court). Quando, nel 2000 e poi nel 2003, Alessandro Volpone si è interrogato sulle ragioni del ’successo’ - dagli sviluppi ambigui come nel caso di tutte le mode culturali - delle “pratiche filosofiche” non accademiche , ha in sostanza risposto: il XX secolo si è aperto all’insegna della crisi della razionalità occidentale; la Existenzphilosophie ha tentato di strutturarsi come rimedio a questa crisi ma non c’è riuscita; il movimento della filosofia-in-pratica si è attribuito la responsabilità di offrire quel rimedio che è ancora atteso. Mi interessa riprendere, brevemente ma con chiarezza, queste tre tappe dell’argomentazione di Volpone. La prima aggancia “la riscoperta negli ultimi decenni dell’esercizio pubblico della filosofia (a scuola, sul posto di lavoro, nel tempo libero, nelle vicissitudini private ecc.) alla crisi dei grandi sistemi di pensiero del Novecento. Il meccanismo alla base di una tale illazione giace nell’idea che, sgombrato il campo dai ‘deliri d’onnipotenza’ della ragione, a livello culturale, socio-economico, politico e persino ecologico (…), di possa finalmente (tornare) a parlare d’ideali a misura d’uomo. Non si tratta di ‘individualismo’, ‘relativismo’, ‘opportunismo’ o quant’altro. L’eclissi delle grandi ideologie e delle teorie unificatrici non è ‘la fine del mondo’: si tratta solo di un aggravio di responsabilità a livello individuale. Il singolo è sempre più spesso chiamato in prima persona a dover decidere per se stesso e per gli altri, fronteggiando problematiche non indifferenti (proprie o altrui). Ciò sarà tanto più evidente quanto più avanzato diverrà il processo di globalizzazione della nostra società, forse oggi solo all’inizio” . Ma - e siamo alla seconda tappa del ragionamento di Volpone - quali sono stati “i ‘limiti’ della filosofia di buona parte del Novecento che hanno impedito di poter arrivare prima d’oggi a una vera ri-scoperta dell’esercizio pratico filosofico pubblico” ? “Questi limiti sono rintracciati (1) nella spoliticizzazione della filosofia che assurge a scienza autonoma e (2) nel primato del commentario erudito sul vissuto concreto” . Se il movimento della filosofia-in-pratica (e siamo alla terza, ultima, tappa dell’argomentazione di Volpone) non riuscirà a liberarsi, in quanto filosofia, da questi due ‘limiti’, non potrà svolgere il ruolo per cui (con buona pace di Dal Lago e di quanti l’attaccano senza citare una sola riga degli scritti dei suoi esponenti più autorevoli) si è costituita: offrire spazi e occasioni “di natura eminentemente collegiale in cui ciascun singolo incontra le idee, le affina, mediante un trascendersi non fine a se stesso, un processo dialettico che origina dalla irriducibilità del mondo reale e riscopre costantemente, mediante riflessione critica, il concreto stesso” .

Tre scenari
La consulenza filosofica ’seria’ è dunque non effetto, allegramente consapevole, della spoliticizzazione della politica quanto, piuttosto, antidoto: tentativo di invertirne la direzione involutiva. E, andando oltre le pagine di Volpone in cerca di documentazione, si avrebbe solo l’imbarazzo della scelta. Potrei citare persino alcune mie pubblicazioni dai titoli inequivoci (Le ideologie del Novecento. Che cosa sono state, come possono rifondarsi ; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica ed etiche contemporanee ), ma sarebbe troppo pretendere da uno studioso di livello internazionale come Dal Lago che si occupi delle cosette di un consulente filosofico di provincia, tanto più che - a suo avviso - in generale si opta per la consulenza filosofica quando non si è in grado di scrivere di filosofia ‘vera’ . Poiché però egli ha la bontà di citare - ovviamente per deriderlo - il mio libretto di introduzione al philosophical counseling , mi sarei potuto aspettare legittimamente che ne avesse letto non dico le pagine interne ma, almeno, l’indice. Se, in ossequio alla metodologia induttiva cui potrebbe essere aduso uno scienziato del sociale, lo avesse fatto, non avrebbe potuto fare a meno di imbattersi nel titolo del VII capitolo (Lavorare per un mondo migliore) con i relativi sottotitoli. Per brevità, vorrei qui concentrarmi sul paragrafo centrale dal titolo un po’ enigmatico Tre scenari.
Nelle righe immediatamente precedenti avevo citato, con totale consenso, un brano di Paul Ginsborg sulla necessità di salvare il Welfare State “attraverso l’introduzione di un ethos diverso, la preparazione non solo tecnica ma morale del personale, la fine del ‘posto’ nel pubblico impiego visto come una sorta di proprietà privata, l’offerta di un servizio di qualità, sanitario, amministrativo, televisivo a tutti i cittadini”. E vi avevo aggiunto, a mo’ di chiosa: “Per quanti sforzi d’immaginazione si possano fare, ritengo che per la formazione etica dei funzionari e impiegati pubblici - a meno di importunare con richieste incessanti i soliti Monsignori telegenici - non si possano trovare professionisti più idonei dei consulenti filosofici ‘laici’ ” (p. 105). Dato il taglio esperienziale ed operativo del mio testo, passavo dunque ad esemplificare - sulla base di alcuni seminari di formazione da me più volte collaudati - una possibile fondazione etica della prassi sociale, adottando il metodo che il filosofo ‘pratico’ Wilhelm Schmid denomina “optativo” : mostravo cioè i tre principali “scenari” teoretico-metafisici del panorama culturale mondiale attuale per esaminarne le ricadute di tipo morale, comportamentale, prassico. Più precisamente illustravo come da ciascuno di questi scenari sia possibile trarre conseguenze etiche ambivalenti, sia rinunciatarie che di impegno attivo: “Alcuni leggono la vita in uno scenario nichilistico. Essa, per loro, è una fuggevole avventura dal Nulla al Nulla. Ma questa ‘cattiva notizia’ (Edgar Morin), che può gettare alcuni nella disperazione e nel fatalismo immobilistico, è per altri ragione di solidarietà col prossimo (…). Altri leggono la vita in uno scenario panteistico. Essa, per loro, è un’onda passeggera nel grande mare dell’essere: viene dalla Natura, ritorna alla Natura. Anche questa prospettiva teoretica può suscitare, in alcuni, atteggiamenti etici rinunciatari: perché impegnarsi attivamente se il passaggio sulla terra è solo un’increspatura superficiale fra l’eternità che ci precede e l’eternità che ci attende? Perché sudare per modificare un mondo che è poco più di un’illusione? ma, ad altri, la stessa prospettiva panteistica suggerisce attitudini etiche ben diverse: se la Vita che pulsa nell’universo e nell’umanità è unica, come restare indifferenti alla sofferenza di uomini, animali e piante? Altri ancora leggono la vita in uno scenario monoteistico. Essa, per loro, è un dono precario del Donatore assoluto: viene dall’Amore e va verso l’Amore. la storia ha conosciuto delle versioni rinunciatarie del monoteismo, ad esempio alcuni modelli di cristianesimo, che hanno fatto della rassegnata accettazione della ‘volontà di Dio’ (in effetti, la volontà dei potenti di turno) la virtù suprema. ma lo stesso monoteismo, in altre versioni del cristianesimo, ha fondato e sollecitato esistenze donate per rendere visibile ed efficace nella storia l’Amore invisibile di Dio” (pp. 105 - 106).
Che c’entra la filosofia - in particolare la filosofia consulenziale - in tutto questo? Essa, a mio avviso, ha il compito di aiutare l’interlocutore a riflettere sul fatto che, sino a quel momento, egli si è riconosciuto in una delle possibili angolazioni sul mondo e che “essere pienamente uomini implica la consapevolezza di questa angolazione: per essere liberi di mantenerla o di superarla adottandone una nuova innanzitutto; poi per radicare in essa, quale che sia, le motivazioni profonde del nostro impegno sociale” (p. 106).

Su uno gnosticismo ignaro di sé
Ma torniamo alla requisitoria di Dal Lago che, certo del tutto preterintenzionalmente, sta offrendo un filo rosso prezioso per esporre, con una certa logica, alcuni servizi che la filosofia-in-pratica può offrire oggi alla politica. O, meglio, ai cittadini che volessero impegnarsi in una delle svariate modalità della prassi politica.
Abbiamo anticipato sopra che egli imputa la (supposta) a-politicità della consulenza filosofica a due principali vizi originari : il riferimento a Socrate e l’inserimento nel millenarismo gnostico. Sulla infondatezza della prima accusa, abbiamo detto abbastanza. Poiché Dal Lago, probabilmente, sospettava da solo che il passaggio da Socrate a una sorta di idealismo ingenuo ( “Il fuori esiste solo in quanto pensato dal dentro - come se un paesaggio potesse essere illuminato esclusivamente dalla luce della nostra casa interiore”, p. 17) potesse risultare “non immediatamente evidente” (ivi)., preferisce giocare al rialzo: non siete solo troppo socratici, siete anche un po’ gnostici. Ora: mentre, per quanto problematico, un riferimento a Socrate, nella letteratura delle pratiche filosofiche, lo si può trovare, impossibile - o quasi - risulta rinvenire anche solo un accenno alle fonti dello gnosticismo. Perciò Dal Lago deve andare giù duro: non siete solo un po’ gnostici, ma anche così ignoranti da non sapere di esserlo. Infatti è vero che “i praticanti filosofi nelle due versioni principali (conquista della felicità attraverso l’esercizio, problem solving) respingeranno con sdegno qualsiasi eredità gnostica” (p. 17), ma ciò non è una prova del fatto che essi non condividano, senza saperlo, “dell’atteggiamento gnostico sia la svalutazione del mondo esterno, sia un certo razionalismo operativo” (p. 18): “non si tratta dunque di stabilire un’impossibile genealogia delle pratiche filosofiche edificanti” (ah, è interessante apprendere che sarebbe “impossibile”…), quanto di “sottolineare che la radicale conversione verso l’interiorità di tali pratiche realizza una speranza che nessun dottore eretico del II o III secolo della nostra era avrebbe mai osato formulare: che in attesa della liberazione dal mondo questo debba essere ridotto a un’appendice della soggettività. Insisto. Nulla autorizza a stabilire una filiazione diretta tra la gnosi e alcune pratiche filosofiche moderne. Tuttavia, nonostante il loro richiamo a una tradizione di esercizi spirituali ortodossi e gli aspetti prosaici, le pratiche di CF hanno il senso di un ‘obliterazione gnosticizzante del mondo inteso come sfera pubblica. E ciò si traduce in un’accettazione, ammantata di letizia, delle attuali strutture mondane come immodificabili. Bisogna cambiare se stessi per abitare il mondo, quale che sia la nostra collocazione nel mondo. Stare meglio (conoscersi, filosofare, cercare la felicità interiore) nel mondo, non creare mondi migliori o almeno diversi - ecco l’intimazione neo-gnostica, consapevole o no, delle pratiche di CF. un’intimazione (…) perfettamente compatibile con la mobilitazione delle strutture mondane d’oggi (economie, poteri, ideologie) a favore di un attore sociale produttivo, spoliticizzato e rispettoso dell’autorità. In questo senso, un’intimazione letteralmente reazionaria, perché si pone in antitesi sia con passate stagioni di ricerca della felicità pubblica, sia con le spinte attuali a non accettare a priori, a partire dalla soggettività, il mondo com’è” (ivi).
Penso che le pagine precedenti, soprattutto quelle in cui richiamo il saggio di Volpone sulla filosofia-in-pratica (quale antidoto alla spoliticizzazione della filosofia moderna e contemporanea) e il mio capitolo sulla necessità di ritornare alle proprie matrici filosofiche per trarne ragioni di impegno socio-politico, siano sufficienti per mostrare quanto mirati e quanto documentati siano gli attacchi di Dal Lago. Essi, comunque, possono essere utilizzati come predellina per qualche istruttivo salto in avanti.
Innanzitutto va dato atto al sociologo dell’Università di Genova che le sue critiche, infondate se formulate verso tutti e verso nessuno, possono essere invece pertinenti nel caso di filosofi (e affini) che, da presso o da lontano, stanno provando a cavalcare l’onda delle pratiche filosofiche. Che una Collana editoriale dedicata ad esse ospiti, accanto a volumi indubbiamente radicati in esperienze di anni e in riflessioni creative, testi di intonazione oracolare come L’Autopsia filosofica. Il momento giusto per morire tra suicidio razionale ed eternità (Apogeo, Milano 2007) in cui forse (per chi riesce a decifrarne le pagine) c’è filosofia ma certamente manca ogni traccia di pratica professionale, è segno che i baroni universitari e i manager dell’editoria hanno fiutato dove va - o potrebbe andare - il vento e vogliono cogliere al volo l’occasione per piazzare, ad un pubblico di lettori sinceramente desiderosi di cogliere nuovi aspetti del filosofare, elucubrazioni di sapore parmenideo.
Ma, andando al di là della polemica, più adatta a distruggere che a edificare, la discussione può costituire un’occasione preziosa per valorizzare alcune considerazioni che - come le precedenti, se non erro - rischiarano alcuni aspetti della filosofia-in-pratica e, più ampiamente, dei possibili risvolti politici della filosofia contemporanea.
Come si è avuto modo di notare sopra, il precetto delfico “Conosci te stesso” è diventato - grazie a Socrate, o piuttosto a Platone - una sorta di criterio ispiratore della filosofia occidentale (o, almeno, di alcuni suoi assi portanti). Ma ci sono almeno due possibili interpretazioni: la soggettivistico - psicologica e la ontologico - filosofica. Secondo la prima, il precetto, “talvolta abusato come fondamento delle varie psicoterapie”, avrebbe “il significato di una conoscenza di sé medesimo” e delle “personali capacità individuali”; secondo l’altra, richiederebbe, invece, “la verità dell’uomo in sé e per sé”. Solo questa “verità” - il disvelamento dell’essere umano come cifra dell’essere in generale, come ologramma in cui il reale si concentra e di racconta, come microcosmo in cui si rende accessibile la trama segreta del macrocosmo - può offrire “salus, salute in senso forte (come anche Badiou usa la parola) e significa la fine dell’ alienazione, l’assoluta gioia del presente, la nullificazione di ciò che può fare male”: “una verità che non offre una concezione della salute personale in quanto accomodamento sociale o come strumento più o meno efficace per ‘tirare avanti’ nella quotidianità“. . Se è così, sarebbe erroneo leggere Socrate con gli occhiali di Cartesio e scambiare l’invito a conoscere l’antropos come fiore emergente della fusis con l’invito a conoscere autointuitivamente se stessi in quanto solitari soggetti conoscenti. Né meno erroneo sarebbe ridurre l’impresa filosofica, fosse pure l’impresa della filosofia-in-pratica, a “cura di sé”.
All’argomento Neri Pollastri - presidente di Phronesis - ha dedicato un paragrafo che meriterebbe d’essere riportato per intero. Dopo aver ammesso che ci sia qualcosa di vero nel ritenere che “in consulenza vengono di solito persone preoccupate da problemi esistenziali” da aiutare “a prendersi cura di loro stessi, del sé”, si affretta a precisare che questa dimensione non può considerarsi esaustiva perché “la parte prioritaria e più importante del lavoro di consulenza filosofica” consiste proprio “nel non prendersi cura di sé”. Cosa significa davvero questa affermazione “sorprendente, se non paradossale”? “In effetti , in un certo significato del termine, il consulente filosofico si occupa realmente della persona del consultante, del suo sé; tuttavia, egli lo fa in modo del tutto particolare: si occupa specificamente della sua concezione del mondo. Ora, quest’ultima, è certamente parte del sé, ma la tempo stesso lo trascende ampiamente: idee, teorie, concezioni, valori che costituiscono una concezione del mondo si sporgono fuori dal soggetto che l’ha elaborata e a cui essa appartiene, tendono idealmente a un’oggettività, si congiungono all’altro da sé tessendo una trama intersoggettiva e giungendo in tal modo a riposizionare, relativizzandolo, lo stesso sé. In questo sta la ricchezza dell’approccio filosofico alle problematiche della quotidianità: ricollocando lo stato soggettivo entro una cornice più ampia e profonda, sposta l’attenzione dal sé - alza lo sguardo del consultante, fin lì fisso ’sul proprio ombelico’ - e la dirige su quella multiforme realtà che lo circonda e che, interagendo con lui, ne costituisce l’identità stessa. In tal modo, l’approccio filosofico chiarifica e rafforza l’identità del sé trascendendolo, giustappunto smettendo di preoccuparsi di esso e di prendersene cura. Assumendo invece una posizione etica, responsabile nei confronti del mondo circostante, nel quale il valore di sé trovi un giusto equilibrio nella relazione con gli infiniti valori che lo circondano. In questo senso, la consulenza filosofica può essere anche ‘cura di sé’, ma è sempre ben più che solo questo, e anzi non è neppure detto che lo sia sempre”. Lontano mille miglia da ogni “tentazione gnostica” paventata da Dal Lago (p. 17) , Pollastri non ha dubbi: “il sé non è l’unico oggetto intorno a cui ruota la consulenza e (…) , anzi, non è neppure il principale”. Infatti, “quel che caratterizza la consulenza filosofica è il fatto che non è il soggetto il centro dell’indagine, dato che quest’ultima si allarga - idealmente, ma anche intenzionalmente - alla totalità dell’esistente. Il soggetto stesso trova il suo senso e, conseguentemente, le vie per conferirne uno alle difficoltà della sua esistenza, proprio attraverso il trascendimento della propria soggettività e la sua ricollocazione in una oggettività costruita intersoggettivamente con il consulente e, per suo tramite, con la tradizione del pensiero filosofico - idealmente, con l’umanità tutta. Dunque, ancora una volta per fare chiarezza e non confondere acque già torbide, sembra opportuno ribadire in modo netto che la consulenza filosofica non è cura di sé, perché non è il ’sé’ che vi conta principalmente. Essa può essere al massimo ‘cura del mondo’ e perciò includere anche, in una sua parte, la cura di sé (dato che anche il sé è parte del mondo), ma è importante evitare di ridurla tutta a questa sua parte, cosa che sarebbe pericolosamente parziale e forviante” .

In che modo il filosofo può servire la politica
Nel 1968 - per convenzione si potrebbe dire: sino al 1977 - la mia generazione di giovani filosofi fu segnata dallo slogan “tutto è politica”. Inteso nel senso che ogni attività umana, anche il pensare, avesse come unica finalità la prassi politica e dovesse essere valutata con l’unico metro di giudizio della sua incisività politica (sia in senso progressista sia in senso conservatore o addirittura reazionario), era senza dubbio uno slogan falso. Ma in un altro senso - ogni attività umana, anche il pensare, pur avendo un proprio statuto originale e delle proprie finalità specifiche, comporta comunque anche delle inevitabili ricadute politiche di cui si deve avere consapevolezza e controllo - aveva una sua validità che nessuna oscillazione delle mode culturali dovrebbe oscurare (come, mi pare, sia avvenuto dall’ultimo ventennio del secolo scorso ai nostri giorni). Il filosofo non può asservire le sue proposte interpretative agli interessi di un ceto sociale, di uno Stato o di un movimento d’opinione (per quanto politicamente corretto, anzi meritevole di supporto): si trasformerebbe in ideologo - nel che non ci sarebbe nulla di male, a patto di sapere e di dichiarare che si tratta di un mestiere del tutto diverso. Ma non può neppure fare finta di pensare “da nessun luogo”, come se ogni sua asserzione su ciò che è non fosse condizionata storico-socio-politicamente e, a sua volta, non condizionasse la storia, la società e i rapporti politici. Egli è chiamato, dalla sua stessa condizione di intellettuale, a conoscere e a gestire gli effetti - diretti o indiretti, intenzionali o preterintenzionali, emancipatori o oppressivi - delle proprie teorie. In un altro passaggio del suo libro, Pollastri afferma che “nonostante la sua metodicità e il suo rigore, la filosofia è libertà di pensiero ed è fondamentalmente critica dell’esistente - delle sue ‘forme’ e ‘istituzioni’, di ogni rigidità e autorevolezza delle regole - anche se non è mai detto a priori se questa regola possa portare a una sovversione dell’esistente o a una sua meditata e consapevole riconferma” . Si può provare a determinare più in concreto come potrebbe declinarsi questa responsabilità politica del filosofo in quanto filosofo?
Per farlo, bisognerebbe distinguere le varie tipologie di regime in cui un filosofo si trova a vivere. Una cosa infatti è pensare sotto una dittatura, un’altra in un sistema democratico, un’altra ancora - come mi pare ci si trovi attualmente nel nostro Paese - in un sistema di democrazia ‘formale’ ma non ’sostanziale’ (si potrebbe forse dire: in un regime di dittatura della maggioranza). Se mi si esonera dalla (in sé doverosa) argomentazione politologica che potrebbe giustificare la mia tesi sull’attuale regime italiano di democrazia ‘approssimativa’, e si ammette tale tesi solo a titolo di ipotesi, potrei così sintetizzare il ruolo - ad un tempo necessario e insufficiente - del filosofo rispetto alle dinamiche socio-politiche.
Egli avrebbe, innanzitutto, il compito di promuovere quella “democratizzazione della conoscenza” - o “democrazia cognitiva” - su cui più volte ritorna Edgar Morin , nella convinzione che dare a tutti i cittadini adulti il potere di voto, senza accompagnarlo con il potere di capire i termini delle questioni su cui deve esprimere il proprio voto, significa destinare un sistema sociale al suicidio. L’opera di alfabetizzazione politica elementare è compito dei giuristi o degli storici, dei sociologi o dei pedagogisti, dei politologi o degli economisti? Da quando, nel 1992, ho fondato a Palermo l’associazione di volontariato culturale “Scuola di formazione etico-politica G.Falcone” , mi sono reso conto che solo un lavoro di squadra - e di una squadra affiatata, che coopera stabilmente, non episodicamente - può tentare l’impresa. E, affinché l’interazione fra i vari punti di vista disciplinari funzioni, ma soprattutto affinché la proposta sintetica conclusiva non abbia lo statuto di un catechismo ideologico da impartire, in questa squadra non può mancare - senza alterigia ma senza complessi d’inferiorità - il servizio di un filosofo. A lui soprattutto - anche se non esclusivamente - spetterà di curare l’offerta formativa in modo che appaia (e soprattutto in modo che sia realmente) una proposta da esaminare criticamente - da accogliere o rifiutare o rielaborare - e non certo una mossa di indottrinamento strategico. Su questo aspetto della rinascita delle pratiche filosofiche hanno insistito recentemente due docenti dell’Università di Siena: “La mirabile sintesi tra idee e stile di vita, teoria e pratica, che era stata raggiunta da molti filosofi (Socrate, Epicuro, Seneca, Montaigne, Spinoza), si è persa nel tempo; le idee si sono come disincarnate rispetto alla vita, sono diventate astrazioni dotate di esistenza autonoma, e la filosofia ha finito per diventare un mestiere riservato a professionisti della materia, per lo più insegnanti di scuola e di università. Questa situazione sta lentamente cambiando da una ventina d’anni a questa parte. Da quando hanno cominciato a prendere campo, anche per la crisi di altri saperi (religione, politica, psicologia), diverse forme di pratiche filosofiche: stili e modi di pensiero nuovi, che si richiamano all’originaria impostazione della filosofia intesa come regola di vita: non solo sophia, dunque, ma anche phronesis; conoscenza, certo, ma anche saggezza, pensiero in esercizio, arte di vivere bene e strumento di soluzione ai problemi della vita. Accanto a questa impostazione pratica, la filosofia sta recuperando (seppure tra molteplici resistenze) anche la propria originaria vocazione di sapere pubblico, diffuso, aperto; non una sapienza superiore, inaccessibile, riservata a pochi eletti, ma un criterio di condotta ispirato alla saggezza e di facile comprensione, che sia per ciò stesso accessibile a tutti, filosofi e non filosofi, uomini e donne, giovani e vecchi; un pensiero in azione nella vita di tutti i giorni che sappia far propria la massima socratica che solo una vita esaminata, cioè vissuta in modo autentico e in piena consapevolezza, si libera dall’istinto e acquista valore morale. Molti filosofi, antichi e moderni, antichi e moderni, hanno sottolineato questa vocazione pratica e democratica della filosofia” .
In una democrazia, per quanto ‘approssimativa’, il lavoro di base - il lavoro con la base e per la base elettorale - è prioritario dal punto di vista logico, assiologico e cronologico. In mancanza di esso, come ci insegna la storia anche recente, non ci sono molte alternative possibili: o una dittatura sul proletariato mascherata da dittatura del proletariato (del tutto illusoriamente rivoluzionaria: ogni volta sposta le lancette della storia di qualche secolo ) o un leaderismo plutocratico mascherato da populismo plebiscitario (del tutto illusoriamente conservatore: ogni volta distrugge le acquisizioni di civiltà che meriterebbero d’essere gelosamente preservate).
Solo se la filosofia - attraverso l’attività di pensatori ‘praticanti’ non necessariamente geniali, ma di solida preparazione e di autentica passione per la ricerca - penetrasse con i suoi dubbi, la sua memoria, le sue ipotesi e le sue intuizioni, nei gangli della società ‘civile’, sarebbe politicamente possibile (e avrebbe senso) che alcuni filosofi-in-pratica entrassero, come rappresentanti dei cittadini, nelle istituzioni dello Stato (in altri organismi sovranazionali). Sia che questo inserimento avvenisse in un piccolo Comune di provincia sia che si realizzasse al Parlamento o al Governo, il tipo di funzione sociale resterebbe, in sostanza, il medesimo delineato per la militanza di base. Infatti i filosofi (non sto parlando dei professori di filosofia dediti all’ermeneutica dei testi ‘classici’: fanno già egregiamente, nelle biblioteche e nelle aule universitarie, un prezioso lavoro senza il quale la tradizione filosofica appassirebbe o si interromperebbe), nei consessi deliberativi come negli organi esecutivi, dovrebbero autointerpretarsi come presenza insostituibile (perché professionalmente portatori di “uno sguardo interdisciplinare e transdisciplinare che favorisca la comunicazione fra gli interlocutori e li solleciti a guadagnare un punto di vista sinottico” ), ma radicalmente inadeguata (perché professionalmente incompetenti “quando si tratta di lenire sofferenze psichiche o dirimere controversie amministrative” ). Essi dovrebbero vedersi né più , ma neanche meno, di una sorta di lievito che non resta inutilizzabile senza impasto da lievitare. Proprio come l’impasto non diventa pane senza un lievito che l’abbia metabolizzato dall’interno.
Mi rendo conto di stare minando un pregiudizio diventato ormai ’senso comune’: che la politica sia un affare di tecniche (da affidare a specialisti dei vari settori: al medico, al generale, al docente universitario, all’imprenditore…). Ma se è vero che per decidere il sistema di approvvigionamento dell’energia più opportuno (nucleare, eolico o solare?), o la modifica di un articolo della Costituzione, è imprescindibile una corretta informazione ’scientifica’ da parte degli esperti - in mancanza della quale l’istituto del referendum è una buffonata demagogica - , in ultima analisi l’opzione è metascientifica: è un’opzione “fra diversi modelli di civiltà” che “si basa certo sugli apporti degli storici, sulle analisi della sociologia, sulle previsioni degli economisti, sul parere dei giuristi…ma che, in quanto resta un’opzione politica, si basa sulla propria idea di uomo, di mondo e di futuro. Dunque, sulla propria prospettiva filosofica” .