sabato 26 novembre 2011

LE RIVOLTE DEI RAGAZZI
E LE COLPE DEGLI ADULTI


“Repubblica” - Palermo
12.11.2011

Con Roberto Tripodi, nonostante un antico rapporto di stima e di comune militanza nel movimento antimafia, mi è capitato di polemizzare anche da queste colonne. Non è certo, dunque, per solidarietà “a prescindere” che ritengo meritevole di attenzione una sua iniziativa coraggiosa e preveggente. Mi riferisco, come sanno i lettori dell’edizione di giovedì 27 ottobre, alla circolare sui provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti che, occupando i locali della scuola, impediranno di fatto a tanti altri lo svolgimento regolare delle lezioni. Una iniziativa che merita di essere discussa in un dibattito pubblico a cui non possono continuare a sottrarsi (come è avvenuto negli ultimi decenni) gli adulti a qualsiasi titolo responsabili dell’educazione delle giovani generazioni, dai genitori ai politici, dai docenti ai dirigenti dell’amministrazione pubblica. Capisco che si possa dissentire, o in buona fede o per evitare astutamente l’impopolarità; ma non capisco perché questo dissenso non debba diventare argomentazione logica e controproposta pratica.
Nell’attesa che gli adulti si pronunzino apertamente (sottovoce lo fanno, sinceramente o ipocritamente, tutti i genitori quando vengono a colloquio con gli insegnanti e dichiarano la loro impotenza pedagogica nei confronti di decisioni dei figli che non condividono) possiamo solo tentare di dialogare con i giovani che, in varie modalità (anche rispondendo alle domande del cronista), sostengono le proprie ragioni. Che sono sintetizzabili in due punti cruciali.
Primo: il governo italiano ha demolito, nell’ultimo ventennio, la scuola statale. In queste condizioni, la protesta - anche formalmente illegale – è l’unico strumento per esprimere dissenso. Secondo: a decidere la sospensione delle lezioni e l’occupazione dei locali è sempre una maggioranza di studenti che si contano in assemblea, dunque è in nome delle procedure democratiche che la minoranza deve adeguarsi.
Che cosa opporre a queste due argomentazioni, apparentemente ineccepibili? Allo stato attuale della scuola, temo che non ci sia nulla da obiettare. Infatti un confronto su questioni così cruciali presupporrebbe un linguaggio comune, una base concettuale e valoriale condivisa: ma è proprio tale presupposto che manca. Manca perché gli studenti sono totalmente all’oscuro dei principi e delle regole della Costituzione; perché non hanno gli elementi storici e teorici per distinguere la lotta politica che distrugge, con la violenza emotiva, dalla lotta politica che costruisce, con la forza delle proposte e della partecipazione attiva; perché ignorano i nessi fra i diversi progetti di società (di destra, di centro o di sinistra) e le rispettive, conseguenti, concezioni di scuola.
Sarebbe troppo comodo, però, fermarsi a questo stadio della riflessione. Gli studenti si illudono che, facendo parlare di sé per qualche settimana i giornali e i talk show televisivi, stanno davvero modificando la politica scolastica dei governi in carica e che l’alzata di mano di mille studenti con la voglia di anticipare le vacanze natalizie sia esercizio di democrazia (anche se novecento resteranno a casa per tre settimane lasciando ai duri e puri di presidiare i locali scolastici da fantomatiche irruzioni della polizia): verissimo. Ma sono essi stessi i principali responsabili di queste convinzioni infondate, di queste scelte autolesionistiche? Che cosa abbiamo fatto noi adulti - che cosa stiamo facendo – per orientarli nella direzione della coerenza, dell’impegno metodico, del cambiamento strutturale e duraturo? Non ci sono scorciatoie. La società si trasforma con la forza delle idee e con la pazienza della mobilitazione politica. Ed è su entrambi i fronti che abbiamo tradito i bisogni dei nostri ragazzi.
Dal punto di vista della formazione culturale, con il pretesto che “a scuola non si fa politica” (divieto sacrosanto) non gli diamo nessuna formazione politica (omissione imperdonabile). Sforniamo intere generazioni analfabete dal punto di vista dei principi elementari della politologia (relegando ai margini, o espellendo del tutto, persino l’ora settimanale di educazione civica). Dal punto di vista, poi, degli spazi di aggregazione politica, con il pretesto che “i giovani devono autogestirsi” , nella vita dei partiti e dei sindacati li manteniamo a debita distanza, concedendogli solo il diritto di fare il tifo per questo o quell’altro leader maturo (e non di rado appassito). Così, senza idee e senza canali di partecipazione effettiva alla determinazione delle scelte politiche, i giovani si avviano al destino amaro della maggior parte dei loro padri: dalla fase rivoluzionaria dell’adolescenza a una quotidianità adulta fatta o di rassegnazione o di complicità con chi ha in mano, di volta in volta, qualche brandello di potere.
Le prossime scadenze elettorali potrebbero costituire un’occasione per invertire la tendenza se i partiti tradizionali e le nuove aggregazioni cittadine provassero (come hanno provato, negli ultimi tre anni, le associazioni palermitane aderenti ai “Movimenti civici siciliani” che sabato 29 ottobre hanno presentato, a Palazzo delle Aquile, i lavori svolti e i progetti futuri) a inquadrare il dibattito - pur necessario – sui nomi dei candidati e sulle alleanze tattiche nel più ampio orizzonte della formazione intellettuale, etica e metodologica dei cittadini. Lo so che è banale ripeterlo, ma è ancora più irritante che tale ripetizione sia ancora necessaria: ogni città avrà gli amministratori che si merita.

Ci vediamo lunedì 28 novembre a Trapani?




sabato 19 novembre 2011

PRIMA I LADRI, POI LE MULTE. L’ODISSEA DI UNO SCOOTER


“Repubblica – Palermo”
9.11.2011

Qualora anche a voi capitasse - come all’Antonio Albanese di un indimenticabile sketch – di subire il furto del ‘motorino’, sappiate che si possono realizzare, in ordine decrescente di fortuna, tre possibilità. La prima è che la polizia vi chiami e vi restituisca (in condizioni più o meno buone) la refurtiva. La seconda è che nessuno trovi più il ciclomotore e vi rassegniate alla disgrazia (ce ne sono di molto peggiori!). E la terza? Alla terza non avevo mai pensato. Anzi, francamente, non ritenevo che fosse neppure immaginabile, prima di diventarne - del tutto involontariamente – protagonista.
Può capitare, infatti, che i ladri riducano a uno scheletro malconcio il vostro amato mezzo di trasporto, ma dimentichino di toglierli la targa e lo abbandonino in un angolo semioscuro del quartiere Capo.
In questa ipotesi, prima o poi, qualche vigile urbano potrebbe notare il relitto meccanico e, invece di consultare gli archivi delle Forze dell’ordine o anche soltanto del Pra (Registro automobilistico), elabora l’idea geniale di inviarti a casa una…multa di parecchie decine di euro. Per aver lasciato, in stato di evidente abbandono, il tuo scooter. Incredulo, mi sono recato al quartier generale dei vigili urbani di via Dogali e, dopo una paziente attesa di quasi due ore, sono stato finalmente ricevuto.
Ho esibito l’attestato di cancellazione del titolo di proprietà nonché l’assicurazione intestata al nuovo ciclomotore e, solo allora, mi è stato concesso il diritto di redigere un ricorso amministrativo.
“Come mai, prima di appiopparmi la sanzione e farmi perdere mezza giornata di lavoro, non avete consultato gli elenchi dei mezzi rubati negli ultimi anni?”. La risposta è stata talmente spiazzante da risuonare incredibile:
“Non abbiamo accesso a quei dati”. Veramente sul verbale inviatomi si legge esattamente il contrario:
“Sul veicolo rinvenuto non risulta denuncia di furto, come da accertamenti effettuati dall’Ufficio presso la Questura di Palermo”).
Comunque, presentato il mio ricorso scritto, m’illudevo di aver chiuso la querelle. Così, quando dopo due mesi trovo l’invito a ritirare presso l’Ufficio postale una raccomandata spedita dai Vigili Urbani, mi ci fiondo allegramente, sicuro di essere arrivato alla parola ‘fine’. Invece…era una seconda multa, emessa in altra data, a firma di altri agenti. Che erano passati da quello stesso spiazzale e, ignari di essere stati preceduti tre mesi prima da colleghi, reduplicano l’ammenda.
E la mia via crucis ricomincia daccapo.
Morale dell’incubo: se ti rubano un ciclomotore, non sperare nella collaborazione della polizia municipale di Palermo. Anzi, per la precisione: spera intensamente che nessun vigile si accorga mai di cosa sia rimasto, dopo la depredazione, del tuo motoveicolo. Potresti dover sommare, al danno, la beffa di un…secondo, terzo danno. E in questo caso ti chiederesti se sia così in tutta Italia, in tutta Europa, o se è un privilegio della tua città dover augurarti che l’Amministrazione comunale latiti. Perché, se si fa viva, è per complicarti la vita.

mercoledì 16 novembre 2011

Il coraggio della morte.


“La Cittadella” Maggio-Giugno 2010

L’invito - che ho lanciato nel primo numero di questo periodico - di farci “una bella ragionata” è stato accolto da più di un lettore. Puntata dopo puntata, spero che riusciremo a toccare tutti gli argomenti su cui qualcuno di voi vorrà attrarre l’attenzione. Cominciamo oggi con un tema davvero cruciale per noi tutti, sollevato da Serena Zaffuto (Palermo): “La morte è un argomento su cui nessuno può parlare con certezza perché nessuno sa realmente che cosa lo aspetti al termine della sua vita: e così nascono tutte le congetture, le teorie, addirittura le religioni. Insomma, è qualcosa che in tutti noi, da sempre, costituisce un punto interrogativo che allo stesso tempo ci affascina e spaventa, perché l’uomo ha timore di ciò che non conosce. Socrate, secondo me, ha dimostrato la sua saggezza quando, al processo, ha sostenuto: << Una di queste due cose è il morire: o è come un non essere più nulla; o è proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro luogo. E se è assenza di percezione come un sonno, quando dormendo non si vede niente, neanche un sogno, allora la morte sarebbe un meraviglioso guadagno.[…] Se d'altra parte la morte è un emigrare da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che dunque tutti i morti sono là, o giudici, che bene ci può essere più grande di questo?>> Egli non ha paura della morte, di abbracciare qualcosa a lui sconosciuto: è pronto a scoprire cosa c’è dopo la fine della vita. La sua scelta non è unica nella storia dell’umanità: tutt’oggi gli uomini mettono a repentaglio, e a volte sacrificano la vita, in vista di un bene maggiore, la giustizia. Quanti uomini e donne abbiamo visto, per esempio, esporsi e lottare pubblicamente contro la mafia? La loro morte è stata sempre significativa, perché ha costituito un punto di svolta nella nostra società e ci sta permettendo, lentamente, di sconfiggere questa organizzazione criminale. In un film che ho visto un personaggio diceva :<< Non devi temere la morte, devi temere una vita non vissuta. Non è necessario vivere per sempre, basta solamente vivere>> “.
Serena evoca il tema della morte collegandosi a un grande filosofo greco (Socrate) e lo fa con accenti molto personali: riterrei che qualsiasi commento da parte mia potrebbe togliere, non certo aggiungere, lucidità. Posso solo osservare che, se è attuale la testimonianza etica di Socrate, ciò dipende dal fatto che anche il suo bivio teorico è rimasto intatto. Anche per noi del XXI secolo la morte o è annichilimento (e dunque non può costituire la porta di accesso a nessun inferno) o è transito ad un nuovo modo di esistere (Parnaso, Paradiso, Resurrezione, Metempsicosi…). In entrambi i casi, solo chi ha usato male la vita - per fare male e senza fare bene ad altri - ha ragione di temere l’Al-di-là. Chi, pur fra errori e imperfezioni, ha cercato di vivere autenticamente non può che andare incontro alla morte con occhio curioso e cuore sereno.

lunedì 14 novembre 2011

Ci vediamo a Palermo venerdì 18 alle 17,15?


Venerdi 18 novembre ore 17.15 nella sala Magna di Palazzo Steri, piazza Marina 61, Palermo, dibattito sul libro di Vito Mancuso “Io e Dio. Una guida dei perplessi”, Garzanti editore.
Introduce il dibattito Augusto Cavadi (consulente filosofico).
Coordina Franco Lo Piparo direttore del Dipartimento FIERI-AGLAIA.
Sarà presente l’autore.

domenica 13 novembre 2011

Alcibiade Pederini intervista Augusto sulla teologia dei mafiosi


“Diogene”
Settembre 2011
La teologia dei mafiosi.

Come è stato accolto il testo?
Quando Vito Mancuso mi chiese se avessi un testo di teologia ‘critica’, da proporre alle edizioni San Paolo di Cinisello Balsamo, risposi che avevo da anni nel cassetto un plico difficile da collocare editorialmente: troppo ‘teologico’ per gli editori ‘laici’, troppo ‘laico’ per gli editori confessionali. Incoraggiato a proporre comunque il dattiloscritto, ebbi la (lieta) sorpresa di vederlo pubblicato. Evidentemente i responsabili della casa editrice cattolica avevano intuito che Il Dio dei mafiosi non era un libro contro qualcuno, ma per capire enigmi imbarazzanti per tanti. Non si trattava, come scrisse “Il foglio”, di un libro che fingeva di colpire la mafia per colpire la Chiesa, ma come vide più acutamente Gianni Vattimo, su “L’espresso”, un tentativo di onestà intellettuale. Un tentativo di iniziare a rispondere alla domanda che - per decisione concordata fra me e l’editrice - si legge nella quarta di copertina: “Come è possibile che una società a stragrande maggioranza cattolica partorisca Cosa nostra e stidde, ’ndrangheta, camorra e Sacra corona unita? Un interrogativo del genere ne coinvolge, a valanga, molti altri. Impegnativi e impertinenti. E questo potrebbe spiegare perché lo si è posto assai raramente. Per rispondere, l’autore ha enucleato i tratti essenziali della teologia dei mafiosi; ha scoperto preoccupanti rassomiglianze con la teologia <>; ha delineato, per sommi capi, una teologia critica <> alternativa rispetto alla visione teologica mafiosa. Questo percorso intellettuale affronta gli aspetti culturali di un fenomeno complesso come la mafia e si rivela utile per ampliare l’analisi scientifica e per affinare le strategie di prevenzione e di contrasto”.
Il punto di partenza non poteva che essere una rappresentazione riepilogativa della mafia sulla base degli studi scientifici più accreditati (rappresentazione da me sintetizzata recentemente nel volumetto La mafia spiegata ai turisti che l’editore Di Girolamo ha immesso nel mercato anche in versione francese, spagnolo, inglese, tedesco, russo, giapponese ed esperanto): una associazione di cinquemila criminali che perseguono il duplice scopo del potere e dell’arricchimento mediante l’alternarsi di violenza e seduzione culturale. Solo all’interno di questa visione della mafia – che è dunque anche un soggetto politico con una propria ‘filosofia’ – è possibile enucleare una concezione della religione.
Ma quali sono i tratti principali della teologia dei mafiosi?
Il loro Dio è un padrino più che un Padre; un Onnipotente senza tenerezza; un Trascendente senza immanenza; un Sovrano accessibile solo attraverso la ‘raccomandazione’ dei santi intercessori; un Giudice freddo che esige il sangue del Figlio per riparare le offese degli uomini…Questi lineamenti sono molto ‘cattolici’ ma poco ‘evangelici’: evidentemente la teologia mafiosa ha saccheggiato un patrimonio dottrinario, simbolico, morale - il patrimonio cattolico – molto distante dal messaggio originario di Gesù e dei suoi primi discepoli (come ho cercato di mostrare in un libro immediatamente precedente e in qualche modo propedeutico a Il Dio dei mafiosi: In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani, Falzea, Reggio Calabria 2008) . Torna alla memoria la fulminante sentenza di Nietzsche: “C’è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce”.
Se il quadro è, sostanzialmente, realistico, la teologia cattolica deve profondamente rivedere sé stessa: senza questa ri-fondazione culturale non sarà possibile una vera e duratura conversione della Chiesa, attualmente troppo simile a un’organizzazione dogmatica, verticistica, gerarchica, sessuofobica, maschilista…insomma a un’organizzazione mafiosa. Per questo, nella stessa quarta di copertina cui ho fatto cenno poco sopra, abbiamo sintetizzato il succo del mio saggio con una frase provocatoria, ma a scopi costruttivi e non scandalistici: “Come può la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e frequentare le chiese? Qualcosa certamente non funziona: o nella loro testa o nella teologia cattolica. O in tutte e due”.

sabato 12 novembre 2011

Ma è ancora possibile salvare la Chiesa cattolica?


“Centonove”
11.11.2011

“Salviamo la chiesa”

“Da Roma, per esperienza, di fronte a un libro tanto scomodo faranno di tutto se non per condannarlo, almeno per farlo passare sotto silenzio. Spero pertanto nel sostegno della comunità ecclesiale e dell’opinione pubblica, dei teologi, e auspico anche dei vescovi disposti al dialogo, per destare la gerarchia romana- ostinata sulle sue posizioni ideologiche e quasi completamente tutelata sotto l’aspetto giuridico e finanziario – e indurla a non ignorare la patogenesi presentata nelle pagine seguenti, la spiegazione dello sviluppo e delle conseguenze della malattia di cui soffre la Chiesa cattolica, e a non continuare a rifiutare il dialogo e le terapie scomode che s’impongono”: così l’anziano teologo tedesco Hans Küng in una delle pagine iniziali della sua ultima fatica tradotta in italiano, Salviamo la Chiesa (Rizzoli, Milano 2011, pp. 300, euro 20).
I mali della Chiesa cattolica attuale sono numerosi (e molto più difficilmente ammessi dei mali del passato), ma secondo Küng hanno una radice capitale: “dall’XI secolo il papato si è trasformato sempre più in un’istituzione di stampo monarchico-assolutistico, che ha dominato la storia della Chiesa cattolica” provocando tre spaccature: nell’XI secolo con la Chiesa d’oriente (oggi denominata “ortodosssa”); nel XVI secolo con le Chiese anglicane e luterane (oggi denominate “protestanti”); nel XIX secolo con il mondo moderno, le sue acquisizioni teoriche e i suoi valori etico-politici (a cominciare dalla libertà di pensiero, di parola e di religione: la quale ultima implica anche la libertà dalla religione, cioè il diritto di vivere anche senza professare un determinato credo confessionale). Personalmente aggiungerei una quarta spaccatura: lo “scisma sommerso” (per riprendere una formula di Pietro Prini) della stragrande maggioranza dei cattolici che, continuando a professarsi tali, in realtà se ne fregano radicalmente di ciò che il magistero ufficiale, gerarchico, insegna sia sul piano dogmatico che sul piano morale.
Ho l’impressione, però, che questa volta Hans Küng non arrivi sino al fondo della questione. Che il papa rivendichi potere assoluto è certamente una causa importante del baratro in cui si sta cacciando la Chiesa cattolica e da cui solo una ‘miracolosa’ inversione di tendenza (a cominciare da un successore di Benedetto XVI che la pensi assai diversamente da lui) potrà salvarla. Ma, a sua volta, questa pretesa monopolistica del papa non è forse effetto di equivoci ancor più radicali? Personalmente sono convinto che, sino a quando i cattolici riterranno che la Bibbia è depositaria dell’unica rivelazione divina e che Gesù Cristo sia l’unica incarnazione della Parola di Dio, sarà logicamente conseguente ammettere che un duplice tesoro così prezioso non può essere stato affidato da Dio al mare burrascoso della storia umana e che è stato necessario istituire un organo infallibile a custodia perenne della Scrittura e del dogma dell’incarnazione del Verbo. Solo se anche i cattolici - come hanno già capito alcuni di loro, insieme a teologi presenti in tutte le altre chiese cristiane – rivedranno con onestà intellettuale i due presupposti (biblico e cristologico), potranno liberarsi dalla pretesa del papato di pronunziare la parola definitiva. Che significa, con più precisione, liberarsi dai due (falsi) presupposti indicati? Significa ammettere, insieme a teologi di statura planetaria come Raimundo Panikkar o Leonardo Boff, che Dio si è rivelato “anche” nella Bibbia ma non “solo” in essa (perché la Parola di Dio splende anche nei libri di Platone, nei Veda induisti, nel Corano musulmano, nelle poesie di Leopardi…); e che essa si sia incarnata “anche” in Gesù di Nazareth ma non “solo” in lui (perché essa si è fatta carne anche in Socrate, in Buddha, in Francesco d’Assisi, in Gandhi…). Solo se si esce da una prospettiva tribale, che scambia la propria tradizione per l’unica storia universale e il proprio campanile per l’ombelico del mondo, si potrà togliere al papato di Roma ogni giustificazione teologica: esso può restare a patto di ritornare ad essere ciò che era nei primi secoli dell’era cristiana, un simbolo di unità della molteplice varietà di chiese. Il papa non più come “vicario di Cristo”, ma come “primus inter pares”: come fratello maggiore nella ricerca del Mistero che ci abbraccia e ci supera, come esempio di coerenza con i principi di semplicità e di condivisione evangelica. Solo in quanto discepolo del Maestro, al papa può essere riconosciuto il compito di “presiedere nella carità” l’assemblea dei fedeli che, appoggiandosi fraternamente l’uno con l’altra, battono – insieme alle donne e agli uomini di ogni religione e di nessuna religione – i sentieri della liberazione e della giustizia.

Augusto Cavadi

giovedì 10 novembre 2011

Mugno recensisce il libro che presento venerdì 11 alla Mondadori


“La Sicilia”
5.11.2011
C’è anche una bellezza della politica
In un tempo di crisi imperanti, in cui le idee e la pratica politiche sembrano mordere il freno e mostrarsi deficitarie, ecco un denso e ben documentato saggio, di Elisabetta Poma e Augusto Cavadi, che prova a illuminare l’altra faccia, quella pulita e positiva, dell’impegno a favore della collettività e dell’adesione a “progetti” di gestione e di cambiamento delle società umane: “La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento” (Trapani, Di Girolamo Editore, 2011). Il fare politico può essere, infatti, gioioso, esaltante, edificante. In ogni caso, esso è necessario, ineludibile, incombente. Allora i nostri autori presentano una vera e propria mappa delle principali scuole di pensiero politico dello scorso secolo, analizzandole in modo non superficiale ma, al contempo, senza pedanterie. Esse vengono, inoltre, sintetizzate in un “Quadro sinottico delle ideologie” di agevole consultazione, anche per un eventuale uso didattico del volume. Scorrono così i tratti fondamentali del liberalismo, del comunismo, della socialdemocrazia, del fascismo, della dottrina sociale cattolica, del conservatorismo, dell’ambientalismo, dell’anarchismo. Ciascuna di queste “dottrine” viene letta sulla scorta della propria concezione dell’uomo, della società, dello Stato, dell’economia, dell’educazione, della religione. Ad esempio, se l’anarchismo ritiene l’educazione «costituzionalmente sterile, ingiusta ed impossibile (…). Deve realizzarsi solo come autoeducazione in contesti extra-istituzionali», il liberalismo la propugna «mirata al senso critico dell’individuo; basata su dati empirici; attraverso istituzioni statali e private in concorrenza». Dall’osservazione incrociata dei vari “tasselli” o “nuclei generativi” dei vari indirizzi, è possibile tentare un’interpretazione del nostro tempo e, soprattutto, provare a proiettarsi verso il domani. Gli autori del volume, entrambi docenti, pur tenendo ben presente la dimensione divulgativa e istruttiva della loro opera, non si sottraggono certo alla complessità dei temi affrontati. Mettono, ad esempio, in guardia dal rischio dell’interessata propaganda denigratoria nei confronti della politica da parte di chi punta a tenere lontani i cittadini dalla “cosa pubblica”. Provano anche a ribaltare il luogo comune secondo il quale le “ideologie” sarebbero “morte”, anch’esso “promosso”, talvolta, col velato obiettivo di scoraggiare la partecipazione dei cittadini alla vita sociale. Il volume, tra un capitolo e l’altro, intercala delle pagine “memorabili” di eminenti studiosi del passato e del nostro tempo, da Giuseppe Prezzolini a Emmanuel Mounier, da Errico Malatesta a Gunter Grass. Esaurita la traversata lungo le ideologie del Novecento, Cavadi e Poma si mettono alla prova con le “Prospettive per il XXI secolo” e, soprattutto, con una concreta ipotesi di percorso, scandita in vari punti, segnatamente sviscerati: “essere responsabili”, per cominciare. Riconoscere “l’ambiguità costitutiva dell’essere umano”. Saper fare i conti con “l’irriducibile pluralità dei poteri effettivi” («Questa pluralità di forze brulicanti rivela l’ingenuità di tutti i tentativi ideologici di catturare in schemi definitivi l’incessante divenire della storia»). I due saggisti si soffermano anche sul binomio “maggioranze silenziose” e “minoranze critiche”. Propongono, ancora, di “coniugare realismo ed utopia” («Non si può non partire dalla conoscenza più obiettiva e razionale possibile degli individui, dei loro rapporti sociali, delle dinamiche storiche»); occorrerà, in ogni caso, ad avviso degli autori del libro, “democratizzare la conoscenza” e “controllare i rappresentanti”. Il volume contiene anche una ricca appendice bibliografica.
Salvatore Mugno

lunedì 7 novembre 2011

Ci vediamo a Palermo (alla Mondadori)
venerdì 11 novembre?


Venerdì 11 novembre alle 17,30,
presso la Mondadori di via Ruggero Settimo,
Nadia Spallitta presenterà, con gli autori,
il libro di Augusto Cavadi e di Elisa Poma
“La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento”
(Di Girolamo, Trapani 2011, pp. 194, euro 9.90).
Introduce e modera Francesco Palazzo (“Repubblica – Palermo”).


sabato 5 novembre 2011

SOGNANDO LA CONCA D’ORO


“Palermo, dove siamo stati otto giorni, era deliziosa. Come posizione è la più bella città del mondo, passa la vita sognando nella Conca d’Oro, una valle squisita distesa tra due mari”. Così Oscal Wilde in una lettera del 16 aprile 1900 spedita da Roma, poche settimane dopo il suo viaggio nell’isola. Purtroppo la Palermo di oggi si è svegliata da quel “sogno nella Conca d’Oro” e guarda – con occhi sbarrati dallo stupore prima, con sguardo assuefatto e rassegnato ormai – lo scempio edilizio che continua imperterrito, fra abusi e condoni.
Per fortuna la mano rapace di noi palermitani non è (ancora ?) arrivata a deturpare le bellezze artistiche come la Cappella Palatina: “In nessun luogo, nemmeno a Ravenna, ho visto mosaici così. Dal pavimento alla cupola del soffitto è tutta oro, ci si sente veramente come seduti in grembo a un gran favo di miele a guardare gli angeli che cantano; e guardare gli angeli, o comunque le persone che cantano, è molto più simpatico che ascoltarli”. Nella memoria del poeta irlandese rimangono impressi anche il Duomo di Monreale (“con i suoi chiostri”) e la Cattedrale di Palermo, ma ancor di più alcuni giovani. In particolare due categorie: i cocchieri e i seminaristi.
Tra i primi (“ragazzi modellati nel modo più squisito”) Wilde ha amato Salvatore, Francesco e soprattutto Manuele: li ha amati, apprezzati, al punto da convincersi che “la razza si vede da loro, non dai cavalli della Sicilia”. Per vederli più spesso possibile, si faceva condurre “spesso” in carrozza dall’albergo a Monreale.
Tra i secondi stringe “grande amicizia con un giovane seminarista che abitava nella Cattedrale di Palermo, con altri undici in una stanzetta sotto il tetto, come uccelli”. Dapprima è questo “giovane amico, a nome Giuseppe Lo Verde”, a dare informazioni sulla Chiesa madre del capoluogo regionale; ma, dal terzo giorno in poi, è Wilde a raccontargli di Federico II e della sua favolosa Corte poetica, prendendo spunto dal “massiccio sarcofago di porfirio” (“una cosa sublime, nuda e mostruosa, color sangue, sostenuta da leoni, che hanno colto un po’ dell’ira dell’animo irrequieto del grande Imperatore”). Tra un’istruzione e l’altra, il seminarista quindicenne “molto dolce” confida al poeta straniero (già processato, condannato e incarcerato per omosessualità) le motivazioni – per la verità assai diffuse nel Meridione sino ad anni recentissimi – che lo avevano indotto a intraprendere la carriera ecclesiastica: “Mio padre fa il cuoco, ed è poverissimo, e a casa siamo in parecchi, così mi è sembrato bene che in una casetta piccola come la nostra ci fosse una bocca di meno da sfamare”. Queste confidenze di sapore “singolarmente medievale” colpiscono Wilde che le rammenta e le riporta nella lettera al suo amico Robert Ross, ma a suo dire anche Giuseppe, dai “bellissimi occhi”, era rimasto segnato da quei brevi incontri: “Gli ho regalato un librino di devozioni, molto grazioso, e contenente molte più figure che preghiere”; “gli ho dato anche molte lire, e gli ho predetto un cappello cardinalizio, se fosse rimasto molto buono, e non mi avesse più dimenticato. Lui ha detto che non mi avrebbe dimenticato mai più; e veramente non credo che mi dimenticherà, perché ogni giorno lo baciavo dietro l’altare maggiore”.
Del passaggio di Oscar Wilde da Palermo non restano tracce, se non la testimonianza di un poeta minore (Achille Leto) raccolta da un parente e amico più giovane, lo storico Gaetano Falzone, che ne riferisce in una memoria all’Accademia delle lettere , delle scienze e delle arti di Palermo del 29 novembre 1979. Ma fra il giovane letterato siciliano e il maturo vate irlandese non scoccò alcuna scintilla, al di là di un fugace incontro occasionale ai tavolini di un caffè (ai Quattro Canti, da tempo scomparso) dove Leto riconobbe Wilde per via delle foto che circolavano da anni sulla stampa internazionale. Risulta che l’esteta - a giudizio del quale lo scetticismo va coltivato con moderazione se non lo si vuole trasformare in una fede troppo rigida – non fosse in vena di conoscenze e di rapporti sociali, quanto di concentrazione meditativa: non frequentò nessuno dei salotti buoni della Palermo del Liberty (Whitacker, Gangi, Trabia), preferì aggirarsi anonimamente per le vie della città, “trasandato e scontroso”, ma con “un grosso fiore all’occhiello”. Aveva sostenuto che i guai dell’anima si curano con i sensi così come i mali dei sensi si curano con l’anima, ma avvertiva di essere arrivato ad una fase dell’esistenza in cui non sono più possibili rimedi d’alcun genere. Si lasciò alle spalle il capoluogo dell’isola siciliana e, via Napoli e Roma, tornò in patria, dove si spense appena tre mesi dopo.

mercoledì 2 novembre 2011

IL GIUDICE RAGAZZINO. SANTO PERCHE’?


Il 6 ottobre si è avviato ufficialmente, presso il Tribunale diocesano di Agrigento, l’iter che potrebbe portare - eventualmente – alla canonizzazione, da parte della Chiesa cattolica, di Rosario Angelo Livatino, il “giudice ragazzino” di Canicattì falcidiato dalla mafia il 21 settembre del 1990. La notizia suggerisce varie considerazioni, talora di segno contrario, che potrebbero riassumersi in due questioni principali.
La prima è di ordine generale: ad una riflessione critica approfondita ha ancora senso beatificare un credente? Da una parte, infatti, è un modo di indicare al popolo di Dio -e, più ampiamente, alla società – una testimonianza esemplare di discepolato evangelico; dall’altra, però, si corre il rischio di strappare quella testimonianza all’ambito della quotidianità, di rinchiuderla (persino materialmente) in una nicchia, facendone più un oggetto di venerazione (se non addirittura un destinatario di richiesta di grazie) che un modello da seguire creativamente. Ma questa è una problematica troppo ampia e radicale per poterla dirimere nell’occasione.
Più pertinente al caso concreto risulta, invece, una seconda questione. Se si accetta la logica cattolica della canonizzazione, diventa centrale capire per quali ragioni il magistrato siciliano sarà - o sarebbe – dichiarato ‘santo’. Detto altrimenti: per quali virtù eroiche, per quali aspetti della sua personalità e delle sue scelte di vita, sarà - o sarebbe – elevato a esempio per la comunità dei credenti. Mi pare, infatti, che siano percorribili due strade, solo apparentemente simili se non addirittura interscambiabili. La prima - personalmente ritengo sia la più auspicabile – indicherebbe nella resistenza alle minacce mafiose il cuore della sua santità evangelica: egli verrebbe riconosciuto – per riprendere una felice espressione di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi – “martire della giustizia e, indirettamente, martire della fede”. Si riattualizzerebbe il pensiero di San Tommaso d’Aquino e di tanti teologi della liberazione, a giudizio del quali dare la vita per difendere alcuni principi etici (la libertà, la verità, la fedeltà ai compiti civili) equivale a dare la vita per Dio, che di quei principi è fonte e garante.
Diverso sarebbe il percorso che arrivasse a dichiarare la santità di Livatino non anche, ma solo, per la sua fede teologale, per la sua vita intima di preghiera, per la sua affabilità umana, per la sua devozione ai genitori…lasciando in ombra le circostanze della sua morte. Certo: morire di mafia non può significare, eo ipso, essere considerato un cristiano esemplare (se non altro per rispetto a quelle vittime di mafia che, in vita, hanno consapevolmente scelto di non dirsi cristiani). Ma se, come nel caso di Livatino, la scelta di una certa professione - e soprattutto la scelta di fare in una certa maniera la professione intrapresa – fossero dettate non solo da validi e nobili motivazioni laiche, bensì anche da una coscienza credente, perché non presentarlo come un esempio di martirio cristiano? Perché non cogliere al volo questa occasione per proclamare che, nella Chiesa cattolica, tra i “valori non negoziabili” (anzi, a maggior ragione di altri più frequentemente richiamati) rientra a pieno titolo la lotta contro la corruzione sistemica, la intimidazione violenta, la mentalità del compromesso? Gli antecedenti di don Giuseppe Diana (ucciso dalla Camorra) e di don Pino Puglisi (ucciso da Cosa nostra) non lasciano ben sperare: del primo non si è neppure avviato il processo di canonizzazione (quasi ad avvalorare le interpretazioni denigratorie del suo assassinio diffuse immediatamente dai camorristi e dai loro pennivendoli); del secondo il processo di canonizzazione, benché arrivato a Roma, si è arenato nelle stanze dei Sacri Palazzi. Evidentemente c’è almeno una delle convinzioni ribadite in vita da Rosario Livatino che stenta a far breccia nelle mura vaticane: “Alla fine, Dio non ci chiederà se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”.

martedì 1 novembre 2011

Gesù, questo sconosciuto


“Centonove”
28.11.2011
GESU’ , QUESTO SCONOSCIUTO

Che cosa riteniamo di sapere sul cristianesimo? (Quasi) tutto. Che cosa sappiamo davvero? (Quasi) niente. E’ una presunzione di informazione che condividiamo un po’ tutti gli italiani (credenti, atei o agnostici): preti e suore non meno di chi non mette mai piede in chiesa. Sulla base di questo “supposto sapere” ci dichiariamo cristiani o meno.
Ma quanto c’è di vero - cioè di storicamente e biblicamente attendibile – nell’idea di cristianesimo che diamo per scontata, per ovvia, per stranota sia quando l’abbracciamo con entusiasmo sia quando la rigettiamo con sdegno? Lo so; la domanda è imbarazzante. Può risuonare persino impertinente nell’epoca in cui sembra di dover optare per un’alternativa secca: o credere dogmaticamente o non credere per nulla. Eppure, se qualcuno nutre almeno un piccolo dubbio sulla propria conoscenza del cristianesimo, ha a disposizione non solo libri grossi e impegnativi ma - da qualche mese – anche un volumetto più agile da tenere in mano e, soprattutto, da consultare. In “Chi è Gesù di Nazareth? Nuove idee dopo il Concilio” ( www.ilmiolibro.it, pp. 238 , euro 15) Elio Rindone, docete di filosofia e baccelliere in teologia, con tono dimesso, direi mansueto, rivolta come un calzino bucato la dottrina cristiana, anzi - più limitatamente – cattolica, in circolazione e restituisce una rappresentazione della persona e della vita di Cristo molto più aderente alle fonti scientificamente studiate.
Nell’impossibilità di ripercorrere le tappe della sua analisi, vado subito all’esssenziale, alla chiave di volta da cui dipende l’intera costruzione: chi è stato Gesù? La dogmatica cattolica, fedelmente riprodotta e divulgata dalla catechesi, risponde: una Persona divina (la seconda persona della Santissima Trinità) che, senza cessare di essere Dio, ha assunto anche la natura umana (dunque un’anima e un corpo in tutto simili ai nostri). Egli è “vero Dio e vero uomo”. Ebbene, questa risposta non è risultata soddisfacente nel IV secolo quando è stata formulata dal Concilio di Nicea; non è stata accettata in questi due millenni da una serie di chiese cristiane legate al modo di esprimersi dei primi tre secoli; non convince più – neppure oggi - centinaia, anzi migliaia di teologi cristiani di ogni confessione religiosa. Per tante ragioni, la più seria delle quali è che non si tratta di una dottrina fondata sulla Scrittura (cioè sulla fonte principale della fede per qualsiasi cristiano). Quest’ultima asserzione può suscitare stupore (almeno in chi legga la Bibbia in generale, i vangeli in particolare, con occhi ingenui, del tutto privi di quell’attrezzatura esegetica con cui ormai da decenni abbiamo imparato a leggere l’Iliade o l’Eneide o la Divina Commedia): non dicono forse gli evangelisti, più volte, che Gesù è “il figlio di Dio”? Come negare che egli si è presentato come un semplice profeta, bensì come l’incarnazione unica e irripetibile del Dio eterno?
Per secoli l’umanità ha creduto che Ettore e Achille siano stati personaggi storici; che Enea abbia davvero portato il padre Anchise sulle spalle; ricordo che anche mia nonna abbassava la voce quando mi confidava che, secondo lei, maestra elementare, non era vero che Dante era sceso all’inferno e ne era risalito poi sino al paradiso. Oggi non lo crediamo più e insegniamo ai nostri ragazzi, appena quattordicenni, a distinguere il significato delle parole nel mondo greco, nel mondo romano, nel mondo medievale e nel mondo contemporaneo. Così i biblisti non hanno più dubbi: oggi “figlio di Dio” significa, o può significare, “Essere trascendente della stessa natura di Dio” , ma nel I secolo dell’era cristiana significava, senza possibilità di equivoci, “Messia, Servo e Unto del Signore, Inviato”. Dunque Gesù non ha mai preteso di essere più che un uomo né i suoi discepoli lo hanno adorato come adoravano Javhé. Credere in lui non significa accettare una matematica paradossale (1+1+1=1), bensì qualcosa di più facile da capire e di più difficile da vivere: che la nostra esistenza ha senso solo se viviamo l’agape del Padre, solo se pratichiamo quotidianamente la sua donazione totale e gratuita a tutti, a cominciare dagli impoveriti della terra.
Queste scoperte, che il Concilio Vaticano II (cui allude il sottotitolo del libro) ha reso un po’ meno segrete, possono suscitare reazioni assai diverse. Mi limito solo alle reazioni di quanti hanno accettato di informarsi e che hanno realmente capito la posta in gioco. La prima che ho registrato è anche la reazione più diffusa: e chi se ne frega? Io non ho mai creduto, già per conto mio, che Gesù fosse Dio, anzi non credo neppure che esista un Dio qualsiasi: questi dibattiti sono controversie clericali che non si scalfiscono. Una seconda reazione che ho registrato è, in qualche modo, di segno opposto: la mia fede non si è mai basata sullo studio delle fonti cristiane, dunque non dipende dai mutamenti di opinione fra gli esperti. Per me Gesù è un mito: un mito che dà senso alla mia vita e, spero, alla mia morte. Sono entrato in comunione con lui attraverso canali che non hanno nulla a che fare con la ragione, le scienze bibliche, storiche e letterarie: e i miei canali continueranno a funzionare comunque, a prescindere da cosa gli studiosi potranno appurare, con maggiore o minore certezza. Una terza reazione, decisamente di minoranza (ma è in questa che mi riconosco ed è quella che mi augurerei per tanti contemporanei soprattutto giovani), è invece un insieme di sospiro di sollievo e di rimboccamento di maniche. Un sospiro di sollievo: Dio non mi chiede di credere in enigmi metafisici, in dogmi misteriosi (Tre persone della stessa natura, una Persona con due nature)…ma mi parla attraverso un uomo concreto, reale, che ha sperimentato una relazione intima col Padre comune (in questo senso è per me un modello da imitare) ma anche momenti di angosciosa solitudine e di terrore davanti alla morte (in questo senso è per me un compagno che ha percorso la stessa strada che mi attende). Gesù Cristo non è dunque il Pantocrator che mi fissa – tenero ma lontanissimo - dall’interno della cupola dello splendido Duomo di Monreale: è piuttosto un viandante di Galilea che ha vissuto intensamente la fedeltà al progetto salvifico di Dio per questa terra, per questa società. Se tutto ciò mi libera dal timore di non avere mai abbastanza fede (chi è davvero convinto della dogmatica cristiana?), non per questo mi deresponsabilizza. Anzi ! Mentre prima – quando credevo di credere – ritenevo che il più fosse fatto, adesso capisco che credere che Gesù è stato illuminato da Dio non è la méta, bensì l’inizio: se è mio fratello, ciò che a lui è stato possibile, è chiesto anche a me. Non ho alibi. Anch’io sono chiamato come lui a vivere ogni giorno, col desiderio e con le pratiche, l’avvento del regno di Dio: un regno di solidarietà, di convivialità, di condivisione. Rispetto a questo progetto di vita, in cui consiste la ‘vera’ fede, sono sempre indietro. E non mi resta che la preghiera di Kierkegaard: “Salvaci dall’errore di volerti ammirare o adorare rapiti di ammirazione invece di voler imitarti e assomigliarti”.

Augusto Cavadi