domenica 31 dicembre 2006

LA CONSULENZA FILOSOFICA


“Janus”, Dicembre 2006, n. 24, pp. 119 - 124 

Augusto Cavadi 

Poco filosofo o troppo psicoterapeuta? Le tribolazioni di una nuova professione 

Quando sono invitato a presentare in conversazioni pubbliche la consulenza filosofica mi preoccupo di accendere – preventivamente – una candela a San Giuseppe da Copertino (protettore degli studenti un po’ somari) per chiedergli una grazia: che all’incontro non si presentino né professori di filosofia né psicoterapeuti. O, in subordine, che   - se proprio non possono restare a casa - siano affetti da momentanea ma decisa afonia. Poiché probabilmente qualcosa difetta in questi miei riti apotropaici, puntualmente mi espongo al tiro incrociato dei filosofi cattedratici che rimproverano ai consulenti filosofici di essere poco filosofi e degli psicoterapeuti che li rimproverano di esserlo troppo. Nei (per la verità sempre meno rari) casi in cui la stampa si occupa della nuova professione d’aiuto, lo fa con titoli ad effetto che sembrano calibrati a posta per gettare benzina sul fuoco: come il recente Psicologo addio, è l’ora del filosofo del paginone di “Repubblica” del 24 settembre 2006. Anch’io, allo scopo poco nobile di attirare qualche lettore e poter vendere alcune copie in più del mio libro sulla consulenza filosofica, ho aperto il primo capitolo con una dichiarazione di guerra: “Non so più dove mi è capitato di ascoltare: ‘I filosofi costruiscono i castelli per aria. I matti corrono ad abitarli. Ma poi sono gli psicoterapeuti che riscuotono l’affitto’. Ammesso che così fosse in passato, da qualche anno la situazione sta cambiando” [1].
Ma c’è davvero, in atto o per lo meno in potenza,  questa competizione fra filosofi-consulenti e psicologi-terapeuti? La risposta della stragrande maggioranza di quanti ci occupiamo di consulenza filosofica sin dagli inizi degli anni Ottanta è unanime: neppure per sogno! (Anche perché - se competizione ci fosse sia pur onirica - gli psicanalisti, soprattutto freudiani, troverebbero ragioni fondate di preoccupazione…). Anzi, per quel poco che può servire una testimonianza autobiografica, le prime due persone che mi hanno spinto a capire che – senza saperlo – facevo da anni il consulente filosofico sono stati due psicoterapeuti. Il primo, palermitano, quando mi ha chiesto di incontrarci con una certa periodicità per essere aiutato a focalizzare meglio lo statuto epistemologico della psicanalisi: tema che, secondo lui (e non solo secondo lui), non rientra nell’ambito di competenza di uno psicanalista, proprio come la filosofia della matematica o la filosofia della biologia non rientrano nel curriculum formativo di un matematico o di un biologo ma sono affari della ‘filosofia della scienza’ (o epistemologia). Il secondo, torinese, quando ha convocato nel suo studio un po’ di filosofi da varie parti d’Italia confessando - con onestà intellettuale – che sempre più spesso i suoi pazienti gli sottoponevano problematiche esistenziali o etiche (per le quali egli non era professionalmente attrezzato) anziché emotive o relazionali (per le quali si era preparato nei decenni di studio precedenti).Se qualcuno fosse soddisfatto da questa prima risposta un po’ impressionistica, può saltare al contributo successivo della rivista che ha in mano. Altrimenti dovrà sobbarcarsi alla lettura di alcune argomentazioni un po’ più tecniche, proprio come ha dovuto sobbarcarsi alla fatica di formularle – anche per non scontentare troppo la tribù dei filosofi cui si intestardisce ad appartenere – l’autore dell’articolo. Il quale, per altro, scrive a nome del tutto personale e impegna altri colleghi solo per quelle citazioni che va estrapolando dai loro testi, ben sapendo che su ogni questione ci sono molte  - e quasi sempre legittime – opinioni.  

Affinità di approccio
Comincerei dall’esame di alcune affinità fra consulenza filosofica e psicoterapia: anche perché se non ci fossero non si spiegherebbe la preoccupazione, in alcuni filosofi e in molti psicologi, di marcare le differenze.a) Innanzitutto: sono entrambe relazioni d’aiuto nell’ambito di un’attività professionale in cui qualcuno offre, a chi ritiene di trarne giovamento e liberamente lo accoglie, un servizio (solitamente) remunerato (o direttamente dal ‘cliente’ o da un’istituzione pubblica o privata). b) In secondo luogo: entrambe presuppongono nell’operatore una capacità di ascolto articolata, dunque costituita da “riguardo, ritegno, assenza di giudizio e partecipazione”[2]. Alcune di queste caratteristiche non sono, nel concreto, facilmente abbinabili. Per esempio il distacco professionale esige la ‘messa fra parentesi’ dei propri giudizi morali (e, ancor più, dei propri pregiudizi sociali): ma, come ha ricordato Alice Miller[3], ciò non dovrebbe comportare freddezza e totale distacco emotivo .c) In terzo luogo: entrambe hanno a che fare, come tutte le professioni d’aiuto, non con ‘oggetti’ ma con ‘soggetti’. E ‘soggetti’ nel senso non aggettivale, etimologico e letterale (sub-jecti: sottoposti, gettati sotto qualcuno in posizione subordinata) bensì nell’accezione sostantivata moderna di interlocutori dotati di propria personalità, responsabilità e dignità. Per entrambe, dunque, il ‘testo’ fondamentale non è un evento episodico né tanto meno una regolarità costante di fenomeni, bensì il vissuto  - ogni volta unico e irripetibile e incomparabile – di ciascun cliente.

Differenze di approccio
a) Per analizzare le specificità che differenziano consulenza filosofica da terapie psicologiche può essere istruttivo avviarsi  proprio dall’ultimo dei tre punti di contatto identificati. Filosofo e psicoterapeuta – si è appena sottolineato - partono da un ascolto del visitatore che è tentativo di intus-legere la sua storia. Ma mentre lo psicologo cerca di cogliere e di decifrare nel racconto dell’altro lo ‘psicologico’ (sentimenti, emozioni, paure, speranze, desideri…), il filosofo cerca di coglierne e decifrarne il ‘filosofico’. Come c’è un problema sullo specifico della dimensione ‘psicologica’ rispetto a quella fisiologica, così c’è un problema sullo specifico della dimensione ‘filosofica’ rispetto a quella psicologica. E’ una tematica messa ben a fuoco da Rahn Lahav. A suo avviso,  il consulente filosofico  deve anche lui partire da “le azioni, le emozioni, le scelte, le speranze e i piani di ogni giorno”[4] del suo ospite: ma interpretandoli come “affermazioni’ su se stessi e sul mondo”[5]. Achenbach non si esprime in maniera molto diversa: “il percorso che la consulenza filosofica intraprende per un’utile chiarificazione del male vissuto soggettivamente non è in modo prioritario l’analisi del soggetto e delle sue difficoltà, ma l’analisi della cosa e di quelle difficoltà che essa ‘crea’ al soggetto”[6]. b) Se è chiara la differenza di angolazione nell’approccio con l’interlocutore (i filosofi direbbero: la differenza dell’oggetto ‘formale’ delle due discipline), si può facilmente evincere una differenza anche dal punto di vista, per così dire, della valutazione degli interventi: quelli psicoterapeutici vanno misurati col metro dell’efficacia, quelli filosofici sul metro della significatività [7]. Lahv spiega così:  “Il successo a cui mira la consulenza filosofica (…) non consiste solo nell’aiutare a raggiungere l’autosoddisfazione o ad alleviare una particolare angoscia. E’ una meta molto più ambiziosa, vale a dire quella della filo-sofia: lo sviluppo della capacità dell’individuo di approfondire e allargare il suo approccio alla vita tramite un atteggiamento più critico, più ricco ed onnicomprensivo, cioè l’incremento di saggezza. Sotto questo aspetto il successo della consulenza filosofica è d’impatto molto maggiore di quello delle terapie che mirano al benessere psicologico dell’individuo. Se la consulenza filosofica aiuta gli individui a fare dei passi importanti in direzione della saggezza, allora è realmente un approccio potente. La mia conclusione è (…) che la filosofia è valida per l’individuo non solo come disciplina teorica accademica, ma come mezzo per la crescita e lo sviluppo personale”[8].Questo passaggio è cruciale: ma, proprio per questo, per focalizzarlo adeguatamente bisognerebbe riuscire a sintetizzare che cosa fanno  - in concreto – un filosofo consulente ed un ospite consultante. Si potrebbe provare con un solo verbo: filosofano. Nessuno si prende cura dell’altro perché ciascuno si cura di capire meglio, con l’aiuto dell’altro, non quali emozioni sta vivendo in quel momento ma che cosa siano le emozioni in generale; non perché ha difficoltà ad amare e ad essere amato, ma cosa sia in sé l’amore; non come vincere la paura della morte, ma cosa sia la morte nella parabola dell’esistenza umana. E così via. Dunque “un consulente che voglia essere realmente ‘filosofico’ e aspiri a non confondersi con altri ‘professionisti’, dovrà muoversi con la sola intenzione esplicita di esaminare socraticamente il pensiero e la vita degli individui, spazzando via quanto umanamente possibile l’ignoranza, facendo chiarezza, favorendo l’arricchimento e la coerenza delle loro concezioni del mondo  - pensate e vissute, esplicite e implicite – e cercando di incrementare la loro consapevolezza”[9]: tutto il resto che gli potrà capitare di provocare (maggiore sicurezza psicologica, conforto in situazioni di solitudine o di malattia), lo avrà dato in sovrappiù. Convergenza di approccioSe queste differenze d’identità sono reali, la consulenza filosofica – secondo l’icastica asserzione di Achenbach – non è un “una psicoterapia alternativa” quanto una “alternativa alle psicoterapie”[10]. Ciò posto e tenuto ben fermo, ci si può chiedere se queste due forme di relazioni di aiuto  - in sé alternative – non possano esercitarsi in sinergia complementare. E, se ce lo chiediamo, la risposta  - a mio avviso – non può che essere affermativa.Intanto per un ragione, per così dire, estrinseca o ‘oggettiva’: uno stesso soggetto può essere ‘paziente’ di uno psicoterapeuta e ‘consultante’ di un filosofo pratico. Anzi, in alcuni casi, mi sono guardato bene dal coinvolgere in discussioni filosofiche delicate delle persone che stessero ‘patendo’ delle sofferenze eccessive (per esempio, in un gruppo sull’accanimento terapeutico e l’eutanasia, una donna affetta da sclerosi multipla) se non avevo il conforto della con-presenza di uno psicoterapeuta di fiducia che potesse gestire eventuali reazioni emotive difficilmente controllabili da chi non è del mestiere. Più in generale, preferisco l’assetto di gruppo al rapporto duale e, nell’assetto di gruppo, considero estremamente rilevante la presenza di uno psicologo che vigili, anche solo silenziosamente, sulle dinamiche interpersonali e sia in grado, in caso di necessità, di intervenire espressamente a ricanalizzare l’emotività verso obiettivi condivisi (o si chini su eventuali ferite che possano aprirsi nel cuore di qualcuno dei ‘filosofanti’). Questo senza dimenticare   - filosofi come Galimberti[11] e Rovatti[12] lo hanno autorevolmente ricordato di recente – che la doverosa attenzione alla competenza psicologica non può significare alimentare, nell’opinione pubblica e nei frequentatori degli studi di consulenza di ogni genere, il mito della terapia: ci sono casi in cui l’aiuto principale che il filosofo deve al suo visitatore è di liberarlo dall’illusione che, moltiplicando le relazioni d’aiuto, si possano eliminare dall’esperienza umana il dolore, il negativo, il tragico.  L’israeliano Ran Lahv va oltre sostenendo anche delle ragioni intrinseche o ‘metodologiche’ per cui non è agevole districare l’intreccio fra i due approcci. In astratto, infatti, la distinzione è abbastanza semplice: ”La conoscenza dei processi psicologici  nelle menti delle persone dev’essere basata su studi empirici (…). All’opposto, quando si traggono conclusioni etiche o si stabiliscono nessi concettuali ci si basa sulla pura riflessione. Così mentre uno psicoterapeuta deve essere attrezzato con la conoscenza basata sull’esperienza (empirica), la capacità cruciale di un consulente filosofico è il puro pensiero (non-basato-sull’esperienza)”. Ma, in concreto, “il grado in cui una data terapia o consulenza è filosofica o psicologica dovrebbe essere visto come una dimensione e non come una dicotomia”. Infatti non si dà, nell’effettività, né una terapia che sia “priva di ogni riferimento a implicazioni filosofiche” né una consulenza che sia “completamente priva di elementi di concezione psicologica” [13].  La differenza tra un filosofo teoretico e un filosofo consulente è proprio nell’atteggiamento intenzionale di quest’ultimo che decide di farsi prossimo di un non-filosofo: e come potrebbe una pratica filosofica  di accompagnamento realizzarsi ad opera di un professionista del tutto privo di attrezzatura psicologica, sia connaturata che acquisita?


[1] Cavadi A., Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling, Rubbettino, Soveria Mannelli  (Cz) 2003, p. 11.

[2] Achenbach G., La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 94.

[3] Ella parla infatti dello psicoterapeuta come “testimone empatico” in quasi tutti i suoi scritti, sino al recente La rivolta del corpo. I danni di un’educazione violenta, Cortina, Milano 2005, p. 135.

[4] Lahav R., Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004, p. 10.

[5] Ivi, p. 11. Egli denomina “principio dell’interpretazione della visione del mondo” - della weltanschauung di ogni soggetto – la convinzione che “la vita quotidiana, con i dilemmi e i problemi che essa comporta, diventa un potenziale oggetto del filosofare” (pp. 11 – 12).

[6] Achenbach G. , La consulenza, cit.,  p. 153. Nello stesso saggio l’autore si chiede: “E’ la cosa che favorisce i blocchi, o è il soggetto bloccato che ‘tempesta’ la cosa con le sue paure? Tanto la psicologia ci consiglia di risolvere il ‘caso’ nel senso del secondo modello, altrettanto è filosoficamente importante per me lasciarmi avvicinare dai timori vissuti alle cose   temute per poter esaminare il significato di ‘cosa’ turba la mia anima” (p. 177).

[7] Cfr. Lahv  R., Comprendere, cit., pp. 23 – 26.

[8] Ivi, pp. 103 – 104.

[9] Pollastri N., Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza filosofica e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, p. 199. Sino ad oggi uno dei libri più indicati per chi voglia farsi una panoramica abbastanza equilibrata e completa della storia della consulenza filosofica e di alcuni suoi nodi problematici irrisolti.

[10] Achenbach  G., La consulenza, cit., p. 153.

[11] “La pratica filosofica (…) guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù” (Galimberti U., La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 26).

[12] “La filosofia rifiuta la cultura terapeutica e (…), nel suo piccolo, si assume il compito di smascherarla, denunciarla, combatterla. Significa che si prenderà innanzitutto cura di svellere l’idea di ‘malattia’ che va propagandosi, di farne vedere l’illusorietà ed il trucco, nonché le strategie di potere che la producono e ne traggono effetti di governo delle anime, come si esprimerebbe Michel Foucault” (Rovatti P. A., La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Cortina, Milano 2006, pp. 20 – 21).

[13] Lahv R., Comprendere, cit.,  p. 21.

Seminario all’Università di Friburgo in Bresgovia

Giorno 8 gennaio 2007 terrò all’Università di Friburgo in Bresgovia (Germania) un seminario sul tema “Il codice culturale della mafia siciliana”. L’invito mi è stato rivolto dal prof. Francesco Azzarello.

Il futuro della filosofia e la consulenza filosofica

E’ in libreria il volume, a cura di R. Longo e D. Miccione, “Vivere con filosofia. La consulenza come pratica”, Bonanno, Acireale 2006: alle pp. 121 - 123 il mio intervento “Filosofia e futuro”.

giovedì 28 dicembre 2006

LA PREDICA DI P. COSIMO


“Repubblica – Palermo” 28.12.06

QUEL PRETE DISOBBEDIENTE NEL NOME DI WELBY

Il mio Natale, come quello di numerosi cittadini non solo ‘laici’ (com’è prevedibile) ma anche credenti, è stato turbato dalla notizia che il Vicariato di Roma avesse deciso di negare a Piergiorgio Welby i funerali religiosi. Sapere che questa amarezza fosse espressa un po’ in tutta Italia da giornalisti cattolici come Ettore Masina (che, in una lettera-circolare pervenuta anche nella mia casella, si chiedeva: “I commi dei giuristi prevalgono sull’insegnamento del Cristo? Dice la Lettera di San Giacomo nel Nuovo Testamento: ‘religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro padre è soccorrere gli orfani e le vedove nel momento delle loro afflizioni…’. Parola di Dio, ma non a Roma”), anzi persino da un vescovo non proprio progressista come Sandro Maggiolini (“Ho letto che negli ultimi 20 minuti Giorgio, che era cattolico e tale si professava, ha chiesto perdono a Dio. Anche soltanto il dubbio di questo dovrebbe indurre a dare esequie cattoliche”), mi era di qualche conforto. Ma Masina scriveva da Roma, Maggiolini da Como: e dalle nostre parti?

Con questi interrogativi ho partecipato alla celebrazione eucaristica natalizia di don Cosimo Scordato, docente di ecclesiologia sistematica alla Facoltà teologica di Palermo e rettore della chiesa di S. Francesco Saverio all’Albergheria. Egli ha esordito invitando i fedeli a chiedere perdono per i propri peccati, ma – ha aggiunto - anche per quelli di tutti i cristiani. E, per evitare equivoci, ha specificato: “Non so cosa ne pensiate voi, ma sento il dovere di dirvi che non ho condiviso la decisione dei responsabili della diocesi romana di negare i funerali in parrocchia a Piergiorgio Welby. Mi è sembrato che un tale gesto abbia ferito profondamente la memoria di un uomo che ha lottato coraggiosamente contro il dolore, la fedeltà eroica della moglie che gli è stata accanto così affettuosamente ed anche la sensibilità religiosa della madre ultraottantenne. Se la cerimonia liturgica fosse stata chiesta a me - ha concluso don Cosimo dal pulpito – avrei, con dispiacere ma senza esitazione, disatteso il divieto dei superiori. Le norme della chiesa, come di ogni organizzazione istituzionale, sono importanti: ma nessuna di esse può contraddire il dettato evangelico della fraternità e della solidarietà. Anche per noi preti - come per qualsiasi altro – vale l’obbligo di seguire prima di tutto la coscienza e solo subordinatamente le disposizioni disciplinari”.
Da quel momento confesso di non aver seguito attentamente il resto della messa perché la mente ha iniziato, un po’ capricciosamente, a girovagare. E’ andata indietro agli “Atti degli apostoli” (quel libro della Bibbia dove si dice che “bisogna obbedire prima a Dio, poi agli uomini”); è passata per il medioevo (quando un grande santo come Tommaso d’Aquino, nonostante il divieto ecclesiastico, persevera nel farsi tradurre e nel leggere Aristotele producendo capolavori teologici memorabili) sino ad arrivare a don Lorenzo Milani (e al suo slogan a favore dell’obiezione di coscienza militare: “L’obbedienza non è più una virtù”). Ha rivisto le tragedie provocate durante il nazismo da una mentalità acriticamente legalistica che porta a farsi complici dei più efferati delitti di Stato sino a tanti episodi quotidiani in cui, nelle strutture civili come in quelle ecclesiastiche, debolezza di carattere e voglia di carriera inducono a subire umiliazioni, ingiustizie, molestie. E’ difficile che qualcuno denunzi casi di vero e proprio mobbing in ufficio, in banca, all’università, in ospedale: quando poi non si tratta neppure di danni subiti personalmente, ma perpetrati sulla pelle degli altri, scatta una ferrea cortina di omertà. Non è un caso che, a proposito proprio di questo episodio di interruzione della spina, l’opinione prevalente fosse che su certe questioni bisogna arrangiarsi da sé senza fare troppa pubblicità.
E così, vagando qui e là, tra storia e cronaca, la mente birichina si è fermata solo davanti ad una domanda un po’ bizzarra suggeritami dalla predica del prete di Ballarò: non è che in questo momento Welby è accolto in cielo con banda e striscioni, quale testimone sempre più raro dell’invito di Gesù Cristo a che il nostro parlare sia “sì, sì, no, no”, dal momento che tutto il resto è chiacchiera maligna?

venerdì 22 dicembre 2006

E, per passione, la filosofia

E’ in libreria il mio ultimo libro (Di Girolamo, Trapani 2006): E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze.

giovedì 21 dicembre 2006

IL NUOVO ARCIVESCOVO DI PALERMO E LA CHIESA OGGI


“Palermo – Repubblica” 21.12.06

UNA SVOLTA CULTURALE NELLE CHIESE

Da mezzogiorno di ieri la notizia è ufficiale: il nunzio apostolico in Italia (cioè, nel linguaggio giuridico corrente, l’ambasciatore del Vaticano presso lo Stato italiano), mons. Paolo Romeo, e’ il nuovo arcivescovo di Palermo. Ed è una notizia che, pur interessando in maniera peculiare il mondo cattolico, non può passare inosservata dal punto di vista dei ‘laici’. La storia, anche degli ultimi cento anni, lo attesta: nel bene e nel male, chi governa la chiesa cattolica a Palermo influenza gli orientamenti delle altre diocesi della regione e, più ampiamente, del mondo politico e della società civile in genere. La porpora cardinalizia (che, secondo tradizione, sarà posta sul capo del nuovo arcivescovo al prossimo Concistoro) sarà solo il segno – un po’ folklorico – di questo potere effettivo.

E’ dunque legittimo che i cittadini - credenti in senso confessionale o meno – si pongano oggi delle domande, alla maggior parte delle quali solo i prossimi anni potranno dare risposta. Una prima questione è senz’altro di metodo: significa qualcosa il fatto che una delle funzioni pubbliche di maggior rilievo venga assegnata dall’alto e da lontano, senza che la base abbia potuto né deliberare né esprimere (almeno) un parere? La domanda è meno peregrina di quanto possa sembrare a prima vista. Infatti - come non tutti sanno – per i primi secoli dell’era cristiana la prassi universale prevedeva l’elezione dei vescovi (papa incluso) da parte dei preti, dei diaconi e dei semplici fedeli di ogni comunità. Poi, gradatamente, queste modalità profondamente democratiche, invece di plasmare i meccanismi civili, vi si adattarono: e i vescovi, come i prefetti imperiali (e come i prefetti attuali), cominciarono ad essere non più eletti dai battezzati ma nominati da Roma. Con le conseguenze che sarebbe facile immaginare se la storia non ce le srotolasse davanti agli occhi: i pastori (originariamente sposati, con figli, impegnati ad istruire ed animare spiritualmente le varie chiese) diventarono degli autocrati (celibi, ufficialmente senza prole, spesso costretti - o per lo meno sollecitati dalle circostanze – a svolgere attività di supplenza nei confronti dello Stato). Con i riformatori protestanti (da Lutero e Calvino in poi) la prassi medievale fu azzerata e si tornò alle origini. La Chiesa cattolica resistette invece, da allora ad oggi, nella procedura verticistica, ma non senza suscitare riserve: nell’Ottocento, ad esempio, Antonio Rosmini individuava in questa prassi una delle “cinque piaghe” della Chiesa e nel Novecento numerosi movimenti cattolici hanno chiesto, in varie forme e occasioni, il ripristino della tradizione apostolica. Unica magra consolazione: per analogia con ciò che avviene nel campo civile, sarebbe lecito ipotizzare che - in regioni come la nostra - eventuali meccanismi elettivi del vescovo si rivelerebbero rimedi peggiori della piaga…
Comunque designato, l’arcivescovo Romeo sarà - per circa sette anni – il massimo esponente del mondo ecclesiale siciliano. Che cosa augurare, a lui e a noi? Che il suo non sia un periodo di reggenza transitoria. Il cardinal De Giorgi ha avuto il merito di governare senza scossoni e senza traumi: ma questa ordinaria serenità ha rischiato di apparire un po’ troppo rilassante. Per qualcuno, addirittura assopente. Ma un discepolo del vangelo non deve essere, almeno in qualche caso, motivo di disturbo per il quieto vivere dominante? Testimone di un’inquietudine rispetto agli assetti ingiusti di una società dove pochi continuano a manovrare le leve del potere e i flussi finanziari a danno di una maggioranza assuefatta a ricevere, passivamente, ordini e favori? O è infondata l’opinione di quei teologi che attribuiscono ai cristiani il compito di tener viva, nel tempo, la “memoria sovversiva” del profeta di Galilea? Forse non è arrischiato augurarsi un presule che solleciti le parrocchie ad acquisire - o ad incrementare - la loro dimensione culturale (aggiornando continuamente la preparazione teologica), la loro sensibilità etica (nei confronti delle antiche e delle nuove povertà) , la loro vigilanza politica (affinché nessun partito - di destra, di sinistra e soprattutto di centro – si illuda di poterle considerare dei serbatoi elettorali in cerca di sovvenzioni ed incapaci di criticare e di proporre). E tutto ciò non solo con le prediche domenicali (anche se possono essere già un segnale), ma soprattutto con scelte pratiche, operative, strategiche. Per esempio con progetti di solidarietà sociale in comune con altre comunità religiose (cristiane ed extra-cristiane) a favore degli immigrati. O con iniziative che smascherino le nuove forme di pervasività del dominio mafioso e mettano in evidenza, sulla scia di padre Pino Puglisi, l’incompatibilità del vangelo nei confronti della mafia non solo quando spara e uccide, ma anche quando assegna risorse economiche ai clienti e posti di lavoro ai giovani disposti a svendersi la dignità.
Con una formula un po’ sintetica – e con tutto il doveroso rispetto del caso – ci auguriamo sinceramente che il nuovo arcivescovo metropolita possa regalare a Palermo quei frutti della quarantennale esperienza di diplomatico che tutti attendono, ma anche – spiazzando con gesti imprevisti gli osservatori - degli scatti di creatività profetica. Opportuni ovunque, necessari qui.

martedì 19 dicembre 2006

SALVATORE MUGNO


La Repubblica – Palermo
19.12.2006

Il pollice in bocca
Salvatore Mugno
Circolo il grandevetro, 2006

Un’avvenente lettrice di francese accetta un incarico presso una scuola siciliana: più per studiare il “maschio indigeno” che per ragioni professionali. Ed Angelo , collega ammogliato e padre di una bambina, ne resta catturato. All’inizio sembrerebbe l’avventura passeggera di un latin lover di provincia: invece si annodano i fili di una tragedia. La donna, un po’ valchiria e un po’ lolita, è affetta da passioni particolari, per camuffare le quali erige la doppiezza a sistema di vita. Verso la fine il lettore - insieme al protagonista maschile - scoprirà il punto debole della protagonista. Ma non è tutto: un’altra sorpresa è riservata in extremis, a conferma che Dio fa i perversi ed essi si accoppiano fra loro.
Può risultare eccessivo il ricorso ai puntini d’interpunzione e, più in generale, qualche passaggio da “barocco siciliano” (per riprendere un suggerimento dalla Postfazione di Marco La Rosa): ma ciò non attenua il gusto della narrazione né l’intensa curiosità di arrivare al più presto alle ultime pagine. Che, per un romanzo, non è certo un pregio da poco.

mercoledì 13 dicembre 2006

PAPPALARDO VESCOVO PROGRESSISTA


“Repubblica – Palermo”
Mercoledì 13.12.06

Le speranze e le attese di un vescovo imprevedibile

Spetterà agli storici fare un bilancio del venticinquennio di governo pastorale del cardinale Pappalardo. Nell’attesa si può solo contribuire, con qualche ricordo personale, a ricostruire un puzzle per nulla lineare. Quando nel 1970 - dopo la ferrea ‘dittatura’ ruffiniana e la breve, grigia parentesi di Francesco Carpino – arrivò a Palermo il neoarcivescovo fu come una ventata d’aria fresca. Sapeva essere diretto, arguto, disinvolto: ci raccontava divertito quando, da giovane prete, girava per le piazze dei paesini in compagnia di qualche collega ad imbastire delle dispute teatrali a scopo apologetico. Uno dei due faceva l’apostolo del Signore, l’altro il diavolo tentatore. E lui, di solito, preferiva il secondo ruolo.
Per tutta la chiesa cattolica erano tempi di contestazione del passato, di sperimentazione del nuovo: i formidabili anni del post-concilio Vaticano II, quali non si erano vissuti dall’inizio del cristianesimo e non si sono vissuti dall’incoronazione di Wojtyla ad oggi. Per pragmatismo, ma anche - mi pare di poter dire – per convinzione sincera, Pappalardo asseconda il vento del rinnovamento. I frutti si registrano sul piano culturale (con la moltiplicazione di scuole di teologia per laici in varie zone della diocesi) come sul piano sociale (con la moltiplicazione di centri di promozione umana nei quartieri più disagiati: con formula un po’ paradossale, rispetto alla mentalità colonialista, Palermo diventava - da soggetto - ‘oggetto’ di “Missione”).

In questo fervore, però, non tutto quadra. Quando emerge la sperequazione scandalosa fra parroci dei rioni-bene della capitale (che, grazie alla facoltosità dei fedeli, guadagnano tanto da comprare per sè stessi auto e ville) e parroci dei piccoli comuni di campagna (i cui proventi non consentivano, in taluni casi, neppure di sostentare gli anziani genitori a carico), Pappalardo emana una circolare in cui chiede - in nome della trasparenza – la pubblicazione dei bilanci parrocchiali annuali ed un conseguente travaso dai più floridi a favore dei più esigui. Passano i mesi e non succede nulla. Gli chiedo, in un momento di confidenza, come mai questo silenzio disobbediente e lui, allargandomi le braccia, mi risponde: “Che posso fare? Non gli posso mandare certo i finanzieri in canonica”. Rimasi perplesso: non era lo stesso pastore che, per la messa di fine d’anno a Palazzo delle Aquile, denunciava le omissioni delle autorità civili nell’adempimento dei loro doveri di giustizia?
La notte di capodanno tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984 ebbe, per me, un significato illuminante. Partecipai in cattedrale ad una veglia per la pace e rimasi stupito, piacevolmente stupito, della presenza di tanti giovani di sinistra che avevano raccolto l’invito del cardinale di Palermo. Monsignor Bettazzi , vescovo di Ivrea, ebbe parole vibranti per spiegare il senso della manifestazione. Era come la realizzazione di un sogno coltivato per anni: cristiani, marxisti, laici (mi pare ci fosse persino Pannella in chiesa) finalmente accanto in nome di un ideale comune. Ma quando prese, infine, il microfono Pappalardo - proprio il vescovo senza la cui apertura mentale non sarebbe stato possibile il piccolo ‘miracolo’ cui assistevo – scese come uno strato di gelo sottile: “Siamo in tanti, ma non ci illudiamo di essere uniti. La pace è un dono di Dio: noi cristiani abbiamo avuto il privilegio e la responsabilità di questo dono, non possiamo ridurlo ad un valore puramente terreno”. Questa sua capacità di spiazzare gli interlocutori, quasi di scompaginare le carte nel bel mezzo del gioco, sarebbe stata altre volte manifestata. Troppo nota, per ritornarci adesso, la svolta un po’ brusca dalla denunzia ‘contro’ la mafia alla ricerca di riconciliazione del tessuto civile ad ogni costo. Si potrebbero citare molti episodi, meno noti, in cui preti e laici cattolici avvertirono come ingiustificate delle sue decisioni imprevedibili (magari accompagnate dal sorriso diplomatico) implicanti l’emarginazione dai gangli dell’organizzazione ecclesiale. Ma sarebbe indelicato nei confronti dei protagonisti che, forse, preferiscono stendere un velo sulla loro memoria.
Posso solo confermare che non fui il solo credente ad orientarmi, gradualmente ma inesorabilmente, in direzioni diverse rispetto ad un modello di chiesa sempre più verticistico e burocratico. Per venti anni mi impegnai, con amiche ed amici di varia formazione politica, nell’attivare un centro sociale all’Albergheria. Nonostante tra noi ci fosse, a tempo pieno, un prete, Pappalardo non ci fece mai né una visita né un dono. Ma quando lessi, in una sua intervista ad un magazine nazionale, che la nostra esperienza costituiva uno dei fiori all’occhiello della chiesa cattolica palermitana, non riuscii ad adirarmi: sorrisi tra me e me, sicuro che lui per primo si era divertito all’idea di citare come prova della sua sensibilità per gli emarginati un centro sociale di cui aveva appena sentito parlare da terzi.

venerdì 8 dicembre 2006

PROVERBI SICILIANI


“Centonove” 8.12.06

I proverbi di Lopes

Tu ha raggiuni ma iò tortu unn’haiu: è questo uno dei proverbi siciliani, scelti e commentati da Roberto Lopes (con i disegni di Nicola Figlia), che dà il titolo al volume co-edito dall’associazione culturale “Prospettive” e dall’Ispe Archimede (Palermo 2006). Sin dalle note introduttive di Carmelo Lo Mino si può rintracciare una chiave di lettura della raccolta: la tradizione sapienziale popolare va guardata con devozione filiale, ma anche con spirito critico. L’autore – che in quanto cultore di etnologia ha voluto dare un contributo a che non si disperdesse un patrimonio in via di estinzione - non si è esentato, in quanto filosofo, dal “dovere di esercitare la critica nei confronti di una saggezza che, per molti, nel passato, ha costituito l’unica visione del mondo possibile nel gran mare dell’esistenza” (p. 3). Infatti, come scrive lo stesso Lopes, “il patrimonio della sapienza (a volte della insipienza) dei proverbi, dei modi di dire” costituisce un “immenso armamentario utilizzabile per le più svariate occasioni, soprattutto a giustificazione e legittimazione di decisioni già assunte” (p. 8).
Proprio questa strutturale ambiguità ha reso possibile, storicamente, l’utilizzazione ideologica della cultura siciliana da parte dei gruppi di potere mafiosi. Infatti da un secolo e mezzo - intendo da quando si sono organizzate - le associazioni mafiose hanno evitato di mostrare esclusivamente il loro volto violento, aggressivo, militare: come hanno messo in evidenza gli studi del centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, esse hanno adottato anche dei codici culturali per moltiplicare il consenso sociale. In questa operazione di lifting, è stato possibile strumentalizzare simboli, credenze e massime di vita appartenenti alla tradizione meridionale.

Una prima esemplificazione l’autore la offre là dove, a proposito del proverbio A megghiu parola è chidda ca nun si dici, annota: “E allora, di fronte ai problemi, alle tempeste della vita, alle burrasche, ai fiumi in piena, la fragile canna pensante che è l’uomo, questo fascio di impressioni, il giunco, come deve comportarsi? (…) Calati iuncu ca passa la china (tipico proverbio della mentalità mafiosa che, in presenza di difficoltà, aspetta tempi più propizi per rialzare la cresta)” (p. 18).
In altri casi il riferimento alle convinzioni condivise dai mafiosi e dall’aria grigia che li circonda è solo implicito. Per esempio, quando leggiamo Un porcu e un parrinu inchinu na casa (con rispetto parlando per il porco, specifica in sostanza Lopes nel suo commento, ricordando il valore del prezioso animale per l’economia di una famiglia contadina), come non andare con la memoria alla prassi di molte famiglie mafiose, a cominciare dal clan di Calogero Vizzini, che hanno voluto un figlio prete (e infatti, in famiglia, riuscivano persino ad avere vescovi)? Oggi si preferisce un figlio avvocato (con la speranza che diventi onorevole): ma la logica è la stessa. E’ la logica di chi, lungi dal porsi ‘fuori’ o ‘contro’ lo Stato, decide invece di infiltrarsi ‘dentro’ le istituzioni per manovrarle dall’interno e piegarle agli interessi privati.
Se ci fermassimo a questi primi due esempi poco edificanti, non renderemmo giustizia all’operazione tentata da Roberto Lopes. Mi pare di capire, infatti, che a, suo avviso, la sapienza popolare, in quanto ambigua, ha due volti: dunque anche una valenza positiva, costruttiva, illuminante. Perciò egli non si astiene dal sottolineare gli adagi che meritano di essere ripresi e attualizzati.
Anche da questo versante, possiamo limitarci a due flashes. Un primo è suggerito dal detto Tuttu u munnu è paisi: una sorta di dichiarazione spontanea, ingenua, di cosmopolitismo. Nonché uno spiraglio di speranza per generazioni di isolani costretti all’emigrazione e dunque esposti al rischio del rifiuto o dell’ospitalità sfruttatrice. Ma anche - nota con finezza l’autore – l’avvertenza ad evitare l’illusione di pensare di “fuggire dal proprio luogo di origine per cercare in un altro posto la propria identità” (p. 25). Egli cita in proposito Nicola Figlia, l’amico pittore che ha illustrato con le sue tavole proprio questa antologia: “Si può essere menziusari a Parigi e parigini a Mezzojuso, ad onta del detto Cu cancia locu, cancia vintura. Non è nello spazio che noi dobbiamo trovare la nostra identità ma nella capacità di rispondere alle nostre domande di senso sulla vita e la morte, che ci assalgono in qualsiasi parte della terra e di trovare un valido farmaco alla solitudine e alla mancanza di significato che insolentemente affiorano nella nostra vita razionale ed esigono una risposta ed un impegno” (p. 25). Il pensiero si sposta spontaneamente alla poesia La città di Costantino Kavafis. Lì, un ‘tu’ letterario - che potrebbe essere l’alter ego dello stesso poeta – esprime il proposito di lasciare la propria città “per altre terre, per altro mare”: “Dei lunghi anni, se mi guardo attorno, / della mia vita consumata qui, non vedo/ che nere macerie e solitudine e rovina”. Ma a queste dichiarazioni d’intenti risponde il disincanto di Kavafis: “Altrove, non sperare,/ non c’è nave non c’è strada per te./Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto/ tu l’hai sciupata su tutta la terra”.
Un secondo riferimento positivo Lopes lo ha trovato, ad esempio, nel detto Testa c’un parra si chiama cocuzza: ed il pensiero gli è andato, questa volta, alla figura - a lui tanto cara – di don Pino Puglisi, stroncato dalla criminalità mafiosa di Brancaccio per “aver rotto il muro di silenzio e di omertà” (p. 18).
Dunque, la saggezza popolare siciliana - consegnata alle massime di vita – proprio perché ambivalente può ancora illuminare il cammino delle giovani generazioni. Ma senza illusioni cognitivistiche. Non basta sapere qual è la strada migliore per poi percorrerla effettivamente. Lo aveva già notato Blaise Pascal, un pensatore francese del XVII secolo che in queste stesse pagine di Lopes viene - in più di un passaggio - evocato esplicitamente ed implicitamente: “Le buone massime ci sono tutte: si tratta adesso di metterle in pratica”.

martedì 5 dicembre 2006

UN LIBRO DI MAFIA PER BAMBINI


“Repubblica – Palermo” 5.12.06

MARTINA ZANINELLI
Mio padre è un uomo d’onore
Città aperta (Troina)
Pagine 41
13 euro

Il racconto (illustrato da efficaci disegni di Marta Tonin) si lascia sintetizzare in poche battute: un boss mafioso, dopo aver fatto sparire i genitori di un bambino per sottrargli un campo e trasformarlo in discarica, lo ‘adotta’ per utilizzarlo ai suoi loschi fini. Sergio, detto Mutomonnezza, si adatta alla nuova condizione rinunziando persino alla favella, ma quando i carabinieri catturano lo ‘zio Totò′, riconosce negli occhi di uno di loro lo sguardo del padre scomparso: la stessa dignità, lo stesso senso dell’onore autentico. E riacquista la parola. Il libro - evidentemente destinato ai bambini - rappresenta un tentativo coraggioso: non è facile, infatti, parlare di mafia ad alunni delle elementari con un linguaggio, verbale e visivo, adeguato. Si rivelerà uno strumento didatticamente efficace? Merita di essere sperimentato sul campo. Se la casa editrice di Troina ha ritenuto opportuno provarci, come segno di attenzione al contesto in cui opera, sarebbe un po’ triste che insegnanti particolarmente sensibili non cogliessero al volo questa rara occasione.

venerdì 1 dicembre 2006

IL CREDENTE E LA FILOSOFIA


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PRIMO PIANO
1 dicembre 2006

Il credente può fare a meno della filosofia?

E’ almeno da Erasmo e Lutero che la filosofia non gode di buona fama negli ambienti cristiani progressisti. E il fatto che il magistero cattolico, al contrario, ne sottolinei con forza l’ineliminabilità non fa che renderla ancora più sospetta. L’ellenizzazione del messaggio evangelico ha procurato disastri difficilmente riparabili: una proposta di vita, quale era la buona notizia originaria, è diventata un arzigogolato sistema dottrinario. Gesù, testimone di un atteggiamento esistenziale di apertura all’Altro e agli altri, lo si è metamorfizzato in maestro di misteri soprannaturali che la massa deve accettare ciecamente e che solo alcuni intellettuali raffinati possono sondare con puntigliosa precisione. Ma se restituita alla sua autonomia; se intesa come sinonimo di ricerca libera e razionale; se praticata come esercizio di critica argomentata; se - insomma – liberata dalla strumentalizzazione ideologica dei teologi e delle gerarchie ecclesiastiche, siamo proprio sicuri che della riflessione filosofica il credente possa fare a meno? Una risposta - che per mancanza di spazio posso, poco filosoficamente, affermare senza dimostrare - suona: no. Anzi, non solo è possibile ospitare l’inquietudine filosofica nella propria esperienza religiosa, ma addirittura ciò è indispensabile per salvaguardarne l’autenticità. Senza bussola filosofica, come orientarsi fra le varie proposte teologico-religiose del palcoscenico planetario? E come – se ci si riconosce nell’alveo di una di esse – aiutarla a spogliarsi delle superfetazioni integralistiche e delle tentazioni fondamentalistiche? E come favorire, senza una lingua più basilare e più elementare e più condivisa – rispetto alla varietà dei simboli religiosi - il dialogo sincero fra le diverse tradizioni? Insomma: su questo punto i papi, da Leone XIII a Benedetto XVI, hanno più ragione di quanto sospettino: ma, se ne prendessero coscienza, dovrebbero restituire alla filosofia la sua intrinseca, e irrinunciabile, laicità. Senza la quale essa diventa ‘ancella’ non della fede (che, se autentica, non ha bisogno di cameriere né di guardiani), ma di quelle istituzioni mondane che – signoreggiando sulla filosofia – s’impadroniscono del potere di sindacare anche sulla fede degli altri.

mercoledì 29 novembre 2006

LA SCUOLA IN SICILIA


“Repubblica – Palermo” 29.11.06

I DOCENTI INADEGUATI NELLE SCUOLE SICILIANE

Maurizio Muraglia (noto negli ambienti scolastici perché presiede la sezione palermitana del CIDI, prestigiosa associazione nazionale di docenti democratici) ha lanciato da queste pagine (vedi l’edizione di mercoledì 22) un interrogativo intrigante: perché la scuola siciliana ha due facce? Perché da una parte si registra un’ “incredibile capacità di impegno dei colleghi siciliani” nel proporre ai ragazzi una miriade di progetti formativi (“teatro, danza, musica, sport, informatica, cinema…”), ma dall’altra si deve constatare il fallimento del nostro sistema scolastico sia dal punto di vista delle “competenze forti” (di carattere “linguistico, scientifico, matematico, storico”) sia dal punto di vista della “cultura della legalità” e dello “spessore della cittadinanza”? Forse la risposta è già nella formulazione della domanda conclusiva: “Come è possibile consentire allo straordinario capitale di esperienze extrascolastiche messo in campo dalle scuole di generare teste pensanti?”.

L’aggettivo “extrascolastiche” è - suppongo per lo stesso autore dell’articolo - la spia rivelatrice della patologia di cui un po’ tutti - insegnanti, genitori, cittadini – cerchiamo la terapia. Esso infatti lascia indovinare il paradosso di una scuola che, incapace di incrementare la qualità del suo servizio specifico, prova a uscire dalla crisi puntando sull’…extrascolastico!
Ad evitare equivoci, lo dichiaro subito: visitare aziende per studiare “i processi di produzione del sale e dell’olio” o lasciare le aule per recarsi a “studiare i fiumi, i boschi, gli ecosistemi del nostro territorio” sono, certamente, iniziative legittime. Anzi: lodevoli. Esse hanno senso, però, come momenti di verifica di un percorso precedente e come stimoli acceleratori di percorsi successivi. Se questo ‘prima’ e questo ‘poi’ - ossia il tessuto ordinario della vita scolastica quotidiana – o mancano del tutto (in rari casi) o sono sfilacciati e lacunosi (in casi frequenti) non c’è più gioco. Sarebbe come stupirsi di un ospedale con altissimo tasso di mortalità dei degenti nonostante questi godano di un ottimo servizio di ristorazione, di un’attenta assistenza psicologica (e, per chi lo desideri, religiosa), di animazione musicale e teatrale ma non…di controlli medici e terapie farmacologiche.
Se ci si convince dell’analisi, bisogna però fare un passo ulteriore e chiedersi perché la scuola ‘normale’ sia tanto noiosa e improduttiva, quando non si registrano episodi scandalosi rispetto ai quali le cronache di questi giorni sono soltanto bambinate. Tra le numerose risposte necessarie a comporre una diagnosi completa, due almeno meritano priorità. La prima è di carattere pedagogico-organizzativo: le ore previste per il lavoro in aula sono eccessive. Con il moltiplicarsi delle sperimentazioni, i nostri ragazzi devono stare a scuola dalle 8 del mattino alle 13, talora alle 14 o alle 15: cinque, sei o sette ore di concentrazione mentale (con quindici minuti di intervallo ‘ufficiale’) sono eccessive per chiunque. Tanto più per adolescenti. Il sistema regge solo sull’ipocrisia generale: si fa finta di lavorare tantissimo, ma in realtà di trovano tutte le scuse per rosicchiare tempo alla fatica. Quando sono in questione l’intelligenza, il gusto estetico, la creatività tecnica non si può soffocare - con la quantità delle nozioni - l’esigenza di ritmi qualitativamente misurati. Per sei ore di seguito puoi, forse, raccogliere limoni o timbrare moduli: non certo ascoltare, intuire, riflettere, rielaborare mentalmente, provare ad esprimere…
Nessuna riduzione dell’orario di lavoro sarebbe, comunque, decisiva se restasse in vigore l’attuale sistema di selezione dei docenti. Le Sissis (scuole di specializzazione per laureati che intendono diventare insegnanti) sono state solo un piccolo, ed ambiguo, passo avanti nella direzione giusta. Eppure continuano ad arrivare in cattedra – insieme a giovani preparati e motivati sui quali graverà la responsabilità di salvare il salvabile - personaggi incredibili: instabili psichicamente, immaturi affettivamente, poco istruiti o poco capaci di comunicare ciò che sanno, frustrati esistenzialmente, apatici politicamente, discutibili eticamente. Nessuno, o quasi, si sogna di fermarli ad uno degli esami previsti. E ci aspettiamo che gli alunni si appassionino all’idea di convivere per metà della loro giornata con esemplari del genere? Certo, se invece la selezione fosse un po’ più rigorosa (almeno quanto lo è nel caso dei magistrati, dei notai e dei piloti di aereo), non ci si potrebbe permettere di pagare un maestro elementare o una professoressa di liceo la metà di uno steward o di un’hostess. Ma a quel punto - e solo a quel punto – si dovrebbe aprire la questione economica e rimettere in discussione un sistema sociale in cui i fornitori di beni immateriali sono considerati come dei parassiti appena sopportabili. Sino a quando vigerà invece il circolo vizioso di una prestazione professionale sottopagata perché inadeguata, e inadeguata perché sottopagata, resterà vero anche dalle nostre parti ciò che un personaggio di Woody Allen diceva del proprio quartiere: “Chi sapeva fare qualcosa la faceva. Chi non sapeva fare nulla, faceva l’insegnante”.

venerdì 24 novembre 2006

IL DIALOGO INTRACRISTIANO


“Centonove” 24 novembre 2006

RADUNO A CALTANISSETTA
SOTTO LA TENDA DEL MONOTEISMO

Il dialogo fra ebrei, cristiani e islamici - per quanto accomunati sotto la tenda del monoteismo – non è strada di tutto riposo: incidenti, o accidenti, come il discorso del papa a Ratisbona lo confermano quasi quotidianamente. Tutto sarebbe meno arduo se ciascuna di queste tre tradizioni religiose non fosse ciò che in realtà è: un groviglio di correnti disparate. Da qui l’opportunità di trovare, prima ancora di rapportarsi ad altri, un certo accordo al proprio interno. Che questo accordo sia problematico fra gli ebrei, dispersi da duemila anni sull’intera faccia della Terra, è noto (e il prezioso volume Ebraismo di Hans Kung, tradotto in italiano dalla Rizzoli, lo spiega efficacemente). Che sia, allo stato attuale, quasi impossibile fra gli islamici lo attestano le terrificanti notizie di stragi perpetrate quotidianamente fra sunniti e sciiti. E fra cristiani? La situazione, spentisi i fuochi in Irlanda e nella ex-Jugoslavia, si presenta per fortuna meno drammatica. Ma non per questo promettente. L’ecumenismo fra cattolici, ortodossi e protestanti sembra battere il passo ormai da anni. Ad andare avanti, sommessamente, è una sorta di spaccatura silenziosa - che passa all’interno di tutte le comunità cristiane – fra conservatori (tentati dal fondamentalismo integralista) e progressisti (impegnati in una lettura sempre più accurata dei Testi biblici e, su questa base esegeticamente affidabile, in un processo di superamento di barriere sempre meno comprensibili).

In questa situazione di stallo, o per lo meno di lentissimo movimento, non si può sottovalutare il rilievo di un’iniziativa interconfessionale che, domenica 12 novembre, ha visto la confluenza a Caltanissetta, nel Palacannizzaro, di circa 700 credenti in Cristo per una “Giornata cattolico- evangelica siciliana”. Sono stati convocati, per momenti di preghiera e di confronto teologico, fedeli delle comunità più presenti nella nostra regione: dunque cattolici, valdesi-metodisti, luterani, battisti e avventisti. Quale il tema conduttore dell’incontro? A primo acchito suonerebbe del tutto estraneo al vocabolario quotidiano: “Giustificazione e riconciliazione”. Se però si analizza il primo dei due termini, il quadro si chiarisce. La constatazione più insistente ci fa toccare con mano quanto tutti si sia lontani dall’essere ‘giusti’: cioè corretti con gli altri, con sé stessi e, per chi ci crede, con Dio. Il cristianesimo è, essenzialmente, proposta di conversione da un’esistenza egocentrata ad una proattiva. Ma come realizzare questo passaggio - questa ‘pasqua’ - dalla tristezza dell’egoismo all’allegria della solidarietà? La tradizione cattolica ha insistito sullo sforzo etico soggettivo; la tradizione luterana ha insistito sull’azione gratuita di Dio che “rende giusti” i figli prescelti. La prima prospettiva ha indotto spesso al moralismo ascetico, la seconda ha rischiato di gettare nella disperazione quanti non si avvertivano ‘predestinati’. Sotto le sfide del terzo millennio, si tenta adesso di andare oltre gli unilateralismi e di sintetizzare la libertà responsabile del credente con la sua docile apertura alla presenza di uno Spirito che non si lascia imprigionare dalle logiche umane né tanto meno catturare dai riti. Una sintesi che si va elaborando sul piano della dottrina teologica ma che, soprattutto, emerge dalla narrazione di storie effettive di uomini e donne impegnate a favore dei fratelli e del cosmo: non con la presunzione di essere più “giusti” degli altri, ma con la speranza di fare delle proprie vite il segno visibile di un Amore assoluto e imprevedibile che “fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.

martedì 21 novembre 2006

R. LOPES E I PROVERBI SICILIANI


“Repubblica – Palermo” 21.11.2006

La doppia faccia dei proverbi

A casa capi quantu voli u patruni : sarà per questo che il popolo siciliano è, tradizionalmente, disponibile all’accoglienza degli immigrati dal Terzo mondo? Lu cavaddu bonu si viri a tiru longu: sarà per questo che non siamo facili ad entusiasmarci per singole azioni eccezionali che non facciano parte di uno stile di vita? Questi sono solo due dei venticinque proverbi raccolti e commentati da Roberto Lopes nel volume, illustrato dai disegni di Nicola Figlia,Tu ha raggiuni, ma iò tortu unn’haiu (Ispe Archimede, Palermo 2006). E’ spontaneo andare col pensiero alla Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, pubblicata da Giuseppe Pitré tra il 1871 e il 1913. Ma il taglio, e il fine, sono diversi: mentre l’etnologo palermitano era interessato ad un’analisi storico-filologica, Lopes preferisce attingere alla tradizione dei proverbi per proporre considerazioni sapienziali che orientino nel panorama contemporaneo. Lo fa, però, senza ingenue mitizzazioni nostalgiche. Mostra di essere consapevole del fatto che la cosiddetta sapienza popolare non va sopravvalutata. Essa, infatti, veicola intuizioni penetranti sulla vita e sulla morte, sulla solitudine e sulla compagnia, ma anche pregiudizi, stereotipi e banalità.

Per fortuna, la tradizione non passa intatta da una generazione alla successiva: se così avvenisse, la storia non conoscerebbe progressi. E, comunque, il patrimonio trasmesso non è in sé stesso discordante? Raccomanda di attenersi al noto, al già visto (megghiu u malu canusciuto ca’ u bono a canusciri) e, simultaneamente, a evadere dai ristretti confini del villaggio natìo (cu nesci, arrinesci); educa al mutismo ipercauto (a megghiu parola è chidda ca un si rici) e, simultaneamente, a non restarne paralizzato (cu avi lingua passa u mari)…Un po’ come nella Bibbia, a ben cercare si trova tutto e (quasi) il contrario di tutto: per ogni detto, direbbe Karl Kraus, un ‘contraddetto’. Insomma, le monete d’oro sono frammiste alle patacche e solo un acuto discernimento può scovarle e valorizzarle.
Per compiere questa cernita sono necessarie intelligenza, esperienza di vita e tenerezza: qualità di cui dà prova Roberto Lopes mostrando di amare la tradizione senza essere conservatore; la sua terra senza essere sciovinista; il suo dialetto senza essere provinciale; la sua fede cristiana senza essere bigotto. Le considerazioni suggeritegli da vari proverbi siciliani erano state pubblicate su un periodico - “L’eco della Brigna” - che è un po’ la cifra simbolica del paradossale intreccio fra radicamento nella microstoria e apertura planetaria: un giornaletto, infatti, che, senza pretese, è nato per raccontare la quotidianità di Mezzojuso (piccolo centro del palermitano di origine greco-albanese) e ha finito con gli anni, proprio inseguendo i mille rivoli dell’emigrazione, per essere letto abitualmente nei cinque continenti. In sintonia con la testata cui erano originariamente destinate, anche queste pagine sono del tutto scevre da ambizioni e vezzi: scritte, insomma, non per i colleghi dell’autore (docente di filosofia in un liceo cittadino) o i commissari delle giurie letterarie, ma proprio per le donne e gli uomini, le ragazze e i ragazzi, le vecchiette e i vecchietti che aspettano il ‘loro’ foglio come un dono che puntualmente si rinnova. La linearità, l’immediatezza talora naif, del dettato non devono però trarre in inganno: sul tapis roulant del registro discorsivo elementare scivolano contenuti per nulla scontati. Col sorriso bonario del padre di famiglia che intrattiene sulle ginocchia i bambini al termine del pranzo domenicale, Lopes dissemina ipotesi e tesi che scardinano il “senso comune” dominante. Come quando commenta con amara ironia il “Calati iuncu ca passa la china (tipico proverbio della mentalità mafiosa che, in presenza di difficoltà, aspetta tempi più propizi per rialzare la cresta)”: ” E infatti, i risultati sono sotto i nostri occhi: quanto estesa è la palude in cui prosperano i giunchi che si piegano all’arroganza delle piene stagionali del potere, e com’è lunga la litania dei morti ammazzati di mafia per avere rotto il muro di silenzio e di omertà o avere cercato di testimoniare e vivere una ‘Parola’ che si è fatta ‘carne’ ! Padre Puglisi era stato avvisato, come altri, e L’uomo avvisato è mezzo salvato ma non fu così e non per questo si deve rinunciare alla dignità o abdicare all’esercizio della ragione, della libertà, della volontà e della Parola: Testa c’ un parra si chiama cucuzza”.
O, ancora, quando prende spunto da O massaru un ci manca travagghiu, o lagnusu un ci mancanu calunii: ” la lezione è di fare in modo che i massari lavorino un po’ meno, soprattutto quando fanno opera di supplenza ai pigri e agli infingardi, e che i lagnusi facciano di più, perché il massaro non sia alla fine schiacciato dal peso delle incombenze: quelle che gli appartengono e quelle che non gli appartengono. Che altro non significa se non la più alta delle virtù etico-politiche, la giustizia”.

domenica 5 novembre 2006

IL SACERDOZIO E IL CELIBATO


“Repubblica - Palermo” 5 .11. 06

SACERDOTI SPOSATI.
L’ESEMPIO DI PIANA

In attesa del mio turno in panetteria ho ascoltato uno scambio di opinioni - in forma di certezze - fra una casalinga del quartiere e un pensionato di passaggio. La signora: “Ma perchè non permettono a questi benedetti preti di sposarsi invece di farli ammattire moltiplicando le amanti o peggio molestando i bambini?”. E, di rimando, l’anziano signore: “Sarebbe logico. Ma il papa non può cambiare la Bibbia dove c’è scritto chiaro e tondo che chi vuol fare il sacerdote deve fare voto di castità perenne”. Non so se la chiacchierata estemporanea fosse stata del tutto casuale o suggerita ai due simpatici avventori dalla cronaca locale di questi giorni o dagli allarmi, altrettanto attuali, del papa su fenomeni di portata mondiale. A me, comunque, ha suggerito due o tre considerazioni che - sollecitato con lo sguardo ad intervenire nella discussione - ho potuto solo accennare (senza - mi è parso almeno sul momento - notevole successo di pubblico).

La prima considerazione è, per così dire, sociologica: l’obbligatorietà della castità celibataria urta contro il senso comune. Sappiamo che non sempre il ‘buon senso’ coglie nel segno: ma, nelle questioni di cuore e di sesso, ha minori probabilità d’errore che in tutti gli altri campi.
La seconda considerazione, strettamente collegata, attinge l’ambito teologico: non solo la massaia dell’Arenella, ma anche la Sacra Scrittura diffida da certi divieti. Nella Prima lettera a Timoteo - che fa parte del Nuovo Testamento - san Paolo raccomanda di eleggere come vescovo qualcuno che sia stato “marito di una sola moglie” (3, 2) e che abbia dato prova di “ben governare la propria famiglia e tenere con grande dignità i figli in sudditanza” (3, 4): infatti, aggiunge immediatamente dopo, “se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?” (3,5). Forse potremmo nutrire qualche riserva sullo stile un po’ patriarcale-maschilista di questa figura genitoriale: ma quel che è fuori dubbio, e che ci interessa in questo momento, è che sin dall’inizio del cristianesimo - e per diversi secoli - non solo non vi è stato nessun divieto di matrimonio per presbiteri ed episcopi, ma se mai una sorta di obbligo. Come si sia potuti passare nella tradizione cattolica - è noto infatti che da Lutero in poi, dunque dal XVI secolo in poi, questa tendenza sia stata invertita - dall’obbligo di essere dei buon padri di famiglia al divieto di sposarsi sarebbe intrigante, ma troppo complesso, indagare.
Una terza ed ultima considerazione riguarda da vicino il nostro territorio. In provincia di Palermo, infatti, è ospitata l’eparchia di Piana degli Albanesi: una delle poche, ma non esigue, diocesi cattoliche di rito orientale sparse nel mondo. Esse, in parole povere, sono delle comunità con un proprio vescovo che riconoscono il primato del papa ma che hanno ottenuto di poter continuare a seguire le norme liturgiche e giuridiche in vigore nelle chiese greco-ortodosse. Dunque alcune parrocchie siciliane, come altre diffuse nei vari continenti, sono affidate a preti cattolici sposati. Per la precisione: a fedeli sposati che sono stati - successivamente - ordinati preti. E proprio a Piana degli Albanesi, qualche mese fa, si è tenuto il primo convegno cattolico dedicato tematicamente all’approfondimento del caso del sacerdozio “uxorato”. Particolare risonanza ha avuto in questo convegno la relazione del teologo don Basilio Petrà (autore del recente volume, edito dalle Edizioni Dehoniane di Bologna, significativamente intitolato: “Preti sposati. Per volontà di Dio?”). Nella relazione - resa pubblica in questi giorni dall’agenzia di stampa “Adista” - l’autore lamenta la tendenza a considerare questo modello di sacerdozio “abusivo” o, almeno, “minore, meno perfetto”. E osserva, con amara ironia, come persino l’insegnamento magisteriale cattolico alimenti la tesi paradossale che l’amore di Cristo sposo della sua chiesa sia rappresentato più efficacemente da un prete celibe e solitario che non da uno coniugato che viva un rapporto di comunione con la sua donna… La conclusione cui arriva il docente di teologia morale presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale è tanto chiara quanto poco nota negli ambienti cattolici come in quelli ‘laici’: il credente sposato che viene ordinato prete non cancella la grazia del matrimonio ma, aggiungendo un’ulteriore grazia, rende ancora più preziosa la sua testimonianza di marito e di padre. Non è confortante poter constatare che, qualche volta, le conclusioni degli intellettuali si sintonizzino con l’intuizione delle casalinghe al mercato?

venerdì 3 novembre 2006

L’UNIONE DI ANIMA E CORPO


“Centonove” 24 novembre 2006

Quando la danza è meditazione

Come spesso accade a noi siciliani, ho conosciuto Emma lontano dall’isola. Eravamo a Roma, ospiti di amiche comuni: e in quella casa accogliente, crocevia di molte strade, la professoressa ragusana - trasferitasi da anni nelle Marche per amore - mi parlò della sua passione per la danza meditativa. Ne restai talmente colpito da invitarla a darne un saggio nel corso delle “vacanze filosofiche per …non filosofi” che stavamo organizzando per l’estate successiva. Proprio quell’anno il tema di riflessione sarebbe stato “il linguaggio”. Cosa di più opportuno, dovendo trattare della molteplicità dei linguaggi, fare l’esperienza di un linguaggio corporeo? Altrimenti non si sarebbe usciti dalla gabbia: ci saremmo dovuti accontentare delle parole per esaminare persino il linguaggio non…verbale.

I partecipanti agli incontri guidati da Emma, sulle Madonie, rimasero molto contenti e chiesero fotocopia dei testi: perché allora non preparare un libretto che - grazie ad una casa editrice con distribuzione su tutto il territorio nazionale - lo rendesse fruibile ad un pubblico più vasto? Così La poesia del corpo. Spunti di danza meditativa (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2006) è diventato un titolo nella Collana “Prove di dialogo”.
Come suggerisce il nome, la Collana è nata per accogliere testi che contribuiscano al dialogo fra le diverse prospettive culturali, per esempio fra il pensiero cristiano e il pensiero ‘laico’: e quale libro, più di questo della Vindigni, costituisce un ponte fra le ragioni dei materialisti e le ragioni dei testimoni dello spirito? E con ciò siamo a quello che per me è il cuore del libro: senza pretese ambiziose - direi quasi con modestia - vuole offrire il servizio prezioso di aiutare chi vuole riconciliarsi con la propria corporeità.
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Ormai quasi nessuno, infatti, nega che la cultura occidentale ha segnato, per secoli, un’indebita mortificazione del corpo (e di tutto ciò che ne è espressione: il lavoro manuale, la sessualità, le patologie…). Qual è la radice di questa ingiustificabile sottovalutazione? Non è facile rispondere, ma una cosa di può dire: il dualismo cartesiano. Nel XVII secolo il filosofo francese René Descartes - riprendendo ed aggravando un processo iniziato con Platone e proseguito con s. Agostino - ha spaccato in due l’essere umano: res cogitans e res extensa, anima e corpo, spirito e materia…Dando ovviamente il primato alla mente sul fisico. Oggi questo divorzio fra psichico e corporeo viene contestato: sia per motivi scientifico - filosofici che per motivi teologici.
Per motivi scientifico-filosofici, innanzitutto. Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere il libro sulla depressione di uno psichiatra che insegna all’Università pontificia salesiana. Dopo essersi chiesto cosa sia l’umore e perché oscilli (dal ‘buon’ umore al ‘cattivo’), Ludovico Berra scrive che non è facile rispondere perché esso non dipende né solo da fattori psichici (abbiamo fatto cinque al superenalotto) né solo da fattori fisici (ci fa male il pollice) bensì dall’intreccio inestricabile di entrambi: “il nostro stato fisico, di stanchezza o riposo, fattori ormonali, malattie o algie, così come eventi, ricordi, fantasie interagiscono tra loro producendo variazioni nell’umore” (Oltre il senso della vita. Depressione ed esistenza, Apogeo, Milano 2006, p. 8). Ma, secondo lui, per arrivare a capire questo, dobbiamo ammettere che “il nostro cervello non deve essere visto come limitato all’organo posto all’interno del cranio, ma si espande attraverso i nervi cranici, il midollo e i nervi spinali a tutto l’organismo raggiungendo organi interni, vasi sanguigni e ghiandole endocrine” (ivi). Insomma: “tutto il nostro corpo è parte del cervello, tutto il nostro corpo è cervello” (ivi). O, se si preferisce, equivalentemente, “la nostra mente è tutto il nostro corpo, che si organizza in pensieri subendo l’azione di sensazioni proveniente da ogni nostra regione somatica” (ivi).
Ma non è solo la ricerca scientifica e filosofica che spinge per una rivoluzione culturale tendente a non farci più dire “ho” un corpo bensì “sono” un corpo. E’ anche la ricerca esegetica e teologica che ha messo in evidenza come l’uomo nella Bibbia non è mai scomposto in ’spirito’ e ‘corpo’. Quando la Bibbia dice “l’anima mia ha sete del Dio vivente” non indica una ‘parte’ dell’uomo che avrebbe desiderio di Dio, ad esclusione di altre ‘parti’ che se ne fregherebbero: con ‘anima’ sta nominando l’uomo nella sua interezza in quanto animato dal soffio dello Spirito. E quando dice che l’uomo è “carne” lo sta designando sempre nella sua interezza, ma in quanto creatura debole e mortale. Nell’uno e nell’altro caso, nessun dualismo antropologico. Poi la Bibbia è stata letta in ambiente ellenistico, con occhiali filosofici greci e specificamente platonici, e sono nati gli equivoci che ci siamo portati sin quasi ai nostri giorni. Forse l’inculturazione del messaggio biblico in ambiente dominato dal logos greco non è stata così felice come alcuni, anche da cattedre autorevoli, vanno ripetendo…Se mi fermassi a questo punto, potrei suggerire la falsa congettura che Emma Vindigni abbia scritto un libro di filosofia o di teologia. Ma il titolo stesso del libro non è casuale: la poesia del corpo. La ‘poesia’, non la filosofia o la teologia, del corpo. E proprie le righe di una delicata poetessa francese meriterebbero d’essere scelte come sintesi, e suggello, di questo volumetto: “Ti ho troppo amato per accettare che il tuo corpo scompaia e proclamare che basta la tua anima e che essa vive. E poi, come fare a separarli, per dire: questa è la tua anima, questo il tuo corpo? Il tuo sorriso, il tuo sguardo, il tuo comportamento e la tua voce erano materia o spirito? L’uno e l’altro ma inseparabili” (A.Philippe, Le temps d’un supir, Jiulliard, 1963, p. 48).

martedì 31 ottobre 2006

SUI DIFETTI E I PREGI DEI SICILIANI


“Repubblica - Palermo” 31.10.06

LUOGHI COMUNI TUTTI DA RIDERE

NATALIA MILAZZO
I siciliani
Sonda
Pagine 140
Euro 9,50

Curiosando fra le novità del Salone di Torino, lo sguardo mi è stato catturato da una copertina intrigante. Intanto per il nome della collana: Le guide xenofobe. Poi per il titolo: Siciliani. Guida ai migliori difetti e alle peggiori virtù. Infine per il risvolto con didascalia sull’autrice: “Metà milanese e metà siciliana, unisce con discreto successo i peggiori difetti di entrambi i popoli: ad esempio è sempre di corsa e permalosa”. Si poteva resistere al richiamo? Forse sì, ma ho ceduto. E ho fatto bene. Perché il libro è non solo divertente, ma anche istruttivo. E conferma il sospetto che, quando si vuole studiare seriamente un ‘oggetto’ un po’ ridicolo come siamo noi siciliani, lo strumento più adeguato sia proprio l’ironia.

La chiave nel sottotitolo del volume: Figli di un dio maggiore. Ciò che il principe Tancredi - secondo Giuseppe Tomasi di Lampedusa - raccomanda alla fidanzata Angelica (“Devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque”) è “il motto che ogni siciliano porta scolpito nel cuore, dalla nascita alla morte”. In contesto più serioso, Giovanni Falcone - per spiegare la difficoltà di fare fronte comune contro la mafia – citava un’opinione parallela del Gattopardo riguardante la convinzione di ogni siciliano di essere un semidio e di non poter dunque ridimensionarsi in un gioco di squadra. L’isolano come creatura eletta, speciale: siamo nella palude dei luoghi comuni? Forse. Ma, come mi argomentava l’antropologo (palermitano!) Alberto Cacopardo, se i luoghi comuni non avessero fondamento, non sarebbero diventati comuni.
D’altra parte, Natalia Milazzo si guarda bene dal dipingere monocromaticamente i suoi (quasi) corregionali: sa che ogni difetto è il risvolto di una virtù o, per lo meno, il prezzo che spesso bisogna pagare per esercitare qualche altra virtù. E’ vero, infatti, che il siciliano “non ha mai fretta perché non giudica niente al mondo tanto importante da scomodarlo”; è vero che “parla soprattutto di sé, conscio che ben pochi argomenti possono essere altrettanto interessanti”; ed è vero, conseguentemente, che “nei rari casi in cui è costretto ad ascoltare qualcun altro, mostra la massima indifferenza: con gli occhi socchiusi e il mento rivolto verso l’alto, fumando lentamente, evitando di guardare in faccia l’interlocutore, baderà soprattutto accuratamente a non esprimere la benché minima traccia di stupore o ammirazione”. Come è sacrosantamente vero che, se un amico gli comunica di aver vinto “il premio Nobel per la letteratura”, coglie l’occasione al volo per informare di aver fatto parte della giuria di un premio letterario di uno sperduto paesino di montagna e per dichiarare che “la letteratura ormai è morta e sopravvive soltanto nei piccoli centri”. Ma ciò lo rende odioso? Per nulla. Quello stesso senso di innata, spontanea, incosciente e infondata superiorità ci rende – molto spesso – generosi, ospitali, accoglienti: “intanto, non solo non vi scroccherà mai niente, ma litigherà per offrirvi sempre lui il caffé”; poi litigherà per avervi a pranzo e non vi presenterà mai gli avanzi del giorno prima, ma preparerà “il meglio del meglio” (anche se “cercherà con tutte le sue forze di farvi credere che una cena di otto portate, servita da due camerieri noleggiati per l’occasione, per lui sia la pura e semplice routine quotidiana)”.

Riquadro sull’autrice
Natalia Milazzo, milanese figlia di un siciliano, “come tutti i siciliani sostiene di discendere da una famiglia di antiche e nobili origini”. Di Milano ama “la Scala, Radio popolare e il fatto che non è stata disoccupata neppure un giorno della sua vita”; della Sicilia “ama assolutamente tutto, come chiunque ci vada esclusivamente in vacanza”. Ha studiato latino e greco, si è laureata in arte: e ciò, inutile per trovare lavoro, le ha insegnato “a godersi la vita”. Con la stessa casa editrice ha pubblicato Madri. I figli so’ piezz’e core (2000) e Alessandro Manzoni: più diavolo o più santo? (2003).

venerdì 27 ottobre 2006

IL CONVEGNO


“Centonove” 27 ottobre 2006

EUTANASIA E FORMAZIONE

A che conclusioni è arrivato il seminario sull’eutanasia organizzato qualche settimana fa a Petralia Sottana dalla scuola di formazione “G. Falcone” ? Ai lettori interessati potrebbero riuscire istruttive alcune considerazioni - sia pur telegrafiche - emerse dalla discussione.
Una prima considerazione, attestata dai medici presenti, riguarda l’iter formativo universitario: agli studenti si parla di diagnosi, prognosi e terapie ma si tace rigorosamente sulla morte. L’evento cruciale nella vita del malato viene rigorosamente tabuizzato: come si poteva diventare magistrato in Sicilia senza aver studiato neppure per un’ora la mafia, così si può diventare operatore sanitario (medico o paramedico) senza essere preparati a rapportarsi con l’esito infausto. Non si tratta, ovviamente, di un deficit puramente nozionistico: a mancare è un’alfabetizzazione emotiva così che ogni singolo terapeuta è costretto ad improvvisare il proprio modo di comunicare con il malato terminale e con la famiglia. Da qui la necessità, insistentemente evocata, di attivare luoghi e modalità per una duplice formazione: all’accompagnamento dei morenti sino al passo estremo e all’accompagnamento di chi - per professione o per legami di parentela o per scelta di volontariato – esercita tale accompagnamento.

Una seconda considerazione riguarda la prassi quasi unanime del “consenso informato”. Nonostante la normativa vigente, lo si riduce a pura formalità burocratica: nel Meridione - ma, a quanto pare, anche altrove in Italia - al paziente non vengono spiegate né la gravità della malattia né la gamma delle possibili terapie (con relativi effetti collaterali). In ossequio alla cultura dominante, che ha eletto la tecnologia a valore indiscutibile, si dà per scontata la disponibilità del malato ad ogni tipo di intervento meccanico invasivo pur di prolungare la vita biologica: poi, quando la spina è stata inserita, ci si pone il problema se staccarla o meno (e di chi debba assumersi la responsabilità di una scelta così drammatica). Ma se si ribaltasse l’impostazione? Se si desse per scontato che ognuno di noi vuole vivere e morire ‘naturalmente’, sì da sottoporre a terapie straordinarie solo coloro che ne facessero – a voce o per “testamento biologico” – esplicita richiesta? Nonostante il buon senso di queste prospettive, esse potrebbero entrare nella mentalità e nella pratica quotidiana solo a costo di spodestare i medici dal ruolo attuale di padroni del destino dei malati: una detronizzazione che toglierebbe loro il potere monopolistico di disporre del corpo sofferente altrui, ma li alleggerirebbe di ogni eccessiva responsabilità morale.
Questi princìpi orientativi appartengono alla cultura (più diffusa in ambienti confessionali) della “sacralità della vita” o (più diffusa in ambienti laici) della “qualità della vita”? Come è facile constatare, si tratta di criteri di giudizio e di comportamento che precedono ogni comoda ma fuorviante contrapposizione schematica. In realtà, quando non si usano le formule come manganelli ideologici per battaglie elettorali del tutto indifferenti alle tragedie personali, si scopre - è stata questa una terza considerazione emersa dalla discussione a Petralia – che credere davvero alla ‘sacralità’ della vita non è appannaggio esclusivo delle coscienze religiose e, soprattutto, che ciò non esclude - ma al contrario implica – un’attenzione alla ‘qualità’ della vita. Se la vita è sacra, lo è dappertutto ed interamente. Lo è dappertutto: nel caso dei malati di tumore, ma anche dei soldati mandati a combattere in nome della democrazia e dei civili falcidiati dai bombardamenti; ma anche delle madri africane prive di medicine contro l’Aids e dei bambini che non hanno cibo né acqua per sopravvivere; ma anche dei bovini allevati in condizioni disumane in vista della macellazione e dei volatili sterminati per passatempo…Sarebbe dunque, anche politicamente, opportuno chiedersi quanto sia giusto investire risorse finanziarie pubbliche affinché un ottantenne arrivi – zeppo di tubi ed aghi - a ottantadue anni senza preoccuparsi, prioritariamente, di evitare che una ragazza attenda dieci mesi per l’asportazione (tardiva) di un tumore maligno perché non ha il denaro per pagarsi la visita privata presso lo studio del primario ospedaliero. E se la vita è sacra, lo è in tutte le sue dimensioni: quando un soggetto ritiene di essere mortificato irreversibilmente nella sua esigenza di pensare, di esprimersi, di relazionarsi affettivamente al prossimo, di esercitare autonomamente le proprie attività fisiologiche, chi ha il diritto di imporgli la sopravvivenza in nome di princìpi teologici o etici o politici? Perché sarebbe sacra l’intangibilità materiale di un cuore che batte e non l’intangibilità spirituale di un cervello che ragiona e decide? E’ davvero paradossale: ci si aspetterebbe che a difendere ad oltranza la durata fisica della vita fossero, soprattutto, quanti pensano che l’uomo sia solo un grumo di materia destinata a dissolversi; invece sono, soprattutto, quelli che dichiarano di credere in una dimensione spirituale della persona e in suo futuro ultraterreno. E l’illogicità della mentalità comune arriva al punto da ritenere lecito alleviare con l’eutanasia ‘attiva’ le sofferenze di un cane perché è ‘solo’ un animale, ma illecito liberare un soggetto umano dalle stesse sofferenze con un’eutanasia anche solo ‘passiva’ perché, in virtù della sua dignità spirituale, è ‘più’ di un animale.
Insomma: siamo in un campo in cui il dialogo fra esseri ragionevoli è inquinato da pregiudizi e chiusure fanatiche. In questo scenario si aprono, però, spiragli di luce (e siamo ad una quarta ed ultima considerazione): un papa che, a un certo punto, rifiuta di sottoporsi ad accanimento terapeutico e grida il suo diritto di morire in pace; teologi cattolici che, prendendo le distanze dai monsignori telegenici, assumono un atteggiamento mentale molto elastico in fatto di eutanasia (almeno passiva); chiese cristiane, esterne al recinto cattolico, che vanno moltiplicando le prese di posizione ufficiali a favore di una libertà di dibattito sulla base non di diktat dogmatici quanto di argomenti razionali.

giovedì 26 ottobre 2006

UN LIBRO DI SALVATORE COSTANZA


“Repubblica - Palermo”
26.10.2006

I trapanesi e il fascismo

Quanto è cambiata la Sicilia da cento anni ad oggi? Intuitivamente lo immaginiamo un po’ tutti, ma una cosa è rispondere a naso e tutta un’altra argomentare sulla base di documenti criticamente filtrati. Insomma: rispondere con i metodi delle scienze storiche. Più precisamente: con i metodi della storia ‘locale’. Che spesso cede al provincialismo e merita, per questo, d’essere considerata la Cenerentola delle specializzazioni storiografiche; ma che, potenzialmente, ha una sua dignità ed una insostituibile funzione. Essa infatti si accosta analiticamente ai frammenti della vicenda umana: ma vede in ciascuno di questi una sorta di cifra attraverso cui leggere i contesti globali.

E’ grazie alla microstoria , dunque, che è possibile misurare il cammino - pur lento, accidentato e contraddittorio – che la Sicilia ha compiuto nell’ultimo secolo. E’ quanto ha provato, con paziente lavoro sulle fonti di prima mano e con risultati apprezzabili, il trapanese Salvatore Costanza con le vicende della sua città scandagliate - dopo altri volumi a partire dal XVI secolo – con un recente saggio (Trapani fra le due guerre, Di Girolamo Editore) sul ventennio tra la fine della prima guerra mondiale (1918) e l’inizio della seconda (1939). L’esordio del volume sa di attualità: la differenza di prezzo dei prodotti agricoli e ortofrutticoli dal produttore al consumatore è enorme, a vantaggio di intermediazioni commerciali speculative, se non proprio parassitarie. La gente soffre, prefetto e politici promettono rimedi, ma in effetti non cambia nulla. Neppure le agitazioni contadine del “biennio rosso” (1919 – 20) sortiscono effetti degni di nota. Anzi, no, alcuni effetti si registrano: stragi di sindacalisti, militanti socialisti, contadini inermi (a livello locale), quasi a concorrere, con conflitti simili in altre zone del Paese, all’avvento al governo del partito fascista (a livello nazionale).
I ceti abbienti di Trapani fascisti lo diventano secondo, per così dire, la tradizione cittadina: senza particolare entusiasmo (pare che nessuno dei numerosi squadristi trapanesi presenti a Napoli al congresso che decise la marcia su Roma del ’22 vi abbia poi partecipato effettivamente), con qualche pigrizia e molta capacità di sfruttare il nuovo regime. Secondo l’autore, persino nella fase ‘rivoluzionaria’ il fascismo dovette scendere a patti con il blocco dei grossi proprietari terrieri trapanesi: dunque, anche, con porzioni non trascurabili di mafiosi. Lo stesso “prefetto di ferro”, Cesare Mori, “durante la sua reggenza a Trapani (tra il 1924 e il 1925) si esercitò abilmente nel senso di colpire le attività extralegali, ma conservando la rete delle complicità mafiose nel ceto agrario”. Da questo connubio , più o meno sincero, tra regime fascista e notabili del conservatorismo locale si formò - o, secondo i casi, si rafforzò – il dominio di alcune famiglie i cui cognomi (Todaro, Salvo, Adragna, D’Alì…) ricorrono frequentemente pure nelle cronache odierne. Un dominio che, anche se – come nel caso dei D’Alì - originato da attività imprenditoriali di tipo marittimo, si trasformò inesorabilmente in imprese di terra (agricoltura e produzione del sale, soprattutto) e in iniziative finanziarie (come la “Banca Sicula”). Significativa in proposito la vicenda dei Florio: se nell’Ottocento Ignazio e Vincenzo Florio avevano acquistato dai Pallavicino di Genova le Egadi (promuovendo la pesca del tonno e l’attività ittico-conserviera), nel 1937 l’azienda ritornava a un’altra famiglia genovese, i Parodi, “segnando un significativo tragitto a ritroso verso il capitale settentrionale”.
Non mancarono le resistenze al regime, ma - come spesso accade dalle nostre parti - restarono atteggiamenti individuali (”l’otium dell’erudizione storica” di un Carlo Guida e di un Francesco De Stefano o “l’itinerario di fede attraverso la poesia colma di religiosità naturale” di un Andrea Tosto De Caro), senza diventare un fenomeno politicamente organizzato e socialmente rilevante.
Queste e simili traiettorie spiegano il destino di Trapani che, da porto animato e proiettato sulla vicina Africa (1912-14), diventa il capoluogo di un entroterra in cui si ricostituiscono i grossi latifondi a spese dei piccoli coltivatori diretti incapaci di mantenere gli appezzamenti acquistati a fatica nei primi decenni del XX secolo. Non fu senza conseguenze la decisione del regime di “sopprimere l’Istituto Nautico, che da cento anni formava capitani e macchinisti in gran numero per il naviglio mercantile”.
La storia raccontata da Costanzo in questo volume - corredato da un’ ampia documentazione fotografica - si ferma all’inizio della seconda guerra mondiale. Potrà l’autore (che ha già dato alle stampe nel 2005 Tra Sicilia e Africa. Storia di una città mediterranea e nel 2006 Cultura e informazione a Trapani fra Otto e Novecento) compiere un ultimo passo avanti sino alla fluida realtà odierna di una città a vocazione frustratamente mediterranea?