martedì 29 gennaio 2013

Ci vediamo giovedì 31 gennaio a Palermo?


ANEB
Associazione Nazionale Educatori Benemeriti
Sezione di Palermo


ATTIVITA’ CULTURALI 
 
ANNO SOCIALE 2012-13
SEDE C.E.I.  - ISTITUTO GONZAGA
Via Piersanti Mattarella,38


Giovedì 31 gennaio   ore 16,30
Conversazione con Augusto Cavadi sul tema:
 "Democrazia e meritocrazia"

giovedì 24 gennaio 2013

Oggi trent'anni dall'assassinio di Ciaccio Montalto


“Repubblica – Palermo”
24.1.2013

OGGI 30 ° ANNIVERSARIO DELL’ASSASSINIO DI CIACCIO MONTALTO

      Nel 1971 il giovane magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto chiede di trasferirsi a Trapani, città da cui il nonno era partito alla fine dell’Ottocento, dopo aver lottato a fianco dei contadini dei “Fasci siciliani”. Vi resta undici anni, sino a quando - il 24 gennaio del 1983 – viene crivellato di proiettili e abbandonato per lunghe ore in una stradina di Valderice. La breve, ma intensa e documentatissima, biografia di Salvatore Mugno (Una toga amara, edito da Di Girolamo, che sarà presentato oggi nella Sala consiliare di Valderice alle ore 17,30 in occasione del XXX anniversario dell’assassinio) ricostruisce la solitudine crescente di quel PM che non cede alla logica delle clientele, dei favoritismi, dei regali sottobanco. Si trova costretto a convivere nella stessa Procura della Repubblica con colleghi ai quali urlare, avendone acquisito le prove, “Siete corrotti!”: ma è una denunzia che, pochi giorni dopo, pagherà con la vita. Mugno ha il merito di inquadrare la vicenda di Ciaccio Montalto nel più ampio contesto italiano dell’epoca, caratterizzato - allora come oggi - da luci e ombre contrastanti. Se da una parte, infatti, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si precipitò, dopo il delitto, a Palermo per condannare “la mafia, questa ignobile minoranza che non riuscirà mai a contaminare il sano popolo siciliano”, solo pochi giorni prima, invece, il Ministro della Giustizia, Clelio Darida, aveva dichiarato che sarebbe stato illusorio ipotizzare la scomparsa di Cosa nostra e che, se mai, la si poteva “riportare entro certi limiti fisiologici”.

Augusto Cavadi

domenica 20 gennaio 2013

PER FAVORE NON CELEBRATE NESSUNA SHOAH


“Centonove”, 18.1.2013

PER FAVORE NON CELEBRATE NESSUNA SHOAH

Un modo per celebrare la  giornata mondiale della memoria (27 gennaio) cercando di andare un po’ oltre le parole di circostanza, che ormai non trovano lo spiraglio per entrare nei nostri animi, è forse cercare di capire perché  - in pieno XX secolo – si sono potuti verificare stermini sistematici di massa come la persecuzione nazista degli Ebrei. Che è anche un modo per cercare di prevenirne la replica in futuro.
Già, perché la primissima notazione è che il genocidio degli Ebrei non è stato un fungo velenoso in un’area verdeggiante e salubre. Prima, durante e dopo (con motivazioni simili quando non identiche) la storia ha registrato orrori analoghi: dagli Armeni ad opera dei Turchi sino ai Bosniaci  ad opera dei Serbi. Senza contare che cosa è successo, per decenni, nei gulag sovietici dove sono state macerate vittime di persecuzioni non solo etniche, ma anche politiche, sociali e religiose. Con il sottolineare che i campi di concentramento e di sterminio nazisti non costituiscono un’eccezione, bensì una delle tante punte emergenti di altrettanti iceberg, non s’intende sminuire la gravità del fenomeno: si vuole piuttosto notare che, proprio perché è stato un fenomeno di pesantezza insopportabile,  non ci si può accontentare di avere abbattuto l’albero senza strapparne le radici. 
Una seconda notazione riguarda l’aspetto linguistico: perché non ho usato il vocabolo Shoah che solitamente viene reso in italiano con Olocausto? Perché sono d’accordo con quegli intellettuali ebrei che trovano di pessimo gusto l’uso di un termine teologico-religioso a proposito di un evento in sé insensato, inumano. Chi vi ricorre, finisce  - sia pure del tutto inconsapevolmente – con il conferire un qualche significato a ciò che è successo: quasi che lo sterminio degli Ebrei, assurdo dal punto di vista degli uomini, potesse avere un valore purificatorio e redentore agli occhi di Dio. Nessun “olocausto”, nessun “sacrificio”, dunque: ciò che è accaduto non è stato né voluto né accettato da nessun dio.
Ma – e siamo ad una terza notazione – come è potuto accadere? Sarebbe da sciocchi pretendere di analizzare tutte le cause di un evento storico, specie quando si tratta, come in questo caso, di un evento di proporzioni impressionanti. Si possono solo richiamare alcuni segmenti.
Un primo ordine di cause lo rintraccerei nella storia culturale della Germania. Qui abbiamo assistito ad un secolare fenomeno (non del tutto estraneo ad altre aree geo-culturali europee) di criminalizzazione del popolo ebreo. Personalità geniali, che nel loro campo hanno compiuto vere e proprie rivoluzioni, come Martin Lutero nel Cinquecento e Karl Marx nell’Ottocento, hanno lasciato pagine ingiuste e calunniose contro gli Ebrei. L’anti-ebraismo, che è già abbastanza orribile, ha conosciuto proprio nell’Ottocento un’ulteriore degenerazione diventando anti-semitismo: da ostilità contro un popolo per ragioni culturali si è passati all’ostilità per ragioni razziali. A parte l’infondatezza scientifica della nozione di razza, poco o niente è valso obiettare che, dopo duemila anni di diaspora nel pianeta, gli ebrei avevano mischiato con i popoli più diversi i propri caratteri ereditari: ebrei in Africa o in Asia avevano anche esteriormente aspetto diverso dei correligionari in Europa o in America. Dall’anti-ebraismo all’anti-semitismo, dunque: e, come se ciò non bastasse, nel XX secolo è andato maturando l’anti-sionismo, cioè l’avversione al progetto politico di associazioni ebraiche intenzionate a ritrovare un luogo fisico, una patria geografica, per tutti i correligionari che avessero voluto ritornare a Sion (o la Sion originaria, l’attuale Stato d’Israele, o un altro fazzoletto di terra sul pianeta). Una miscela confusa, ma esplosiva, di motivi di ostilità verso un popolo né migliore né peggiore della media dell’umanità: ecco il terreno da cui si è sviluppata la strategia di annientamento degli Ebrei ad opera dei nazisti!
E’ lecito chiedersi se tale strategia di vertice avrebbe trovato così ampia e capillare attuazione qualora il sistema educativo dei  Tedeschi della prima metà del XX secolo   fosse stato differente. Migliaia di cittadini esemplari dal punto di vista della morale individuale e familiare, oltre che dell’etica pubblica, hanno partecipato senza battere ciglio (tranne rarissime eccezioni) a una macelleria sistematica le cui vittime innocenti non avevano offerto il minimo motivo di rancore né di rivalsa. Qui forse possono soccorrere le considerazioni di un’Alice Miller sugli effetti disastrosi della “pedagogia nera”: dell’educazione al conformismo, all’obbedienza cieca, all’imitazione acritica. Si attribuisce alla compianta Mariangela Melato l’avvertenza di evitare gli individui che non hanno personalità o che ne hanno più di una: probabilmente sono proprio quanti non ne hanno una che ne assumono tante.
Già questa sin troppo scarna analisi suggerisce, per contrasto, alcune linee operative per il presente.  Innanzitutto l’asse della conoscenza vera: le falsità teoriche partoriscono, prima o poi, mostri pratici. La Chiesa cattolica, per secoli, precisamente sino alla riforma liturgica voluta da papa Giovanni XXIII a metà del XX secolo, ha insegnato a generazioni di fedeli – anche in Germania – a pregare il Venerdì santo  per la conversione degli Ebrei, “popolo deicida”! Quale punizione sarebbe abbastanza proporzionata per una popolazione che, in solido !, ha ucciso Dio fattosi uomo?
Ma la verità cognitiva, necessaria, non basta. Ci sono tanti orrori contemporanei che non condividiamo e rispetto ai quali, tuttavia,  non troviamo di meglio che fare spallucce. Se non rischiassi di aprire una parentesi troppo lunga, accennerei – per esemplificare – ai metodi attuali di allevamento e di uccisione degli animali domestici di cui ci cibiamo: è privo di significato, sinistramente illuminante, che i  campi di sterminio nazisti fuorono realizzati sul modello dei macelli di carne animale degli Stati Uniti d’America? Può darsi che, anche grazie a libri come Se niente importa di Jonathan Safran Foer, tra qualche decennio, o tra qualche secolo, si capirà che trattare gli animali come li trattiamo adesso nei nostri mattatoi non è “normale”, proprio come non era “normale” trattare i nostri fratelli Ebrei come sono stati trattati ad Auschwitz o a Dachau? Ma lasciamo da parte la questione degli altri animali. Limitandoci agli animali dell’unica razza umana a cui apparteniamo, quanti di loro in questi stessi anni stanno subendo violenze inaudite e sistematiche nel silenzio complice delle istituzioni nazionali e internazionali? Proprio i Palestinesi, che per venti secoli hanno continuato ad abitare la terra su cui dopo la Seconda guerra mondiale sono tornati gli Ebrei per fondare lo Stato d’Israele, stanno patendo sofferenze di ogni genere: anche le loro ragioni vanno valutate, senza identificare la  causa sacrosanta della difesa dell’ebraismo con la causa, opinabile, della difesa della politica israeliana. Oltre che i Palestinesi, decine di popoli  e di categorie sociali sono oggi oggetto di discriminazione e di persecuzione. Ogni volta che siamo tentati di ignorare le loro tragedie, faremmo bene a rileggere le parole che vengono attribuite a più d’un autore tedesco coevo del nazismo: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare”.

Augusto Cavadi

giovedì 17 gennaio 2013

ZONE BLU COSTOSE SENZA MEZZI PUBBLICI AFFIDABILI?


“Repubblica – Palermo”, 17.1.2013
PRIMA DI AUMENTARE LE ZONE BLU DATECI BUS DEGNI DI UNA CITTA’

Per ripianare i debiti, l’ Amat propone di moltiplicare le zone a pagamaneto. Ottima soluzione se si trattattasse di un’azienda privata a scopo di lucro. Lo è altrettanto visto che si tratta di un’azienda pubblica che deve muoversi all’interno di una politica comunale? La risposta è negativa per più di una ragione. Per dirla in breve, un aggravio dell’uso privato dell’automobile è del tutto logico - sino a raggiungere gli alti standard nell’Unione Europea – come esito di un processo che da noi non si è neppure lontanamente avviato.
Prima tappa: l’abolizione degli sprechi. Da anni, per una lunga stagione estiva e autunnale , vanno e vengono da Mondello lussuosi pullman con una media di due o tre passeggeri. Se un servizio non riesce a farsi conoscere né apprezzare, va abolito. (Senza contare l’idiozia occasionale di qualche autista che fa scendere, dopo pochi metri, la signora con una banconota di 10 euro perché, nonostante gli obblighi di legge, egli era privo di contanti da dare come resto). Seconda tappa: la lotta all’elusione del pagamento del biglietto di viaggio. Tutti quelli che frequentiamo abitualmente gli autobus sappiamo che i controlli sono rarissimi e, quando avvengono, avvengono in modo ridicolo: chi vuole scendere, scende; chi vuole dichiarare di non avere documenti rilascia un nominativo falso e/o un domicilio inesistente; chi ha meno fantasia, e un ceffo abbastanza minaccioso, borbotta e intimidisce i controllori. Insomma, alla fine, sono solo due o tre lavoratori immigrati extra-comunitari che pagano pegno. Terza tappa: rendere praticabile l’uso del mezzo pubblico. In tutte le città civili, anche italiane, ogni cittadino ha la possibilità di sapere a che ora è previsto il passaggio del bus da una determinata fermata e, rispetto all’orario, può eccezionalmente verificarsi un ritardo. Da noi (nonostante alcune organizzazioni e anche alcuni privati lo abbiano richiesto all’Amat in forme e tempi diversi) questa elementare forma di contratto con gli utenti è fantascientifica: neppure ai capolinea è possibile avere uno straccio di orario delle partenze. Ugualmente impossibile essere difesi da quegli autisti che, dopo le 22, decidono di saltare l’ultima corsa e di anticipare il riposo notturno “perché tanto, di solito, quando c’è cattivo tempo, a quest’ora il 603 non lo prende nessuno”. Gli autisti dell’Amat godono di immunità; anzi, addirittura, pare siano in grado di trasmetterla ai parenti, amici e conoscenti che esonerano dalla vidimazione dei biglietti. Quante persone, se potessero leggere su un display – come a Torino o a Brescia – i minuti mancanti al passaggio del bus successivo, non preferirebbero risparmiare soldi e smog lasciando l’auto in garage (o, come è frequentissimo in Svizzera, evitando addirittura di acquistarla)? La vera guerra si combatte con le armi della razionalizzazione e della efficienza dei servizi pubblici: le altre scorciatoie sono solo un modo per accentuare la sperequazione fra chi non ha problemi di bilancio familiare e chi non si accorge neppure dell’aumento mensile di poche decine di euro per i posteggi quotidiani.
C’è da augurarsi che il Consiglio comunale si opponga con fermezza a questa ipotesi di aumenti, almeno sino a quando l’attuale giunta comunale non sarà in grado di offrire alternative valide non solo ai problemi finanziari dell’Amat ma, più ampiamente, ai problemi di mobilità urbana. Per esempio evitando che nelle strisce blu si debba pagare l’Amat e, se si posteggia sui marciapiedi o sulle zebre pedonali o davanti ai cancelli privati, non si debba pagare nessuno. O anche evitando che , nelle poche zone non soggette a pagamento , imperversino posteggiatori abusivi e tracotanti. O anche evitando che, se uno ricorre al taxi per non incrementare il traffico cittadino, debba sottostare a tariffe esose e, per giunta, applicate arbitrariamente. O anche liberando le poche piste ciclabili dai contenitori di immondizia, dai venditori ambulanti, dalle auto in sosta. O, ancora, smettendola con la buffonata delle chiusure parziali e a ore delle vie principali del centro storico: se una zona va preservata dall’inquinamento, lo deve essere totalmente e permanentemente. Chiudere la carreggiata centrale di viale della Libertà lasciando aperte le due corsie laterali significa solo esasperare il traffico e rendere pazzesca la ricerca di un posteggio; ancor di più se questa chiusura non è stabile - e tale da creare sane abitudini fra i cittadini, anche in quanto potenziali clienti dei negozi e dei bar – ma occasionale e limitata a poche ore settimanali. Dateci la possibilità di muoverci dalle periferie con un minimo di affidabilità nella tempistica e nei quartieri centrali con qualche bus elettrico ecologico: se poi qualcuno si intestardirà a usare l’automobile per andare a cinema o in pizzera, allora e solo allora che venga tartassato dai costi di posteggio.

Augusto Cavadi

martedì 15 gennaio 2013

L’utopia di Danilo Dolci


“Repubblica – Palermo”
13.1.2013

L’UTOPIA DI DANILO DOLCI

Chi insegna, a scuola o all’università, assiste di anno in anno alla scomparsa dalla memoria collettiva di nomi e volti che ci erano una volta familiari. Danilo Dolci è una di queste figure che, lentamente ma inesorabilmente, ha completato la traiettoria dell’inabissamento nel mare dell’oblìo. Anche i suoi compagni e collaboratori avanzano negli anni e ci vanno lasciando. Per fortuna uno di loro - dei più consapevoli e attivi, dei più coerenti – ci ha voluto regalare la prima sintesi completa del pensiero e della vita di Dolci. E’ uscito così, proprio nel quindicesimo anniversario della morte, a firma di Giuseppe Cipolla, il documentato, gradevolissimo, Danilo Dolci e l’utopia possibile. Nella prima parte ci viene presentato “Lo scrittore e il promotore della società civile” (con riferimento a iniziative clamorose quali lo sciopero “alla rovescia” del 1956 e a libri fondamentali come Inchiesta a Palermo); nella seconda parte, poi, “Il filosofo, l’educatore e il poeta” (con una specie di dizionario delle “parole-chiave” del pensiero di Dolci). Come si evince dalla struttura del saggio, l’autore ha provato a darne un’immagine a tutto tondo, pur sapendo che tagliare alcuni aspetti avrebbe facilitato l’incasellamento del sociologo triestino in categorie più maneggevoli. L’originalità del volume - una lettura ormai obbligata per chi in futuro voglia interessarsi di Danilo Dolci – sta proprio nell’audacia con cui, pur tenendo nel debito conto i risultati degli specialisti da varie angolazioni (gli studi bio-bibliografici di G. Barone, psico-pedagoci di A. Mangano, letterari di G. Fontanelli e così via), ha provato a comporre un mosaico complessivo per evidenziare - come scrive lo stesso autore – “non solo l’unitarietà e la coerenza che hanno gli scritti di Dolci, ma anche l’attualità del suo messaggio negli anni che stiamo vivendo, che per certi aspetti non solo confermano le critiche di Dolci, ma anche evidenziano i segni positivi di quella ‘svolta epocale’ che egli si augurava”.
La monografia di Cipolla sarebbe stata ancor più meritoria se, nella ricca bibliografia (eventualmente sfrondata dai testi di carattere generale che non risultano necessari), fossero stati inclusi anche scritti ‘minori’ (come saggi, articoli, prefazioni a libri altrui etc.). E, soprattutto, se nelle duecento e più pagine ci fosse traccia di qualche rilievo critico nei confronti del protagonista: è come se l’ammirazione devota del discepolo avesse impedito di vedere i limiti, inevitabili in ogni mortale, del maestro. Senza tali difetti, però, non si spiegherebbe un dato storico inoppugnabile: che Danilo Dolci attirava moltissimo e moltissimi (da tutto il mondo) e altrettanti finivano con l’abbandonarlo. Qualcuno per intraprendere sentieri più comodi e remunerativi; ma molti altri per dedicarsi ad iniziative sociali benemerite, senza dover pagare il prezzo troppo gravoso di una fedeltà personale più consona a consorterie medievali che a comunità democratiche. Destino tipico delle personalità grandi, ma non tanto da rispettare il pluralismo delle opinioni e la dinamica della partecipazione egualitaria: da non voler fagocitare gli altri, soddisfatti di aiutare ciascuno ad essere sé stesso.
Evocare le imperfezioni di chi ci ha pionieristicamente preceduto non significa ammirarli di meno, ma ammirarli meglio e soprattutto più fecondamente: infatti, alla luce della verità storica, essi possono illuminarci ancor oggi indicandoci sia le strade su cui perseverare sia gli errori da evitare. D’altronde, questi stessi precursori - a loro volta – si erano allontanati, per esigenza di autonomia critica, da personaggi che in un primo tempo gli avevano aperto nuovi orizzonti: come Dolci stesso, dopo un anno e mezzo di vita nella comunità di accoglienza per orfani di guerra fondata da don Zeno Saltini, si era allontanato da Nomadelfia, avvertita “come un nido caldo che rischiava di compiacersi di sé”. Da Trieste a Milano, da Milano a Nomadelfia, da Nomadelfia a Trappeto e a Partinico: e qui muore nel 1997, dopo aver affrontato battaglie e processi, non senza risultati concreti come la diga sullo Jato. Si è trattato di un utopista? Certamente. Ha scritto: “Se l’uomo non immagina, si spegne”. Ma l’utopia, anzicché strapparlo alle strade terrestri, lo ha aiutato a percorrerle con tenacia sino alla fine. Noi, invece, rischiamo di addormentarci per eccesso di realismo.

Augusto Cavadi

INCIPIT del volume:
G. Cipolla, Danilo Dolci e l’utopia possibile, Sciascia, Caltanissetta – Roma 2012, pp. 218, euro 18.

Danilo Dolci nasce a Sesana (Trieste) nel 1924, ma si trasferisce presto a Milano. Prossimo alla laurea in Architettura, colto da una sorta di conversione, entra dapprima nella comunità di Nomadelfia, ma nel 1952 la Sicilia occidentale diventa il suo terreno operativo, con i centri direzionali collocati a Trappeto e a Partinico, dove fonda il Borgo di Dio e poi il Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione. Memorabili le sue azioni per il riscatto dalla miserai di tanta parte della popolazione siciliana attravesro la consapevole partecipazione popolare e la collaborazione di uomini, sindacati e partiti più sensibili alle impellenti istanze sociali. Partecipazione dal basso e metodo nonviolento caratterizzano le lotte promosse da Dolci, che sono rimaste memorabili e che allora ebbero il sostegno dell’opinione pubblica, non solo nazionale, e della più impegnata intellettualità. Ma Dolci è anche uno scrittore e un pensatore di notevole spessore. Le sue più importanti opere vennero diffuse in quasi tutti i paesi del mondo. Numerosi poi i riconoscimenti e i premi ricevuti. Tra questi segnaliamo: il Premio Lenin per la Pace nel 1958; il Premio Socrate di Stoccolma “per l’attività in favore della pace e nel settore dell’educazione”, nel 1970;in Danimarca, nel 1971, il premio Sonning “per il suo contributo alla civilizzazione europea”; in India, nel 1989, il premio Gandhi.Parecchi i premi letterari, tra cui il premio Viareggio per Inchiesta a Palermo nel 1958, e per la sua produzione poetica nel 1977 e nel 1983. Riceve infine tre lauree honoris causa in Pedagogia: nel 1968 dalle Università di Berna e di Roma, e nel 1966 dall’Università di Bologna. Dolci muore a Partinico il 30 dicembre 1997.

domenica 13 gennaio 2013

Le beatitudini: fughe da sinistra e fughe da destra...


“L’incontro”
Novembre 2012

NATI PER SOFFRIRE ?

Non so quanti siano d’accordo con la mia opinione, ma ho il forte sospetto che il messaggio evangelico delle beatitudini costituisca una delle ragioni principali della fuga dalle nostre chiese. Per uscire, però, ci sono almeno due porte: la maggior parte scappa da sinistra, qualche altro - attualmente in minor parte – scappa da destra.
Da sinistra scappano quelli a cui arriva la versione dominante, ma deformata, dell’annuncio originario di Gesù. Che cosa avrebbe detto, infatti, il Maestro secondo l’interpretazione ‘volgare’? Che siamo nati per soffrire e ci riusciamo benissimo. Che Dio ci ha posto in una valle di lacrime per metterci alla prova: chi tenta di nuotare e se la cava alla meno peggio, attraversa la valle senza troppo dolore ma non può pretendere pure di godere nell’altra vita. Se poi, per giunta, nel tentativo di stare a galla, si appoggia sulla testa altrui e li lascia affogare, è un “maledetto” al quale si spalancheranno le porte dell’inferno. Al contrario, chi non ce la fa, chi resta disoccupato e senza potere, chi soffre la solitudine e l’abbandono, deve rallegrarsi: è il candidato ideale per il “paradiso”. Se poi gli capita pure di fare un po’ la fame in vita e di andarsene roso da un tumore, può considerarsi un privilegiato, Un eletto. Lo attende infatti, dopo un pellegrinaggio terreno da incubo, la felicità senza fine per l’eternità.
Molti di quanti recepiscono così il discorso della Montagna, scappano inorriditi: non vogliono che una simile dottrina religiosa li narcotizzi, gli renda in qualche modo tollerabile l’intollerabile sperequazione in questo mondo fra chi ha e chi non ha, fra chi sa e chi ignora, fra chi può comandare e chi deve soltanto obbedire.
Se pastori e teologi, catechisti e insegnanti di religione, avessero tutti quanti dedicato la vita a capire con metodo ‘scientifico’ i testi biblici, probabilmente sarebbero arrivati alle conclusioni di un p. Dupont che - in numerosi scritti di varia mole ed accessibilità – ha spiegato che cosa veramente ha detto Gesù di Nazareth. Che il senso della nostra esistenza, personale e collettiva, è fare spazio al “regno di Dio”: il quale si caratterizza perché, dove attecchisce, fioriscono dignità e libertà, fraternità e giustizia, solidarietà e rispetto per la natura. E che la sua missione nella storia non era nient’altro che questa: aprire la pista all’inserimento del “regno di Dio” nelle strade delle donne e degli uomini del suo tempo, di ogni tempo. Dunque non un annuncio puramente ‘spirituale’ nell’accezione riduttiva che diamo a questo termine (quasi sinonimo di immateriale, impalpabile, astratto), bensì ‘integrale’: rivolto - come dirà Paolo VI – “a tutto l’uomo e a tutti gli uomini”. Sconcertantemente concreto. E immediato. Gesù era convinto che fosse ormai imminente la liberazione dei poveri e degli impoveriti, degli affamati di pane e degli assetati di giustizia. Come scriverà Sergio Quinzio, la sua morte in croce è la smentita clamorosa del suo sogno. E noi credenti in Lui siamo tutti quanti figli di questa radicale, originaria, incalcolabile “sconfitta di Dio”.
Ma ogni tanto, per fortuna o per caso o per grazia di Dio, qualche vescovo o teologo o prete o catechista propone la versione corretta delle beatitudini. La versione scomoda, inquietante, rispetto alla quale ognuno di noi - io per primo – si sente inadeguato. La versione non accomodante, non moderata, non rinunciataria: in una parola, la versione autenticamente rivoluzionaria. Che lascia spazio non al se creare condivisione e uguaglianza di opportunità, ma solo al come sia più opportuno ed efficace crearle. Ogni tanto può capitare di aprire libri, come quello di Elio Rindone intitolato E’ possibile essere felici? (Di Girolamo, Trapani 2004) , e leggervi: “In conclusione, possiamo dunque riconoscere tre strati della trasmissione del messaggio: quello iniziale, di Gesù che inaugura il regno che pone da subito fine alle sofferenze degli oppressi; quello della redazione lucana, che vede gli oppressi nei seguaci di Gesù che stanno per entrare nel regno; e quello della redazione matteana, che indica le condizioni per entrare nel regno: far parte della massa degli oppressi o condividerne la sorte, operando per l’avvento del regno. (…) Se questo è il messaggio originario, bisogna riconoscere che l’interpretazione tradizionale se ne è allontanata parecchio” (pp. 57 – 58).
Che cosa succede quando in una comunità, in una parrocchia o in un’associazione cattolica comincia a diffondersi la lettura fedele, e corretta, delle beatitudini evangeliche? Anche in questo caso si assiste ad esodi. Ma chi esce perché ha capito davvero il messaggio di Cristo esce, per così dire, dall’altra porta: da destra. Scappa da un ambiente in cui l’aria comincia a farsi irrespirabile per quanti vogliono convivere con Dio e con Mammona; con la verità e con l’ipocrisia; con l’aspirazione interiore alla santità e con una vita di comodi, perfino di lussi. E’ il caso di inseguire quanti fuggono dall’utopia evangelica? Non saprei. Ciò di cui sono certo è che, prima di preoccuparsi di riacciuffare i ricchi e i potenti che volgono le spalle alle chiese quando in esse risuona la voce del Messia, bisognerebbe occuparsi di accogliere i poveri e i senza-potere che ritornano. Sì, perché una chiesa più evangelica (compirà mai questa conversione la chiesa cattolica soprattutto gerarchica?) è una chiesa che perde i fortunati e i prepotenti, ma riacquista la fiducia delle vittime.
Quando, ogni tanto, a me siciliano viene chiesto se sono favorevole alla scomunica dei mafiosi, rispondo che la questione essenziale è un’altra: come mai i mafiosi, che vivono l’ossessivo accumulo di potere e denaro mediante violenza, vogliono restare nelle nostre chiese? Se in esse si vivesse seriamente la povertà e la condivisione dei beni, il rispetto delle regole democratiche e l’accoglienza dei diversi, i mafiosi non sarebbero i primi ad andarsene (magari dileggiando questi poveri folli che credono veramente in un mondo di giustizia e di pace)? Infelice la chiesa che ha bisogno di scomuniche! Si illude di eliminare con la repressione autoritaria le mele marce, pur di evitare la purificazione dal marciume dei propri compromessi teorici e pratici.

Augusto Cavadi

giovedì 10 gennaio 2013

Ci vediamo domenica 13 gennaio al Cesmi di Palermo?

PICCOLA SCUOLA DI FILOSOFIA-IN-PRATICA PALERMO DAL 13 GENNAIO 2013

guidata da Augusto Cavadi

Programma orientativo del primo ciclo (date e tematiche potranno subire variazioni se concordate nel gruppo):
7 incontri con cadenza mensile (seconda domenica di ogni mese ore 17,30-19,00 da 13 gennaio 2013 a giugno 2013)

1. La felicità e le sue illusioni
2. La libertà e le sue contraffazioni
3. L’amore e le sue trappole
4. Fede, religiosità e spiritualità: tre sinonimi?
5. Fregarsene della politica?
6. Legalità in terre di mafia
7. Argomento a scelta proposto a maggioranza dalla piccola comunità di ricerca
Accoglienza partecipanti ore 17-17,30

Note:

- Ogni incontro prevede la quota di partecipazione di euro 8,00 e la quota associativa al CeSMI euro 40 con validità 1 anno dal momento di iscrizione.
- L’abbonamento ai 7 incontri (56,00 euro) dà diritto al volume di Augusto Cavadi “E, per passione la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze”, Di Girolamo, Trapani 2008, euro 16,50. (Per chi lo possedesse, un altro simile a scelta).
Sede di Palermo: via. M . Stabile 261
Per info tel 091 9820468 - 3396749999

http://www.cesmipalermo.com/contatti.aspx

lunedì 7 gennaio 2013

Gaetano Farinelli su “Il Dio degli leghisti”

“Madrugada”,
dicembre 2012, 88.

Augusto Cavadi
IL DIO DEI LEGHISTI
Edizioni San Paolo

Vengo a conoscenza di questo libro il giorno in cui l’autore sale da Palermo a Cittadella, una roccaforte della Lega, a presentare la sua opera. Il titolo è curioso, provocatorio. Avere un proprio Dio non è cosa nuova; ma può nascondere un interesse privato. Perciò mi metto in viaggio per scoprire il santuario di questa divinità. La mappa tracciata dall’autore è bene articolata; scrive infatti che la Lega nasce come reazione alla corruzione ed al meridionalismo; reattiva alla globalizzazione, predica il regionalismo. Propone il federalismo ma mira alla secessione. Il rifiuto dello stato avvicina la Lega alla mafia ed alla chiesa. Usa una violenza verbale pesante e mira al potere. La conduzione del partito è molto legata al suo leader. Ha una forte intonazione xenofoba e un insistente volgare maschilismo. Coltiva una religione panteista ( il dio Po), ma protegge la esposizione del crocefisso nei luoghi pubblici, perché simbolo della tradizione e porta fortuna; parteggia per una chiesa tradizionale, locale, ma disprezza la religione altrui; dichiara guerra alla costruzione delle moschee, ed in questo riceve il consenso di qualche prelato cattolico. Riduce l’amore del prossimo all’amore per il vicino e propone leggi contro lo straniero, che sbarca in Italia, considerato clandestino e fuori legge.
La chiesa in blocco non è difensora del leghismo, ma ci sono nella chiesa dei prelati che per una forma di baratto iniquo, considerano la Lega cristiana, perché difende i valori non negoziabili ( vedi aborto, coppie di fatto, fecondazione assistita, ecc. testamento biologico) ;
L’autore analizza e confronta gli scritti e le voci che hanno accompagnato la storia del partito. Registra le voci leghiste in difesa di una certa tradizione cristiana, ma evidenzia le loro accuse nei confronti del Cardinale Martini e il cardinal Tettamanzi di Milano. Segnala quindi la discriminazione che la Lega propone tra preti tradizionali e pretucoli catto-comunisti; quelli del pre-concilio e quelli del concilio.
Alla fine del percorso, della lettura del libro mi trovo davanti a un dio ambiguo, una specie di Dio Giano bifronte, dio della pace e della guerra, che coltiva l’amore del vicino e l’odio per il meridionale , per lo straniero. Un dio pericoloso, che mescola il falso con il vero. Un dio con la croce e con la spada.

Gaetano Farinelli

sabato 5 gennaio 2013

Epifania: la caduta delle barriere artificiose


Mi è stata chiesta da “Adista” anche la traccia di riflessione sul vangelo di domani, 6 gennaio, per la rubrica “Fuoritempio”. La ripropongo qui da:

“Adista-notizie”
22.12.2012

LA CADUTA DEI MURI
Ormai che l’esegesi più avvertita ci ha liberato dalle ossessioni storicistiche e concordiste (quali magi? da quale Oriente? seguendo quale costellazione stellare?), possiamo fruire - in tutto il suo splendore midrashico – di ogni racconto dell’infanzia di Gesù. E lasciarci affascinare, sul piano simbolico e spirituale, dal racconto della manifestazione (tale, come è noto, il significato letterale della parola greca epifania) del Bambino.
Una prima suggestione può essere formulata con un versetto evangelico attribuito a Gesù adulto: “nessuno è profeta in casa sua”. Dio sceglie un messaggero e la prima reazione dei destinatari diretti acquista la forma di una domanda: come possiamo farlo fuori? Dobbiamo però precisare: abbiamo osservato la reazione dei pastori, dei poveri, dei sospettati di vivere nel peccato e nella trasgressione – ed è stata una reazione di accoglienza ammirata e gioiosa. Ora, invece, è la reazione di Erode, di chi ha il potere politico in mano e, con l’acutezza di sguardo dei malvagi, vede in ogni profeta una minaccia mortale. Dunque: non gli uomini in generale respingono i consacrati alla diffusione del Regno, ma quelli che non vogliono essere disturbati nelle loro posizioni di privilegio e di dominio.
Una seconda suggestione ci viene dalla condizione sociale di questi viaggiatori misteriosi. Sono Maghi: dunque gente che cerca, indaga la natura, sperimenta rimedi medici, inventa strumenti tecnici. Sono un po’ teologi, un po’ matematici, un po’ filosofi, un po’ medici e un po’ ciarlatani: insomma, dei perfetti intellettuali. Ebbene, forse qui Matteo ci vuole dire che dedicarsi, per professione, alla vita intellettuale può costituire una chance preziosa: dipende dall’uso che facciamo della ragione. Essa può chiuderci nella nostra autoreferenzialità, farci crogiolare nella nostra vanità, in perenne contemplazione del nostro ombelico; ma può anche aprire i nostri orizzonti, cercare risposte significative in terre e culture assai lontane dalla nostra. L’anti-intellettualismo ecclesiale (che spesso, nella storia, ha tristemente imparentato cattolici e luterani, ortodossi e anglicani, per non parlare di più recenti movimenti evangelicali) non è giustificabile se non come cautela prudenziale: oltre un certo limite, diventa apologia d’ignoranza e idolatria della primitività.
Probabilmnete la suggestione più eloquente è però un’altra: questa pagina ci parla di un Cristo destinato non ad un popolo, ma all’intera umanità. E’ la festa della portata universalistica del rivelarsi del Figlio. La quale valenza può intendersi in due maniere opposte. La prima, predominante ma scorretta, interpreta Gesù di Nazareth come una sorta di forca caudina obbligatoria per tutte le civiltà: chi vuole salvezza, deve passare attraverso l’adesione di fede (esplicita o, per lo meno, implicita alla sua parola). Una seconda interpretazione (poco amata ai vertici gerarchici della chiesa cattolica, ma sempre più condivisa dai teologi impegnati concretamente nel dialogo con le altre religioni) spiega la funzione universale di Gesù in quanto incarnazione, circoscritta nel tempo e nello spazio, di un Verbo che da sempre parla alle sapienze del pianeta. Egli non è venuto a fondare l’ennesima religione in concorrenza con le altre (precedenti, contemporanee e successive), ma a testimoniare alcuni di quei valori eterni senza i quali non ci sono né religioni valide né società vivibili. Dio parla anche in lui, non solo in lui: e, in lui, parla a tutta l’umanità, non solo a Israele. Chi utilizza questo Bambino per costruire recinti istituzionali, teologie tribali, liturgie esclusive ed escludenti, è solo un manipolatore dei doni dall’Alto. Nel novantesimo anno dalla nascita di don Ernesto Balducci - che è anche il ventesimo dalla sua morte – questa epifania ci ricorda la dimensione planetaria di ogni autentica esperienza religiosa. Non la festa dei pagani, ma la festa della caduta di ogni muro fra sedicenti cristiani e cosiddetti pagani.

Augusto Cavadi