Centonove 3.12.04
AUGUSTO CAVADI
Omaggio a Lucio, il Luther King della Sicilia
E’ arrivato nelle librerie l’ultimo libro di Augusto Cavadi (Gente bella. Volti e storie da non dimenticare con Una lettera di Maria d’Asaro a Peppino Impastato, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005, pp. 199, euro 15,00). Nel volume l’autore raccoglie sia interviste a personaggi contemporanei (come Pietro Barcellona, Franco Cassano, Luigi Lombardi Vallauri, Simona Mafai, don Vincenzo Sorce) sia brevi profili di siciliani illustri ormai scomparsi (come Giorgio La Pira, Peppino Impastato, Francesco Lo Sardo). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo il capitolo Il Martin Luther King della Sicilia dedicato a Lucio Schirò D’Agati (pp. 159 – 167).
Un lottatore disarmato
I difficili inizi
Nel nostro Paese - aduso, secondo la felice formula di Ennio Flaiano, a “correre in aiuto del vincitore” – le minoranze non hanno mai avuto vita facile. Essere socialista ed essere protestante, a cavallo fra il XIX ed il XX secolo, significava trovarsi due volte in minoranza: dunque, condannarsi ad una vita doppiamente difficile. E tale, infatti, è stata l’esistenza di uno di quei tanti concittadini straordinari di cui - eccezion fatta per qualche congiunto – perdiamo, talora definitivamente, la memoria. Lucio Schirò D’Agati nacque ad Altofonte, a pochi chilometri da Palermo, il 18 marzo 1877, ma il precoce decesso della madre e il carattere riservato della seconda moglie del genitore non contribuirono a rallegrarne i primi anni: “la mia infanzia tramontò senza che io avessi un bacio, neppure dal padre che subiva il pregiudizio che i figli si baciano quando dormono” (così lui stesso in una pagina di diario ripresa dalla figlia Miriam in Un lottatore senz’armi: mio padre Lucio Schirò D’Agati, Zephyro, Milano 2003, p. 16). Si vanno intanto organizzando i “Fasci siciliani”: Lucio ha solo 15 anni ma, “preso dall’eloquenza di Nicola Barbato, dottore” (ivi, p. 16), aderisce al Movimento di Riscossa Popolare e, per evitare la repressione poliziesca, è costretto – come De Felice, Verro e lo stesso Barbato – a fuggire: si imbosca in una salsamenteria dove svolge le funzioni di garzone. I cinque anni di servizio militare presso la Guardia di Finanza segnano una svolta positiva: conosce nuovi amici, può studiare, ritrova – dopo aver perso la fede cattolica familiare - una prospettiva religiosa nel mondo protestante prima a lui sconosciuto e incontra Consiglia, la donna che lo sposerà e lo accompagnerà per oltre un cinquantennio, sino a quando lo lascerà vedovo e addolorato, “nonostante tanti figli attorno” (p. 54).
Gli esordi, in Puglia, come predicatore dei Metodisti (confessione cristiana fondata nel Settecento dall’inglese John Wesley) non furono proprio dei più incoraggianti. “Il 14 luglio 1901 - racconta egli stesso – alcuni conoscenti mi invitarono (…) per una conferenza. Lo seppero i preti. Sobillarono la plebaglia, mi assalirono con urli, insulti, minacce e fuore collettivo. Io avevo depositato la mia borsa nell’albergo, ma l’albergatore fi costretto a rimandarmela non certo senza rammarico. Nell’albergo non c’era posto per me! I Carabinieri non intervenivano. La plebaglia mi sospingeva verso la campagna. Un sacerdote che, mi dissero, possedeva la laurea in Medicina e Chirurgia, parroco, arciprete, mi mandò una sfida per l’indomani. Risposi: ‘Domani alle otto sarò a sua disposizione’. Urla bestiali della plebaglia che gridava: ‘Ma domani sarai vivo?’. L’aggressione si fece più tremenda, fui circondato ed esposto a gravi minacce; qualche sasso volò tra la mischia…” (p. 20). L’indomani, comunque, all’appuntamento il prete non si fa trovare: “era andato ai bagni con una comitiva sghignazzante per la prodezza della sera precedente. Fu però chiamato e venne accompagnato dal medico condotto. Il prete disse: ‘Parliamo dentro chè la folla non può capire’. Cominciò la discussione sul Decalogo di Mosé contro le sculture. Il prete aveva studiato Medicina, non Teologia. Io ero ignorante di Medicina ma rispondevo da piccolo teologo. ‘Per la vostra ostinazione vi romperei la testa!’ mi disse il medico. Con una calma che non mi parve mia, gli dissi: ‘Il medico del mio paese cuciva le teste rotte. Lei rompe quelle sane!’. La battuta fu efficace. Rise anche il prete. Ci licenziammo e me ne andai, questa volta non minacciato e non insultato” (p. 21).
Dopo alcune tappe intermedie (Abruzzo, Umbria), nel 1908 Lucio viene trasferito in Sicilia, a Scicli (Ragusa) dove trova una situazione sociale intollerabile: “i ricchi signori, – sintetizza la figlia Miriam – divenuti feudatari con mezzi anche illeciti, trattano come bruti i coloni. Li fanno lavorare dalla mattina alla sera, lontani dalle famiglie, che vedono solo alla domenica, per un piatto di fave e un po’ di frumento alla raccolta” (p. 25). Davanti a tanto disastro, non si scoraggia ma progetta e, gradualemnte, attua una complessa strategia di liberazione su più livelli.
Innanzitutto, si dedica alla istruzione e alla formazione culturale: “fonda scuole elementari, doposcuola, una sezione di asilo infantile, corsi serali per analfabeti” (p. 26). Per rafforzare ed estendere la promozione culturale fonda un giornale, “Il Semplicista”, che resisterà – con sospensioni forzate – per decenni: “un esperimento religioso unico” – commenterà nella Tesi di laurea del 2001 la giovane ricercatrice Laura Malandrino – “perché fu aperto a chiunque, evangelici, cattolici, buddisti, maomettani ed atei; esempio di un esperimento politico come pochi, essendo stato lo specchio dell’opera politica di Schirò, che fece di Scicli una sorta di repubblica indipendente nello Stato”.
Nella convinzione che la formazione dell’intelletto è condizione necessaria ma insufficiente, si impegna in prima pesrona anche su un secondo livello: l’organizzazione sociale. Avendo notato che “nel periodo estivo i fanciulli più poveri sono lasciati liberi per le vie del paese rese quasi impercorribili dal caldo afoso e snervante” e che, addirittura, “qualcuno non ha mai visto il mare”, Schirò “riunisce i genitori e organizza insieme a loro una colonia estiva” (p. 32). Nella stessa ottica, avvia “una cooperativa dove i poveri pososno acquistare i prodotti a prezzi moderati” e fonda “una lega di contadini” 8p.. 26) , una sorta di sindacato.
La formazione culturale, l’organizzazione sociale: ma non basta. Con intelligenza davvero lungimirante, egli intuisce che – se si vuole incidere profondamente e durevolmente - bisogna attivarsi anche sul piano della politica istituzionale. E’ così che, sin dal 1910, con la stretta collaborazione di un avvocato, fonda a Scicli la sezione del Partito Socialista: dopo la Prima guerra mondiale, cui egli si era opposto fermamente, i socialisti vincono le elezioni del 1920 e il pastore della chiesa metodista diventa anche sindaco della città. Avverte la stranezza, o per lo meno la straordinarietà, dell’identificazione in una sola persona dei due ruoli e, sin dal primo discorso alla popolazione, chiarisce il suo desiderio di andare oltre l’emergenza per tornare alle occupazioni abituali: “Io guardo questo posto e mi sento a disagio. Questo posto non è mio, è degli sciclitani. Il mio posto è alla Chiesa. Ben vengano i paesani a gridare viva il Socialismo, io allora al loro grido esultante unirò la mia benedizione” (p. 29).
Socialista, pacifista, nonviolento: dunque antifascista
Per decenni siamo stati abituati a considerare inscindibile il legame fra radicalità rivoluzionaria e lotta armata: al punto che, quando il segretario nazionale di un partito comunista propone – come in questi mesi – un’adozione seria e convinta della metodologia nonviolenta, scattano già nella stessa Sinistra i sospetti di opportunismo e le diffidenze verso possibili ripiegamenti compromissori. Lucio Schirò D’Agati non sarà stato, a giudicare dagli scritti che ci rimangono, un pensatore particolarmente profondo o originale: ma ha certamente visto con lucidità anticipatrice ciò che intere generazioni successive hanno stentato – e tutt’ora stentano – a vedere. Intendo che ha visto con chiarezza stupefacente come l’interesse delle fasce deboli dei popoli di tutto il mondo implica il rifiuto della guerra come mezzo per risolvere i conflitti fra gli Stati e che il rifiuto della guerra implica il rifiuto della violenza come arma per risolvere i conflitti interni agli Stati. In altri termini: che il socialismo comporta il pacifismo e che il pacifismo comporta la nonviolenza attiva. La riprova che la connessione fra questi tre princìpi ‘funziona’ è data dalla sua incompatibilità con qualsiasi logica reazionaria. E infatti il fascismo storico si scatenò spietatamente contro il piccolo pastore di provincia che incarnava nella sua opera quotidiana l’intreccio esplosivo (e tanto pericoloso per gli interessi dei poteri forti) fra difesa dei poveri, rifiuto della guerra e lotta tendenzialmente nonviolenta.
Che cosa abbia significato per Schirò essere socialista, cioè dalla parte degli sfruttati, lo si è accennato: pur senza escludere mutamenti di regime epocali, egli ha innescato - nel ‘qui’ ed ‘ora’ della sua sfera d’intervento - iniziative culturali, sociali e politiche che rendessero in qualche modo visibile e palpabile un processo di emancipazione. Aveva tante ragioni per maledire il buio ma, per riecheggiare un detto orientale, ha preferito accendere la sua candela.
Si è anche accennato alla sua (per me conseguente) opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Su questo punto non si può non citare almeno qualche passaggio cruciale di un articolo del 12 dicembre 1914 in cui egli taccia, “quei socialisti che ieri votarono contro le spese militari ed ora son per la guerra”, di tradimento del “Proletariato, il quale, in ogni guerra, paga sempre ed esige mai!” (p. 93). Bisogna entrare in guerra per combattere la disoccupazione? “Ma la richiesta di lavoro a spese dell’altrui sangue mi sa di cinismo più che brigantesco” (p. 93). Bisogna entrarci perché “questa guerra sarebbe rivoluzionaria”? “Non è vero. Io osservando che i monarchi si fanno fotografare in divisa militare deduco che Militarismo e Monarchia sono sposi. Perciò ogni vittoria militare costituisce un nuovo forte attorno al Trono” (p. 93). Bisogna entrare in guerra per ragioni patriottiche? “Pretesto borghese. Se oggi l’Italia conquisterà Trento e Trieste, domani vorrà conquistare Nizza, Savoia, Tunisi, Malta ecc…per cui l’ingordigia non sarà saziata e sarà suscitata la diffidenza franco-inglese; l’odio austriaco non sarà spento ed invece sarà acceso quello tedesco contro l’Italia, il che richiederebbe enormi spese militari offensive e difensive. Ad ogni modo se l’Italia conquisterà il Mondo pel Proletariato non conterà proprio nulla, conterà per la Borghesia. Che sia dunque essa sola l’assassina” (pp. 93 – 94). Bisogna entrare in guerra per ragioni umanitarie, per annientare la “barbarie teutonica”? “Superficialità. Ammesse magari per vere e moltiplicate per 10 le gesta barbare attribuite ai tedeschi affermo che non pesano un terzo degli orrori commessi dal Belgio militaresco nel Congo e dalla Russia Czaresca sul bel corpo di Maria Spiridonova e sulle menti di Massimo Gorki, Tolstoj ecc.” (p. 94).
Nella prima metà del XX secolo non era strano che socialismo e pacifismo si intrecciassero: molto meno ovvio, però, che si coniugassero anche con la nonviolenza. Qui la tradizione marxista, presente anche nel Partito Socialista da cui nel 1921 si era distaccato il Partito Comunista, pesava fortemente: essere rivoluzionari implicava il ripudio della guerra, ma anche l’adozione della lotta armata. Schirò, però, ha radici non solo socialiste: il suo cristianesimo evangelico gli vieta di concepire l’uso della forza fisica come metodo ordinario. Con molto anticipo su orientamenti attuali (pensiamo, per limitarci ad un solo riferimento, al dibattito interno al Partito della Rifondazione Comunista circa la scelta programmatica per la nonviolenza), egli vive con costanza e coerenza un inequivoco atteggiamento nonviolento che gli ha meritato, da parte di Andrea Speranza nel corso di un convegno commemorativo del 1982, il titolo di “Martin Luther King della Sicilia Sud-orientale” (p. 76).
Socialista, pacifista, nonviolento: troppo per il fascismo! Ma proprio le persecuzioni dei fascisti lo confermeranno nella validità delle sue opzioni - esistenziali e politiche - di fondo. Quando il 26 dicembre del ’20 le squadracce d’azione aggrediscono dei cittadini inermi, Schirò - informato mentre è riunito con cento persone nell’assemblea della Cooperativa - si precipita nel luogo dell’assalto, affronta da solo e inerme i quaranta facinorosi e, benché colpito alla testa e sanguinante, non recede dalla richiesta alle Forze dell’Ordine di fare il loro dovere. Quando, poi, la situazione si capovolge e la gente inferocita vuole fare giustizia sommaria dei caporioni, è proprio Schirò ad accoglierli a casa propria per evitare una strage! Ovviamente la cortesia non gli sarà ricambiata. Intimidazioni e attentati si susseguono senza posa, anzi con violenza crescente: sino a quella sera dell’estate del 1921 in cui i fascisti sparano sul pastore ferendo lui, una figlioletta, alcuni amici ed uccidendo un pover’uomo reo soltanto d’essere simpatizzante della Chiesa metodista. Quando poi il regime s’instaura ufficialmente, sono le stesse autorità ad angariare il ‘suddito’ sospetto: come quando – siamo già nel ’29 - il Commissario di Pubblica Sicurezza lo interroga, lo schiaffeggia e lo accusa di aver dichiarato di voler devolvere un certo sussidio “per il bene dei comunisti”, reagisce solo con il suggerimento ironico di consultare il vocabolario italiano per cogliere la differenza fra ‘comunisti’ e ‘comunità’.
Il suo servizio sopravvive al crollo del fascismo ed è ‘ministro’ della sua comunità religiosa sino al 1952: si spegnerà, non senza ragioni di sconforto come pure di consolazione, il 30 giugno del 1961. In un articolo del 1924 egli aveva evidenziato, con un linguaggio ‘datato’ che però conserva una propria tempra, come la storia documenti “l’esistenza di profeti in determinati tempi e luoghi, senza dei quali non si sa quali splendori avrebbe la religione se pur non avesse la bruttura di turpe manutengola della falsa Politica. Guai la mondo (…) moderno se in tempi difficili, in mezzo al chiasso di politicanti incoscienti, al lezzo dell’affarismo, al disgusto del turpiloquio e dello scempio di uomini e cose, al gemito straziante della Verità offesa, della Giustizia mutilata e della Libertà inceppata, mancasse la voce ammonistrice di sinceri ministri del Ciel!”. Non mi pare esagerato affermare che proprio Lucio Schirò D’Agati sia stato una di queste figure ‘profetiche’, capaci cioè di interpretare con più acutezza i “segni dei tempi” e di anticipare con più inventività le pratiche adeguate alle sfide della storia.