sabato 12 giugno 2004

GLI SLOGAN ELETTORALI


“Repubblica – Palermo”
12 giugno 2004
Augusto Cavadi

Il gioco dei manifesti

Non siamo in tempi di facile autocritica, ma quando è necessaria bisogna farla. Anch’io, nel mio piccolo, devo confessare almeno un errore: all’inizio della campagna elettorale per le europee ho pensato che questa epidemia di manifesti, dai colori sgargianti e dagli slogan ad effetto, fosse uno spreco. Che non servisse a niente. Ma ora che siamo agli ultimi sgoccioli prima del voto, devo riconoscere di essermi sbagliato.

Prima di tutto perché è una spesa ingente, ma istruttiva. Se uno ci riflette, contando il numero e le dimensioni dei manifesti per candidato, può farsi un’idea di quali siano le sue risorse finanziarie, attuali o potenziali. Chi spende decine di migliaia di euro (che, per chi si candida in tutto il territorio nazionale, diventano certamente molto di più) per la propaganda elettorale con ciò stesso dichiara o di essere molto ricco o di avere l’intenzione, se eletto, di diventarlo: o l’una e l’altra cosa insieme. Oltre che sulle tasche dei candidati, lo stile pubblicitario istruisce anche su un secondo aspetto: la loro sensibilità civica, in generale, ed ecologica, in particolare. Chi sguinzaglia i propri scagnozzi ad affiggere carta stampata su ogni minimo spazio fisicamente libero, ben al di là di quanto previsto dalla normativa di ogni Comune, sta per ciò stesso informando efficacemente su quanto gli possa stare a cuore il rispetto dell’ambiente e il decoro delle città.
Dunque, questi cartelloni forse non aiuteranno molto a indicarci chi meriti la nostra preferenza: ma, almeno, ci danno delle buone dritte per sapere chi evitare.  
Si potrebbe obiettare che per far capire agli elettori di quanti soldi dispongono, di quanti soldi abbiano intenzione di appropriarsi, di quanto poco gliene importi dell’urbanistica e dell’ecologia, i candidati più visibili potrebbero scegliere mezzi meno inquinanti: per esempio spot pubblicitari alla radio o nelle trasmissioni televisive. Ma siamo sicuri che sarebbero interventi altrettanto divertenti? Già, perché anche questo aspetto, all’inizio della campagna elettorale, avevo imperdonabilmente sottovalutato: tanto spreco di cellulosa e di risorse finanziarie è un servizio pubblico prezioso. Riesce a mettere di buon umore anche i cittadini più intristiti, purché attenti, sin dal mattino, ad aggiornarsi con gli arrivi dell’ultim’ora.
Dalle nostre parti, ad esempio, è stata uno scoppiettante carosello di trovate: una più divertente della precedente.
Tra i primi è stato Bobo Craxi che ha tappezzato col suo faccione rassicurante Palermo e, suppongo,
l’intero territorio regionale. La didascalia, anch’essa gigantesca, recitava: “Cambia l’Europa vota socialista”. In mancanza di punteggiatura, le interpretazioni possibili erano almeno due. “L’Europa sta cambiando (vedi risultati elettorali in Spagna e in Francia): dunque adeguati anche tu e vota socialista”. Oppure: “Dai, contribuisci anche a tu a cambiare l’Europa: vota, dunque, per i socialisti come noi”. Nel primo caso, sarebbe stata pubblicità ingannevole: perché votando per questo partito socialista del giovane Craxi si vota per il centro-destra, esattamente a favore dello schieramento sconfitto in Spagna e poi in Francia. Nella seconda ipotesi, sarebbe stata pubblicità dannosa: si istigherebbero gli elettori a rovinare l’Europa abbassandola  al livello etico del governo socialista italiano da Prima Repubblica. Insomma, come inizio di campagna elettorale non c’era male.
Poi si è inserito Fini, rassicurando gli elettori che Alleanza nazionale ha “un solo interesse”.  Qui l’ironia era davvero sottile : lasciava vagamente supporre che altri – di interessi - ne  avessero due, o tre, magari in conflitto…
I gregari, comunque, non hanno accettato di essere meno divertenti dei loro leader. Non so quanto intenzionalmente, per la verità. Così una splendida signora, inconfondibilmente femminile, scelta per dare alle donne qualche possibilità in più di essere rappresentate a Strasburgo, ha voluto stupirci con un invito spiazzante (ed autoescludentesi): al Parlamento europeo mandate “un Uomo”. Che si sia fatta corrompere dai candidati maschi della sua stessa lista?
Non meno stupefacente una batteria di manifesti profumatamente commissionati da un ingegnere palermitano candidato per la Lega Nord: insoddisfatto del paradosso di chiedere ai meridionali un voto a favore del partito antimeridionalista per eccellenza, ha voluto sommare anche il paradosso di dedicare non agli avversari ma agli esponenti del suo stesso Polo  (Forza Italia e UDC) una filastrocca di improperi irripetibili.
 Proprio mentre discutevo di queste amenità con una coppia di amici forlivesi, la gentile ‘lei’ – dopo avermi chiesto qualche informazione sull’identità dell’ assessore regionale Stancanelli, sotto il cui simpatico volto sorridente campeggiava la scritta  “Continueremo a lavorare per voi” – si è domandata a mezza voce, quasi parlando fra sé e sé: “Certo il cognome non poteva cambiarselo. Ma perché, almeno, non ha cambiato lo slogan?”

martedì 8 giugno 2004

FRANCESCO LO SARDO


Repubblica – Palermo 8.6.04

Augusto Cavadi


Un compagno di carcere dimenticato 

Quella volta che  Berlusconi ci ha spiegato che il fascismo non è stato poi così duro come la cultura di sinistra ha voluto farci credere, dal momento che si è limitato “a mandare qualche dissidente in vacanza forzata”, il pensiero di molti italiani è andato ad Antonio Gramsci. Nessuno, o quasi, si è ricordato di Francesco Lo Sardo. Novello Carneade, anche di lui ci si potrebbe chiedere chi sia stato. E non sarebbe facile rispondere. Infatti, nonostante Pancrazio De Pasquale, presentando nel 1985 il suo Epistolario dal carcere (con le lettere ai familiari e i memoriali al Tribunale speciale fascista), lo abbia definito “la figura più luminosa della storia della Sicilia a cavallo dei due secoli, l’incarnazione più alta della lotta di emancipazione del popolo siciliano, l’espressione umana e politica più rilevante e spontanea di tutte le ansie, (…) della modestia e dell’orgoglio del movimento socialista e comunista siciliano”, non è facile rintracciarne traccia nelle bibliografie. Né, più in generale, nella memoria dei suoi conterranei. L’unica monografia dedicatagli (L’eroica vita di Francesco Lo Sardo) è uscita, come opuscolo anonimo (un “quaderno” del giornale “Il Riscatto”) a cura della Federazione P.C.I di Messina, nel 1956. Dopo – a parte l’accorato omaggio del nipote Francesco lo Sardo jr. Nessuno lo dimentichi, edito a Verona nel 1982, che prende a prestito, come titolo, l’epitaffio dettato per la sua tomba da Concetto Marchesi – il silenzio.

Come molti militanti di sinistra, da Marx in poi, esordisce come seminarista. Nato a Naso il 22 maggio del 1871, i suoi lo iscrivono al seminario vescovile di Patti da dove, deluso degli insegnamenti teologici, si trasferisce per studiare nelle scuole pubbliche di Messina. Qui s’inserisce nel Circolo anarchico-socialista e inizia la collaborazione con la rivista “Il Riscatto” diretto da Giovanni Noè. La ventata dei Fasci siciliani lo coinvolge: in quanto promotore del Primo Fascio Operaio Nasitano viene condannato al domicilio coatto nelle isole Tremiti. Al ritorno riesce a laurearsi in giurisprudenza e, dopo un nuovo arresto nel 1898, si dedica alla professione di avvocato e a costruirsi una famiglia. Si convince che l’anarchismo rischia di aggredire i terminali senza raggiungere il server o – per riprendere la sua colorita immagine per i contadini che si rivoltavano verso guardie ed esattori – di addentare la pietra che ci colpisce senza toccare la mano che l’ha lanciata: dunque si sposta su posizioni socialiste più organizzate. Il terremoto del 1908 lo priva del figlio unico di dodici anni, di amici e di compagni: davanti alla speculazione edilizia – capitanata dall’Arcivescovo Pajno che costruisce chiese e seminari senza preoccuparsi dell’edilizia popolare simile a “gabbie per canarini”– trova la forza di reagire allo sconforto, di riprendere la pubblicazione del “Riscatto”, di riorganizzare la sezione socialista e la locale Camera confederale del lavoro. Dopo la Prima guerra mondiale, guida le occupazioni contadine delle terre incolte e si espone alle aggressioni – fisiche, non solo verbali – delle camicie nere: intanto – siamo al 1921 - da una costola del Partito socialista si costituisce il Partito Comunista ed egli vi aderisce. Alle elezioni del 1924 Lo Sardo viene eletto deputato nazionale e in Parlamento stigmatizza la politica del Governo con una formula che, oggi, suona curiosamente attuale: “Cercate il pareggio del bilancio, assottigliando la razione di pane dei lavoratori ed aumentando il reddito delle classi ricche”. Anche a causa delle altre sue battaglie  - contro il trasferimento dell’Università da Messina, contro la privatizzazione dell’Opedale “Piemonte” e soprattutto nelle aule dei tribunali contro i soprusi giudiziari – il regime fascista ne decreta la carcerazione. E’ l’8 novembre del 1926: da allora sino alla morte, il deputato-avvocato sarà trascinato da una prigione all’altra per tutta la Penisola (Messina, Catania, Roma, Sassari, Oneglia, Turi, Napoli). La privazione della carta e della penna riduce le sue possibilità di lavoro: il peggioramento delle condizioni di salute fa il resto. A chi gli fa ventilare la possibilità di chiedere la grazia, risponde con fierezza: “E’ inutile inginocchiarsi ai tiranni a meno che non si voglia perdere ogni dignità ed amor proprio; ed a ciò non voglio arrivare, preferirei la morte onorata all’avvilimento che mi facesse trascinare, magari mille anni, in una vita che non potrebbe riuscirmi che odiosa”. Anche un illustre compagno di prigionia, Antonio Gramsci, gli consiglia di firmare: “Ti resta poco” –gli disse – “e poi hai dato tutto al partito”. Ma la sua risposta non muta:  “Hanno voluto la carne e si prenderanno anche le ossa. Io non firmo” (cfr. Umberto Clementi in Gramsci vivo - Nelle testimonianze dei suoi contemporanei, a cura di Mimma Paulesu Quercioli, Feltrinelli, 1977) . Soffriva di asma, di nefrite, di enterocolite e si limita a chiedere di essere curato chirurgicamente, ma la risposta burocratica tarda ad arrivare: il “modesto soldato dell’idea” (come amava autodefinirsi), il “san Francesco del comunismo” (come amavano definirlo alcuni compagni di carcere), si spegne fra le mura di  Poggioreale il 30 maggio del 1931. In una delle ultime lettere - al fratello che gli aveva attribuito, un po’ retoricamente, del “coraggio leonino” – obietta: “Ho avuto quel modesto coraggio umano necessario per adempiere ai miei doveri di uomo verso la mia donna, verso la mia famiglia, verso la società e la mia fede, superando le difficoltà che dalla natura e dagli uomini mi si opponevano, e resistendo ad esse con coraggio”.

venerdì 4 giugno 2004

STUDENTI E MAFIA


Repubblica – Palermo 4.6.04
Augusto Cavadi

PER DIFENDERE I RAGAZZI

Ogni tanto l’osservatore esterno entra nella scuola, constata che il re è nudo e – se non è condizionato da bassi interessi – lo dichiara papale papale. Qualche insegnante si adira, qualche giornalista trova un titolo schiaffeggiante: sessanta secondi in un tg locale e, dopo qualche ora, si ritorna alla routine di sempre. Anche con la notizia di queste settimane - per i nostri ragazzini la mafia dà lavoro e sicurezza, Falcone e Borsellino sono stati degli ingenui perdenti – vogliamo consentire che finisca così?
Basterà ignorare tre o quattro evidenze.

La prima è che la scuola – mediamente - non è né migliore né peggiore del contesto sociale in cui è inserita. Essa non ha possibilità di cambiamento, né dunque responsabilità, maggiori o minori rispetto alle altre agenzie educative: in tema di legalità, come in qualsiasi altro ambito, può essere efficace solo in sinergia con i modelli familiari, i messaggi televisivi, le prediche ecclesiali. Certo, quando lo ritiene giusto deve remare contro: ma se s’illude di farcela alla lunga distanza, senza che qualche altra istanza si muova nella società, si condanna all’amaro risveglio del Don Chisciotte.
Ma è poi detto che la maggioranza degli insegnanti remino contro l’andazzo generale? Sondaggi e statistiche parlano chiaro: in Sicilia, come nel resto d’Italia, i docenti si orientano culturalmente e politicamente come la media degli altri cittadini. Dunque la maggior parte degli educatori siciliani (presidi, personale amministrativo e bidelli compresi: sono tutte figure che influenzano la mentalità degli alunni, e quanto!) ha votato – e probabilmente rivoterà – a favore di un governo nazionale e di uno regionale che, non volendo modificare i comportamenti, modificano le leggi in modo da farli diventare leciti. Da qui la seconda evidenza: che cosa ci si può attendere di autentico, di non convenzionale, da una maggioranza di educatori consonanti con un governo nazionale che manda in Sicilia, per scoprire la stele di Falcone, il teorico della convivenza con la mafia e con un governo regionale che ha superato il record storico di membri inquisiti per i reati più vari (al punto che uno di loro ha festeggiato pubblicamente la sentenza di condanna per turbativa d’asta, essendo stato discolpato dall’accusa di complicità mafiosa)?
E’ facile obiettarmi che c’è una forte minoranza di docenti nella scuola, come di cittadini nella società, che comunque s’impegna quotidianamente per testimoniare, a parole e a fatti, una scala di valori alternativi. Se non ne fossi convinto, la mia perseveranza più che trentennale nelle aule sarebbe prova eloquente  di  labilità mentale. Ma ciò non esclude – anzi impone – che ci si pongano delle domande autocritiche sulle ragioni del nostro parziale fallimento o, se si preferisce per ragioni terapeutiche, del nostro incompleto successo. Ed è qui che, se vogliamo essere sinceri, ci imbattiamo in una terza evidenza: anche noi insegnanti ‘democratici’ adottiamo strategie dagli ‘effetti collaterali’ disastrosi. E’ proprio certo che una overdose precoce (scuole elementari e medie inferiori) di tavole rotonde, dibattiti, cortei, assemblee di iniziative antimafia sia la cura  più adatta per formare le coscienze ad una cittadinanza critica? O non sarebbe meglio lavorare gradualmente, per piccoli gruppi, senza ‘precettare’ intere scolaresche nell’illusione che anche conferenze barbose, o convegni di quattro ore consecutive, alla fin fine, qualche traccia dovranno pur lasciarla? Mi pare tanto ingenua quanto diffusa la tendenza a mantenere con le generazioni del XXI secolo quelle stesse modalità comunicative che andavano bene, se veramente andavano bene, per i loro genitori trenta o quaranta anni prima. Ma la pigrizia mentale incide, ancor più gravemente, sui contenuti della didattica antimafiosa. E siamo ad una quarta evidenza. Anche recentissime esperienze (rese possibili da volenterose colleghe che hanno organizzato corsi di aggiornamento sull’argomento cui hanno aderito cinque o sei insegnanti su tre o quattro scuole invitate: dunque su tre o quattrocento insegnanti invitati) mi hanno confermato nella sconsolante convinzione che il fatto di occupare abitualmente una cattedra induce a supporre di saperne abbastanza su tutto.Come se il sistema di potere mafioso fosse identico a sé stesso. E come se tali trasformazioni del sistema – pur nella continuità di certe caratteristiche strutturali –  non producessero, per fortuna, nuovi studi da parte di sociologi, giuristi, magistrati, politologi, economisti, psicologi, pedagogisti. Per carità, non possiamo essere specialisti in ogni campo! Ma un pizzico di saggezza socratica, sollecitandoci ad apprendere un po’ più di quel che sappiamo di non sapere, non guasterebbe. Almeno nella mia vita, la lezione più  efficace e duratura di Costa, Chinnici, Falcone e Borsellino è stata che ci sono battaglie per le quali il cuore non basta: ci vuole anche cervello.