domenica 28 luglio 2019

COLPIRE LOREFICE PER ACCERCHIARE BERGOGLIO

28.7.2019

ATTACCARE IL VESCOVO PER COLPIRE IL PAPA

Come è noto, in Italia c’è stata una correlazione di destini fra la destra ‘politica’ e la destra ‘ecclesiale’. Non poco stupore suscita, dunque, la constatazione che i consensi verso Salvini crescono e, invece, il numero dei fautori della destra teologico-religiosa  ristagnano. L’enigma si spiega, in larga misura, con la situazione paradossale dei conservatori cattolici che devono contestare il simbolo più tradizionale del conservatorismo ecclesiale: il papa. Un papa alla Giovanni Paolo II o alla Benedetto XVI sarebbe stato un ottimo pendant per il populismo identitario – tendenzialmente reazionario – dei nostri giorni. Non così un papa Francesco che vuole sottoporre alla critica del vangelo le pratiche, anche secolari, degli apparati ecclesiastici e dei movimenti nostalgici delle istituzioni medievali e tridentine. 
Da qui i tentativi sempre più insistenti di organizzare campagne tese a destituire l’attuale vescovo di Roma, mostrando o l’illegittimità della sua elezione o la perdita di legittimità a causa di posizioni eretiche. Non soddisfatti di questa strategia – per la verità un po’ contraddittoria – alcuni gruppi di fondamentalisti cattolici provano ad accerchiare papa Francesco attaccando, più che lui stesso direttamente, le persone che egli ha promosso in punti nevralgici. Ad esempio l’arcivescovo di Palermo.
Un’associazione romana di inspirazione integralista – a cui non farò pubblicità riportando nome e indirizzo telematico – ha recentissimamente dedicato su internet un pezzo giornalistico a don Corrado Lorefice, accusandolo di aver dato del noto Festino in onore di santa Rosalia (15 luglio) una lettura secolare, teologicamente povera e spiritualmente banale. Egli sarebbe l’ennesimo prova che “un tempo i Vescovi si preoccupavano delle anime e della loro salvezza. Oggi invece parlano di politica e di immanenza”. Infatti, nella sua omelia per la patrona di Palermo, si è detto preoccupato  “non per la generale perdita della fede, non per la secolarizzazione rampante, non per il laicismo imperante, non per la morte portata da aborto ed eutanasia, non per la nuova schiavitù degli uteri in affitto e della fecondazione in vitro, non per i cristiani perseguitati in ogni angolo del mondo, bensì per un generico riferimento ad un vago «sistema economico planetario che schiaccia i poveri e ferisce la natura» e per l’«esclusione del diverso, dell’altro». In questo crescendo programmatico più simile ad un comizio della «Festa dell’Unità» che ad un’omelia, il presule ha proposto la stessa figura della Patrona come esempio di chi seppe «opporsi ad interessi di classe» in un’inedita, impensabile ed improbabile riedizione marxista, distonica per tempi e contenuti all’esempio lasciato dalla Santa in pieno Medioevo, nonché condotta ad innaturale apoteosi con la citazione non di testimoni della fede, bensì di Enrico Berlinguer e di Aldo Moro, politici proposti come modelli in quanto “campione” della «responsabilità etica» il primo contro la «politica delle invettive e degli insulti» e paladino del «cambiamento profondo» e dei «tempi nuovi» il secondo contro «storture e ingiustizie»”. Questo articolato e dettagliato atto di accusa contro l’arcivescovo Lorefice si conclude con un sarcastico: per lui c’è bisogno di politici come Moro e Berlinguer, ma  “ciò ch’è certo è che, di contro, nella Chiesa non v’è alcun bisogno di Vescovi, che propongano la fede così”.

 Questi attacchi, per quanto sgradevoli, vanno prima di tutto compresi. Persone che sin dall’infanzia sono state educate non a leggere ‘scientificamente’ (intendo con gli strumenti dell’esegesi scientifica) i vangeli, ma a imparare formule dogmatiche e precetti moralistici o mandano tutto al…diavolo o, se restano nella Chiesa cattolica, identificano la loro adesione di fede con l’attaccamento a un complesso dottrinario e prescrittivo in cui hanno trovato (almeno l’illusione della) certezza teorica e pratica. Una gabbia ideologica che ha, tra l’altro, il vantaggio di santificare lo status quocapitalistico in cui i ricchi sono sempre più ricchi (e minori di numero) e i poveri sono sempre più poveri (almeno relativamente, talora in assoluto, e maggiori di numero). 
 La conversione di questi cattolici, più devoti che istruiti, più assetati di sicurezza che di avventura spirituale, è estremamente difficile: un papa ha il dovere di provarci, ma anche di non farsi troppe illusioni. La religione bimillenaria che protegge in terra dalle disgrazie e assicura un posticino in cielo è troppo più comoda del messaggio essenziale di un rabbino errante che non offre nulla, né in terra né in cielo, tranne la verità che prendersi cura degli altri – anche lontani, anche stranieri, anche nemici – è il modo migliore per dare senso e gratificazione alla propria vita. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 26 luglio 2019

EDGAR MORIN: "MEDITERRANEIZZARE" IL PENSIERO IN LIBRERIA

E' GIA' IN TUTTE LE LIBRERIE ON LINE E, A RICHIESTA, ANCHE 'FISICHE':

E. Morin, PENSARE IL MEDITERRANEO E MEDITERRANEIZZARE IL PENSIERO. Da luogo di conflitti a incrocio di sapienze, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2019, pp. 98, euro 10,00.

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Brevi avvertenze per il lettore del XXI secolo
   Se una delle caratteristiche dei classici è di acquistare attualità man mano che scorre il tempo - come il vino rosso migliora invecchiando, se di qualità - questo breve saggio di Edgar Morin può considerarsi un classico. Esso è stato ospitato sul numero 28 (inverno 1998-1999) della rivista francese “Confluences Méditerranée” delle edizioni L’Harmattan di Parigi che ringrazio per l’autorizzazione a tradurlo e ripubblicarlo, con l’aggiunta di qualche nota esplicativa.
    Certo alcuni riferimenti di cronaca risultano, inevitabilmente, datati; ma – a parte che un po’ di coordinate storiche aiutano a collocare meglio un testo nel suo ambiente vitale -  nella sostanza le riflessioni del pensatore francese continuano a illuminare i lettori. Come nel 1999, infatti, venti anni dopo il Mediterraneo è “il mare della comunicazione e del conflitto”. Si potrebbe, anzi, aggiungere che oggi è ancora più chiaro che è un luogo di tensioni e di morte proprio perché – per così dire naturalmente – è un ponte destinato agli scambi reciproci. Non sarebbe la sede dello scontro se non fosse  il teatro del dialogo interrotto; non sarebbe, di fatto, incrocio di dissuasioni minacciose se non fosse, di diritto, la piazza  di un’interazione pacifica che potrebbe arricchire bilateralmente, anzi multilateralmente, i protagonisti della tragedia epocale che stiamo vivendo. Ma, si sa, “tra prossimi, ci si dilania meglio a vicenda”[1].
   Secondo Morin, “il Mediterraneo vede dunque oggi l’aggravarsi dei suoi antagonismi religiosi e lo sviluppo di antagonismi nazionali. In più, esso subisce in maniera particolarmente intensa i grandi antagonismi dell’era planetaria”: l’augurio che ci possiamo scambiare – insieme al proposito di impegnarci fattivamente, ognuno per la nostra parte, affinché tale augurio si realizzi – è che venga presto il momento in cui queste constatazioni, lucide e amare, smettano di essere veritiere. E restino solo nella memoria degli storici.
   Purtroppo lo scenario attuale non è incoraggiante. Il Mediterraneo resta  “troppo stretto per separare, troppo largo per confondere”[2]. A oggi l’Unione europea sembra delegare agli Stati che si affacciano sul Mediterraneo (Grecia, Italia e Spagna soprattutto) la gestione delle migrazioni massicce dall’Africa e dall’Asia Minore, limitandosi a finanziare la Turchia perché faccia il lavoro sporco di sentinella ai confini. Il fatto che alcuni governi, come l’attuale governo italiano a guida Cinque Stelle e Lega, adottino provvedimenti sostanzialmente anti-costituzionali, e più ampiamente anti-umanitari, lungi dal giustificare l’ignavia dell’Europa continentale ne sottolinea la gravità. In queste condizioni la sinergia fra Paesi europei e non-europei, accomunati dall’affacciarsi sullo stesso mare, diventa sempre più necessaria e sempre meno probabile.
    Innumerevoli volte Morin evidenzia “la necessità di <<lavorare a pensare bene>>, secondo l’espressione di Pascal, cioè di pensare in modo complesso. Abbiamo bisogno di una conoscenza capace di concepire le condizioni dell’azione e l’azione stessa, di contestualizzare prima e durante l’azione. Non c’è niente di meglio della buona volontà. Ma essa non è sufficiente e rischia di ingannarsi, Un pensiero scorretto, un pensiero mutilato, anche con le migliori intenzioni, può condurre a conseguenze disastrose”. La questione del Mediterraneo è una drammatica esemplificazione di questa convinzione di Morin. In questo saggio egli, pur di formazione (non del tutto rinnegata) marxista, rimanda continuamente alle radici intellettuali, simboliche, culturali delle difficoltà a fare del Mediterraneo un modello prototipico e pionieristico di ciò che potrebbe/dovrebbe diventare, socialmente e politicamente,  il globo terracqueo. E cinque anni dopo, nel 2004, un gruppo di consulenti altamente qualificati della Commissione europea avrebbe insistito su questo tasto con parole che oggi (2019), quindici anni dopo, anche in considerazione del rilievo assunto sulla scena internazionale da organizzazioni islamiche fondamentaliste, meriterebbero di essere riprese e rilanciate con inalterato vigore:  non ci potrà essere cooperazione fra gli Stati del Mediterraneo tra loro, e fra tutti essi e il mondo euro-americano, se non si abbattono alcuni pregiudizi ideologici inveterati, “che si tratti della riconversione di un certo occidente alla demonizzazione di un nemico, identificato con il terrorismo e, per trasposizione impropria, con l’islam tramite islamisti radicali seguaci del terrorismo, o della presentazione della modernità occidentale alla stregua di un satanismo da combattere, quale viene proposta da alcuni religiosi ai propri fedeli. Le derive sempre più frequenti, capaci di sfociare in ideologie più classiche ma non per questo meno deleterie, consistono in un nazionalismo identitario di esclusione e in ciò che sembrerebbe il suo contrario ma ne è così spesso il corollario, il funzionamento apolide delle reti del crimine organizzato. Non si può infine ignorare l’affermarsi di un irenismo di comodo del Nord, insensibile alle sofferenze esterne dalle quali esso peraltro si protegge, e parallelamente di un islamismo di disperazione al Sud, sintomi di malessere più che risposte possibili”[3].
   
                                              °°°
   Sono stato in dubbio se lasciare o meno la scansione originaria in brevi paragrafi (che, diventati capitoletti, appaiono ancora più brevi), ma alla fine ho deciso per il sì. Questa struttura, infatti, suggerisce e favorisce una lettura meditativa del testo assai intenso di Morin: tanto intenso che sarebbe uno spreco ‘consumarlo’ tutto d’un fiato senza regalarsi il tempo di seguire con la mente le sue molteplici allusioni. Infatti, come in una matrioska russa, ogni affermazione ne custodisce qualche altra più profonda a cui non si arriva se non si ha la pazienza di integrare con informazioni supplementari (alcune delle quali sono suggerite nelle note in calce), e soprattutto con la propria riflessione, ciò che viene enunciato in superficie.

                                                                  Augusto Cavadi
                                                             www.augustocavadi.com

·  Le note in calce sono del curatore italiano, tranne le poche volte in cui compaiono fra parentesi tonde le iniziali dell’autore (E.M.)

PS: Un duplice, affettuoso,  grazie a Mario Berardi che ha rivisto con competenza linguistica la mia traduzione dal francese e a Alberto Cacopardo che, attingendo alle sue notevoli conoscenze ed esperienze, mi ha aiutato a formulare molte note in calce e ha poi impreziosito questa pubblicazione con una eccellente post-fazione.


[1]A. MAALOUF , L’identità.Un grido contro tutte le guerre, Bompiani, Milano 2005, 38.
[2]B. KHADER, Il Mediterraneo, troppo stretto per separare, troppo largo per confondere, Comunicazione dattiloscritta, Lovanio, giugno 1984, 22, cit. in P. NASO, <<Note sulle “questioni” del Mediterraneo>> in P. BARCELLONA (ed.) , Il Mediterraneo nelle relazioni internazionali, Dipartimento di analisi dei processi politici, sociali e istituzionali, Università di Catania, 1986, 15.
[3]Rapporto del gruppo dei saggi istituito per iniziativa del presidente della Commissione europea(Romano Prodi), pubblicato nel 2004 a cura della Commissione europea, con il titolo Il dialogo tra i popoli e le culture nello spazio euromediterraneo, 23 (edizione italiana).

mercoledì 24 luglio 2019

PALERMO VISTA DA BERLINO

“REPUBBLICA” (PALERMO)
23.7.2019

L’ALLEANZA FRA CITTADINI E AMMINISTRAZIONE

Da Berlino (potrebbe essere qualsiasi altra capitale europea, Roma esclusa) le cronache palermitane sembrano catalputate non solo da un altro mondo, ma proprio da un’altra era. Mezzi pubblici dimezzati a causa di perenne deficit aziendale? Qui passano frequentemente e puntualmente: nessuna barriera all’ingresso della metropolitana né, in una settimana, ho assistito a un solo controllo sui bus. L’ospite berlinese mi spiega che la penalità per chi voglia fare il furbo è così salata da scoraggiare qualsiasi tentativo. “Ma a Palermo più di una volta ho sentito rispondere al controllore che potesse mandare le multe a casa, tanto il passeggero era nullatenente”. “Qui da noi alla terza multa comminata senza esito, si va in galera”.
Il ritornello è lo stesso se ci si interroga sull’assenza totale di auto posteggiate fuori dai parcheggi; di posteggiatori abusivi a guardia di auto abusivamente posteggiate; di rifiuti anche minimi (cartacce o mozziconi di sigarette) abbandonati sui marciapiedi; di rumori notturni (il mio aereo è atterrato in un aeroporto lontano dall’area cittadina, diverso dal previsto, perché, avendo maturato due ore di ritardo, rischiava di disturbare il sonno degli abitanti). Nei supermercati apposite macchine premiano, con buoni per la spesa, i clienti che vi depositano bottiglie di vetro o contenitori di plastica: quanto viene lasciato nei cestini dai turisti viene raccolto e riciclato da povera gente che così contribuisce, simultaneamente, a mantenersi legalmente e a mantenere l’equilibrio ecologico.  E, a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro, in macchie di verde, centinaia di spazi-gioco per bambini e ragazzini costellano l’ampia area cittadina. 
Perché da Roma in giù queste condizioni di vita risultano utopicamente irrealizzabili? Non possiamo, dopo più di settant’anni di vita democratica, insistere nell’addossare la responsabilità al papa-re o ai Borboni o a Garibaldi o ai Piemontesi...Lo scatto di dignità dev’essere, contemporaneamente, delle istituzioni e dei cittadini.  Le istituzioni devono assolutamente concordare un piano di sradicamento dell’illegalità e della a-legalità dominanti: un piano che non abbia carattere né estemporaneo (oggi sì, domani no, dopodomani di nuovo) né settoriale (oggi chi evita di differenziare i rifiuti, domani chi invade le piste ciclabili o rompe i timpani dopo la mezzanotte, dopodomani chi non paga il biglietto sul tram), ma sistemico (il prefetto dovrebbe convocare intorno a un tavolo i vertici dei vigili urbani, dei carabinieri, della polizia, dei finanzieri e stabilire delle linee di azione sinergica, per evitare lo spettacolo desolante di tutori dell’ordine pubblico che, pur assistendo per caso a infrazioni clamorose, passano oltre come se non li riguardassero minimamente).  Ci si stupisce che molti giovani non chiedano di lavorare in estate nel settore alberghiero e della ristorazione: ma sappiamo che la quasi totalità è costretta a lavorare in nero o, comunque, a firmare buste-paga inferiori al compenso effettivo? 
  Uno Stato più attento a quel bene preziosissimo che è la legalità costituzionale diventa, oggettivamente, agenzia pedagogica: i cittadini, all’inizio costretti a rispettare le norme, imparano ad apprezzarne gli effetti benefici e ciò li può indurre a interiorizzarle, costruendo una convivenza sociale basata sempre meno sul timore delle pene (certe !) e sempre più sulla convinzione etica. 
  Superfluo sottolineare l’innalzamento della qualità della vita di cittadini e turisti nel caso che una politica della legalità democratica venisse effettivamente e rapidamente attuata. Meno intuitivo, ma non minore, un altro vantaggio: che l’opinione pubblica, esasperata di sopravvivere a stento in una giungla dove i prepotenti e gli sfacciati mortificano gli onesti, possa dare credito – a livello locale o a livello nazionale - al dittatorello di turno, svendendo la propria libertà (sostanziale) in cambio di un po’ di ordine (formale).

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


lunedì 22 luglio 2019

NINO CANGEMI SU FILOSOFIA E MEDITERRANEO



20.7.2019

Il Mediterraneo è culla di civiltà e di pensiero. Da questo assunto, corroborato da diverse argomentazioni, traggono alimento le riflessioni di “Pensare sul mare tra – le – terre”, sottotitolo “Filosofia e Mediterraneo”, l’ultimo libro di Augusto Cavadi edito da Il pozzo di Giacobbe nella collana “Sponde” della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale sezione san Luigi.
La filosofia– osserva Cavadi – è nata sulle sponde del Mediterraneo “in una zona delimitata (Grecia, Asia minore e Italia Meridionale) e in un segmento storico definito (VI secolo prima di Cristo)” e si è sviluppata, nel corso dei secoli, soprattutto attorno a esso.
Vero è che negli ultimi cinque secoli il pensiero filosofico ha avuto altri epicentri, ma il Mediterraneo – dimostra Cavadi – ha continuato a essere centro di elaborazione filosofica non privo di rilievo. Al riguardo Cavadi richiama tanti filosofi “mediterranei” di acclarato spessore che nel dibattito filosofico hanno assunto posizioni non marginali, ma anche letterati (come Leopardi e Pirandello) che, secondo una concezione restrittiva della “scienza delle scienze”, non rientrerebbero nel novero dei filosofi e che invece, a detta dell’autore, ben si inseriscono tra i maestri del pensiero occidentale.
Quel che a Cavadi importa mettere in risalto in questo piccolo volume (69 pagine, 10 euro) non è tanto il primato della civiltà mediterranea su altre, ma come il pensare – libero e alieno da ogni fondamentalismo – sia in qualche modo legato al mare.
Il mare è profondità, mistero, senso dell’infinito, ma anche punto di incontro, di scambio, di interlocuzione tra civiltà diverse, e in quanto tale stimola la speculazione filosofica: non quella fine a se stessa, fatta di dogmi e di astrazioni, ma quella che si fonda sul dialogo. Da qui le stimolanti riflessioni sul ruolo della filosofia.
Cavadi, da anni consulente filosofico ed esponente della “Filosofia in Pratica”, nel contrastare ogni manifestazione astratta e autoreferenziale dei filosofi di professione, professa una forma di sapienza del pensiero che esce dai recinti tradizionali.
La filosofia non ha il fine di costruire una realtà teorica priva di agganci con la realtà, né è una disciplina riservata solo ai filosofi. Al contrario, la filosofia deve confrontarsi e misurarsi con i problemi della quotidianità, cercare e promuovere il confronto con tutti, anche con la gente comune (non stupisca perciò come le attività di consulenza filosofica si svolgano persino nei luoghi di reclusione).
La nuova frontiera della filosofia, quella della “Filosofia in Pratica” – che peraltro ha radici lontane, si pensi soprattutto a Socrate –, pone di nuovo in primo piano il Mediterraneo. Gran parte dei filosofi in pratica provengono da aree geografiche vicine al Mediterraneo.
Qual è l’impegno che la “Filosofia in Pratica” assume oggi, primo tra tutti? Far tornare il Mediterraneo, oggi centro di conflitti epocali e di spargimenti di sangue, luogo di mediazione tra culture differenti, campo base, alla stregua del passato, di civiltà fecondatrici del pensiero libero.
Sì, perché, come scrive Franco Cassano (e la frase è riportata nella quarta di copertina), “Il Mediterraneo sottolinea il valore della pluralità: nessuna forma di vita è più vicina delle altre alla perfezione. Nessuna tradizione può imporsi alle altre. Il primo comandamento mediterraneo è: tradurre le tradizioni, far sì che gli uomini diventino amici nonostante le differenze, ma anche grazie ad esse”.




domenica 21 luglio 2019

AGNES HELLER. IN MEMORIA DI UNA DONNA FORTE



Come molti della mia generazione, ho letto alcuni testi della Heller e li ho più volte richiamati nei miei scritti. Spero che se ne sia andata serenamente e, soprattutto, che il suo insegnamento non venga dimenticato almeno sino a quando risulterà necessario.

Da una e-mail del mio amico Germano Federici:
"Leggo sul sito di la Repubblica che è morta Agnes Heller.
Io non l'ho mai studiata in modo approfondito, ma ho avuto modo di incrociare una piccola parte del suo pensiero quarant'anni fa, quando con amici atei e un solo prete affrontammo il tema delle disuguaglianze nella società contemporanea.
Ricordo che l'analisi della Heller concludeva per una distinzione tra bisogni radicali, assolutamente da soddisfare se non si voleva la morte di un uomo (ho bisogno di pane per non morire di fame) e quelli secondari (voglio un'auto, anzi, un SUV, anzi, una Ferrari, anzi....), che la filosofa qualificava come quantitativi (per distinguerli dai primi), impossibili da soddisfare in linea di principio, perché senza limiti. Ricordo che allora noi, credenti e atei, concordammo che i bisogni primari erano quelli ben indicati in Mt 25, 31-46 e sul fatto che uno stato moderno avrebbe dovuto anteporre la difesa dei bisogni primari a quella di qualsiasi altro. Sostenevamo, ad esempio, che sarebbe stato lecito consentire a chiunque di avere una seconda casa, solo quando tutti, ma proprio tutti, a livello globale, avessero avuto la prima. Quando se ne parlava con esterni al gruppo, anche di sinistra, ci guardavano con lo stupore in viso di chi osserva un imbecille. Morirò tale, pur nelle contraddizioni personali".

***

Da un'intervista a Andrea Tarquini su "Repubblica":
Sopravvissuta ad Auschwitz, perseguitata sotto il comunismo, poi estromessa dall'università e diffamata dal regime sovranista di Viktor Orbán, Agnes Heller è stata per generazioni, nel secolo scorso e in questo secolo, la massima grande damee il cervello di punta del pensiero critico e della sfida lucida e senza paura a ogni totalitarismo e ad ogni autocrate. Da poco aveva compiuto 90 anni, era sana e lucida, vivacissima e pronta a nuovi eventi pubblici, anche in Italia. È andata a fare una nuotata nel lago Balaton ma non è tornata, gli amici l'hanno attesa invano a riva poi la polizia ha trovato il suo corpo. Forse arresto cardiaco, l'annegamento è probabile.
          
"Io ormai non ho piú paura per me, se non sono riusciti a eliminarmi nella fabbrica della morte nazista né a farmi tacere sotto l'impero sovietico, non ci riusciranno neanche i sovranisti. Ma ho paura per il mondo, per adulti e giovani di oggi e di domani", mi disse nel nostro ultimo colloquio nella sua semplice abitazione in riva al Danubio, chiaccherando vivacissima e offrendomi gentile un whisky. "Ho paura per le nuove generazioni, perché i sovranisti, come Orbán da noi, Kaczynski in Polonia, o i loro alleati in Italia e Francia, sono adesso alleati insieme per conquistare l'Europa ed estirparne i valori democratici e l'abitudine a decenni di pace. Ma il loro successo si basa su nazionalismi feroci e aggressivi, che domani potrebbero facilmente divenire contrapposti. E allora un rischio di guerre in Europa, per la prima volta dalla fine delle guerre balcaniche iniziate da Milosevic, potrebbe divenire concreto, reale, minaccioso".


Dal blog www.augustocavadi.com

sabato 20 luglio 2019

L. GALLINO SUL TRAMONTO DELLE SINISTRE IN OCCIDENTE

Per gli italiani (di destra, di centro e di sinistra) che amano le urla in piazza e gli insulti sul web, questo post è superfluo. Chi invece intende informarsi, riflettere e capire può elevare la prospettiva sino a un'altezza da cui Berlusconi, Renzi, Di Maio e Salvini appaiono nelle loro effettive dimensioni microscopiche. Devo la segnalazione di questo articolo di quattro anni fa all'instancabile mio amico Elio Rindone.
La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo
 di
Luciano Gallino, da "Repubblica", 27 luglio 2015

Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”. 

Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa. 

Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali. Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la superiorità fuor di discussione del libero mercato; la categorica riduzione del ruolo dello Stato a costruttore e guardiano delle condizioni che permettono la massima diffusione dell’uno e dell’altro.

Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi. Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine, ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe) quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».

Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi. Ai tempi della presidenza Reagan (1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica, furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris. I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps, intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.


Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore), Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.

Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia. Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky. Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica economica della UE contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia — come ha dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi, poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino. La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia, in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.

La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni. I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com, glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.

Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE. 

Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare». Al fiume di pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti.

Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica, civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici, basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento; dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della privatizzazioni?

Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti, funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.

(27 luglio 2015)

Luciano Gallino
Ripubblicato su www.augustocavadi.com

venerdì 19 luglio 2019

SUL VOLONTARIATO OGGI: REPORT DI UN WEEK-END

Che senso ha il volontariato oggi? Quali requisiti sarebbero opportuni in un operatore volontario per evitare che la sua azione faccia più male che bene? Su queste tematiche la Fattoria sociale “Martina e Sara” di Bruca (Trapani), in collaborazione con le associazioni palermitane “Il parco del sole” e “Scuola di formazione etico-politica <<G. Falcone>>, ha organizzato un WEEK-END FORMATIVO TEORICO E PRATICO nei giorni del 13-14 luglio 2019.
Come accade per le nostre esperienze più intense, vorremmo tenerle per noi – “custodirle nel cuore” – nella certezza che nessuna narrazione può restituire l’atmosfera, il clima psicologico e affettivo, che si sono quasi magicamente creati. Ma Massimo Messina mi chiede di lasciare una traccia scritta dell’evento e ai presidenti non si può dire di no senza gravi motivazioni oggettive (specie nel giorno del loro compleanno !) . Dunque, provo a delineare qualche pennellata.
Mario Mulé  e Giovanna Bongiorno, nell’accogliere gli ospiti, hanno ricordato di aver costruito questa Fattoria sociale (che mettono gratuitamente a disposizione delle persone interessate) per promuovere tre “beni comuni” che lo spirito del capitalismo più bieco minaccia di rovinare irreversibilmente: la terra, la vita in tutte le sue manifestazioni, l’umanità nella sua uguaglianza di base e nelle sue differenze storiche.  Il primo incontro l’ho introdotto io stesso evidenziando le tre dimensioni del volontario: motivazioni etiche, preparazione professionale, consapevolezza politica. A proposito della dimensione etica (o motivazionale) si è sottolineata la differenza fra  “fare” volontariato (per qualche ora la settimana in un tratto circoscritto dell’esistenza) “essere” volontari ( assumendo un atteggiamento responsabile e solidale nei confronti della società che ci contraddistingua permanentemente). A proposito della dimensione culturale (o della professionalità) si è evidenziata la necessità di acquisire un alfabeto minimo trasversale (almeno in psicologia, pedagogia e sociologia) che consenta agli operatori di capirsi reciprocamente. A proposito, infine, della dimensione politica (o della progettualità a lungo termine) si è sottolineatala necessità di chiedersi per quale tipo di “polis” (= città) si stia lavorando e come si possa interloquire criticamente con le istituzioni. 
        Dopo una breve pausa per il caffè è stata la volta del duo (affiatatissimo) Lilla Graci e Adriana Saieva che, alternando giochi e testimonianze, hanno suggerito di curare il “linguaggio-io” quando ci si rapporta a ragazzini difficili (ad esempio: evitando di dire “tu sei un monello che deve smettere di fare lo sgambetto ai compagni quando ti passano vicino” e, invece, dicendo: “quando tu fai lo sgambetto a un compagno, lui rischia di farsi male ed io sono molto preoccupata che ciò accada”). Lilla ci ha fatto giocare in vari modi per insegnarci come poter intrattenere i ragazzini nei momenti in cui non sono impegnati nello studio pomeridiano.
La cena condivisa (con ciò che ognuno ha voluto mettere sulla tavola a disposizione di tutti) è stata gradevolissima e si è conclusa con un passeggiata e un gelato nella bella e animata (anche di notte) Castellammare del Golfo. 
Dopo la colazione del mattino (offerta dalla Fattoria sociale, come d’altronde il pranzo successivo) ci siamo regalati mezz’ora di silenzio per una meditazione comunitaria sul tema Cosa posso fare io, qui e ora ? , completata dalle considerazioni che ognuno ha voluto offrire come risonanza personale al gruppo. Massimo Messina ha infine coordinato (prima del pranzo finaleuno scambio di idee su cosa proporre ai pre-adolescenti che frequentano il S. Giovanni Decollato nel prossimo anno sociale. E’ opinione condivisa, infatti, che il doposcuola non possa esaurire la strategia educativa di cui hanno immenso bisogno dei ragazzini che vanno sensibilizzati anche a quei valori estetici, etici, sociali, culturali che  l’ambiente in cui vivono (scuola compresa)  non riesce a coltivare in misura adeguata.
Prima di lasciare la Fattoria sociale i partecipanti sono stati invitati, come di solito, a versare anonimamente in una scatola un piccolo contributo (anche solo simbolico di 1 euro) per finanziare qualche attività sociale: in questo caso la somma raccolta  (142,00 euro) era destinata all’associazione “Il parco del sole” che si occupa dei minori a Ballarò. Per riprendere e approfondire alcune tematiche toccate sono stati consigliati due testi: C. SCORDATO, Uscire dal fatalismo. Un’esperienza di pastorale del “risanamento”, Paoline, Milano 1991  e A. CAVADI, Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003.
Come suggerito da qualche volontaria presente, si tratta adesso di non scoraggiarsi nel constatare la distanza fra questo modello di volontariato e ciò che accade nella quotidianità delle nostre associazioni; bensì di impegnarsi, pazientemente e gradualmente, affinché la distanza fra il modello ideale (utopico) e la pratica effettiva si accorci sempre più. Infatti, continuare a lavorare con generosità ma senza criteri meditati e condivisi non avrebbe senso: significherebbe sprecare tempo e energie preziose, riducendo al minimo i vantaggi dei ragazzini e talvolta addirittura danneggiandoli.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 17 luglio 2019

A PALERMO RIPARTONO GLI ITINERARI DELLA LEGALITA'

Il 10 Luglio 2019, presso il palazzo Comitini di Palermo, è stata presentata la Quarta edizione degli “Itinerari di legalità. Percorsi di riflessione e consapevolezza sulle condotte antisociali”,  organizzata dall’ Ufficio Interdistrettuale  di Esecuzione Penale Esterna in collaborazione con l’ Associazione “Idea e Azione”. La Dirigente dell’Ufficio, Marina Altavilla, ha chiesto di ospitare il suo intervento su questo blog per far conoscere l’iniziativa a un pubblico un po’ più ampio. Acconsento volentieri ringraziandola anche della citazione (inaspettata). 
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“In questi tre anni evidenzio la positività dell’esperienza che ha reso possibile all’ Ufficio di esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia di sperimentare una nuova modalità di interazione con i soggetti in carico, sottoposti a provvedimento dell’ Autorità Giudiziaria,  sviluppando azioni che costruiscono percorsi di riflessione comune dove lo scambio e il confronto diventano strumenti di cambiamento e di crescita. 
Quest’anno l’azione progettata è finalizzata ad accentuare gli aspetti positivi delle pregresse esperienze aggiungendo ulteriori elementi di novità quali piéce teatrali,riflessioni guidatevisite guidate,laboratoricortometraggi. E’ intento dell’ Ufficio evitare  di realizzare soltanto momenti poco sentiti, retorici,   come ha ben evidenziato il noto filosofo palermitano Augusto Cavadi, a proposito delle continue proposte di educazione alla legalità rivolte ad allievi delle scuole elementari e medie o superiori, rilevando l’insofferenza degli alunni a ogni proposta del genere. Come egli sostiene, “i princìpi valoriali e comportamentali in una comunità devono essere ‘scoperti’ (o ‘concordati’ ) in un assetto di riconoscimento reciproco della dignità di esseri umani pensanti”. E quindi la metodologia da realizzare  è quella della  “reciprocità comunicativa”. Oggi il percorso progettuale si apre su un tema - “la Pace” - che  a livello generale può sembrare un molto ampio, difficile da affrontare. La  scelta odierna  è di usare poco le parole e di fare parlare le immagini:  in questo senso ci aiuterà la visione della mostra di Charley Fazio “La bellezza ritrovata” presso il palazzo Sant’Elia, proprio  qui di fronte. 
    Chiuderei come spunto di riflessione una frase del monaco zen vietnamita Tich nath Hann, che ha vissuto la guerra nel Vietnam, dal libro intitolato La Pace è ogni passo. In esso egli chiarisce che la pace non è qualcosa di esterno che bisogna inseguire o conquistare: vivere in consapevolezza, rallentare i ritmi, godere di ogni attimo e di ogni respiro è sufficiente. Essere consapevoli dei rapporti con gli altri e della realtà del mondo intorno a noi con la sua bellezza, il suo inquinamento e le sue ingiustizie.
 La pace è già presente in ogni passo e, “se camminiamo con questo spirito, ad ogni passo ci spunterà un fiore sotto i piedi e i fiori ci sorrideranno davvero augurandoci buon viaggio”. 
Faccio mio quindi l’augurio di buon viaggio a tutti voi.
                                                          Marina Altavilla

domenica 14 luglio 2019

LA BELLEZZA PUO' CURARE IL DOLORE ?

Invitato la scorsa estate da un gruppo di studiosi e operatori sanitari (medici e psicologi), ho svolto - in occasione della mostra Where beauty softens your grief del fotografo Gianni Cipriano ospitata nella cripta della chiesa di san Matteo al Cassaro (Palermo) - una conversazione sul tema della morte.
Gli interventi dei vari ospiti del gruppo "L'Acrobatica del morire" (tra cui, insieme a oncologi, medici palliativisti, geriatri, psicoterapeuti, anche storici dell'arte, teologi, esperti in cultura visuale) sono stati  raccolti in un volume gradevole di 194 pagine. 
Qui di sotto il mio contributo (non senza un cenno di gratitudine per i cari Nuccio Pepe e Roberto Garofalo, medici quotidianamente disponibili ad accompagnare i pazienti nell'ultimo miglio).

Gruppo l’Acrobatica del morire (ed.)
Quando la bellezza cura il dolore.
Vivere il morire nella società contemporanea,
Mimesis, Milano – Udine 2019, pp. 49 - 53 

                       INTERPRETAZIONI DELLA   MORTE
                                        

Consapevole o irriflessa

           Comunemente si suppone che gli esseri umani possano dividersi in due grandi categorie: chi è troppo impegnato a vivere per farsi un’idea della morte (e di ciò che ne è di noi, dopo) e chi, privilegiato, può concedersi il lusso di fare filosofia (o letteratura o cinema o pittura…) sulla morte. Ma è davvero così? La mia esperienza di “filosofo di strada” che ha frequentato, e in molti casi frequenta, luoghi poco raccomandabili come i pub, le osterie, le carceri e addirittura i licei, attesta il contrario: la differenza non è tra chi ha e chi non ha una propria interpretazione del morire e della morte, bensì fra chi (istruito o meno) ha elaborato consapevolmente un’idea in proposito e chi (istruito o meno) si accontenta di averne una irriflessa, ereditata passivamente dall’ambiente familiare e sociale. 
          Incontri come questo dovrebbero servire agi uni e agli altri: ai primi per confrontare con altri la propria concezione consapevole, agli altri per iniziare un cammino di informazione, di meditazione, di ricerca dialogica verso un’idea di morte più personale, più critica. Il compito che mi assegno, come filosofo-consulente, è di offrire una prima panoramica di prospettive sulla morteproposte sinora, lungo i millenni, sul nostro pianeta. Il ‘gioco’ di queste due ore starebbe nel verificare se, per caso, qualcuno di noi si identifica  - più o meno – in una di queste prospettive e, nel caso in cui non si riconoscesse in nessuna, nel provare a schizzare almeno per sommi capi la propria interpretazione.
         Se la sessione riuscirà il merito sarà, ovviamente, di quanti accetteranno di mettersi in gioco, senza timore di esprimersi poco correttamente o un po’ confusamente; ma anche di quanti avranno partecipato con un ascolto attento, recettivo, soprattutto rispettoso del dono altrui.

La morte censurata
      Un primo atteggiamento, attestato da singole personalità o da più ampie civiltà, potremmo definirlo di elegante censura di questa  tematica. Di Buddha, nell’Antico Oriente, si racconta che glissasse con un sorriso le domande sul destino ultraterreno dell’uomo: perché pronunziarsi su ciò che ignoriamo inesorabilmente? Anche Pascal, all’inizio dell’epoca moderna in Europa, osserva che, nell’apparente stoltezza della  frenesia delle nostre giornate zeppe di impegni indispensabili e di impegni superflui, si nasconde una saggezza quasi istintiva: non sapendo rispondere alle questioni esistenziali, preferiamo evitare l’angoscia inventandoci tutte le occasioni per non pensarci.
 Nel nostro tempo altri pensatori, come Wittgenstein, hanno ribadito l’opportunità di non dedicarsi a sciogliere enigmi che vanno oltre i nostri strumenti scientifici: possiamo parlare di ciò che vediamo e misuriamo; su ciò, di cui non possiamo parlare sensatamente, è meglio tacere. Non sarà un tacere soddisfatto né tanto meno arrogante; sarà una sorta di silenzio mistico; comunque, in ogni caso, un tacere. 

La morte denudata
      Non tutti i mortali riescono a evitare di porsi domande meta-fisiche. Alcuni di questi, poi, ricavano dalle ipotesi sulla morte motivi di terrore. Da qui l’invito di Epicuro a denudare la morte, a toglierle qualsiasi parvenza di minaccia: infatti, a ben pensarci, non la incontreremo mai. Sino a quando ci siamo noi, essa non c’è; quando arriverà, saremo noi a non esserci più. Essere vivi significa sentire e avere coscienza: se sentiamo e pensiamo, la morte non c’è; se c’è, noi non potremo averne coscienza né dunque soffrirne. La filosofia può dunque liberarci radicalmente dal timore della morte: “nulla c’è di temibile nel vivere per chi sia veramente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più”.

La morte come ritorno al Nulla (vuoto)
       Forse non vedremo faccia a faccia la morte, ma essa non è un momento isolato: è piuttosto l’esito di un percorso. Sperimentiamo il morire come perdita di forze, di salute, di affetti, di relazioni…ogni giorno. Non possiamo fare finta che la morte non sia il risvolto quotidiano della vita, che ogni passo in avanti sulla terra non sia un passo verso la tomba. Se siamo nichilisti, dobbiamo avere il coraggio di accettare che il nostro traguardo sia – appunto – il niente (nihil). Come ci ricorda Edgar Morin, pensatore vivente, questa prospettiva può renderci disperati e, dunque, egoisti e malvagi; ma può anche renderci solidali con il resto dei mortali, sensibili e generosi. E’ anche la lezione de La ginestra di Giacomo Leopardi: la consapevolezza dell’intrinseca mortalità del cosmo e, in esso, dell’uomo provoca “orrore”, ma proprio questo orrore “per primo/ contro l’empia natura/ strinse i mortali in social catena”.

La morte come annichilimento e ri-creazione
       Può darsi che con la morte il nostro essere si disintegri completamente: ma perché escludere che, dopo poco o molto dal nostro decesso, lo stesso Principio che ci ha chiamato alla vita ci possa ri-creare una seconda volta? Alcuni filoni della tradizione ebraica, condivisi da alcune comunità cristiane delle origini, l’hanno supposto: il Dio dei viventi può abbandonare nelle tenebre del nulla i figli degeneri che hanno sprecato la prima occasione, ma perché non dovrebbe ri-chiamare, ri-svegliare, i figli fedeli che si sono impegnati seriamente per l’avvento del “regno di Dio” in terra?  Gesù sarebbe il “primogenito”, il prototipo, di questi mortali riscattati dalle tenebre definitive e restituiti a una seconda, nuova, vita (ben più intensa della vita biologica e psichica sperimentata in terra).

La morte come guarigione 
      Ma siamo così sicuri che con la morte si disintegri tutta la nostra persona? O non si spezza il bozzolo che ci tiene prigionieri (il nostro corpo) sì da consentire al nostro “io” autentico (la nostra anima) di prendere il volo come una farfalla ? Molte tradizioni religiose lo sostengono e Platone, nell’Antica Grecia, ha ripreso questa teoria. La morte, dunque, non avrebbe nulla di temibile: sarebbe, anzi, da attendere come guarigione da quella malattia che è la vita terrena. Socrate, il suo maestro, testimoniò questa convinzione chiedendo, nelle ultime ore, di “sacrificare ad Asclepio un gallo” per ringraziare il dio della medicina per la sua guarigione ormai imminente. Se abbiamo vissuto bene, resteremo per sempre nel mondo celeste, forse anche in piacevoli conversazioni con i saggi e i giusti di tutte le generazioni; altrimenti ci re-incarneremo per avere un’ulteriore possibilità di purificazione nel corso di un’altra esistenza terrena.


La morte come ritorno all’Origine (piena) 
      La nascita, la morte, la ri-nascita (metempsicosi) sono avvenimenti che ci sembrano reali (tanto è vero che gioiamo alla nascita di un neonato e piangiamo alla morte di una persona cara): ma lo sono davvero? Qualcuno, da Parmenide sino ai nostri giorni, risponde: no. Certo i sensi ci attestano che qualcosa non era e poi è; e che è e, poi, non è più. Ma la razionalità ci insegna che dal niente non può venire qualcosa che è,  né qualcosa che è può tornare al niente. Dunque nascita, vita, morte sono solo movimenti superficiali, apparenti, dell’unico immenso oceano che è l’Essere: in realtà siamo sfaccettature dell’unico poliedro. Nascere significa tentare l’avventura illusoria della separazione dal Tutto: morire significa ritornare pienamente all’Origine. Come si esprime un pensatore contemporaneo, Emanuele Severino, “le cose del mondo non sorgono dal nulla e non vi tornano, ma procedono dall’unità divina e a essa ritornano”: “è appunto in questo Circolo che va dal Dio e a lui ritorna che il mondo e l’uomo hanno in sé stessi uno scopo e un senso”. 

Nell’attesa della morte
       Ho accennato solo ad alcuni scenari prospettati dall’umanità sino ad oggi. Ognuno di voi avrà già intuito che ognuna di queste ottiche si articola, poi, al proprio interno in svariate versioni: forse tante quanti siamo gli esseri mortali sinora apparsi sulla faccia del pianeta. Quale di queste si avvicina maggiormente a ciò che ci attende davvero? 
        Tra non molto tempo (speriamo moltissimo, almeno per i più giovani di noi) l’enigma si risolverà: o perché nessuno di noi sarà più in grado di porselo o perché sperimenteremo direttamente come stanno le cose. (A meno che non abbiano ragione quei re-incarnazionisti secondo i quali ritorneremo nel mondo in altri corpi, ma totalmente dimentichi della vita precedente: in questa ipotesi, infatti, saremo - punto e capo – nuovamente in preda al dubbio).
        Nell’attesa della morte poche cose sono certe. 
        La prima: che la riflessione sulla morte è sintomo della nostra dignità. Forse le greggi dei pastori erranti per l’Asia hanno meno occasioni di angoscia di noi: ma anche nell’angoscia, accettata consapevolmente, c’è una grandezza morale che può gratificarci. 
        La seconda: che la riflessione sulla morte, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, porta a valorizzare maggiormente la vita. A capire, per riprendere un anonimo saggio orientale, che è importante sapere se c’è vita dopo la morte, ma ancora più importante sapere se ce n’è prima della morte. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


Per approfondire la tematica consiglierei volentieri tre testi miei in circolazione: 

          Per fidanzarsi (se non la si è mai studiata) , o ri-fidanzarsi (se si sono rotti i ponti dal tempo del liceo), con la filosofia: E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Di Girolamo, Trapani, pp. 188.
          Per tematizzare un po’ meglio le prospettive sulla morte cui ho accennato in queste pagine: Andarsene. Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui, Diogene Multimedia, Bologna, pp. 96.
          Per inquadrare la tematica della morte nel più ampio orizzonte di ciò che può suggerirci la filosofia come spiritualità “laica”: Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna, pp. 357.