venerdì 19 gennaio 2007

IL CASO WELBY VISTO DA POHIER


“Centonove” 19.1.07

LA MORTE OPPORTUNA

Quante migliaia di persone muoiono ogni giorno di morte violenta, evitabile, scandalosa? Tra bambini, adulti e vecchi privi di cibo e di acqua, di medicine e di mezzi per riscaldarsi; tra vittime del terrorismo fanatico di alcune frange minoritarie e del terrore sistemico da parte di governi democraticamente eletti; tra vittime di incidenti stradali e di litigi privati…la contabilità è difficile. Ci siamo assuefatti a queste morti inutili, insensate, ma almeno se ne parla. Di un numero non certo inferiore di decessi silenziosi, invece, si tace. Specie nei paesi occidentali, si allunga la durata della vita (e nessuno si sogna di rimpiangere questi progressi della medicina): ma, con essa, la durata della vecchiaia anche in condizioni di incoscienza, di totale dipendenza e persino di sofferenza fisica. Sommati agli ammalati di varie forme di tumore, questi degenti sepolti nelle case e negli ospedali costituiscono una massa enorme e crescente da cui i ‘sani’ preferiamo distogliere l’attenzione. Ogni tanto un grido di disperazione, come l’appello di Piergiorgio Welby in questi giorni, prova a squarciare il velo dell’indifferenza: ma è questione di qualche ora soltanto.

Questa marea di dolore sommerso pone invece interrogativi pressanti: perché in Italia sono ancora pochissimo usati i rimedi farmacologici antalgici? Perché tanta incertezza sulle varie forme di accanimento terapeutico? Perché i medici sono abbandonati, culturalmente e legislativamente, alla solitudine della loro responsabilità davanti ai pazienti che chiedono di interrompere l’agonia?
Proprio perché si tratta di domande di rilievo sociale ben più ampio rispetto alle categorie professionali degli operatori della sanità, molto interesse ha riscontrato la decisione della “Società italiana per le cure palliative” di aprire con una tavola rotonda pubblica il congresso (Palermo 30 novembre – 2 dicembre) dedicato a fare il punto sulla situazione siciliana e a confrontarsi con gli amministratori regionali. Con i partecipanti (medici e psicologi, ma anche teologi e filosofi) la discussione – più che su un tema circoscritto – si è srotolata a trecentosessanta gradi su un ampio ventaglio di problematiche scottanti: a partire da alcuni dati di fatto e da alcuni pregiudizi da sfatare. Tra i dati di fatto: la prima legge istitutiva di strutture sanitarie (i cosiddetti hospice) in Italia è stata emanata, con decenni di ritardo rispetto ad altre nazioni europee, solo nel 1999 e tuttora la sua attuazione è parziale. In Sicilia siamo ancora ai primi - lodevoli ma insufficienti rispetto al crescente bacino di utenti - passi. Anche nella pratica medica quotidiana prevale la resistenza al ricorso (per altro recentissimamente raccomandato dal Ministro della Sanità) agli analgesici leggermente o fortemente oppiacei. Quanto all’eutanasia, anche questa viene affidata ipocritamente all’iniziativa clandestina di medici, infermieri o familiari. Se poi si cerca di capire cosa stia alla base di tanta reticenza, si scopre l’incidenza distruttiva di quella “teoria implicita del dolore” (l’espressione è di Jacques Pohier nel suo preziosissimo La morte opportuna, Avverbi, Roma 2004) che, per una miscela perversa di equivoci ideologici, lo fa ritenere ad alcuni spiritualmente edificante, ad altri clinicamente utile per seguire il decorso delle patologie. Proprio su questo fronte dei pregiudizi culturali i formatori d’opinione (dagli insegnanti nelle scuole ai giornalisti, dai preti ai medici di base) avrebbero molto campo da arare. A cominciare dal chiarimento dei termini: le cure palliative non sono illusorie, ma curano davvero i sintomi delle malattie reali. E non costituiscono “tutto ciò che si può fare quando non c’è più nulla da fare” perché possono non solo subentrare alle cure terapeutiche, ma anche accompagnarle per lenirne gli effetti collaterali indesiderati. Affinché questa rivoluzione mentale si attui, la strada è tutta in salita: non c’è solo l’insensibilità dei medici (nel cui curriculum di studi è quasi sempre assente la terapia del dolore), ma l’ineducazione dei pazienti (disposti a sopportare passivamente gli effetti negativi dell’impreparazione dei medici).
Non c’è dubbio che il dissenso fra le varie prospettive scatta soprattutto quando ci si interroga sui casi estremi di richiesta, da parte di un soggetto in grado d’intendere, di porre fine alle sue sofferenze mediante o l’eutanasia o l’assistenza medica al suicidio. L’autore francese (teologo e psicanalista, oltre che militante del movimento “per il diritto ad una morte dignitosa”) che ho appena citato segnala, in proposito, alcune considerazioni che meriterebbero d’essere riprese e diffuse. Una prima considerazione parte dall’obiezione corrente che il giuramento d’Ippocrate vieterebbe, dal punto di vista deontologico, al medico di favorire la morte del paziente. Ma, “prestandosi a un’eutanasia volontaria, il medico non tradisce la sua vocazione di servire gli esseri viventi (…) perché non prende alcuna decisione in materia di vita o di morte. Il suo ruolo si limita - tale verbo non si addice a un ruolo così importante – ad aiutare il malato a vivere nel miglior modo possibile la sua scelta tra differenti modi di morire” (pp. 128 – 129).
Altre due considerazioni riguardano l’opinione che un credente della tradizione ebraico-cristiana debba condannare ogni autodeterminazione del malato, anche in senso estremo, come bestemmia teologica. Ma – controbbatte Pohier - non è san Tommaso d’Aquino, il teologo ufficiale della chiesa cattolica, a scrivere che l’uomo è immagine di Dio in quanto “dotato di intelligenza, di libero arbitrio e di dominio sui propri atti” (p. 19)? E – poi – non è stata proprio la Bibbia a desacralizzare il culto generico della “vita” (in polemica con le religioni della fecondità umana, animale e vegetale) sostituendovi la cura dei singoli, unici, irripetibili “viventi” (perché ogni persona è “santa” ed “amata da Dio”)? Se ciò è vero, si capisce perché il pensatore umanista Thomas More (per altro proclamato martire e santo) trovasse logico prevedere, nella sua città ideale, che “sacerdoti e magistrati” potessero esortare un paziente “inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a sé stesso”, a non “sopravvivere alla propria morte”, ma a “liberarsi lui stesso da quella vita amara” ovvero a “consentire di sua volontà a farsene strappare gli altri” (cfr. p. 179). O perché il poeta romantico Rainer Maria Rilke non ritenesse di porsi fuori dall’alveo della tradizione cristiana quando chiedeva: “Concedetemi di morire della mia morte, non della morte dei medici”. Solo se si evita di trasformare alcune malattie in una lenta agonia, e ogni agonia in maledizione, quando sarà il nostro turno potremo accogliere la morte non certo con entusiasmo, ma almeno con serenità.

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