Dopo il nostro decesso: entriamo in una nuova dimensione o perdiamo l'illusione di essere individui?
Non c'è bisogno di essere dei filosofi di mestiere per interrogarsi sull'enigma del male, del dolore, della sofferenza: l'unica differenza è che il filosofo di professione si interroga spesso, le altre persone raramente. Ma ciò non garantisce che i filosofi vedano più a fondo.
Una domanda preliminare è se il male sia un dato oggettivo o se si tratti di un falso problema. Da almeno due secoli in Occidente - come da millenni in Oriente – si tende a negare il confine tra il bene e il male. Nel Tutto ogni evento ha un senso, una ragion d'essere, una funzione: dunque può considerarsi, nella peggiore delle ipotesi, un male relativo (relativo a qualcuno), non certo un male in sé (in assoluto). Il terremoto è un male per le poche migliaia di umani che restano sepolti sotto le macerie, ma in sé è un benefico (o per lo meno inevitabile) assetto geologico. Senza le malformazioni genetiche di tanti neonati non sarebbe stata possibile, e non sarebbe possibile nel presente, l'evoluzione della nostra specie. Senza la morte di tutte le generazioni precedenti, la nostra non avrebbe avuto spazio per nascere e vivere. E così via.
Devo confessare che queste prospettive – per quanto logiche – non mi convincono. Sono lieto se - per il Tutto, per l'equilibrio geologico, per l'evoluzione biologica...- il male non costituisca problema. Ma si dà il caso che io non sia il Tutto. Il male relativo, irreale per il Tutto, è realissimo per me che sono solo una parte. Avverto una sofferenza insopprimibile se so di persone sepolte sotto le macerie di un terremoto; se mi nasce un figlio down; se penso di dover prima o poi morire.
E' nota la terapia per questo genere di sofferenze (rese tanto più dolorose dalla incapacità di decifrarne un qualsiasi senso): tu ritieni di essere una parte in qualche modo distinguibile dal Tutto, ma è solo un tuo errore. Liberati dall'illusione di essere qualcosa – o addirittura qualcuno – e sradicherai (almeno intellettualmente) ogni fondamento alla domanda sul male.
Francamente, però, questa terapia non mi riesce convincente. Che io sia imparentato, in quanto essente, con ogni altro essente all'interno di un Intero che ci precede, di abbraccia e ci trascende è verissimo: ma questa parentela è identità assoluta o anche differenza?
Personalmente propenderei per dare credito all'autocoscienza che implica la certezza, o almeno il presentimento, di essere qualcosa di altro rispetto allo sconfinato mare degli essenti: qualcosa di unico, di originale. Di essere un 'io' marcato dalla differenza rispetto al non-io. In questa ipotesi ho diritto di considerare un male (sia pur relativo, sia pur minimale, sia pur limitatissimo) l'esser destinato a perdere questa individualità inconfondibile.
Ma anche se mi sbagliassi – anche se l'autocoscienza fosse fallace perché non esiste alcuna soggettività individuale (personale) – sarei per questo esente dal male? Ritengo di no: il male di cui sarei affetto sarebbe proprio l'illusione di essere un “io”.
Insomma, la Natura in entrambe le ipotesi gioca un brutto scherzo perché condanna a ritornare nell'Indistinto un ente che o è davvero un novum, un inedito, o è stato condannato dall'evoluzione a concepirsi – infondatamente – come tale.
Allo stato attuale della mia riflessione non vedo che due sole vie d'uscita per assolvere la Natura dall'accusa (antropomorfica!) di sadismo.
PER COMPLETARE LA LETTURA, BASTA UN CLICK:
https://www.zerozeronews.it/langoscia-della-morte-e-lillusione-dellio/