mercoledì 7 giugno 2023

FEDERICA MANTERO OFFRE UNA SUA SINTESI DI GIBILROSSA 2



‘Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore.’
Questa famosissima citazione di Calvino mi permette di descrivere accuratamente la seconda edizione del festival della filosofia a Gibilrossa.
Quando pensiamo ad un festival della filosofia a volte immaginiamo dibattiti complessi e argomenti difficili da comprendere o, ancora peggio, discussioni teoriche astratte che non hanno rilevanza pratica nella vita quotidiana.
Nulla di tutto ciò: questi giorni trascorsi insieme sono stati una celebrazione della conoscenza, della fratellanza e della leggerezza. Abbiamo avuto l'opportunità di ascoltare persone appassionate, partecipare a dibattiti interessanti e condividere le nostre idee senza limiti.
✨ Siamo grati a tutti i relatori (Augusto Cavadi, Trizzi Ri Donna, Giorgio Gagliano, Stefano Maltese Campane Tibetane, Jan Mariscalco, Giuseppe La Face) che hanno condiviso le loro conoscenze, la loro passione e la loro umanità e a tutti i partecipanti che hanno contribuito con le loro voci uniche. Questo festival è stato un tributo alla ricchezza delle idee e alla diversità di opinioni in un mondo che sembra prediligere il pensiero unico.
Siamo grati ai nostri amici Paola Tuzzolino, Luigi Benincasa, Adriana Saieva, Augusto Cavadi: senza il loro sostegno e il loro affetto, questo festival sarebbe ancora un’idea.
Siamo grati ai miei genitori Salvatore Mantero e Catia Marino che credono nella condivisione e permettono a questo luogo di sopravvivere così meravigliosamente.
🤝 Speriamo che le connessioni che si sono formate qui continueranno a crescere e a ispirare futuri dialoghi. Che queste discussioni si diffondano nella nostra quotidianità, portando consapevolezza e una maggiore comprensione reciproca.
🌟 Insieme, possiamo continuare a coltivare la filosofia come strumento per affrontare le sfide dell'umanità e promuovere un mondo più inclusivo e giusto.
Grazie ancora a tutti voi per aver reso questo festival indimenticabile!

Federica Mantero

(qui un po' di foto e di video):

https://www.facebook.com/manteffe/posts/pfbid02Tr4cRq761QArsnLn3h7sbr6aBRzPTBtt2nLwkYFg6mNghNJhLerN3A4moFQSJAHol?notif_id=1686147532861322&notif_t=feedback_reaction_generic&ref=notif 

domenica 4 giugno 2023

LA FELICITA' (PARZIALE E TRANSITORIA) SI CONQUISTA O SI ACCOGLIE?




LA FELICITA’ SI "CONQUISTA" O CI SI "DISPONE  AD ACCOGLIERLA"?

 

Almeno dal 1776 (anno in cui, nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, all'articolo 1 la felicità è stata qualificata come un “diritto innato e inalienabile”), si sono moltiplicati i corsi, i seminari, le conferenze, i manuali su come raggiungere la felicità. A tanto investimento intellettuale non pare abbiano corrisposto risultati proporzionati. Anzi, per dirla con franchezza: la felicità, negli spazi individuali e ancor più nei collettivi, scarseggia. Che non ci sia, allora, qualche errore d’impostazione?

Innanzitutto, probabilmente, non è azzeccato il vocabolo “diritto”. Esso presuppone logicamente un “dovere”: il diritto di un bambino a essere nutrito è correlato al dovere dei genitori di nutrirlo così come il diritto di un dipendente a un equo salario è correlato al dovere di un datore di lavoro di pagarlo. Ma chi ha il “dovere” di renderci felici? La società, la natura, Dio, la sorte, lo Stato?

Allora dovremmo essere più precisi: ogni essere umano ha il diritto di non essere impedito nella sua ricerca della felicità o, al massimo, di essere favorito nella sua ricerca della felicità.

La “palla” viene gettata dal campo avversario al nostro: siamo noi che dobbiamo fare i conti con la felicità. E, come primo passo, dobbiamo chiederci che cosa essa sia per noi.


 PER COMPLETARE BASTA UN CLICK:

domenica 28 maggio 2023

DODICI "LUOGHI COMUNI" SULLA MAFIA


 «Le nuove frontiere della scuola», anno 2023, marzo, n. 60

Dodici stereotipi sul fenomeno mafioso

 

Già negli anni Ottanta (del secolo scorso) un’attenta sociologa, Graziella Priulla, notava la transizione, in tema di mafia, «dal silenzio al rumore»[1]. Il rumore sulla mafia è polifonico: intessuto di vecchi miti, interpretazioni folcloristiche, chiacchiere da caffè, narrazioni strumentali, pregiudizi di vario genere...Ecco perché ogni discorso sensato – intendo: documentato e  argomentato - sul sistema di dominio mafioso non può non partire da una bonifica che sbarazzi il campo dagli stereotipi (o luoghi comuni). Anche se si tratta di un’operazione non facile dal momento che 

 

«gli stereotipi assolvono soprattutto a due funzioni: la prima è una funzione rassicuratrice, di avallo della giustezza delle rappresentazioni e dei comportamenti dati, cioè dei conformismi sedimentati; la seconda è quella di rimozione e demotivazione di processi di conoscenza che porterebbero alla problematizzazione e messa in crisi delle idee e dei comportamenti correnti»[2].

 

Un primo stereotipo potremmo qualificarlo come genetista o, più brutalmente, razzistala mafia è una caratteristica del DNA dei meridionali italiani e, in particolare, dei siciliani. Se ne possono smussare le manifestazioni, ma non può essere certo estirpato. In quanto tale è un fenomeno localistico, circoscrivibile, che può macchiare con i suoi schizzi altre aree del Paese e del mondo (vedi Stati Uniti d’America) solo attraverso i flussi migratori: se si controllano questi, si controlla il contagio inter-regionale e internazionale.

In evidente opposizione a questo primo luogo comune ne è stato elaborato un secondo:  la visione della mafia come invenzione del Settentrione italiano tesa alla “criminalizzazione della Sicilia e dei siciliani, da parte dei cattivi che scendono dal Nord”, in particolare ad opera della “sociologia rampante” che troverebbe nei mass-media un altoparlante interessato. Che questa visione, alimentata da un “sicilianismo recente o antico”, sia infondata è dimostrato da quelle ricerche empiriche su come “la stampa del Nord veda il problema mafia”: “con tutte le carenze, le lacune, con tutta la superficialità, però non abbiamo mai trovato un solo esempio di criminalizzazione indebita della Sicilia”[3]

Questi primi due stereotipi originano, a mio parere, dalla difficoltà di determinare con una certa precisione il rapporto problematico fra la ‘cultura’ siciliana e la ‘cultura’ mafiosa[4]: che non è né di totale separazione/estraneità né di totale identificazione/sovrapposizione. Infatti la ‘transcultura’ mafiosa ha attinto, a piene mani, dal patrimonio culturale siciliano (esasperando, deformando, strumentalizzando idee, simboli, valori, tradizioni, usi, costumi...), ma se in origine tutti i mafiosi sono siciliani, non è mai stato vero che tutti i siciliani siano stati mafiosi. Anzi: la storia della mafia si intreccia, sin dai primi passi nella seconda metà dell’Ottocento, con la storia dell’antimafia.  

Chi ritiene di non poter negare l’esistenza della mafia in Sicilia trova, spesso, rifugio in un terzo stereotipo: la mafia come “malattia”. Da questa angolazione 

 

“il corpo dello Stato, le istituzioni, la democrazia italiana, sono buoni, corretti, capaci di esercitare le proprie funzioni, ma arriva, non si sa bene da dove, una malattia, un contagio, un virus che perverte tutto questo, che trasforma in cancro il funzionamento generale dell’organismo, il quale ne risulta non soltanto impoverito, ma prossimo al collasso, per ragioni inspiegabili ed esogene, non prodotte dall’interno”[5].

 

Non si capisce, o non si vuole capire, che il sottosistema mafioso non allignerebbe né vigoreggierebbe se il sistema socio-economico-politico-culturale in cui è incistato non fosse mafiogeno. 

Se si capisse questo nesso si eviterebbe la formula banale (un quarto stereotipo) della mafia come emergenza

 

“Uno dei termini maggiormente in uso, soprattutto sulla stampa e alla televisione, è quello di «recrudescenza» de fenomeno mafioso [...]. Se i delitti superano un certo numero, ovviamente imprecisato, si parla di «emergenza». Sembrano termini innocui, ma in realtà essi sottintendono un’idea di mafia come mera fabbrica di omicidi, che «sospende le attività» tra un omicidio e l’altro: una visione che potremmo definire di tipo «congiunturale». La mafia invece è un fenomeno continuativo, strutturale, che svolge molteplici attività e usa l’omicidio secondo una logica di «violenza programmata»[6].

 

L’idea che la mafia sia essenzialmente un’attività bellica (i mafiosi contro lo Stato e i mafiosi tra loro stessi) è alla base di un quinto pregiudizio: la mafia come recinto violento rispetto a cui restare esterni se si vuole restarne immuni. 

 

Secondo affermazioni diffusissime «i mafiosi si uccidono tra di loro. Se ti fai i fatti tuoi non ti toccano. La morale che c’è dietro è duplice: gli omicidi dei mafiosi sono come un fatto naturale, che non riguarda il tessuto sociale; il comportamento consigliato è il «farsi i fatti propri», cioè la passività, l’astensione non solo dall’intervenire ma pure dal vedere e sentire”[7].

 

Quando questo luogo comune è messo in crisi da uccisioni di magistrati o poliziotti viene aggiornato: è vero, non sono mafiosi, comunque hanno scelto professionalmente di avere a che fare con la mafia. Se poi a cadere sono passanti occasionali, come la madre dei due bambini della strage di Pizzolungo, lo stereotipo viene elevato al quadrato diventando ancora più tragicamente comico:

 

“Sono «poveri innocenti che non c’entravano»: qui «innocenti» vuol dire «non addetti ai lavori». La mafia, quando uccide gli «innocenti», è «disumana», aggredisce l’intera «comunità umana», come se uccidendo un giudice o un giornalista eliminasse un «colpevole» e desse prova di umanità”[8].

 

 

Strettamente legato a questo stereotipo se ne può individuare un sesto: la mafia come effetto di poteri lontani. Indubbiamente, dall’unificazione del regno d’Italia a oggi, la mafia siciliana ha fruito di rapporti privilegiati con i governi nazionali che, secondo le stagioni politiche, hanno tentato di negoziare per strumentalizzarla anziché contrastarla per estirparla. Ma ciò non significa che la Sicilia – e Palermo in particolare – abbiano, per un solo periodo storico per quanto breve, trasferito a Roma la direzione centralizzata delle cosche mafiose. La capitale, sede del cervello organizzativo, è rimasta – purtroppo – dove è stata sin dall’origine ottocentesca. Come la stessa – per fortuna -  è rimasta la capitale dell’antimafia, dove si sono elaborate le strategie vincenti e dove si sono pagati i prezzi più alti in termini di vite umane. 

Estremizzata, questa visione vittimistica della mafia sfocia nell’affermazione – apparentemente ‘rivoluzionaria’ – che la mafia è lo Stato. Quasi per bilanciare il rischio di questa tesi, dalle conseguenze paralizzanti (se così fosse, infatti, resterebbe solo la prospettiva non proprio imminente anarco-comunista dell’abolizione dello Stato tout court) ha avuto straordinaria fortuna la definizione della mafia come anti-Stato. Ma si tratta solo di un ennesimo – il settimo nel nostro elenco – stereotipo: infatti

 

«non è una forzatura ideologica affermare che non c’è stato, in Italia, Stato senza mafia, come non c’è stata mafia senza Stato» [9].

 

La verità – troppo sottile per lasciarsi ingabbiare in formule sloganistiche sommarie – è che la mafia di per sé non è in antitesi con lo Stato, ma tende a farsi Stato; quando in questa strategia di infiltrazione nei gangli e nei posti di comando dell’ordinamento statuale trova funzionari integerrimi (non tutti) e coraggiosi (ancora meno), allora – e solo allora – diventa antitetica rispetto a questi settori dello Stato (rassegnandosi a posizioni di disperata opposizione come il banditismo, il gangsterismo, i terrorismi di matrice politica o religiosa).

La mafia come tumore allogeno, dunque. Ma i tumori sono soggetti a metastasi. Ecco, dunque, confinante con gli stereotipi precedenti, un ottavo luogo comune: l’ubiquità della mafia. Si badi bene: non si afferma, con Leonardo Sciascia, che “la linea della palma” si è spostata verso il Nord e che vi sono organizzazioni criminali mafiose e para-mafiose in altre regioni italiane, in altri Stati europei ed extra-europei . Ciò sarebbe inoppugnabilmente vero. Piuttosto – riecheggiando operazioni già realizzate da personaggi come il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo – si appiattisce la specificità della mafia a livello di criminalità ‘ordinaria’ e, così ridimensionata, la si riconosce presente da sempre in tutto il mondo. Il risultato è noto: tutte le manifestazioni di violenza e corruzione del pianeta sono mafia, dunque nessuna è veramente mafia. Si perde di vista il prototipo originario della mafia (siciliano!)  e ci si condanna a battaglie secondarie con organizzazioni delinquenziali molto meno insidiose. 

Le patologie sono soggette a variazioni, solitamente peggiorative. Intesa come accidente esterno, la mafia si presta a un nono  stereotipo, parzialmente apologetico: la mafia come fenomeno in via di degenerazione. La sua versione più ‘nuova’ è sempre cattiva, a differenza della ‘vecchia’ che – invece - era buona. Quasi da “rimpiangere”. Si tratta di una “illusione” “nefasta”: si accetta di occultare un passato di “atrocità” e di “delitti” con l’immagine “reificata” che i mafiosi più anziani, e perdenti rispetto alle nuove generazioni criminali, offrono di sé[10]. Con questa contrapposizione infondata fra «due momenti, l’antico e il nuovo», le cosche mafiose possono ottenere consenso sociale attingendo «perennemente al serbatoio del mito»[11].

Un decimo stereotipo è legato al precedente e, insieme al precedente, sta o cade: la mafia come rispettosa dei bambini, delle donne e dei preti.  E’ il ritornello che si ascolta ogni volta che una vittima di mafia appartiene a una di queste categorie. Se la smemoratezza storica fosse appena un po’ minore si saprebbe che, sin dalle origini nella seconda metà del XIX secolo, i mafiosi hanno spazzato via tutte le vite umane che, anche involontariamente, intralciavano i suoi piani delittuosi. Certo, statisticamente è più frequente l’incontro-scontro con adulti maschi, ma non c’è alcuna remora ideologica o morale che impedisce, se necessario, di uccidere bambini, donne e preti.

Uno dei vantaggi di esprimersi per luoghi comuni, senza preoccuparsi di esibire le prove di ciò che si afferma, è che alcune formule possono essere invertite senza fatica e talora, addirittura, adottate in entrambe le posture. Abbiamo appena esaminato il mito della mafia benefattrice e rispettosa degli inermi, il mito della mafia incontaminata prima della degradazione modernistica? Capovolgendolo si ha lo stereotipo della mafia come residuo arcaico, primitivo, destinato a dissolversi man mano che la società diventa più ricca, più progredita tecnologicamente. Questo undicesimo luogo comune è smentito clamorosamente dalla capacità dei mafiosi di «adattarsi a contesti molto diversi da quelli originari», di «integrarsi in società complesse» e di «coniugare elementi di arretratezza con altri di modernità»[12].  Non senza solidi argomenti, infatti, qualcuno ha potuto scandire la storia della mafia in quattro fasi principali: «una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo»; «una fase agraria, che va dalla formazione dello Stato unitario agli anni ’50 del XX secolo»; «una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ‘60»; «una fase finanziaria dagli anni ’70 ad oggi»[13].

Di un dodicesimo pregiudizio sono state, e in parte sono ancora, vittime anche le autorità giudiziarie: la mafia come organizzazione esclusivamente maschile . Ma una cosa è affermare (con verità) che la mafia è patriarcale, maschilista, e un’altra cosa è sostenere che le donne non possono farne parte e, di conseguenza, essere responsabili di reati di tipo mafioso. Già nel 1993 Anna Puglisi scriveva che 

 

«l’immagine della donna siciliana chiusa in casa e vestita di nero, non corrisponde nella quasi generalità alla situazione attuale. In Sicilia, come altrove, le donne rivendicano emancipazione e occupazione, anche se in Sicilia come in tutto il Meridione, tra i disoccupati la percentuale maggiore è quella delle donne. Del resto sappiamo che la conquista di piena parità in tutta la società italiana è molto lontana. Comunque lo stereotipo di donna siciliana sottomessa, semplice trasmettitrice dei valori legati alla famiglia, non ha più ragion d’essere. Anche all’interno delle famiglie mafiose»[14].

 

La questione viene ripresa anche in un recente libro a più mani e, tra l’altro, vi si legge che,

 

«mentre fino al 1990 solo una donna era stata incriminata, nel 1995 si ebbe un’impennata, le donne coinvolte in associazione mafiosa divennero 89» [15].  

 

Renate Siebert [16] è stata una delle studiose che ha combattuto

 

«con forza il pregiudizio in cui tanto da parte della mafia, quanto per un certo tempo da parte dell’antimafia, sono state rinchiuse le donne: l’idea che non potessero essere considerate responsabili delle loro azioni. Come abbiamo già ricordato, fino al 1995 ci fu una sola imputazione per associazione mafiosa a una donna. La motivazione era che non essendo affiliate tramite il "rito della santina" le donne fossero impossibilitate a svolgere ruoli di rilievo nell’organizzazione; nelle sentenze si legge chiaramente come le donne, non avendo il sufficiente grado di autonomia per essere riconosciute responsabili del reato di associazione mafiosa, se hanno commesso reati lo hanno fatto “per seguire i loro uomini". L’antimafia faceva così da specchio a quello che la mafia esprimeva a proposito delle donne»[17].



[1] G. Priulla, Informazione e mafia: dal silenzio al rumore in U. Santino (a cura di), L’antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989, pp. 69 – 79.

[2] A. Crisantino, Mafia: la fabbrica degli stereotipi in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, Di Girolamo Editore, Trapani 2006, p. 57.

[3] G. Priulla, Informazione, cit., p. 75.

[4] Uso ‘cultura’ fra virgolette, ma subito dopo recepisco un suggerimento di Umberto Santino: “Per indicare la complessità culturale della mafia e la sua capacità di adattamento al mutare del contesto” adottare “il concetto di «transcultura», intesa come percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui convivono aspetti arcaici, come la signoria territoriale, e aspetti moderni, come le attività finanziarie” (U. Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso e del movimento antimafia in A. Cavadi [ed.]A scuola di antimafia, cit., p. 29). Analogamente ritengo che sia riduttivo parlare di ‘cultura’ siciliana al singolare, senza tener conto né della diacronia né delle differenze fra le varie aree della stessa isola. Essa è piuttosto, a sua volta, una ‘trans-cultura’ in cui individuare almeno l’intreccio di tre prospettive: la visione cattolica, la visione borghese-individualistica e la visione mafiosa (cfr. A. Cavadi, Per una pedagogia antimafia in A. Cavadi [ed.]A scuola di antimafia, cit., pp. 83 – 125).

[5] Ivi, p. 72.

[6] A. Crisantino, Mafia, cit. p. 60 (il virgolettato «violenza programmata» si riferisce a G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata : omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989).

[7] Ivi, p. 61.

[8] Ivi.

[9] U. Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso e del movimento antimafia in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, cit., p. 24.

[10] R. Mangiameli, Stereotipo, CD Rom Mafia, a cura di P. Pezzino- C. Ottaviano, Cliomedia Officina, Torino 1998, successivamente ripubblicato in R. Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2000, p. 200.

[11] Ivi.

[12] A. Crisantino, Mafia, cit. p. 63.

[13] U. Santino, Per una storia sociale della mafia e dell’antimafia in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, cit., p. 36.

[14] A. Puglisi, Donne e mafia, “Giraffen”, Copenaghen luglio 1993, n. 11 in A. Puglisi, Donne, Mafia e Antimafia, Di Girolamo Editore, Trapani 2005, p. 11. 

[15] S. Pollice, Il filo che ci unisce, in A. Dino  G. Modica (a cura di), Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni, Mimesis, Miano – Udine 2022, p. 145.

[16] Soprattutto in R. Siebert, Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano 1994, passim.

[17] S. Pollice, Il filo, cit., p. 151. 

mercoledì 24 maggio 2023

ADDIO A FRANCESCO CRESCIMANNO, AVVOCATO CORAGGIOSO E SIGNORILE





SE NE E’ ANDATO UN AVVOCATO CORAGGIOSO E SIGNORILE

Quando le famiglie Falcone e Borsellino cercarono un avvocato penalista affidabile per costituirsi parti civili ebbero non poche difficoltà: infatti molti professionisti, avendo accettato (del tutto legittimamente!) di difendere in tribunale i carnefici, erano impossibilitati a tutelare le vittime. Ma Francesco Crescimanno si era lasciato le mani libere e poté accettare l’incarico. In alcune puntate della trasmissione RAI  dedicata alla registrazione di processi rilevanti, milioni di spettatori potemmo assistere agli scambi fra il piccolo e mite legale palermitano e Totò Riina. “Ricorda dov’era il 23 maggio del 1992?” . “No, avvocato. Come, penso, non lo ricorda neppure Lei”. “Veramente io lo ricordo molto bene perché aiuto la memoria con l’agendina”.

Francesco, con cui ci siamo frequentati da giovanissimi, era aduso alla dialettica: quando era il caso,  scherzosa; mai, comunque, aggressiva. Una volta mi raccontò di aver chiamato a telefono la casa di un suo cliente che non aveva pagato più l’onorario previsto. Quando la moglie riconobbe la sua voce, prontamente lo apostrofò con un forte e deciso: “Cornuto!”. Francesco non si scompose, rifece il numero e, appena dall’altro lato sentì alzare la cornetta, con calma precisò: “Mi scusi, Signora. Evidentemente poco fa mi ha scambiato per suo marito. Volevo dirle che, invece, sono l’avvocato Crescimanno”.

Ho in mente altre sue risposte salaci, ma comprensibili solo nel contesto goliardico del Sessantotto. 

Il gusto dell’ironia non lo ha lasciato sino a quando un male crudele non gli ha annebbiato la mente. 

Domani mattina, ai funerali in chiesa, si prevede un concorso notevole di amici e estimatori che hanno già esternato i propri sentimenti nei vari canali social. Ma adesso ci piace immaginarlo con tutta la sua vivace lucidità di un tempo a pungolare, con bonomia, i santi del paradiso.

 

Augusto Cavadi 

www.augustocavadi.com


https://www.zerozeronews.it/piangiamo-lamico-piangiamo-il-grande-avvocato-francesco-crescimanno/

lunedì 22 maggio 2023

OLTRE BIAGIO CONTE: DALL'ASSISTENZA EROICA ALLA PROGETTUALITA' POLITICA


 "Appunti sulle politiche sociali" 2023/1 (n. 242)

Gruppo solidarietà - Maie di Maiolati

Volontariato e politica. Riflessioni dopo la morte di Biagio Conte 

La maggior parte degli italiani aveva lentamente disperso la memoria di un giovane palermitano che, agli inizi degli anni Novanta, era stato rintracciato dalla trasmissione televisiva “Chi l'ha visto?” e indotto così a ritornare, sia pur temporaneamente, a casa. Ma la figura romanticamente medievale di questo pellegrino, inseparabile da bastone e cane, che - autoproclamatosi francescano, pur senza aderire a nessuna istituzione ecclesiastica -  indossa un saio verde  e si dedica ad assistere, sotto i portici della stazione ferroviaria principale,  barboni di ogni provenienza etnica, nella sua città diventerà invece sempre più celebre. Scrittori come Giacomo Pilati e registi come Pasquale Scimeca gli hanno dedicato libri e film; la stampa  cartacea e on line, le radio e le televisioni non solo locali lo hanno seguito per tre decenni soprattutto quando ha optato per clamorose forme di protesta (digiuni o pellegrinaggi a piedi con la croce sulle spalle) a favore dei suoi senza-tetto (spesso immigrati non ancora regolarizzati).

Nessuno però si sarebbe aspettata l'ondata, anzi la marea, di imponente partecipazione ai suoi funerali di vescovi e preti, autorità civili, cittadini  di ogni estrazione sociale, etnica e culturale. E poiché solo uno snobismo ingiustificabile può negare che vicende come questa pongano domande ineludibili, provo, quasi telegraficamente, a inanellare alcune considerazioni.

La prima riflessione è che anche nella nostra epoca di “passioni tristi”, di disincanto rispetto agli ideali seduttivi, di appiattimento su una grigia  routine quotidiana in cui tutti gatti risultano grigi, certe scelte simboliche particolarmente radicali continuano a toccare profonde corde emotive. Chi ha il coraggio di adottare simili gesti profetici merita non solo rispetto, ma direi anche ammirazione e gratitudine, perché ci ricorda che si può ancora remare contro corrente.

Una seconda considerazione riguarda non la sfera intima, coscienziale, intenzionale di fratel Biagio, quanto la lettura che gli altri, vicini o estranei, fanno del suo stile, del suo approccio, del suo metodo. Qui sono in gioco non certo i meriti soggettivi (di cui nessun uomo può farsi giudice), bensì i criteri-guida delle strategie operative oggettive (sulle quali l'esame critico è lecito, anzi doveroso). Quali sono stati i suoi orientamenti di fondo ?

Quando Biagio Conte tornò a Palermo, dopo la “fuga” ad Assisi, venne a trovarci al Centro sociale “S. Francesco Saverio” che avevamo avviato da alcuni anni nel quartiere Albergheria, noto soprattutto per il mercato di Ballarò. Come facevamo con tutti gli aspiranti volontari, abbiamo sinteticamente presentato le linee essenziali del nostro statuto e della nostra pedagogia. Del tutto legittimamente, fratel Biagio non si è ritrovato su quasi nessun punto del nostro programma: né sulla impostazione collettiva (per cui le decisioni venivano assunte assemblearmente, senza leaderismi verticistici); né sull'ispirazione a-confessionale (per cui il Centro era gestito da un consiglio direttivo eletto dai soci, provenienti  da una pluralità di storie ideali e ideologiche, e non si interpretava come espressione di alcuna chiesa); né sulla finalità principale di tipo 'politico' (per cui ritenevamo di dover supplire le istituzioni sono temporaneamente e, al di là di ogni logica assistenzialistica, di dover sollecitare la gente del quartiere a esigere che le amministrazioni pubbliche attivassero i servizi essenziali per i bambini, le donne, gli anziani, i disoccupati, gli immigrati). 

Così le nostre strade, in questi trent'anni,  si sono snodate in parallelo, sia pure a un solo chilometro di distanza:   ovviamente senza polemiche, anzi con occasionali, cordialissimi, incontri fra persone accomunate dal fronte della solidarietà. 

Che bilancio è possibile oggi dopo una storia più che trentennale?

Innanzitutto – ed è la mia terza considerazione – che nell'immaginario collettivo non c'è partita: l'approccio dell'eroe che, almeno istituzionalmente, non condivide con nessun altro responsabilità di gestione della sua opera sociale, lottando per così dire col proprio corpo in difesa degli ultimi, è decisamente più apprezzato del metodo, alternativo, di quanti, nella stessa città e nella stesso periodo di tempo, hanno provato a fare squadra, a condividere onori e oneri, a corresponsabilizzare i fruitori dei propri servizi mirando ad abbattere la barriera fra chi dà e chi riceve. Nessuno stupore: non è solo adesso, nella “società dello spettacolo”, che certi personaggi e certe vicende levitano (pur senza proporselo) nella sfera del mito ed altri personaggi, con altre vicende, restano (temporaneamente o definitivamente) nell'ombra. Tuttavia chi ha visto ha il diritto, e  il dovere, di testimoniare: prima di fratel Biagio, durante gli anni della sua splendida testimonianza (qui andrebbe bene il termine più vicino all'etimologia greca: martirio) e anche dopo la sua prematura scomparsa (per tumore, a meno di sessant'anni), ci sono stati e ci sono preti e suore, laici e laiche  di ogni appartenenza culturale, che, sia pure optando per stili di vita più discreti, meno appariscenti, hanno speso il meglio delle proprie energie per combattere il sistema di dominio mafioso, lo sfruttamento della prostituzione, la diffusione delle droghe pesanti, l'ignoranza dell'alfabeto civico: insomma, come si usa dire negli ambienti del Terzo Settore, per insegnare a pescare più che per distribuire pesci agli affamati. 

Questa considerazione non mira a stabilire graduatorie. Ognuno segue il proprio “demone” interiore. E' importante però bilanciare con la lucidità della ragione i sussulti dell'emotività e non dare per scontato che il significante debba prevalere sul significato al punto da renderlo irrilevante. In un piccolo saggio dedicato a Tommaso Moro, Libertà nel mondo (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2012), Hans Kung indaga sul paradosso di un personaggio che, pur vivendo in pienezza le gratificazioni  mondane del potere politico, degli affetti familiari e delle proprietà economiche, se costretto dalle vicende storiche a scegliere fra la fedeltà alla propria coscienza e la sottomissione al sovrano inglese, non esita a rinunziare alla sua stessa vita biologica, rivelando così – al di là delle apparenze – la radicalità della sua fede. In un'ottica simile, Romano Guardini, nel saggio Il santo nel mondo incluso nel primo volume di Ansia per l'uomo (Morcelliana, Brescia 1958), ritiene che ormai il “santo della straordinarietà” debba lasciare spazio al “santo della presenza modesta”, più consono all'epoca moderna in cui, “al posto della personalità dominatrice, succede il team, o gruppo di lavoro”: “nel gruppo nessuno si distingue; ma ognuno è importante. Ciascuno lavora al suo posto; ma con responsabilità per la causa comune. […] il santo non sarebbe più caratterizzato da una forma di esistenza distinta dal resto della vita. Egli è colui che opera ciò che è giusto e buono, nel nascondimento. Ma con una purezza d'intenzione che si accorda sempre più profondamente con l'amore di Dio, e si libera sempre più perfettamente dall'egoismo fino a raggiungere una libertà che non ha nulla da fare con l'originalità e la genialità, ma che si realizza completamente nell'intimo della persona”. Poiché l'amore per Dio si può manifestare solo amando gli esseri viventi, ci si potrebbe chiedere -  procedendo oltre Guardini – se la santità odierna non possa realizzarsi, oggettivamente, anche in soggetti estranei a ogni problematica di ordine teologico-religiosa. 

Una quarta riflessione concerne ancora l'aspetto teologico-ecclesiale di questa vicenda. I decessi illustri ci stanno abituando al grido (non si sa mai quanto) popolare: “Santo subito!”. Neppure in questo caso poteva mancare la richiesta di una rapida canonizzazione di una persona che non si è limitata a lavorare “per” i poveri né “con” i poveri, ma “da” povero fra “poveri”. Nel corso di un'intervista sulle pagine siciliane di “Repubblica” don Cosimo Scordato, co-fondatore del Centro sociale “S. Francesco Saverio”, glissa elegantemente sulla questione della “beatificazione” del missionario: “Gesù dice: «Beati i poveri». Lo sono già quindi. Come lo è stato già Biagio nella sua vita: beato. La gente fa riferimento alla sua figura per mettersi in discussione, segue la sua testimonianza. Al di là di ogni eventuale processo di beatificazione che potrà arrivare”. La risposta, mirata a relativizzare la questione della proclamazione canonica delle virtù “eroiche” del defunto, va però letta – se si vogliono evitare equivoci bimillenari - alla luce di tutta la pluriennale predicazione dello stesso don Scordato, attento lettore e seguace della “Teologia della liberazione”: come hanno dimostrato inequivocabilmente gli studi esegetici di p. Dupont, nel Discorso della Montagna Gesù proclama “beati” i poveri che lo circondano non perché sono poveri, ma perché nel suo progetto e nella sua speranza sta avviandosi, già qui e già ora,  una rivoluzione (“il Regno di Dio”) grazie alla quale non lo saranno più. Gesù non è pauperista. Ama i poveri perché odia la povertà e li vuole liberare dalle sue catene. Se non si sottolinea abbastanza questa valenza contestatrice, disturbante, del messaggio evangelico si rischia di identificare il “beato” cattolico con l'ennesima “vittima sacrificale” di un sistema socio-economico ritenuto immodificabile. 

Questi accenni teologici possono far luce sulla mia quinta, e ultima, riflessione suggeritami dalla straordinaria avventura del nostro “povero” cristiano. Per fratel Biagio la giunta municipale ha proclamato sette giorni di lutto cittadino: a mia memoria, mai successo nulla di simile negli ultimi settant'anni. E non è stata la giunta progressista di Leoluca Orlando che, pur tra contraddizioni e ritardi, si è sempre distinta per una speciale attenzione all'accoglienza dei flussi migratori nel Mediterraneo, bensì la giunta di centro-destra di Roberto Lagalla, sostenuta da Fratelli d'Italia e Lega.  Ai suoi funerali sono accorsi a decine esponenti politici, regionali e nazionali,  di ogni schieramento: anche di quegli schieramenti che da decenni sono impegnati a bloccare con ogni mezzo, lecito o meno, gli arrivi di immigrati in Sicilia; che praticano politiche clientelari e sperperano in maniera scandalosa il denaro pubblico; che non hanno mosso un solo dito per sostituire – o per lo meno integrare – l'azione emergenziale di Biagio e dei suoi collaboratori con iniziative istituzionali, sistemiche, stabili nel tempo.  E' eccessivo sospettare che tanto concorso di autorità che, in questi decenni e ai nostri giorni, hanno ignorato i drammi di cui Biagio si è fatto carico come ha potuto, sia solo l'ostentazione  di una solidarietà pelosa, strumentale? E' eccessivo temere che l'esaltazione di chi ha aiutato i poveri serva, più o meno consapevolmente, per distrarre l'attenzione da quelle (sempre più rare, fioche e isolate) voci che a Palermo e in Sicilia chiedono il superamento delle condizioni strutturali di povertà? Don Helder Camara, arcivescovo di Recife, ripeteva, come è noto, che se aiutava i poveri della diocesi si diceva che fosse un buon prete, ma, se si chiedeva a voce alta perché ci fossero tanti poveri, veniva tacciato di essere un comunista. Il concorso di politici e di amministratori pubblici intorno alla bara di fratel Biagio Conte sarebbe stato così numeroso e così unanime se in vita egli avesse esortato alla “giustizia sociale” con la stessa intensità con cui ha chiesto “solidarietà cristiana”? Se avessero fatto parte del suo vocabolario abituale anche parole come “mafia”, “democrazia”, “Costituzione” ? Solo le decisioni dei prossimi mesi diranno chi è accorso al feretro del missionario solitario per sposarne, nell'ambito delle proprie competenze, la causa e chi ha ipocritamente approfittato della commozione generale per darsi una spolveratina alla coscienza. Palermo, come ogni altra città italiana afflitta da piaghe sociali, ha certo bisogno di eredi sulla scia e sul modello profetici di Biagio Conte, ma almeno altrettanto di aggregazioni politico-culturali che interloquiscano criticamente con le istituzioni, ne denunzino le collusioni con i gruppi affaristico-mafiosi, offrano agli amministratori proposte innovative e li incalzino affinché essi le traducano in fatti tangibili. Certamente solo ai primi le autorità cittadine, sponsorizzate dai Totò Cuffaro e dai Marcello Dell'Utri (appena usciti da anni di galera per collusione con i clan mafiosi), riserveranno funerali imponenti. Ma pazienza. Chi lavora per rendere meno atroce la società deve mettere in conto che la gratitudine sarà  l'ultima reazione che potrà attendersi. 

 

Augusto Cavadi 

www.augustocavadi.com