mercoledì 1 maggio 2024

MORIRE E’ UN’ARTE CHE PUO’ INSEGNARE A VIVERE MEGLIO

 E’ possibile confrontarsi con la propria mortalità senza disperarsi? Monica Cornali, nel suo Vivere la morte come sorella (Effatà Editrice, Cantalupa 2022), risponde affermativamente e articola la sua risposta tentando “una sinergia tra la conoscenza della psiche umana, dei meccanismi e delle dinamiche che vi sono implicati, e la sfera spirituale” (p. 7).  Ma va subito precisato che la spiritualità che l’autrice intende intrecciare con la psicologia non è sinonimo di religiosità né, ancor meno, di fede in senso confessionale: si riferisce a quella   “ <<spiritualità>> che accomuna tutti gli esseri umani, che è preverbale e transculturale e che non necessariamente confluisce in un’adesione religiosa. Nel tentativo di non escludere, ma anzi accomunare tutti nella domanda di senso, nel desiderio del bene, nella volontà di significato e nella libertà della speranza, rispettando le proprie mappe concettuali, la propria storia di vita e i propri valori” (pp. 5 – 6).

Il registro della ricerca di una spiritualità laica, basica, potenzialmente universale è adottato come alternativa ad altri approcci al tema della morte che hanno ormai mostrato la propria insufficienza. E’ il caso dell’approccio scientifico-sperimentale che può descrivere sempre meglio la morte, non certo interpretarla; è il caso delle grandi “narrazioni” ideologiche in auge sino alla metà del XX secolo; ed è il caso della “prospettiva giudaico-cristiana, così come è stata fino ad oggi interpretata”, ormai “inadeguata a fornire orizzonti di senso all’uomo contemporaneo” (p. 29).

Dall’angolo visuale di una sapienza antropologica la morte appare con due volti opposti tra i quali ognuno è chiamato a scegliere: “ultima nemica” (cui soccombere senza scampo o da sperare di vincere in virtù di qualche disegno divino) o “sorella” (da abbracciare come parte della vita, anzi come suo compimento e sigillo). L’autrice, come recita già il titolo del suo saggio, non ha dubbi nel preferire la seconda prospettiva e prova a raccogliere argomenti, o per lo meno indizi e allusioni, a suo favore. Per molti versi la sua trama rievoca la scommessa pascaliana: l’ars moriendi  tiene socchiusa la porta di una qualche “sorpresa” (p. 38), ma se ad attenderci fosse il nulla eterno avremmo comunque ottenuto il prezioso guadagno di aver vissuto con intensità l’esistenza in ogni caso limitata a nostra disposizione. Infatti il memento mori non mira ad avvelenarci le piccole e rare gioie dell’esistenza, quanto “a relativizzare tante paure, progetti illusori, ridicole presunzioni, esaltazioni comiche del proprio io, riconsegnando l’interiorità a quiete e fiducia” (p. 75). La meditatio mortis non risponde alla legittima domanda se ci sia vita dopo il decesso, ma ci aiuta a viverne una, degna, prima.

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lunedì 29 aprile 2024

AI GIOVANI INTERESSEREBBE LA "BELLA" POLITICA ? UN'ESPERIENZA AL "CANNIZZARO " DI PALERMO

Di seguito il servizio giornalistico di Maria D'Asaro sull'incontro conclusivo del corso di introduzione alle ideologie contemporanee a cura dell'associazione di volontariato culturale "Scuola di formazione etico-politica G. Falcone" di Palermo:

https://www.ilpuntoquotidiano.it/al-liceo-cannizzaro-di-palermo-lezioni-di/

mercoledì 24 aprile 2024

Pace nel Mediterraneo: un ruolo anche per le Chiese cristiane?

 Negli ultimi tre millenni almeno il Mediterraneo si è presentato ambivalentemente come crocevia di sapienze, ma anche di conflitti. Le cronache incredibilmente dolorose di questi giorni lo confermano. Cosa possono fare le Chiese cristiane in generale e la Chiesa cattolica in particolare?

Con Edgar Morin direi, innanzitutto, che ogni riforma seria parte da una revisione del pensiero. Ho curato nel 2019 l’edizione italiana di un suo breve, ma intenso testo (Pensare il mediterraneo, mediterraneizzare il pensiero),  di cui non saprei restituire i finissimi ricami  intellettuali. In sintesi un po’ brutale si potrebbe dire che occorre da una parte conoscere il Mediterraneo, la storia delle sue civiltà antiche, delle sue religioni tuttora perduranti, delle sue tensioni politiche e socio-economiche attuali; ma, dall’altra, lasciare modificare dal Mediterraneo la propria mente,  la propria postura intellettuale. Che, tra molto altro, significa consentire alla pluralità dei punti di vista di impedire l’irrigidimento dei fondamentalismi esclusivisti ed escludenti; di imparare che “relatività” non è “relativismo” perché, se ritengo inaccettabile ogni assolutizzazione, non posso assolutizzare neppure il principio di relatività. Ma – la domanda s’impone –  nelle scuole cattoliche, nelle facoltà cattoliche, nelle associazioni cattoliche, nelle parrocchie vi è questa conoscenza elementare del contesto geo-culturale in cui ci è capitato di nascere? Che sappiamo della sapienza greca, dell’ebraismo, dell’islamismo (ammesso che sappiamo qualcosa del cristianesimo)?  E, soprattutto, vi è la consapevolezza  che essere cristiani non significa possedere in maniera totale la verità sull’uomo, sulla storia, sull’universo? Se non vogliamo trastullarci con giochi di prestigio non possiamo negare che la fede monoteista, che si ritiene che rivelata in Scritture sacre, costituisce un grave rischio: chi è convinto di avere il monopolio del Divino difficilmente tollera concorrenti e, ancora meno, si pone in ascolto per ricevere da altri correzioni e integrazioni.

L’autocritica intellettuale in ambito cattolico può considerarsi a buon punto solo quando si perviene alla conclusione che la ricerca della verità teoretica è irrinunciabile nell’esperienza antropologica, ma che in questa ricerca il vangelo non ci può essere di particolare soccorso. Esso, infatti, racconta la vicenda straordinaria di un predicatore nomade palestinese che non era un intellettuale, bensì un testimone. Un maestro di vita, di azione, di atteggiamento rispetto all’umanità e alla natura: la sua filosofia, più che amore per la sapienza (in senso greco), era sapienza dell’amore (in senso ebraico). Il tentativo rivoluzionario di papa Francesco – che gli attira non per caso gli strali più feroci da parte di preti e fedeli sedicenti conservatori – è proprio questa conversione di registro: ricordare che il cristianesimo non è nato come ortodossia di una scuola, ma come ortoprassi di un movimento religioso e sociale. Qualcuno ha detto acutamente che la prima vera enciclica di papa Bergoglio non è stata la Lumen fidei del 2013 che Benedetto XVI aveva redatto in gran parte e aveva lasciato per così dire in eredità da firmare, bensì il suo viaggio a Lampedusa. Se questa torsione dal primato della teoria al primato della pratica fosse evangelicamente fondata, si imporrebbe un’altra domanda: cosa stanno facendo i credenti per dare un proprio contributo ai terremoti costituiti dai flussi migratori in corso? Periodici giornalistici di chiaro orientamento partitico, ignari di fare buona pubblicità,  hanno accusato alcuni vescovi di finanziare delle ONG dedite al salvataggio di migranti in mare e, da varie fonti ufficiali, si sa dei canali “umanitari” di immigrazione legale attivati in sinergia da associazioni cattoliche come Sant’Egidio e alcune Chiese riformate: ma le centinaia, anzi migliaia, di parrocchie, conventi ormai in disuso o trasformati in alberghi, seminari vescovili  occupati da giovani in numero decrescente…perché non accolgono stabilmente degli immigrati, anche impiegandoli in dignitose attività remunerate? Sarebbe una strategia efficace materialmente e, almeno altrettanto, simbolicamente.

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