lunedì 27 maggio 2024

GESU', IL FIGLIO DEL BOSS, NEL RACCONTO DI SALVO ALES


Yeshu’a è un nome aramaico (in latino Jesus) molto diffuso prima, durante e dopo la vita di Gesù il Nazareno (che, infatti, ebbe bisogno di ulteriori denominazioni per essere individuato fra molti omonimi: “figlio di Giuseppe”, “l’Unto (nel senso di  Inviato)”. Nulla di strano, dunque, che si incontrino, nella vita reale e nella letteratura, persone con questo nome i cui tratti caratteriali possono somigliare poco – talora per nulla – all’immagine che di Gesù ci hanno consegnato i vangeli (sia ‘canonici’ che ‘apocrifi’).

A noi italiani è difficile non pensare al “Gesù bambino” che “gioca a carte e beve vino” della toccante canzone 4 marzo 1943 di Lucio Dalla. Su questa lunghezza d’onda – affettuosamente demitizzante – troviamo il protagonista del romanzo di   Salvo Ales, Lo chiamavano Gesù (Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale 2024).       

Non è un santo, almeno non secondo il prototipo dell’immaginario collettivo cattolico (se mai vicino al protagonista de La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth). Addirittura è figlio di un boss mafioso e, per certi versi, ne condivide alcune caratteristiche. Ma, sostanzialmente, ne prende le distanze, un po’ come Peppino Impastato nei confronti del proprio padre e della famiglia d’appartenenza. Così la narrazione scorre su un registro ambivalente: a momenti sembra che questo Gesù ricalchi la mitezza, la pazienza, la dolcezza di quell’altro;  in altri momenti, invece, ne è come l’immagine capovolta, antipodica. Infatti di solito è incapace di rispondere alla violenza con la violenza, ma è anche “invidioso” del fratello biologico, al punto da arrivare a volersi “vendicare” di un suo ennesimo atto di spavalderia. Il risultato letterario è intrigante: un personaggio complesso, equidistante dalla enfatizzazione sdolcinata come dalla demonizzazione moralistica.

Qualcuno, spiazzato da tale complessità,  ha ritenuto blasfemo questo scritto, un po’ come vennero giudicate blasfeme le poesie-canzoni di Fabrizio De André raccolte nell’album La buona novella (non a caso qui citato in esergo). Se riteniamo che il Gesù della storia sia stato il Cristo Pantocratore dei catini absidali bizantini, allora questa rappresentazione letteraria è davvero blasfema, o almeno troppo riduttiva. Ma – non so quanto consapevolmente – Ales si sintonizza con le più recenti interpretazioni della figura di Gesù secondo cui egli è stato un essere umano come tuti gli altri e che solo gradualmente è diventato Dio nel culto delle prime comunità e nelle definizioni dogmatiche dei primi concili (a partire da Nicea nel 325). Se – come mi sono convinto dopo decenni di studio – questa cristologia dal “basso” è la più aderente alla verità storica, la lettura di Gesù che traspare nelle pagine di Ales non è solo consentita, ma  addirittura l’unica ortodossa. Ci restituisce, infatti, un Gesù vivo, vero, capace di sperimentare l’amore a trecentosessanta gradi: non solo dunque come agape e philia, ma anche come eros. Un Gesù imitabile perché imperfetto, in progress: come lo siamo gli uomini e le donne della storia effettiva, non delle idealizzazioni alienanti. 

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https://www.zerozeronews.it/gesu-sulla-croce-di-cosa-nostra/

mercoledì 22 maggio 2024

DUE LEZIONI ATTUALI DEL MARTIRIO DI DON PINO PUGLISI

DUE LEZIONI ATTUALI DEL MARTIRIO DI DON PINO PUGLISI

La vicenda storica di don Pino Puglisi è stata raccontata ormai molte volte, anche al cinema (ovviamente con risultati non sempre ottimali: il pur bravo Luca Zingaretti, ad esempio, nel film Alla luce del sole di Roberto Faenza, ha una propensione al cipiglio che non ricordo di aver mai notato sul volto del parroco palermitano). 

Può riuscire interessante mettere a fuoco, invece, alcuni significati di questa vicenda.

Il primo, di carattere sociologico, presenta una portata generale: la co-responsabilità dei “buoni” nell’assassinio di una vittima. Se la stragrande maggioranza dei medici firma certificati falsi per scongiurare la detenzione di un boss, quando un medico si rifiuta va punito. Se la stragrande maggioranza degli imprenditori paga il pizzo, quando un imprenditore si rifiuta va punito. E così via per tante altre categorie professionali. Il clero cattolico non fa eccezione: se la stragrande maggioranza dei preti non trova nulla da obiettare al dominio territoriale dei mafiosi (e dei loro referenti politici), quando un prete rifiuta la collusione (o almeno il silenzio complice) va punito. Se non si riflette su queste dinamiche non si può capire davvero l’allarme di Martin Luther King sull’indifferenza degli indifferenti, a suo parere più pericolosa della violenza dei violenti. Né si può capire perché ogni retorica esaltatrice di un martirio (religioso o civile) è del tutto fuori luogo: le vicende di  Josef Mayr-Nusser  e di Franz Jägerstätter sono un eloquente atto di accusa verso i loro contemporanei  che accettarono supinamente l’arruolamento nell’esercito nazista. 

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domenica 19 maggio 2024

FESTIVAL FILOSOFICO (PER NON FILOSOFI DI PROFESSIONE) A GIBILROSSA (PA) DAL 12 AL 14 LUGLIO 2024


 

Sembra incredibile, ma siamo già arrivati alla III Edizione del Festival Filosofico di Gibilrossa! 😮🎉

Quest'anno avremo tante novità. La prima è che il Festival avrà luogo dal 12 al 14 luglio. La seconda è che, oltre alla ormai consolidata partnership con la Scuola etico-politica "G. Falcone", avremo un nuovo, fantastico sponsor: l' EPYC - European Palermo Youth Centre! 🌟💼Come di consueto, il venerdì aprirà le danze il mitico Augusto Cavadi con la passeggiata filosofica verso l'Obelisco Garibaldino. 🚶‍♂🏛

A seguire un momento di pittura collettiva insieme a Federica Romeo, che ci aiuterà ad esprimere con gli acquerelli il nostro mondo interiore. 🎨🖌

Sabato mattina, Giorgio Gagliano condurrà un confronto sul tema della "restanza": siamo infatti convinti che, tra il lasciare la propria terra e il rimanere accollandosi passivamente i soprusi, ci sia una terza via. 💭🔄

Nel pomeriggio approfondiremo il tema delle radici attraverso la danza: Roberta Megna ci accompagnerà alla scoperta di alcune danze sociali provenienti da diverse parti d'Europa. 💃🌍

Sì, perché per noi il legame con la propria terra e il cosmopolitismo devono andare a braccetto. 🌱🌐

Sabato sera, tutti i partecipanti potranno mettere in pratica quanto appreso con Roberta con la musica dal vivo: la Fòlkestra accompagnerà le nostre danze con un vasto repertorio popolare (dal Mezzogiorno alla Francia, dai Balcani all'Ungheria). 🎻🎶

Infine, la domenica mattina Augusto Cavadi condurrà il confronto conclusivo tra i partecipanti. Per questo rituale di chiusura, avremo un ospite speciale: Angelo Nuzzo ci racconterà il coraggio e la dedizione politica dei ragazzi di Epyc. 🤝🎙

Ci sarete anche quest'anno? 😊

                                                                            FEDERICA    MANTERO

giovedì 16 maggio 2024

IL CORSO DI FILOSOFIA-IN-PRATICA AL CARCERE "PAGLIARELLI" DI PALERMO SI E' CONCLUSO

 

Nella mattina di mercoledì 15 maggio si è concluso, presso la Casa circondariale  "Pagliarelli" di Palermo,  il corso di "filosofia-in-pratica" a cura dell'Asvope (Associazione di volontariato penitenziario). I 12 detenuti che vi hanno preso parte hanno esposto la sintesi dell'esperienza , evocando alcuni temi affrontati in circolo con  Francesco Chinnici, Maria Antonietta Spinosa e me: l’importanza della riflessione personale per conquistare la libertà delle proprie scelte di vita; la ricchezza del confronto dialogico con chi la pensa differentemente da noi; la differenza fra “ben-essere” e “ben-avere”;  l’insufficienza del PIL di una nazione per misurare la qualità della vita dei cittadini; la tavola dei “valori” che danno sapore e senso all’esistenza umana…Gli interventi hanno, inoltre, evidenziato la soddisfazione per il clima paritetico di ogni sessione: ognuno aveva diritto di parola esattamente come ogni altro, indipendentemente  dai ruoli istituzionali (detenuto, docente volontario, educatore carcerario etc.), senza che qualcuno si arrogasse compiti pedagogici o terapeutici o catechetici.

 L'incontro è stato arricchito dalla presenza del dott. Santi Consolo, attuale Garante dei detenuti per la Sicilia, al quale i presenti hanno consegnato una lettera-pro memoria con l'elenco di alcune criticità sofferte per ragioni strutturali (nonostante l'impegno soggettivo di tutto il personale preposto all'amministrazione e alla gestione della Casa): difficoltà a sottoporsi a visite mediche e ancor più ad  accertamenti specialistici in strutture ospedaliere; sovraffollamento nelle celle, prive di riscaldamento; frequente mancanza di acqua calda nelle docce; impossibilità di privacy nelle videochiamate con i familiari; assenza di collegamenti telematici per chi segue corsi universitari…

A sua volta il dott. Consolo (accompagnato nella biblioteca sede delle sessioni di "pratica filosofica" dalla Direttrice Maria Luisa Malato e dalle dott.sse Marisa Di Pasquali e Donatella Farruggia) , senza accenti retorici ma con palpabile empatia umana,  ha esposto le difficoltà oggettive sistemiche (di natura sia normativa che burocratico-amministrativa) con cui si devono fare i conti e ha ribadito la sua volontà di affrontarle (pur nei limiti ben circoscritti della sua attuale funzione di stimolo e di moral suasion).

 L'incontro si è concluso con la consegna degli attestati di partecipazione, di alcuni libri e segnalibri-ricordo  (nei quali veniva riportata la poesia di Erri De Luca “Valore”) nonché con un momento conviviale che  - secondo l'espressione di un detenuto presente - ha regalato "un momento di vita normale" rompendo la monotonia della condizione carceraria.

Augusto Cavadi

Vedi anche: https://www.ilmediterraneo24.it/buone-notizie/il-corso-di-filosofia-in-pratica-al-carcere-pagliarelli-con-12-detenuti/

martedì 14 maggio 2024

IL CARDINALE RUFFINI HA DAVVERO NEGATO L'ESISTENZA DELLA MAFIA ?

 

Il cardinale Ernesto Ruffini e la mafia siciliana: una questione aperta

Il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1967  (anno della morte), è stato certamente una delle figure più chiacchierate del mondo cattolico nel XX secolo. Un presbitero palermitano, don Francesco Conigliaro, ne ha voluto restituire un ritratto, per quanto possibile oggettivo, nel volume Sed contra. Ruffini dice che la mafia esiste. Pagine sul Cardinale Ernesto Ruffini Arcivescovo di Palermo, Carlo Saladino Editore, Palermo 2020. In questo corposo saggio l’autore, pur senza tacerne alcuni limiti, si impegna a difendere la memoria del vescovo da giudizi che ritiene ingiustamente detrattori, dando riprova di due caratteristiche della sua personalità: una senz’altro positiva, l’anticonformismo intellettuale; l’altra, meno apprezzabile, la vis polemica.

 

Meriti del cardinale

Di Ruffini, Conigliaro evoca la fede autentica e sincera; il forte pathos apostolico; la profeticamente illuminata “carità sociale” che lo ha indotto a una serie considerevole di iniziative volte a sradicare le cause profonde della povertà diffusa in diocesi soprattutto nei due decenni immediatamente successivi al disastro della Seconda guerra mondiale, in cui l’Italia era stata criminalmente coinvolta da Mussolini e dai suoi complici.

Del fedele segretario Longhi, l’autore di questa monografia riporta una testimonianza su qualche aspetto privato del cardinale la cui immagine pubblica era, volutamente, circonfusa del fasto a suo parere dovuto a un “principe” della Chiesa cattolica:

 

“Pochi, forse, conobbero la frugalità della sua mensa quotidiana (<<Lo stomaco – affermava – è un monello da educare>>) e la povertà di conforti della cameretta, la piccola alcova dello studio personale. Soltanto dopo il menzionato incidente [nel 1960, in seguito ad una caduta, si era spezzato il femore], che lo costrinse a letto, accettò una camera accogliente con servizi normali. Non volle mai, per sé, né riscaldamento né condizionatore d’aria” (p. 46).

Più rilevanti, ovviamente, le opere sociali progettate e realizzate (in epoca – ricordiamo – in cui non esisteva il Servizio sanitario nazionale per ogni cittadino e l’obbligo scolastico sino ai 14 anni era ampiamente disatteso):

“a) Servizi di pronto intervento (unificati nelle opere arcivescovili di assistenza): aiuto economico, oratori arcivescovili, colonie estive, soccorso invernale, corsi scolastici per adulti, assistenza lavoratori;

b) Contributo all’avvio e allo sviluppo del servizio sociale: servizio sociale aziendale, servizio sociale scolastico, servizio sociale rurale, servizio sociale in enti pubblici;

c) Opere e servizio socio-sanitari, educativo-promozionali: poliambulatorio, centri di servizio sociale, Istituto “Angelo Custode”, Villaggio Cardinale Ruffini, Scuola Superiore di Servizio Sociale <<Santa Silvia>>, scuole materne, Villaggio dell’ospitalità, pensionati femminili, Casa della Gioia, Centro di formazione professionale <<S. Giuseppe>>, Pensionato <<S. Saverio>>, Casa della serenità, Casa della misericordia;

d) Collaborazione con enti in altre città mediante il servizio sociale missionario: scuole di servizio sociale, servizi sperimentali in alcune diocesi” (pp. 50 – 51).

 

La conclusione di Conigliaro è davvero lusinghiera (soprattutto se si tiene presente il confronto implicito tra Ruffini e il suo celebratissimo successore Salvatore Pappalardo): “A mio sommesso parere, è stato il più grande arcivescovo palermitano del secolo XX. Certamente il più santo, il più onesto, il più intelligente ed il più colto” (p. 147).

Forse posso qui riferire, a conforto di Conigliaro, un piccolo aneddoto autobiografico che conferma l’umanità caratteriale del presule. Quando avevo cinque anni i miei genitori mi accompagnarono in chiesa per una celebrazione con l’arcivescovo e, al momento della distribuzione dell’eucarestia, mi incolonnai in fila per ricevere la mia particola. Una suora se ne accorse e, alla fine della messa, chiamò i miei genitori e li trascinò allarmata in sacrestia per informare il presule del sacrilegio: non avevo ancora completato il corso di catechismo  né mi ero mai confessato. Ruffini rispose con un sorriso rassicurante: “E voi pensate che oggi abbia dato la comunione a qualcuno più innocente di questo bambino?”

 

Limiti del cardinale

Qua e là l’autore richiama anche aspetti problematici del suo amato personaggio: ad esempio una severità sproporzionata verso i seminaristi, come quando sospese l’ordinazione diaconale dello stesso Conigliaro minacciandolo di allontanamento definitivo perché, insieme ad altri, si era permesso di andare, “ senza autorizzazione, a vedere, il film La Bibbia di John Huston” (p. 9). (Un altro prete, mio docente di religione al liceo, mi raccontò di essere stato, ancora seminarista, convocato da Ruffini per essere duramente ammonito: il giovane non si era inginocchiato per strada al passaggio dell’automobile cardinalizia preceduta come di solito da due motociclisti delle Forze dell’ordine). Oppure la sua “ingenuità” che lo induceva

 “a valutare positivamente ciò che per principio non poteva non essere positivo. Ecco perché per lui era impensabile che uomini di Chiesa, chiamati a vivere come discepoli del Signore, potessero essere compromessi con la mafia, che si macchiava di crimini efferati, e non dubitava mai degli uomini delle istituzioni, dei quali dimostrava sempre di avere un alto concetto” (pp. 6 – 7),

tranne quando questi uomini – “e qui ingenuità si aggiungeva ad ingenuità” (p. 7) – si dimostravano poco combattivi contro “le forze politiche di sinistra”:  il suo “anticomunismo deciso” (ivi) impedì qualsiasi rinnovamento nella composizione delle giunte di governo regionale, contribuendo involontariamente al degrado etico della Democrazia Cristiana, troppo sicura di ottenere comunque la maggioranza dei voti ad ogni elezione. (Conigliaro avrebbe potuto aggiungere che il cardinale in campagna elettorale invitava per iscritto preti, suore e fedeli a votare per il “partito cattolico” ed anzi chiamò dalla Lombardia il figlio di un fratello, Attilio Ruffini, che costruì proprio a Palermo una rapida carriera politica sino ai vertici del governo nazionale, conclusasi in maniera brusca e assai poco limpida). In una nota a piè di pagina Conigliaro afferma che

 “non si riesce a capire la ragione per cui lo stesso cardinale, che per il seminario diocesano s’impegnò al massimo delle possibilità e dei mezzi di cui disponeva sia per l’edilizia che per la qualità della vita dei seminaristi, nel settore degli studi consentì il porsi di un processo continuo di degradazione, soprattutto a motivo della graduale dequalificazione dei docenti (ci furono professori improvvisati anche nel corso teologico) e della totale incuria della biblioteca (quella esistente, a motivo di un irragionevole smembramento, fu resa inutilizzabile e non fu aggiornata)” (p. 53).

Qui è Conigliaro stesso a peccare d’ingenuità come il suo amato arcivescovo: Ruffini era un testardo conservatore in teologia (mons. Emanuele Parrino ci raccontò di essere stato chiamato in curia dove il presule, appena tornato da Roma dopo l’approvazione della Costituzione conciliare Dei Verbum, tra le lacrime, gli confidava l’angoscia per la protestantizzazione della Chiesa cattolica sul tema del rapporto tra Bibbia e Tradizione: “I miei confratelli vescovi hanno distrutto la Chiesa !”); sapeva benissimo quali sommovimenti erano in atto nella Chiesa ad opera dei biblisti e dei “sistematici” più esperti (egli stesso era stato docente di Scienze bibliche a Roma); dunque non poteva fare spazio ai novatores né in carne ed ossa né attraverso le loro pubblicazioni. Si capisce benissimo perché consentisse d’insegnare solo a chi era disposto pappagallescamente a trasmettere la “dogmatica” ottocentesca (talora per mancanza di coraggio, talora per ambizione di carriera, talaltra proprio perché in buona fede convinto che l’impalcatura concettuale edificata dal Medioevo al XX secolo fosse ben fondata sulle Scritture e sulla ragione naturale) e perché vietasse di acquistare libri che potessero contribuire a quell’ “aggiornamento” che Ruffini avrebbe pervicacemente contrastato nel corso del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962 – 1965). In questa logica censoria rientrava il divieto per gli aspiranti al sacerdozio di acquisire anche titoli accademici rilasciati da università statali , divieto di cui lo stesso Conigliaro dichiara di essere stato vittima (cfr. p. 8): il prete ruffiniano non doveva essere troppo informato di ciò che accadeva nella cultura “laica” né tanto meno possedere una laurea ‘civile’ che, in caso di “pentimento”, gli consentisse un lavoro fuori dalle strutture ecclesiastiche. Più in generale, il cardinale interpretava in maniera paternalistica il suo ruolo di “pastore” sul presupposto che i fedeli fossero troppo ignoranti e immaturi per regolarsi da sé: anche se Conigliaro non ha modo di ricordarlo, la diocesi di Palermo era forse l’unica al mondo in cui si incorresse nella scomunica latae sententiae (per intenderci: automatica, senza bisogno che qualche autorità gerarchica la comminasse esplicitamente ad personam) se si entrava in un tempio valdese o anglicano, anche solo per ragioni turistiche e senza assistere a nessun culto “ereticale”. Né Ruffini mostrava particolare fiducia nei suoi più stretti collaboratori. Celebre il breve discorso in cui egli diede l’annunzio della nomina del suo vescovo ausiliario, mons. Filippo Aglialoro (discorso a braccio che mi è stato riferito da uno dei preti presenti):

 “Oggi L’Osservatore Romano dà notizia della nomina, da parte del Santo Padre, di monsignor Aglialoro a vescovo ausiliario di Palermo. Di lui tutto si può dire tranne che non sia obbediente. Si potrebbe obiettare che le sue condizioni di salute non siano eccellenti, ma non dovrà lavorare molto: l’abbiamo scelto a ornamento dell’arcidiocesi”. 

Conigliaro riporta una serie di citazioni che attesterebbero una sorta di conversione finale di Ruffini alle conclusioni del Concilio ecumenico Vaticano II (pp. 231 – 234): se tale conversione è davvero avvenuta, non posso che rallegrarmi per la buonanima del presule. Ma senza trascurare che sarebbe avvenuta soltanto a circa un anno dalla sua morte improvvisa per infarto subito dopo aver deposto la scheda  in occasione di elezioni amministrative. Se è vero l’aneddoto che circolò allora – una battuta confidenziale di Paolo VI rattristato per la resistenza anticonciliare di Ruffini e del suo amico Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova: “Sapete se ci saranno anche in Liguria delle elezioni amministrative nell’immediato futuro?” – la notizia della tardiva conversione del “tradizionalista” Ruffini non dovette arrivare tempestivamente in Vaticano.

 

Ruffini ha negato l’esistenza della mafia?

Il cuore del volume, come annunziato già nel sottotitolo (Ruffini dice che la mafia esiste), è costituito dalla decostruzione di due asserzioni comunemente e falsamente attribuite al cardinale lombardo: che “la mafia non esiste” e che essa è piuttosto “invenzione del socialcomunisti” (p. 139). Questa accusa si basa su un’esegesi tendenziosa di una lettera di Ruffini, in risposta a monsignor Angelo Dell’Acqua che, dopo la strage di Ciaculli (1963), a nome del papa Paolo VI, aveva lodato un’iniziativa del pastore valdese Pier Valdo Panascia e sollecitato l’arcivescovo di Palermo  a promuovere “un’azione positiva e sistematica […] per dissociare la mentalità della cosiddetta ‘mafia’ da quella religiosa” (p. 138). In questa risposta alla Segreteria di Stato vaticana, Ruffini aveva letteralmente scritto:

“Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della cosiddetta mafia sia associata a quella religiosa. E’ una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dall’isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia” (p.139).

Conigliaro contesta la “ermeneutica antiruffiniana” (p. 139) di queste righe che opera  “un duplice massacro: quello del testo della lettera e quello della persona di Ruffini” (p. 140). Egli cita in proposito una lunga serie di intellettuali che, come una valanga, si sarebbero sommati avviluppandosi l’un dopo l’altro in questa accusa di “negazionismo”: padre Ennio Pintacuda (pp. 141 – 142), Antonio Roccuzzo (pp. 142 – 144), Roberto Scarpinato (pp. 145 – 146), Enzo Biagi (pp. 146 – 148), Luciano Mirone (p. 148), padre Nino Fasullo (pp. 148 – 155, 177 – 180, 190 – 193, 225 – 226ò), don Rosario Giué (pp. 155 – 159, 180 – 182, 189 – 190, 211-214, 217 – 222, 228 - 237), Saverio Lodato (p. 156), Nino Alongi (pp. 182 - 183), mons. Domenico Mogavero (pp. 171 – 172). Don Francesco Michele Stabile è l’interlocutore principale del libro di Conigliaro, dalla prima all’ultima pagina: sarebbe “caposcuola” (p. 189) dell’ermeneutica “antiruffiniana” , ma non responsabile delle esasperazioni interpretative che gli studiosi successivi avrebbero tratto dalla sua ricerca storiografica.

A parere di Conigliaro – e mi pare che qui difficilmente gli si possa dar torto – nel passaggio appena citato della lettera a Dall’Acqua, Ruffini non ha negato l’esistenza della mafia, ma l’esistenza di un collegamento fra mafia e mentalità religiosa; inoltre ha accusato i socialcomunisti di aver inventato non la mafia, ma il collegamento della mafia con il partito cattolico, la Democrazia Cristiana.

Ciò precisato, dal punto di vista per così dire filologico-esegetico, Conigliaro ammette onestamente che comunque le opinioni del compianto arcivescovo non siano condivisibili. Infatti egli, ragionando in maniera astratta, era convinto che “tra autentica mentalità religioso-cristiana e mentalità mafiosa non è pensabile alcuna associazione” (p. 140) e, “applicando la propria ingenua logica deduttiva, escludeva che tra cristiani (nella mentalità, nella Chiesa e nella politica) e mafia ci potessero essere complicità” (pp. 140 – 141). Su questo tema “l’analisi storica ha dato torto a Ruffini” (p. 140) : “aveva torto, ma tutto ciò che a questo proposito gli si può rimproverare è, oltre l’ingenuità, la sottovalutazione della mafia, delle sue attitudini e delle sue possibilità” (p. 141). Veramente a Ruffini si potrebbe rimproverare un’altra cecità (ma questa comune a molti papi, vescovi e teologi, Conigliaro incluso): che se il nucleo originario dell’evangelo cristiano è davvero incompatibile con una mentalità mafiosa, non altrettanto incompatibile con questa lo è il complesso dogmatico, etico, simbolico, giuridico, linguistico costituito dal cattolicesimo mediterraneo (intriso di antropomorfismo teologico, patriarcato, gerontocrazia, familismo, misoginia, sessuofobia e molto altro)[1].

Ruffini non ha negato , insomma, l’esistenza della mafia. E mi pare prezioso il riferimento ad una intervista, che non conoscevo,  in cui lo stesso Ruffini - 4 anni prima allo scambio di lettere con Roma – dichiara a F. Rosso de La Stampa di Torino:

 “ Qui abbiamo problemi enormi da risolvere, pensi a cosa è la mafia, alla sua rete di delitti. Già i mezzi per combatterla sono insufficienti e come se non bastasse arriva una nuova amnistia. Faccia il calcolo di quante amnistie sono state concesse dalla fine della guerra, una ogni due anni” (p. 155).

Ha parlato della mafia, ma in termini riduttivi, come mero fenomeno delinquenziale di ordine pubblico. E’ vero che in questo condivideva l’opinio communis attestata perfino dai magistrati siciliani nei loro interventi pubblici, ma Conigliaro deve ammettere che il Parlamento aveva varato una Commissione antimafia (di cui Ruffini mette in evidenza, per criticarla, il “carattere marcatamente politico”, p. 157) e che il quotidiano L’Ora del tempo divulgava un’idea più ampia di mafia come soggetto non solo militare, ma anche economico, politico e culturale. Potremmo aggiungere che questa visione più articolata del sistema mafioso era stata offerta a chi avesse avuto sincera volontà di capire già dal liberale Franchetti nel 1876 nella sua relazione su  Le condizioni sociali e amministrative della Sicilia  e, in tempi più vicini a Ruffini, da intellettuali come Mario Mineo, Michele Pantaleone, Leonardo Sciascia ed altri (tra cui Danilo Dolci su cui torneremo fra breve). Di queste voci ‘profetiche’ non mi pare tengano conto i commentatori di ogni orientamento, i quali convergono univocamente nella considerazione (attenuante) che “l’approccio ruffiniano a quell’epoca era quello stesso dei procuratori della repubblica di Palermo e, si può aggiungere, dei prefetti, dei questori e dei generali dell’arma dei carabinieri” (pp. 201 – 202).   Ruffini, condizionato dalla presunzione di essere esponente apicale di una Chiesa docente in nome e per conto dello Spirito Santo, non ebbe nessun desiderio di imparare da fonti “laiche” competenti come, in quegli stessi anni, molti dei suoi confratelli riuniti in concilio al Vaticano raccomandano ai fedeli per decifrare le problematiche storico-sociali.  Secondo Conigliaro, sarebbe persino eccessivo affermare che Ruffini si sia preoccupato di tenersi lontano dalle “tesi proprie della sinistra”:

 “Tenendo conto del tipo che era Ruffini e dell’idea che aveva di quelli che egli chiamava socialcomunisti, escludo che ciò possa essere accaduto consapevolmente: credo di poter sostenere che non ha neppure preso in considerazione quelle tesi” (p. 163).

Si potrebbe notare che Ruffini non ha avuto orecchie neppure per le rare voci del mondo cattolico che mostravano di intuire le reali dimensioni del sistema di dominio mafioso, come il vescovo di Agrigento G.B. Peruzzo (cfr. pp. 133 -135) e don Luigi Sturzo (di cui neppure Conigliaro ricorda il testo teatrale Mafia).  

L’autore di questo volume ricorre a una Lettera pastorale di Ruffini, di nove mesi successiva all’infelice risposta a monsignor Dall’Acqua, intitolata Il vero volto della Sicilia (1964) , per rafforzare la sua tesi: Ruffini non solo ha parlato della mafia, ma ne ha parlato in termini storico-sociologicamente aggiornati. Infatti, dopo aver redatto le famigerate frasi

“In questi ultimi tempi si direbbe che è stata organizzata una grave congiura per disonorare la Sicilia: e tre sono i fattori che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci” (p. 168),

-       frasi nelle quali, incredibilmente, la malattia (la mafia) viene equiparata per pericolosità   al medico (Danilo Dolci) - recependo le analisi di G.G. Loschiavo in 100 anni di mafia (Roma 1962), egli scrive:

 

“Qui è necessario richiamare le condizioni dell’agricoltura nella Sicilia Centrale e Occidentale di quei tempi [la seconda metà dell’Ottocento]. Venuta meno la difesa che proveniva dall’organizzazione feudale e infiacchitosi il potere politico, i latifondi ebbero bisogno di assoldare squadre di picciotti e di poveri agricoltori per assicurare il possesso delle loro estese proprietà. Si venne così a costituire uno Stato nello Stato, e il passo alla criminalità, per istinto di sopraffazione e di prevalenza, fu molto breve. Tale può ritenersi, in sostanza, l’origine della mafia contemporanea” (p. 169).

 

Dunque sino a quando i feudatari, in barba a tutti i provvedimenti costituzionali che dal 1812 in poi avevano abolito il feudalesimo, si fanno un esercito privato per impedire ai contadini di diventare proprietari delle terre che coltivano da secoli in condizioni peggiori della schiavitù, per Sua Eminenza (e per il suo generoso apologeta Conigliaro) saremmo nella legalità. Il “passo alla criminalità” sarebbe stato compiuto quando questo esercito privato decide di emanciparsi dalla sudditanza nei confronti dell’aristocrazia feudale e, “per istinto di sopraffazione e di prevalenza” (!), di esercitare in proprio la violenza. Della tragedia dei Fasci siciliani nell’ultimo decennio del XIX secolo non c’è neppure una labile traccia. Direi per fortuna, perché temo che nella mentalità spaventosamente medievale di Ruffini la repressione dei contadini in rivolta, per il diritto elementare di non morire di fame e di non vedersi sottrarre totalmente il frutto del proprio sudore, operata congiuntamente dall’esercito e dai mafiosi, sarebbe stata esaltata come un ritorno dalla “criminalità” alla legalità del possesso nobiliare dei latifondi. Neanche una linea neppure sulle numerose stragi politico-mafiose del Secondo dopoguerra di cui Portella della Ginestra (1947) è solo la punta più eclatante. Molto opportunamente don Stabile nota che il tentativo di Ruffini di incrementare l’impegno civile dei cattolici

 

 “rimase circoscritto alla lotta anticomunista e a una solidarietà che rimaneva sul piano del servizio sociale e assistenziale e non arrivava alla rivendicazione sociale della terra (come invece avrebbe voluto mons. Peruzzo, vescovo di Agrigento), perché la riforma della proprietà fondiaria avrebbe potuto spezzare il fronte anticomunista con le destre” (pp. 204 – 205).

 

In (provvisoria) conclusione

Per dirimere la questione se Ruffini abbia negato o meno la mafia bisognerebbe accordarsi, preliminarmente, su una questione lessicale. Se per mafia intendiamo, come intende Ruffini, una delle tante forme di criminalità operanti da sempre (e direi per sempre) in tutte le aree del pianeta, Ruffini non ne ha negato l’esistenza. Anzi, l’ha stigmatizzata ripetutamente. Se, invece, con lo stesso termine indichiamo un soggetto militare, economico, politico e culturale costituito da “una sparuta minoranza” di siciliani che contano sulla complicità di una molto più consistente minoranza (Tommaso Buscetta sosteneva che i circa 5.000 “uomini d’onore” delle “famiglie” mafiose potessero contare su circa un milione di siciliani di ogni strato sociale, dunque su un quinto della popolazione complessiva dell’Isola), Ruffini ne ha negato l’esistenza. E’ davvero stupefacente sostenere ai nostri giorni, come fa don Conigliaro, che “ Ruffini ha parlato della mafia e ne ha colto perfettamente la natura” (p. 192) e che, “se si vuole continuare a parlare di sottovalutazione della mafia anche a proposito della lettera pastorale di quest’anno [1964], è necessario precisare che essa rimane a livello pastorale-pratico, ma non più a livello teorico” (p. 194). 

Se Ruffini abbia  negato il vero volto della mafia per dolo o in buona fede è un’altra questione che va distinta dalla prima (e che, pertinendo alla sfera della coscienza individuale e delle intenzioni soggettive, è forse impossibile dirimere).

E se in questa negazione (o intenzionale o inconsapevole) sia stato preceduto, affiancato e seguito da una pletora di studiosi, di magistrati, di politici, di insegnanti, di preti è un’altra questione ancora: se errore ci fu, le attenuanti non lo azzerano.

La necessità epistemica di distinguere queste tre questioni è quanto ho ricavato, alla fin dei conti, dalla lettura del libro di Conigliaro. E potrebbe essere un istruttivo punto di (ri)partenza per quanti in futuro vorranno occuparsi della vicenda.

                                                                                          Augusto Cavadi

* Chi volesse vedere questo articolo nella versione illustrata può entrare con un click dentro il bimestrale (scaricabile gratuitamente) "Dialoghi mediterranei" (che contiene molti contributi interessanti a firma di vari autori): 

https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-cardinale-ernesto-ruffini-e-la-mafia-siciliana-una-questione-aperta/

 

 



[1] Cfr. A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Milano 2009 e il saggio Una chiave di lettura complessiva     contenuto nel volume da me curato Il Vangelo e la lupara. Documenti e studi su Chiese e mafie, Di Girolamo, Trapani 2019, pp. 9 – 58. Per entrambi gli scritti sono debitore agli spunti ‘pionieristici’ di don Cosimo Scordato nel suo Abbozzo di una riflessione teologica 'cattolica', originariamente ospitato  con il titolo Chiesa e mafia sulla rivista "Il Regno-attualità" (1992,37), poi ripubblicato nella mia raccolta Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia, vol. I (Storia. Teologia. Pastorale), Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, pp. 157 - 162.                           .

lunedì 13 maggio 2024

CI VEDIAMO IN ALTO-ADIGE DAL 21 AL 23 MAGGIO 2024 ?

 

Comunico in anticipo il calendario dei miei incontri pubblici in Alto-Adige nell'anniversario della strage di Capaci del 1992 in modo che le amiche e gli amici interessati possano organizzarsi per incontrarci.

*Martedì 21 maggio ore 20,30 incontro a Bolzano, nella Chiesa dei Tre Santi in viale Duca d'Aosta 25, a partire dal volume (scritto con don Cosimo Scordato) "Padre Pino Puglisi" (Edizioni Il Pozzo di Giacobbe)

* Mercoledì 22 maggio ore 18,30 incontro a Merano,  presso il Centro per la Cultura in via Cavour 1, a partire dal mio volume "L'inquietante eredità di Falcone e Borsellino" (Edizioni Di Girolamo)

* Giovedì 23 maggio alle ore 18,00  incontro a Bolzano,  presso la Biblioteca Civica, in via Museo 47, a partire dal mio volume  "Quel maledetto 1992. L'inquietante eredità di Falcone e Borsellino" (Edizioni Di Girolamo)

Tutti questi incontri sono a ingresso libero e puntuale. 

* L'incontro di giovedì 23 dalle ore 8,00 alle 10,30 all'Istituto "Marcelline" di Bolzanoin viale Eugenio di Savoia 7A,  a partire dal mio libretto  "La Mafia spiegata ai turisti" (Edizioni Di Girolamo), è riservato a insegnanti, studenti e studentesse dell'Istituto ospite. Chi avesse motivi particolari per voler partecipare dovrebbe concordare la sua presenza  telefonando al 3804764060

domenica 12 maggio 2024

"PUNIZIONE" :GIOVANNI FIANDACA SI INTERROGA SUL SISTEMA PENALE IN ITALIA (E NON SOLO)

 

OSARE LA CREATIVITA’ DELLA RIPARAZIONE

Nell’immaginario comune il filosofo e il professore di storia della filosofia coincidono. Ma ciò non è sempre vero: ho incontrato ottimi conoscitori del pensiero filosofico  indenni da inquietudine filosofica e, viceversa, persone impegnate in attività lavorative di vario genere che s’interrogano con autenticità sul senso di ciò che sono e di ciò che fanno. Ancora una volta, nel suo Punizione (Il Mulino, Bologna 2024), Giovanni Fiandaca, docente emerito di Diritto penale all’Università di Palermo e già membro del Consiglio Superiore della Magistratura, dimostra di appartenere alla seconda categoria. Dopo mezzo secolo speso nello studio e nell’insegnamento del Diritto penale, avverte l’esigenza intellettuale ed esistenziale di dare spazio a una domanda radicale: perché punire?

Nell’epoca delle risposte sloganistiche, tanto più trancianti quanto meno meditate, egli dedica la maggior parte del libro (non voluminoso, ma intenso) a restituire l’ampio panorama delle teorie – antiche e contemporanee – della “pena”: e lo fa, meritoriamente, con l’intento di astenersi “dal giuridichese e dai relativi tecnicismi” e di “distillare il succo di innumerevoli discussioni dottrinali, per offrire una sintesi che possa risultare di agevole comprensione e di qualche interesse fuori dai recinti accademici” (p.72). Parlamentari che esercitano il potere legislativo, magistrati che hanno la responsabilità di applicare le norme ai casi concreti, genitori ed educatori inseriti nei più svariati contesti pedagogici (anche ecclesiali), sarebbero dunque i destinatari principali di queste pagine, scritte per chi non si adagia sul tradizionalismo (rispetto al passato) né sul conformismo (rispetto al presente).

Alla domanda sulle ragioni fondanti della punizione si sono date varie risposte, catalogabili in tre principali prospettive: retributiva ( ogni male inflitto a qualcuno esige, come “scambio compensativo”, un male proporzionato da infliggere a chi ne è stato causa); preventiva (la punizione del reo può prevenire in lui stesso la reiterazione dei reati e, più in generale, può dissuadere gli altri dal commetterne); rieducativa o riabilitativa (la punizione come metodo per innescare nel condannato dinamiche di autocritica e di revisione del suo rapporto con la società).

Le prime due teorizzazioni sono le più antiche e non sono state certo esenti da critiche e sospetti: “la dimensione di sofferenza è ineliminabile dalla sanzione punitiva per una qualche ragione davvero necessitante” (p.28), come si sostiene in un’ottica retributiva? “Le ricerche empiriche sinora disponibili” hanno fornito “riscontri certi e univoci circa l’attitudine preventiva della minaccia e dell’applicazione delle pene” o nella pratica giudiziaria quotidiana “ci si accontenta di una radicata e diffusa supposizione di senso comune” secondo la quale “il timore di poter incorrere in una punizione riesca – seppure col concorso di altri fattori – a dissuadere quantomeno alcune persone dall’agire illecitamente” (p. 79) ?

Le  obiezioni a questi due paradigmi hanno indirizzato gli studiosi verso il terzo paradigma “rieducativo” o “riabilitativo” che può considerarsi “una coerente proiezione, sul versante specifico dei delitti e delle pene, della più generale ispirazione personalistico-solidaristica che connota l’intero sistema costituzionale” (p. 91). In uno Stato laico, “la rieducazione è interpretabile non già come un compito da imporre a ogni costo, bensì come un’offerta da parte dello Stato di forme di ausilio e opportunità che richiede sempre la previa accettazione volontaria dei destinatari; in mancanza di un’autonoma scelta di intraprendere un percorso risocializzativo, la rieducazione scadrebbe da proposta  od offerta in imposizione abusiva” (p. 98). Che in questa ottica il carcere non sia l’istituzione più adatta è ormai convinzione diffusa tra quanti lo frequentano a vario titolo. Ma Fiandaca, anche in base alla sua esperienza di garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia (alla quale dedica nell’Epilogo delle pagine coraggiosamente sincere), non può tacere “un paradosso: la consapevolezza che il carcere non sia lo strumento migliore per (tentare di) rieducare è maturata abbastanza presto; in verità, sin dai primi decenni dell’Ottocento (…) . Ciononostante, la pena carceraria sopravvive e, a seconda delle contingenze, tende a espandersi” (pp. 103 – 104). Alla radice di questo paradosso una scomoda verità: la moltiplicazione di alternative alla detenzione carceraria, in funzione della riabilitazione degli autori di reati, presupporrebbe “un contesto politico adatto e un previo riorientamento culturale, una sorta di rieducazione dell’intera società” (p. 115).

In direzione di questo (auspicabile) mutamento di mentalità alcuni studiosi sono alla ricerca di “nuove strade allo scopo di promuovere cambiamenti radicali in tema di punizione. Emblematica di questo bisogno di rinnovamento è la recentissima tendenza a recuperare e valorizzare il paradigma della riparazione” (pp. 85 – 86) nel quale l’attenzione, sinora prevalente, sull’ “autore del reato” (p. 128) viene bilanciata dalla preoccupazione di “dare voce alle vittime dei reati e di esaudirne quanto più possibile le aspettative” (p. 129). Quando la libertà del colpevole incontra la libertà della vittima (diretta o indiretta) si apre lo spazio per sperimentare “modalità riparatorio-conciliative” (p. 127) talora inedite, talaltra riportate alla luce da tradizioni millenarie.  Toccanti le righe in cui Agnese Moro, figlia di Aldo, confida: “Nel mio caso la giustizia penale ha fatto tutto quello che poteva fare. Ha individuato i colpevoli, li ha processati e condannati a pene molto elevate. Seguendo la logica della giustizia retributiva, io teoricamente dovrei stare bene (…). Si vive la tirannia del dolore, che è come un urlo che non si può esprimere perché sei pieno di rabbia, di odio, di impotenza (…). E’ stata quella decisione che mi ha dato uno spazio quasi impercettibile per potermi guardare intorno e scorgere possibili sentieri da imboccare. Quello di gran lunga più importante è stato quello della giustizia riparativa” (pp. 144 – 145).

Fiandaca non sorvola sui limiti, di diritto e di fatto, di questo “modello di giustizia affascinante e assai promettente” i cui strumenti (come la “mediazione penale”) non possono considerarsi “bacchette magiche, rimedi miracolistici atti a curare tutti i mali che da tempo attribuiamo alla giustizia penale” (p. 140). Potrei aggiungere che si tratta di un modello che – al pari dell’approccio “nonviolento”, proposto da Gandhi a Capitini, con cui è imparentato – è esattamente l’opposto del “buonismo” rinunciatario: mira, infatti, a trascendere il piano (necessario, ma insufficiente) della legalità per osare la radicalità della creatività rigeneratrice. Obiettivo ambizioso sempre, ancor di più “quando sono al governo forze politiche di orientamento fortemente repressivo-securitario” (p. 177).

                                                                       Augusto Cavadi

                                                        “Adista /Segni nuovi”, 18.5.2024

sabato 11 maggio 2024

CRISPINO DI GIROLAMO ELETTO PRESIDENTE DELL' UELCI

Crispino Di Girolamo, trapanese di 59 anni, fondatore ed editore del Gruppo editoriale Il Pozzo di Giacobbe (che comprende anche i marchi Buk Buk, Di Girolamo editore e Il Sicomoro) è il nuovo presidente dell'Unione Editori e Librai Cattolici (UELCI), la storica associazione nata nel 1944 che attualmente riunisce all’interno del mondo cattolico una cinquantina di marchi e oltre un centinaio di librerie (comprese grandi catene gestite dai gruppi Paoline, San Paolo, Ancora, LDC).

L'elezione è avvenuta il 10 maggio 2024 a Torino in coincidenza con il Salone Internazionale del Libro.
Sono grato alla Vita per avermi donato l'incontro con Crispino, amico sincero ed editore serissimo. Solo in era Francesco è stato possibile eleggere al vertice dell'editoria cattolica italiana una persona come Crispino che "cattolico" è nell'accezione semantica originaria (greca) di "universale" piuttosto che nel significato corrente, e riduttivo, di appartenente a una delle tantissime denominazioni in cui nei due millenni si è suddiviso il mondo cristiano.
I suoi cataloghi, infatti, ospitano scritti firmati da autori che gravitano nell'ambito non solo della Chiesa romana (Chiara Aiosa, Sergio Bastianel, Giuseppe Bellia, Benedetto XVI, Lorenzo Blasetti, Eberhard Bons, Luigino Bruni, Alfonso Cacciatore, Anna Carfora, Rosaria Cascio, Vincenzo Ceruso, Sabino Chialà, Piero Coda, Annamaria Corallo, Mariano Crociata, Alessandro Damiano, Bruno Di Maio, Giovanni Ferretti, papa Francesco, Lilli Genco, Rosario Giué, Jean Goss, Andrea Grillo, Eugenio Guccione, Annalisa Guida, Vito Impellizzeri, Salvino Leone, Corrado Lorefice, Fabrizio Mandreoli, Massimo Naro, Raffaele Nogaro, Calogero Peri, Sylwia Proniewicz, Erich Przywara, Antonino Raspanti, Gianfranco Ravasi, Salvatore Resca, Giovanni Salonia, Vincenzo Sanfilippo, Cosimo Scordato, Elisabeth Shussler Fiorenza, Maria Antonietta Spinosa, Francesco Michele Stabile, Sergio Tanzarella, Lorenzo Tommaselli, Adriana Valerio...), ma anche di altre confessioni cristiane (Adolf Harnack, K. Renato Lings, Lidia Maggi, Renato Salvaggio, Lev Tolstoj, Sergio Velluto...), della ricerca post-religionale e post-teistica (Fabio Bonafé, Dario Culot, Ortensio da Spinetoli, Lloyd Geering, Valerio Gigante, Luca Kocci, Hans Kung, Roger Lenaers, Elio Rindone, John Shelby Spong, Nuccio Vara...) nonché da autori di formazione 'laica' che si occupano di tematiche filosofiche, storico-sociali, letterarie, artistiche (Giovanni Abbagnato, Laura Anello, Stefania Arcara, Felicia Bartolotta Impastato, Marcello Benfante, Alberto Giovanni Biuso, Elio Camilleri, Antonino Cangemi, Luigi Cavallaro, Giancarla Codrignani, Salvatore Costanza, Andrea Cozzo, Amelia Crisantino, Michele Cucuzza, Davide Fadda, Sara Favarò, Salvatore Ferlita, Francesco Forgione, Luca Grecchi, Giorgio Jossa, Anna Li Vigni, Nicola Lo Bianco, Girolamo Lo Verso, Marilena Monti, Davide Miccione, Edgar Morin, Salvatore Mugno, Maurizio Muraglia, Ernesto Oliva, Maurizio Padovano, Francesco Palazzo, Giacomo Pilati, Neri Pollastri, Graziella Priulla, Anna Puglisi, Gianni Rigamonti, Adriana Saieva, Umberto Santino, Luciano Sesta, Luca Tescaroli, Salvo Vitale, Emma Vindigni... ).
Insomma: il Gruppo editoriale, uno e quadruplo, diretto da Crispino è un'esemplificazione eloquente di ciò che dovrebbe essere sempre più la Sicilia: un luogo di incrocio, contaminazione e integrazione fra tutte le tradizioni mediterranee ed europee (dall'ebraismo al pensiero greco, dall'islamismo all'illuminismo, dalla poesia alle scienze economiche).
Gli autori che ho citato - sulla base di ricordi personali - sono sono una parte degli autori che hanno pubblicato in una delle 4 case editrici di Crispino; Per chi vuole regalarsi un viaggio più completo in questa vasta e articolata produzione, basta dunque qualche click:





venerdì 10 maggio 2024

"PACE, TERRA, DIGNITA'" : LA LISTA DI RANIERO LA VALLE E MICHELE SANTORO SARA' PRESENTE IN TUTTA ITALIA

 Anche se la notizia è sinora passata quasi sotto silenzio, il TAR ha ammesso la lista elettorale per le Europee dell'8 - 9 giugno 2024 anche nel Nord-Ovest: dunque sarà possibile votarla in tutta Italia.

Chi ha già le idee chiare sulla lista da votare può chiudere questo post: basta che sappia con completezza la rosa delle sue possibilità.

Chi, invece, è in fase di riflessione e desidera maggiori informazioni sul programma di questa lista, ne può leggere più sotto il programma elettorale.

Comunque è al 50% circa degli elettori e delle elettrici che NON hanno intenzione di recarsi alle urne che rivolgo, sommessamente e amichevolmente, l'invito a riflettere: siete sicuri che i concittadini e le concittadine che, andando a votare, decideranno anche al vostro posto, lo faranno saggiamente? O che non faccia nessuna differenza tra le liste e i candidati al Parlamento europeo? Avete riflettuto che voi potete benissimo non occuparvi della politica, ma la politica si occuperà comunque di voi?  I poteri 'forti' che condizionano le assemblee legislative e i governi sono oscuri e numerosi: ma se mandiamo a rappresentarci sempre i peggiori in lizza (i meno competenti e i più corruttibili), ne ostacoliamo o ne facilitiamo l'influenza nefasta?

La democrazia presuppone che i cittadini siano liberi di pensare e di esprimersi, ma a sua volta la libertà di pensare e di esprimersi presuppone informazione, riflessione critica, confronto sereno con le persone di cui ci si fida.

***

PER UN PROGRAMMA ELETTORALE DI “PACE TERRA E DIGNITÀ”

 

Due popoli vittime, l’Europa in fiamme, il mondo in pericolo, l’impoverimento crescente, la Terra che trema, noi tutti senza pace. 

Con le elezioni europee, la salvezza può cominciare dall’Europa se riscopre se stessa e, a partire dalla riconciliazione tra la Russia, gli Stati Uniti e l’Occidente si rivolge al mondo per costruire la pace. 

 

 

Pace

 

La Pace non sta da sola. Pace Terra e Dignità sono i tre beni comuni primari di una politica che restituisca innanzitutto ai giovani la speranza e la fiducia nel futuro, e possa promettere l’ancora inattuato “diritto al perseguimento della felicità”.

Tutti dicono di volere la pace nel mondo, ma questa non si può nemmeno pensare se prima non finiscono i massacri in Ucraina e in Medioriente, se non si pone fine alla “terza guerra mondiale a pezzi” che arriva fino al Pacifico. La Pace non solo è assenza di violenza delle armi e di pratiche di guerra, vuol dire non rapporti antagonistici né sfide militari o sanzioni genocide tra gli Stati, mettere la diplomazia al primo posto, implica prossimità e soccorso a tutti i popoli nei momenti di difficoltà.

Oggi risuona per l’Europa la domanda gridata da papa Francesco: “Dove vai Europa? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni?”. “L’anima europea è nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione”. Ma oggi essa è in pericolo perché ha tradito le ragioni per cui è nata. 

Per adempiere al suo compito occorre che ripudi le armi come mezzo di offesa agli altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali, che ottenga il cessate il fuoco in Ucraina, che intervenga con ininterrotta energia finché i popoli di Gaza e Palestina non siano restituiti a godere il valore della vita e una umana convivenza. 

Noi consideriamo la guerra la manifestazione più estrema del potere patriarcale fondato sulla logica di potenza, sulla sopraffazione, sulla violenza. Le culture e le pratiche dei movimenti delle donne che vi si oppongono possono essere determinanti per costruire un mondo nuovo, pacifico e giusto, fondato sulla cura, sollecito delle differenze e avverso alle diseguaglianze.

Noi non consideriamo la politica, nemmeno le elezioni, come lo scontro tra Amico e Nemico. Per questo partecipiamo ad esse non per vincere seggi ma per sottrarre l’Europa alla guerra e invitare tutte le forze politiche a riconoscersi in ciò che è essenziale per tutti e ad esplorare le strade verso un altro mondo possibile.

Perciò chiediamo al Parlamento e alle Istituzioni europee che facciano queste scelte:

 

1) Riguardo alla pace in Europa, non confondere la solidarietà data all’aggredito col rifornirlo di armi ed aizzarlo allo scontro promettendogli impossibili vittorie, alimentando un conflitto infinito suscettibile di precipitare in una terza guerra mondiale, fino al ricorso alle armi nucleari e alla distruzione del genere umano e della natura. Occorre cessare l’invio di armi all’Ucraina e coadiuvarla in un negoziato che garantisca la reciproca sicurezza alle parti e risolva con procedure democratiche e di autodeterminazione il contrasto sulle terre contese. 

 

2) Riguardo agli orrori di Gaza l’Europa confermi la condanna della strage del 7 ottobre e il diritto degli israeliani a vivere in pace e in sicurezza. Egualmente l’Europa denunci il massacro in corso di donne, bambini e civili, l’espulsione di milioni di persone dalle loro case, i territori occupati in dispregio delle delibere dell’ONU, la pulizia etnica, il regime di apartheid e la soppressione dei diritti civili dei palestinesi; si unisca alle richieste della Corte di Giustizia dell’Aja e agisca per il cessate il fuoco immediato, la liberazione degli ostaggi israeliani e dei detenuti politici palestinesi, a cominciare da Marwan Barghuti. Vanno anche liberati tutti gli incarcerati, nelle prigioni dello Stato d’Israele, senza un capo d’accusa. L’Europa deve impegnarsi a farsi mediatrice e a promuovere la ricerca di una soluzione della questione palestinese, nonché la riedificazione di Gaza, il ritorno alle loro case distrutte dei suoi abitanti e un piano straordinario di aiuti umanitari e sanitari.

 

3) La soluzione dei “due popoli in due Stati” - prevista fin dall’origine, perseguita fino all’uccisione di Rabin, e ora respinta da Israele –  appare oggi più difficilmente praticabile per la colonizzazione e l’occupazione progressiva dei territori in cui i palestinesi devono poter tornare a vivere in pace. L’Europa dovrebbe, dunque, anche incoraggiare a esplorare la possibile convivenza tra i due popoli in un’unica terra, assicurando pieni diritti politici ai palestinesi e un ordinamento istituzionale comprensivo ed accogliente per ambedue i popoli. 

L’Europa per favorire questo processo, potrebbe aprire ai due popoli le porte dell’Unione.  E mentre il Sudafrica ha promosso alla Corte Internazionale dell’Aja una causa per genocidio, l’Europa dovrebbe proporre a tutti gli Stati l’identificazione della guerra stessa come genocidio e la sua inclusione nella normativa sul genocidio, fatto salvo il diritto di difesa.

 

4) L’Europa dovrebbe battersi per i diritti dei curdi e per la liberazione di Abdullah Ocalan e dei prigionieri politici in Turchia. È curda l’idea del confederalismo democratico, è stata curda la resistenza contro l’Isis, è curdo il progetto di pace per il Medio Oriente fondato, è lo slogan curdo lo slogan ‘Donna, Vita, Libertà’ che è stato adottato dai movimenti in Iran e in tutto il mondo.

 

5) L’Europa è una Unione di Stati ma non deve diventare un Super-Stato che intenda la sovranità come un potere supremo, sovrastante su ogni altro potere e culminante nel diritto di guerra. Di conseguenza è da escludere la costituzione di un Esercito Europeo. Al contrario l’Europa, federazione di Stati, dovrà aprire una fase nuova di cooperazione fra i popoli, operare per riprendere la strada dei trattati sul disarmo e la denuclearizzazione militare e civile, ridurre la spesa militare, promuovere il controllo pubblico della produzione e dello scambio delle armi, e stabilire la riconversione con finalità civili delle proprie industrie belliche. Pace vuol dire trattare per diminuire in Europa e in Italia la presenza di armi nucleari. Le risorse sottratte alle spese di guerra devono essere impiegate per ridurre il debito e le diseguaglianze, affrontare le grandi sfide delle pandemie, del clima e delle migrazioni e per fare in modo che ogni donna o uomo o bambino abbia cibo, acqua, medicine sufficienti e il diritto a un futuro migliore.

 

6) Il compito dell’Europa  passa attraverso il Mediterraneo, anche per lo sviluppo da dare ai rapporti col Medio Oriente e il mondo arabo-musulmano . Attraverso questo mare la vocazione dell’Europa si estende verso l’Africa e l’Asia, ed è una contraddizione da rimuovere l’aver fatto della Sardegna un poligono di tiro e della Sicilia una portaerei  che minaccia la guerra.

 

7) Noi vogliamo un’Europa che sia un insieme di comunità pacifiche e aperte al mondo, indipendente, amica ma non succube degli Stati Uniti e di alcun’altra potenza, rispettosa delle diversità, protagonista in un mondo multipolare, non sottoposta al dominio di un sovrano assoluto che si arroghi la missione del guardiano universale. 

Essa deve sottrarsi alla logica dei blocchi e del vassallaggio nei confronti del più forte, che sacrifica i propri agli interessi altrui. L’Europa deve collaborare con la Russia, con la Cina e i Paesi che compongono l’arcipelago dei Brics. 

 

8) Il Vertice di Roma del novembre 1991 ha confermato, nonostante lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’esistenza della Nato ma in natura esclusivamente difensiva: “nessuna delle sue armi sarà mai usata se non per autodifesa, né essa si considera avversario di alcuno”.

Con l’estensione della Nato fino a minacciare i confini della Russia, ignorando la richiesta di sicurezza di quel Paese, questo impegno è stato tradito. Trasformare l’inaccettabile invasione russa dell’Ucraina in un conflitto mondiale, abbandonare la strada della diplomazia, puntare alla sconfitta di Putin, ha determinato un prezzo insopportabile di vittime ucraine e russe, la distruzione di un intero Paese e il sacrificio delle speranze degli europei di ripresa economica dopo la pandemia. Occorre far tacere le armi, ritrovare la strada per il dialogo e il disarmo consensuale. Riteniamo che con la Pace si potrà di nuovo immaginare un’Europa dove gradualmente scompaiano i blocchi militari contrapposti e, quindi, anche la Nato. Obiettivo che sembrava possibile prima della guerra in Ucraina.

Chiediamo all’Unione Europea di far sospendere le minacciose esercitazioni militari “Steadfast Defender” programmate dalla NATO per i prossimi mesi e di respingere nella maniera più assoluta l’idea di proiettare l’Alleanza Atlantica verso l’indo-pacifico e il confronto armato con la Cina.

Riteniamo peraltro che occorrano garanzie reciproche di sicurezza per tutti gli Stati e consideriamo una minaccia alla Pace la pretesa di imporre con la forza i “nostri valori”, la “nostra idea” di libertà e di democrazia e la supremazia tecnologica e militare dell’Occidente.

L’Europa dovrà promuovere la cultura della pace nelle scuole e nelle università, sostenere il diritto alle obiezioni di coscienza e al rifiuto di combattere in tutto il mondo, creare un corpo civile di pace europeo,

 

9) L’Europa deve rifiutare il criterio delle relazioni internazionali come “competizione strategica” tra le grandi Potenze com’è concepita dagli Stati Uniti. Questa dottrina prevede comportamenti economici e militari che rendono probabile una terza guerra mondiale. È quanto si teme in relazione alla crisi del Mar Rosso, che si potrebbe trasformare in una pericolosa escalation che coinvolga il Libano la Siria e l’Iran, e in relazione alla controversia su Taiwan che può diventare devastante per Cina, India, Giappone e Australia. Siamo oggi in un mondo multi-polare e l’Europa, non avendo interesse a creare un muro tra Occidente e Oriente, deve operare per la coesistenza pacifica fra tutti gli Stati e ascoltare le diverse voci del nuovo mondo. 

 

10) Il Parlamento Europeo deve avere l’iniziativa legislativa e deve partecipare al processo decisionale nell’ambito della politica estera e della sicurezza comune. Nel quadro di un progressivo risanamento delle relazioni internazionali, occorre ridare efficacia di intervento al Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel suo ruolo di difesa della pace, mediante la revisione del diritto di veto, lo sviluppo delle procedure democratiche e l’ingresso tra i Membri Permanenti di altri grandi Paesi come il Brasile, l’India e il Sud Africa. 

 

11) In prospettiva più generale l’Unione Europea deve promuovere una Costituzione Mondiale con la creazione di efficaci Istituzioni di garanzia per la pace e l’effettività dei diritti e dei valori riconosciuti come comuni all’intera umanità.

 

Terra

 

Il debito mondiale è tre volte maggiore del Prodotto Interno Lordo del mondo; la speculazione domina le transazioni economiche e condiziona il prezzo delle materie energetiche e del cibo; l’inflazione viene combattuta col rialzo dei tassi di interesse, ovvero del costo del denaro, peggiorando le condizioni della popolazione. La speculazione finanziaria minaccia oggi le democrazie sottraendo risorse ai bisogni della società e al lavoro produttivo. La guerra ne riafferma il dominio.

A causare l’aumento dei prezzi non sono tanto la domanda crescente di beni e l'aumento dei salari, quanto i profitti troppo elevati di pochi colossali oligopoli e di grandi aziende che dominano la politica e la costringono a un ruolo gregario. A livello globale non esistono istituzioni e leggi internazionali in grado di esercitare il controllo e comminare sanzioni: il mercato globale è deregolamentato.

La vita di centinaia di milioni di persone dipende dalle scommesse sul futuro di titoli di carta, i futures, che determinano il prezzo delle merci. Anche in Europa per oltre il 90% la finanza è impiegata per attività puramente speculative a breve e brevissimo termine e assorbe risorse dall'economia reale; solo qualche punto percentuale del capitale finanziario viene impiegato per supportare effettivamente le attività produttive.

 

1) Compito dell’Unione Europea è impedire la fuga di capitali all'estero e l’incontrollata globalizzazione della finanza, introdurre la Tobin Tax sui movimenti speculativi e tassare le aziende del fossile (mentre oggi l’87% delle emissioni non è soggetto a un costo), estendere ed aumentare la Carbon tax, detassare le tecnologie verdi e abolire qualsiasi detrazione fiscale per chi inquina. Le tasse delle multinazionali devono essere pagate dove le società acquisiscono i loro ricavi ed i paradisi fiscali in Europa vanno aboliti.

 

2) Occorre introdurre una separazione netta tra banche di deposito, che devono curare i risparmi dei cittadini, e banche daffari, che operano a rischio sui mercati finanziari; per evitare che i depositi dei risparmiatori siano esposti a rischi speculativi sui mercati. Attualmente solo banche commerciali hanno la facoltà di avere dei conti correnti presso le Banche Centrali che si apprestano ad emettere una nuova moneta digitale. Ma le banche centrali devono aprirsi al pubblico, operare in maniera trasparente, e gestire una moneta digitale pubblica direttamente a favore di cittadini, imprese e enti pubblici: una moneta sicura perché la Banca Centrale, al contrario delle banche commerciali, non può mai fallire.

 

3) La politica economica di un Paese deve essere decisa dai Parlamentari democraticamente eletti e non dalla BCE o da tecnocrati di Bruxelles. Organi intergovernativi governano 540 milioni di persone e la prima economia mondiale, comportandosi come il Gabinetto d'affari della grande finanza. L’Euro è una moneta unica per 20 Paesi molto diversi tra loro, una moneta solo deflattiva che frena l'economia. La BCE agisce di norma con l’obiettivo di combattere l’inflazione, privilegiando la stabilità dei prezzi. Negli Stati Uniti la Federal Reserve interviene da regolatore dell'economia anche per difendere l'occupazione e promuovere lo sviluppo: circa il 40% del PIL è dedicato alla compensazione, trasferendo risorse dallo Stato Federale ai singoli Stati . Si richiedono scelte politiche che non possono essere delegate al mercato. Le istituzioni dell’Unione che hanno effettivo potere decisionale, (Consiglio UE, Commissione UE, Eurogruppo) non sono elette ma nominate dai governi. Il Parlamento conta poco e, soprattutto, la BCE, può alzare i tassi di interesse senza che nessuno possa criticare efficacemente le sue decisioni. Il Parlamento Europeo deve poter discutere in maniera incisiva le decisioni che riguardano la politica economica e monetaria.

 

4) Gli investimenti delle banche commerciali sono legati al fossile per 7 euro su 10 e se invertissero la proporzione a favore delle energie rinnovabili fallirebbero. Non possiamo affidare ai banchieri e il futuro del pianeta. Dobbiamo puntare a contenere il surriscaldamento in un grado e mezzo entro il 2030. Per raggiungere questo risultato dobbiamo ridurre di un grado la temperatura delle case, mangiare meno carne, prendere il meno possibile l’aereo e non sprecare acqua nel consumo domestico; ma per il 70% la riduzione delle emissioni di CO2 dipende da scelte politiche e collettive. LEuropa deve considerare i boschi, la montagna, il mare beni comuni da tutelare. Senza regole e controlli, e senza una comunità attiva che se ne prenda cura, finiranno per diventare privati.

Chi svolge attività nella pesca, nellagricoltura, nellallevamento, deve poter essere considerato un operatore del servizio pubblico, sempre che la sua opera si svolga nella tutela del paesaggio e della fauna, nel rispetto della natura e nella produzione di cibo di qualità. Le istituzioni europee devono vietare l'importazione di prodotti alimentari, provenienti da Paesi terzi, trattati con sostanze non autorizzate nell’Unione. I controlli alle frontiere devono essere mirati alla difesa dei produttori europei dalla concorrenza sleale dei Paesi terzi che non rispettano le norme europee in tema di salute pubblica e sicurezza alimentare. Il principio della reciprocità di trattamento va strettamente osservato per evitare relazioni squilibrate a vantaggio dei paesi concorrenti che alzano barriere tecniche amministrative per impedire la penetrazione dei prodotti della UE sui loro mercati.

 

5) Facciamo nostro lappello di importanti economisti europei per la cancellazione del debito pubblico in pancia alla BCE, che ammonta a un quarto del totale del deficit degli Stati menbri. I cittadini europei devono a loro stessi il 25% dei loro debiti. La Bce potrebbe offrire agli Stati europei i mezzi per la loro ricostruzione in chiave ecologicamente sostenibile e riparare la frattura sociale, economica e culturale che hanno creato la crisi sanitaria e le guerre. Stiamo parlando di 2.500 miliardi per l’Europa nel suo complesso. La BCE può permettersi una simile azione, come riconosciuto da un gran numero di economisti, anche tra coloro che si oppongono ad una tale risoluzione: una banca centrale può funzionare con fondi propri negativi senza difficoltà. I privati non verrebbero danneggiati e le finanze pubbliche verrebbero sollevate da enormi pesi pregressi che gravano sull’economia, lo sviluppo e la società.

 

6) La transizione ecologica deve rappresentare un cambiamento radicale nel modo di produrre, di consumare e di vivere.

 Nei Paesi dell'Unione europea gli edifici assorbono il 45 % dei consumi energetici. Se si ristrutturano energeticamente si migliora il loro comfort termico, riducendo al contempo sia le loro emissioni di anidride carbonica sia gli importi delle bollette energetiche; e i risparmi delle famiglie sulle bollette consentiranno di ammortizzare, in un certo numero di anni, gli investimenti necessari. Poiché non tutte le famiglie sono in grado di sostenere i costi iniziali, è compito e interesse dello Stato farsene carico anche per ragioni di giustizia sociale.

L’obiettivo da perseguire nella gestione dei rifiuti è la riduzione progressiva delle quantità che vengono portate allo smaltimento. In questo modo si ottengono due vantaggi direttamente proporzionali: la riduzione dell'inquinamento generato dagli impianti industriali e la riduzione dei costi di smaltimento. La raccolta differenziata deve essere molto accurata, in modo da ricavarne materiali omogenei che possano essere venduti e utilizzati come materie prime secondarie. Una gestione ecologica corretta dei rifiuti consente di ridurre i costi di gestione e di accrescere gli utili. Se le aziende che li gestiscono non sono società per azioni, ma società pubbliche, gli utili non saranno distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi, ma potranno tradursi in riduzioni della tassa sulla raccolta dei rifiuti.

L’acqua è un bene comune e ne va garantita la proprietà pubblica. La stessa modalità può essere adottata per l’acqua , una risorsa indispensabile per la vita e per lo svolgimento delle attività produttive, di cui la siccità comincia a rendere drammatica la carenza. L’obiettivo principale è ridurre le perdite degli acquedotti che possono ammontare fino al 60 % dell'acqua catturata dalle falde idriche e  gestire le reti con un consumo di energia elettrica molto minore.

 

7) La Pace e luscita dal meccanismo infernale del debito sono indispensabili per affrontare alle radici i problemi che causano le migrazioni. La gestione dei confini avviene oggi in una logica militare che trasforma chi richiede asilo politico ed è costretto a migrare per ragioni climatiche ed economiche, in un nemico da combattere. Come se ci si trovasse di fronte ad una invasione armata. Ma non si possono mandare le Frecce Tricolori a bombardare i barchini o disseminare la penisola di centri di detenzione per rinchiudervi tutti quelli che sbarcano sulle nostre coste. Una persona inerme e in difficoltà non può essere considerata alla stregua di un invasore.

Non solo l'Europa ma l'intero mondo occidentale deve farsi carico delle migrazioni. È il momento di pagare gli interessi sulle risorse rapinate, sull'inquinamento e lo sfruttamento del fossile che produce alluvioni e disastri, di cancellare o ridurre i debiti dei Paesi in via di sviluppo, di elaborare non piani di aiuto ma investimenti nei luoghi dove l'ondata migratoria è più forte.

La politica dell'accoglienza deve avvenire nel rispetto della legalità e dei diritti umani, con una rete ordinata di assistenza, di formazione, di collaborazione lavorativa e di studio. I centri di detenzione vanno chiusi.

 

 

Dignità

 

 

Nell’epoca del liberismo globale deregolato l’influenza cinese nel mondo e la potenza finanziaria di Pechino hanno spinto l’amministrazione statunitense a reagire invocando un protezionismo unilaterale e aggressivo che è tra le cause fondamentali degli attuali venti di guerra. Fino a oggi, l'Unione europea si è accodata mentre appare più che mai urgente avviare, presso lONU, un tavolo di trattative per creare le "condizioni economiche per la pace”, come richiesto dall’appello di autorevoli economisti di tutto il mondo.

 

1) Proponiamo di rivedere completamente gli accordi di Maastricht sui quali sono nate lUnione e le cosiddette politiche di austerità. Un nuovo trattato dovrebbe prevedere piena occupazione, riduzione delle diseguaglianze, intervento pubblico nelleconomia, regolamentazione dei capitali e della finanza e finalizzare.

L'Italia degli ultimi trenta anni ha virato purtroppo verso i bassi salari, la riduzione dei diritti dei lavoratori, l'economia della rendita e dei patrimoni finanziari e immobiliari, aumentando enormemente le diseguaglianze. A pagare sono state soprattutto le donne: le più povere, le più precarie, le più sottopagate, sulle cui spalle continua a pesare la morsa del lavoro gratuito di riproduzione, di cura e accudimento. Lo stato sociale si è andato sempre più erodendo.

Robot, automatismi e intelligenza artificiale stanno cambiando i rapporti di forza tra l'uomo e la macchina. Le tecnologie non sono di per sé un rischio per i lavoratori ma lo è l'accentramento in poche mani e in pochi Paesi delle sorti dell'innovazione, dell'informazione e della cultura.

Saranno in molti a perdere il lavoro per l’intelligenza artificiale e la transizione ecologica. Lo Stato deve garantire a tutti l'occupazione e un'attività di studio e di riqualificazione permanente. Per gestire le transizioni dalla disoccupazione al lavoro; dal lavoro subordinato a quello autonomo; dal lavoro alla formazione vanno abolite tutte le forme precarie di lavoro, a meno che non siano tecnicamente giustificate come i lavori stagionali.

 

2) Eurgente introdurre un sostegno economico universale a chi resta senza lavoro.

Il lavoro deve essere dignitoso, rispettare l’ambiente, riconoscere i diritti sindacali; tener conto delle priorità personali e familiari. Il lavoro deve essere un diritto non la conseguenza di un ricatto. La grande massa di disoccupati costringe le persone ad accettare condizioni ingiuste e talvolta disumane. Soprattutto donne, giovani e  lavoratori stranieri sono spinti ad accettare qualunque condizione e  qualunque salario, obbligati con proposte di lavoro criminali, orari disumani e in condizioni di insicurezza. Chi percepisce il reddito deve partecipare a corsi di formazione tenendo conto delle sue capacità e delle sue aspirazioni.

3) Lorario di lavoro va portato in Europa a 32 ore settimanali. Siamo convinti che oggi serva lavorare meno per recuperare tempo e spazi di vita: il concetto stesso di orario di lavoro, o meglio di “tempo in cui si è a disposizione” va modificato, prevedendo il diritto alla disconnessione e a non confondere strumenti di lavoro e strumenti privati. Lavorare meno ore (in ufficio) ma essere in ogni luogo o periodo del giorno raggiungibile, ci rende vittime di un “tempo di lavoro senza fine”.

4) Il solco tra i mega profitti (di pochissimi) e le retribuzioni è diventato una voragine. La riduzione dellorario non può, dunque, slegarsi dallaumento dei livelli salariali, anche perché si potrebbe arrivare al paradosso per cui determinate categorie di lavoratori, avendo più tempo per loro stessi, non avrebbero risorse sufficienti per impegnarlo proficuamente ad esempio, per viaggiare, per frequentare un corso di formazione o, più banalmente, per iscriversi a una palestra. Vanno introdotti meccanismi automatici di adeguamento di stipendi e pensioni all’inflazione.

 

5) Nel nostro paese il taglio alle politiche di formazione avvenuto dal 2008 in poi ha prodotto un calo del 10% degli immatricolati universitari, tanto da porci allultimo posto in Europa per percentuale di laureate e laureati nella fascia d'età 25-34 anni, con un valore del 27%, mentre la media UE è poco sotto il 40%. Malgrado questa situazione disastrosa e preoccupante, pochissimi riescono a trovare un lavoro che sia adatto al grado d'istruzione acquisito e si è costretti a emigrare o a entrare in competizione per lavori precari di basso livello. Viviamo nel mito di un sistema meritocratico che, dice Joseph Stiglitz, fa sì che “Il 90% di quelli che nascono poveri, muoiono poveri, per quanto intelligenti e laboriosi possano essere, e il 90% di quelli che nascono ricchi muoiono ricchi, per quanto idioti o fannulloni possano essere. Da ciò si deduce che il merito non ha alcun valore”.

 

6) Bisogna sostenere artigiani e imprese familiari e ridurre le disparità tra le diverse aree e offrire pari opportunità ai giovani e alle giovani costrette a emigrare dalle zone più deboli a quelle più forti e arrestare il processo per cui l’istruzione non produce più la crescita economica, sociale e civile del territorio. Contemporaneamente una rete efficiente di infrastrutture europee deve impedire la periferizzazione di una parte importante del nostro continente.

 

7) Sono state smantellate le grandi industrie a partecipazione statale con un impatto sulla formazione a tutti i livelli, dalla scuola, all'università, alla ricerca. I Paesi che cresceranno di più domani, Cina, India, Sud Corea per esempio, sono quelli che oggi si sono occupati di meglio rafforzare e diversificare il proprio sistema industriale, della ricerca e dell'innovazione. Un grande programma pubblico europeo per la transizione verde, la ristrutturazione e la riqualificazione degli edifici pubblici (scuole, ospedali, uffici) può invertire questa tendenza.

 

8) Le politiche di austerità hanno reso impossibile l’investimento in risorse umane per la pubblica amministrazione. Ma un piano per loccupazione pubblica, con l’assunzione di giovani ad alta qualifica, è indispensabile per ammodernare lo Stato, le amministrazioni del settore sociale, la scuola e la ricerca. Va accelerata la digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche con software open source, trasparente, non manipolabile da stranieri e agenzie estere, sviluppabile “in casa” e non dipendente dalle grandi corporations mondiali.

 

9) L’Europa riconosce la sua identità nelle proprie culture e si adopererà per dare loro la libertà e le energie di cui hanno bisogno per crescere e rinnovarsi. L’Europa si nutre del rapporto con le altre culture.

A tutti i cittadini europei vanno garantiti gli stessi diritti civili e umani e la più completa libertà d’espressione. Per difendere l’identità europea va favorita la nascita di social europei, di piattaforme europee per la produzione culturale e il commercio on line.

 

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 Dopo la pandemia, l’Unione Europea avrebbe dovuto mettere al centro delle sue politiche la prevenzione e la tutela della salute. Bisogna ridurre la spesa per le armi e incrementare quelle per la salute. Ma un recente dossier della Caritas riassume così la situazione in cui ci troviamo nel nostro Paese:

"... in diciotto anni, l’Italia ha ridotto dello 0,4% il finanziamento del sistema sanitario nazionale italiano. I fondi che rappresentavano il 7% del Prodotto interno lordo (Pil) nel 2001 sono scesi a un importo pari al 6,6% nel 2019. Al contrario, la spesa militare è cresciuta costantemente. Nel 2018 è giunta a 25 miliardi di euro, pari all’1,4% del Pil, segnando un aumento del 25% rispetto alle ultime tre legislature. L’Esercito ha avanzato la proposta di una “legge terrestre” per nuovi blindati, elicotteri, missili. 5 miliardi di euro in 6 anni; la stessa cifra garantirebbe 4.200 letti ospedalieri in più all’anno. Lo scorso 3 aprile l’AD di Fincantieri ha dichiarato di essere in trattativa con la Marina Militare per due nuovi sommergibili U-212, per un costo complessivo di 1,3 miliardi di euro: l’equivalente di 13.100 letti di terapia intensiva.

 

 

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Solo però uscendo dal sistema di guerra sarà possibile prendersi cura delle persone e aprire  un’era nuova per il mondo. L'homo sapiens combatte armato dall'inizio della sua esistenza. Questo però non significa che la guerra sia connaturata all’uomo  e che non debba essere prevenuta e impedita come il crimine di genocidio.

Il Cardinale Martini scriveva: “Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori: vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e delle violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate alimenta l’odio quando essa è riferita esclusivamente alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà memoria della sofferenza anche dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa potrà rappresentare la premessa di ogni futura politica di pace”.