martedì 25 giugno 2024

LE ELEZIONI COMUNALI A PERUGIA: UN POSSIBILE MODELLO PER RINNOVARE LA VECCHIA POLITICA

Che cosa è successo a Perugia

 

Prima che sulle elezioni di Perugia si riversi la retorica dei commenti tutti interni alla politica politicante, prima che vengano banalizzate battendo sul tasto della città che verrà governata per la prima volta da una donna (sarebbe successa la stessa cosa con Margherita Scoccia, ma non sarebbe stata affatto la stessa cosa), conviene riavvolgere il nastro e mettere in fila un po’ di elementi.

La spirale del centrodestra

Il Barton Park è un luogo recintato da una cancellata alta e nera. È un pezzo di Perugia che dà di sé l’immagine di un luogo pubblico ma è gestito da una società privata che ci ha investito sopra per trarne legittimamente profitto e lo pubblicizza definendolo «una location di eccellenza per eventi di successo». Il Barton Park non è libero come un qualunque altro spazio che sia davvero parte della città di tutte e di tutti: vi si può entrare solo se la proprietà che ne detiene le chiavi apre il cancello che delimita il confine di quel luogo con la Perugia pubblica. Avere deciso di tenere lì l’evento di chiusura del primo turno della campagna elettorale, che poteva essere anche l’ultimo, è stato un segnale piuttosto contraddittorio, o forse inequivocabile, da parte del centrodestra perugino: una coalizione che da dieci anni gestiva la cosa pubblica e si candidava a continuare a farlo ma ha celebrato uno dei suoi momenti pubblici più importanti in un luogo privato. Si è trattato di uno dei tanti errori commessi da una maggioranza che pensava di avere la vittoria in mano ma si è trovata a fronteggiare una situazione inaspettata ed è per questo entrata in una spirale di difficoltà che ne ha squadernato tutti i limiti.

Avanti, ma indietro

Il centrodestra ha iniziato la campagna elettorale con l’intento di fornire di sé l’idea di una forza proiettata in avanti. «Indietro non si torna» è stato all’esordio lo slogan dei primi manifesti giganti che hanno tappezzato la città. Seguito e confermato da «Il futuro non si ferma», che doveva essere il claim centrale della comunicazione politica costruita intorno a Margherita Scoccia. La candidatura di Vittoria Ferdinandi è stata una di quelle folate di vento inaspettate che fanno volare via i fogli dalla scrivania. In difficoltà di fronte a una candidatura marziana, che riattivava energie insospettate, faceva il pieno di pubblico e parlava una lingua nuova e intraducibile per quel ristretto circolo di persone composto da politici e pezzi di giornalismo che scambiano se stessi per l’intero universo, i partiti e la candidata di centrodestra hanno cominciato a volgere gli occhi all’indietro, verso un paesaggio per loro rassicurante: “Perugia capitale della droga” e il “buco di bilancio” sono diventati a un certo punto i tasti su cui battere per tentare di appiccicare sull’avversaria l’etichetta di una continuità con un passato che il centrodestra aveva sconfitto dieci anni prima. Tentare di legare Ferdinandi a quel passato è stata la manifestazione della volontà di esorcizzare la portata radicalmente innovativa dell’avversaria. Ma come il successivo tentativo di dipingere la candidata come una pericolosa estremista, si è trattato di una caricaturizzazione così lontana dalla realtà che la maggioranza dell’elettorato l’ha respinta come un organismo fa rigettando cellule che non riconosce. A ciò si è aggiunta una sorta di incompatibilità ontologica tra quello slogan, «Il futuro non si ferma», e il continuo ritorno al passato del discorso pubblico della destra, che ha generato un altro corto circuito, esattamente come quello innescato da una coalizione che si candida a gestire il pubblico ma lo fa da un luogo privato. Il tutto è successo mentre accanto al claim originario ne è stato coniato un altro, in corsa: «Perugia è di tutti», proprio nel tentativo di relegare Ferdinandi e l’intelligenza e l’emozione collettiva che la sostengono nell’angolo di una partigianeria estremista evidentemente indegna di far parte dei tutti. È stato un altro segnale di difficoltà, poiché la sovrapposizione di claim – per di più così incongrui – è stata del tutto disorientante. Il combinato disposto tra il ritorno al passato e uno slogan come «Perugia è di tutti» ha restituito simbolicamente la rappresentazione di una maggioranza che ragionava nel proprio intimo come se fosse stata ancora l’opposizione di dieci anni fa. La campagna elettorale di Scoccia è stata un continuo riassetto sulla base delle novità creative introdotte dall’avversaria: dall’idea dei manifesti extra lunghi a quella dei reel sui social media – inizialmente studiati come pillole di fiction, prodotti in laboratorio con tanto di copione; in seguito invece, sulla base di quanto andava facendo Ferdinandi, estrapolati da momenti in presa diretta della campagna elettorale. Fino all’evento finale prima del ballottaggio, in cui il centrodestra è tornato in piazza IV Novembre, cuore della città, copiando il centrosinistra che quella cosa l’aveva fatta due settimane prima, alla fine del primo turno, quando l’ex maggioranza si era andata a rinchiudere nella privatezza del Barton Park. Sia chiaro, non è in ballo qui una questione di riconoscimento di diritti d’autore. È che il modo in cui la coalizione che governava Perugia si è condannata a rincorrere gli avversari che partivano sfavoriti denota una più ampia mancanza di spessore. Per di più, copiare da una candidata che al tempo stesso si tenta di relegare nell’angolo dell’estremismo è di una doppiezza disorientante, esattamente come lo è stato l’accavallamento degli slogan.

Materiale/immateriale

L’ultima parte di campagna elettorale Scoccia e il suo entourage l’hanno fatta virare su un concetto di concretezza che nei loro auspici avrebbe dovuto fare giustizia della fumosità ideale con la quale intendevano disegnare la parte avversa. È stato forse il momento in cui la naturale attitudine del centrodestra è emersa al di là delle giravolte di una campagna elettorale ondivaga perché in pesante affanno. Come abbiamo abbiamo già tentato di interpretare analizzando i programmi delle due principali coalizioni, quello che è parso il nucleo fondante del centrodestra perugino è stata una fiducia quasi messianica nella promessa di opere (il nodo, la stazione Medioetruria e il metrobus sono state le più qualificanti) che si sono pensate risolutive dei problemi delle persone. L’idea è stata insomma che il consenso di elettori ed elettrici fosse agganciabile prefigurando loro la realizzazione di cose. A quella che doveva essere la concretezza di opere e fatti solidi e tangibili, Ferdinandi ha contrapposto l’immaterialità irrinunciabile della visione. E sulla dicotomia materiale/immateriale si è giocato un pezzo consistente di campagna elettorale.

Il conservatorismo e le vite

Scoccia ha interpretato un ruolo tradizionale: quello della candidata che promette cose concrete, opere tangibili, e le promette nella lingua che parlano in genere i candidati e le candidate tradizionali. L’ha fatto nella convinzione che questa, oggi, sia la funzione della politica: agevolare il quotidiano tran tran rendendolo più agevole. Si tratta di una posizione conservatrice in sé: non c’é nessun anelito al cambiamento in quella piattaforma semplicemente perché chi l’ha realizzata ritiene nel proprio intimo che non ci sia niente da cambiare. Ferdinandi, essendo una marziana della politica, portatrice di un punto di vista esterno al pianetino autoreferenziale dei posizionamenti geografici (destra, sinistra, centro) divenuti incomprensibili quando non indigesti a gran parte dell’elettorato, ha colto che la desertificazione dell’asfittica rappresentanza partitica si può tentare di colmarla cercando di riconnettere la politica alla vita delle persone sempre più sfilacciata, precarizzata, in affanno. E la vita delle persone è fatta per gran parte di immaterialità: la soddisfazione, le aspirazioni, l’immaginazione, i sentimenti, la tranquillità, il riconoscersi in qualcosa di più autentico del mero possesso di cose o della fruizione di opere pubbliche che spesso peraltro rispondono agli interessi di pochi piuttosto che a quello generale. Si tratta di astrattezze solide, senza la cornice delle quali le cose concrete diventano inerti e fini a se stesse. È dall’esigenza di colmare queste mancanze che anche all’interno del comune di Perugia sono germogliate esperienze di rigenerazione urbana, librerie indipendenti, cinema di comunità, ristoranti inclusivi, associazionismi di vario tipo e mutualismi di quartiere. Esperienze che sono andate a riempire i vuoti lasciati da una politica che non rappresenta più come riusciva a fare fino a cinquant’anni, non è in grado di progettare alcunché, ma scimmiotta i comportamenti di cinquant’anni fa. Il disallineamento logico tra queste due dimensioni genera un panorama surreale, in cui matura il disamore verso le cose comuni, confuse con un pubblico che da anni dà mostra del peggio di sé. Le esperienze sommariamente elencate sono concretissime, ma derivano da un’aspirazione ideale senza le quali non sarebbero mai state immaginate. Una delle chiavi con cui si può leggere la candidatura di Ferdinandi è questa: è come se la ricchezza trasformativa di quelle esperienze generate dall’immaterialità delle esigenze di solidarietà, cultura non ingessata, solidarietà di cui la città pullula sia riuscita a contaminare un pezzo di mondo che ha deciso di entrare nelle istituzioni. Non c’è stato un piano a tavolino, e neanche un rapporto di causa-effetto, nessun automatismo meccanicista, meno che mai un qualche tipo di complotto o di ordita occupazione del potere, come si potrebbe pensare dal pianetino autoreferenziale della politica e di un pezzo del circuito massmediatico. Quello che assomiglia di più a ciò che è successo è il movimento del polline trasportato dalle api: casuale ma non caduto dal cielo. Qualcosa che esiste e viaggia anche se non si vede, e prima o poi va a depositarsi da qualche parte e feconda.

Una candidatura marziana

Ferdinandi, con il sostegno dell’intelligenza e dell’emozione diffuse che l’hanno supportata, si è fatta traduttrice lucida, chiara e fedele di esigenze difficili a dirsi perché sepolte sotto la tirannia del reale che congiura per far apparire immutabile ciò che è invece una costruzione umana, e che come tutte le costruzioni umane può essere migliorata, a patto che si abbia una solida cornice ideale, e quindi immateriale, entro cui collocare le cose concrete da fare. Intelligenza ed emozione, sentimento e ragione, uniti all’essere sintonizzati con un qui e ora che i vecchi arnesi degli anni ottanta-novanta del secolo scorso non consentono di comprendere, sono stati due ingredienti senza i quali non si capisce la straordinarietà della candidatura di Ferdinandi e della sua campagna, che infatti resta marziana, incomprensibile ai molti che hanno ragionato e continueranno probabilmente a farlo con categorie vetuste, utili oggi come i gettoni per le cabine telefoniche. È da questa sostanziale incapacità di leggere il reale, oltre che da una sostanziosa punta di strumentalismo, che sono nate e poi degenerate le accuse di estremismo, centrosocialismo, movimentismo nei confronti della candidata che ha vinto le elezioni. Solo che non c’è niente di più estremo, rigido, arido e inutile che rimanere abbarbicati a paradigmi confortevoli ma sganciati dalla realtà. L’incapacità a comprendere del centrodestra e di un nutrito panorama di osservatori ha cozzato contro un atteggiamento ancor più sorprendente di Ferdinandi. Laddove infatti un’altra parte politica si sarebbe intimidita di fronte a una campagna degli avversari così caparbiamente aderente alla tirannia del reale, la candidata che ha vinto le Comunali di Perugia ha invece rilanciato rivendicando la necessità della visione e dell’immaterialità dentro cui collocare la concretezza delle cose da fare. E, soprattutto, ha collegato politica e vita: ha fatto intravedere che le trasformazioni politiche possono diventare trasformazioni in meglio per la vita di chi sta peggio, e non solo. Solo una marziana avrebbe potuto inserire nel comizio di chiusura del primo turno della campagna elettorale la metafora del liquido amniotico che protegge e nutre il feto che la donna ha in grembo consentendogli però di comunicare con l’esterno e di assorbire nutrimento: un confine non ottusamente chiuso e rigido ma poroso ed elastico come è la vita stessa, appunto, che il liquido protegge e cura. E solo con la comprensione più autentica del qui e ora che stiamo vivendo, dello svilimento della vita pubblica a causa di rappresentanti inadeguati, si poteva mettere a leva la partecipazione dei cittadini intesa non come mero ascolto ma come chiamata alla coprogettazione della cittadinanza, cioè come autentico metodo di governo che trasformi il pubblico spesso sinonimo di “di nessuno”, nel tentativo di farlo diventare diventare comune, di tutte e tutti.

Ferdinandi ha aggirato la cittadella del potere autoreferenziale cercando la legittimazione nelle persone e parlando alle loro vite reali. C’è riuscita perché si è tenuta a debita distanza dal recinto delle liturgie di posizionamento della politica politicante e dei circoletti massmediatici, utilizzando un lingua nuova in cui fragilità, tessitura, diritto all’autonomia, visione e immaginazione hanno preso il posto di fondi, investimenti, milioni, destra, sinistra, estremismo così in voga altrove.

Una generazione nuova

Il collegamento vivido con il qui e ora e tutto ciò che ne è scaturito è stato reso possibile anche dalla presenza di un altro ingrediente. Il tentativo di ritorno al passato della propaganda del centrodestra e la coazione ad analizzare le cose come se ci si trovasse in una qualsiasi delle campagne che hanno preceduto quella appena trascorsa rischiano di offuscarlo, invece va colto in tutta la novità che rappresenta. Vittoria Ferdinandi ha 37 anni, il gruppo delle persone che ha trainato la sua campagna è composto da sue e suoi coetanei. Si tratta di una generazione che vive e ha vissuto tutte le asprezze del qui e ora ed è lontana galassie dalle zone di comfort di chi, avendo avuto la fortuna di vivere la propria vita negli anni del boom o di ciò che ne restava, non si è dovuto adattare a più lavori contemporaneamente, a emigrare, a contratti saltuari, a paghe da fame, a occupazioni per cui non sarebbe servito studiare ciò che si è studiato, a stage non retribuiti che però fanno curriculum. C’è anche questo gap generazionale ad aver reso marziana la candidatura di Ferdinandi. Un gap che ha reso grotteschi i tentativi di chi con le lenti di decenni fa tentava di affibbiare etichette di passatismo ideologico a una candidata e a uno staff che hanno invece mostrato plasticamente come la cornice ideale sia necessaria a collocare le cose e a coglierle nella loro purezza. Se Ferdinandi fosse cresciuta a pane e ideologia nel senso più retrivo del termine utilizzato dai suoi detrattori, sarebbe caduta nella trappola che per settimane le hanno teso gli avversari: trasformare la campagna elettorale in senso ottusamente ideologico in un triviale derby fascisti-comunisti. Se avesse avuto la paura del proprio passato che hanno o hanno avuto persone più anziane di lei, inebetite di quello sport nazionale che è stata per anni la corsa al centro, avrebbe avuto remore ad abbracciare l’anziana signora che l’ha aspettata con la bandiera rossa sul marciapiede in attesa che passasse l’autobus scoperto della candidata in tour per la chiusura di campagna elettorale per il ballottaggio. Con Ferdinandi e la generazione che è salita con lei alla ribalta, la bandiera rossa riacquisisce la purezza di uno dei simboli di chi ha scritto la Costituzione e ha dato un futuro decente a un paese che ha rischiato di averne uno nero. Si tratta di un concetto semplicissimo, che è stato reso difficile proprio da decenni di un’ideologia che questa generazione si è tolta di dosso con una sana scrollata di spalle: collegando le idee alle vite. E cercando di tradurle in politica per le vite. Per di più con una creatività che ha costretto gli avversari a una rincorsa sfiancante. Un’ultima nota, su questo: Ferdinandi non è del Pd, ma se alla guida nazionale del Pd non ci fosse stata Elly Schlein la sua candidatura sarebbe stata probabilmente risucchiata in chissà quale gioco autoreferenziale e la generazione nuova triturata ancora.

I rischi, adesso

Un pezzo consistente di elettorato, seppur quasi sommerso dai messaggi torbidi e tendenzialmente intimidenti della tirannia del reale, ha capito tutto questo, anzi è parso non volere altro che capire tutto questo, e si è emozionato e ha conseguentemente fatto aderire la propria intelligenza alla proposta di Ferdinandi. L’ha fatto anzi la maggioranza delle persone che sono andate a votare a Perugia. Il che significa che per molti e molte l’immaterialità è un valore senza il quale la concretezza si muove senza bussole per l’interesse generale, e che la politica non è fatta di cose, ma di tentativi di cambiare in meglio le vite, altrimenti diventa un campo arido. È un fenomeno di cui prendere nota, il cui significato travalica i confini municipali. Un rischio però c’è: è che Vittoria Ferdinandi resti sola. Che si trasformi in idolo isolato. Che la sua vittoria sospinga anche le persone che l’hanno votata a rientrare in casa, magari dopo avere tirato un sospiro di sollievo. Se succedesse questo sarebbe una sconfitta per due motivi. Primo: significherebbe che anche la parte che ha sottoscritto la candidatura marziana è diventata vittima dell’egemonia del pensiero semplicistico che ritiene che la sostituzione dei leader sia di per sé risolutiva dei problemi inediti che abbiamo davanti. Si percorrerebbe così esattamente all’inverso il tentativo di nuova via che la candidatura di Ferdinandi ha tentato di tracciare, legare la politica alle vite, mostrando che i cambiamenti politici possono migliorare la qualità del vivere. Secondo: senza l’intelligenza e l’emozione collettive che la candidatura Ferdinandi ha rimesso in circolo, non c’è cambiamento possibile; se venissero a mancare la corsa elettorale sarebbe stata vana.

Un pezzo assai consistente di elettorato, esausto da decenni di autoreferenzialità e analisi vuote, non è invece riuscito ad essere avvicinato e ha scelto di non votare, di essere equidistante tra due mondi, quelli incarnati dalle due candidate, mai così agli antipodi, elemento che ha reso la campagna elettorale davvero la competizione tra due alternative. Anche questo è un fenomeno di cui prendere nota perché ha a che fare con la qualità della nostra democrazia, che non è costituita solo dal momento del voto, come da più parti si indica. Ed è un elemento che sfiderà il governo della città chiamato ora a suturare anche le ferite da campagna elettorale.

La destra

Un altro pezzo consistente di elettorato ha votato per una candidatura che, in contrapposizione alla visione estesa di democrazia radicale rappresentata da Ferdinandi, ne predilige una minima, che per semplicità qui si può definire ristretta al momento del voto in cui si decide chi deve comandare per i successivi cinque anni. È legittimo. Solo che oggi quella parte in Umbria sembra essere drammaticamente sprovvista di persone in linea coi tempi e in grado di amministrare. Il suo maggior partito, Fratelli d’Italia, ha perso in due anni con suoi candidati – Masselli a Terni, Scoccia a Perugia – le elezioni comunali nei due capoluoghi di provincia di una regione nella quale costituisce la prima forza politica. Fratelli d’Italia è insomma una sorta di anello debole ma forte: troppo più forte dei suoi stessi alleati di coalizione, che così faticano a instaurare una qualche dialettica, ma intimamente sprovvisto della capacità di governo e di visione che occorrono per svolgere il ruolo di guida. Ne è la dimostrazione plastica il fatto che l’ex coordinatore regionale di quel partito, persona che dopo lustri di Consiglio regionale oggi siede in Parlamento, ha detto che quello che adesso si appresterà a fare FdI è «ciò che abbiamo sempre fatto: combattere i comunisti». Ancora il passato che non passa, un po’ poco come piattaforma per gli anni venti del Duemila. In questo scenario, la coalizione di centrodestra si presenterà alle elezioni regionali del prossimo autunno con una presidente uscente che rappresenta un partito, la Lega, passato in Umbria dal 37 per cento di cinque anni fa, quando Donatella Tesei venne eletta, al 6,8 per cento delle Europee di due settimane fa. A debolezza si aggiunge debolezza, quindi.

Anche sotto questa ultima luce quello che è successo a Perugia è importante: segna una discontinuità di linguaggio e generazionale che potrebbe essere linfa per un futuro del tutto differente dalle liturgie autocentrate del passato. Quello che succederà d’ora in poi farà parte dello svolgimento di un altro capitolo. Lo seguiremo con attenzione. 


Questo il link all'edizione originale:

https://www.cronacheumbre.it/2024/06/25/che-cosa-e-successo-a-perugia/#comment-241

sabato 22 giugno 2024

EDUCARE ALLA LEGALITA' COSTITUZIONALE NELLA SCUOLA PRIMARIA SECONDO ADRIANA SAIEVA

Adriana Saieva 

Educare alla legalità in un mondo di adulti civicamente maleducati?

 Da diversi anni nelle scuole, e nelle comunità educanti in generale, si affronta il tema della legalità come espressione di comportamenti di cittadinanza attiva e rispetto delle leggi Costituzionali. Dal 2019 l’Educazione Civica è diventata materia trasversale: 33 ore suddivise tra varie discipline da cui deriva un unico voto perché – è intuitivo – la frammentazione delle ore dovrà comunque seguire un filo logico coerente. Esperienze vissute In particolar modo, in moltissime scuole, il grande e complesso tema della legalità viene declinato in progetti di educazione antimafia. In questo caso i percorsi sono svariati: a seconda dell’ordine di scuola si parla di storia della mafia, delle donne e degli uomini che l’hanno contrastata perdendo la vita; spesso si invitano giudici o giornalisti come testimoni di una storia contrassegnata dall’impegno sul campo; altre volte si intraprendono percorsi con associazioni che da anni lavorano nelle scuole su questi temi; altri input arrivano dall’incontro con l’autore all’interno di progetti di lettura e – quando il libro tratta di una vittima di mafia o di spunti per contrastarla – si ha modo di affrontare il tema in classe in vista di un dibattito più articolato. Questi sono gli esempi che, in trent’anni di lavoro in scuole primarie, ho vissuto direttamente. Ci sono poi le esperienze estemporanee come manifesta zioni e cortei in occasione di ricorrenze (più o meno precedute da un percorso articolato conoscitivo). Un cenno a parte meritano quei laboratori su temi di cittadinanza attiva e comunicazione nonviolenta che sono risultati particolarmente significativi in quanto hanno coinvolto tutta la persona: hanno messo in gioco la corporeità, la voce, l’immaginazione per smuovere e risvegliare emozioni fondamentali nel processo di apprendimento. Mi è capitato di co-condurre dei laboratori di cittadinanza consapevole in cui la facilitatrice esperta in danza-movimento terapia ed expression primitive ha coinvolto gruppi di giovani di scuola superiore in attività motorie (propedeutiche a successivi step): ho constato personalmente in alcuni la difficoltà a vivere la propria fisicità, a gestire la rigidità e il timore del giudizio altrui; contestualmente ho assistito alla successi va apertura degli stessi giovani, al lasciarsi andare e al diventare protagonisti del momento; durante la verbalizzazione è poi emerso che avevano molto apprezzato il poter vivere un’esperienza piuttosto che ascoltarla da seduti e questo ci ha ulteriormente convinte ad approfondire gli studi su modalità di formazione che procedano in questa direzione. Fare in modo, in ogni caso, che le parole siano preceduta da una sperimentazione significativa, emozionante e completa delle varie dimensioni di un soggetto. Incoraggiate da queste esperienze con giovani liceali, la mia amica ed io le abbiamo replicate – con gli opportuni adattamenti – anche con gruppi di adulti e (ciò che qui mi preme evidenziare) con bambini della scuola primaria, registrando risultati a maggior ragione positivi. Perplessità maturate Ma anche i laboratori più o meno riusciti sono sufficienti? Anni di la voro sul campo – come insegnante e come animatrice di laboratori extrascolastici – hanno fatto sedimentare in me dubbi e perplessità su questi modi di procedere. Ritengo sì indispensabile la sensibilizzazione, che queste iniziative veicolano, al tema della mafia e al suo contrasto e auspico che ce ne siano sempre e ovunque in tutto il territorio nazionale. Quello che mi lascia perplessa è quanto tutto ciò incida, in-segni, de condizioni da stereotipi e sentito-dire respirati fin dai primi vagiti e quanto creino le condizioni per la nascita di una vibrazione interna, etica che tenga lontano da qualsiasi forma di cittadinanza negligente, corresponsabile di crimini, passiva. 

 Provo a descrivere la mia perplessità con un gioco mentale: un’inversione di ruoli e contesti. Provo a immaginare una società dove tutto è regolato dal senso di giustizia sociale, dal rispetto di tutti gli esseri viventi e del pianeta; una società dove essere diversi è una ricchezza, dove si rinuncia a qualcosa pur di non eccedere col consumo e dove tutto ciò che è oggettivamente superfluo è bandito perché nessun tornaconto personale può essere superiore al bene pubblico. In questa società tutti conoscono, e vivono con piacere, le forme basilari di comunicazione efficace e nonviolenta, per cui non si usano frasi giudicanti né ancor meno offensive; si esercita l’ascolto attivo; si con danna l’azione e non la persona; si esprimono liberamente le proprie emozioni; ci si dà reciprocamente il tempo per parlare e rispondere senza interruzioni isteriche, urla e sopraffazioni verbali. In una società del genere – a tutti i livelli – viene coltivato il pensiero autonomo e critico; ci si esercita ad argomentare le proprie perplessità o il proprio disappunto praticando l’assertività e la fermezza con qualsiasi interlocutore. Soprattutto a scuola, il diritto di esprimere la propria opinione è costantemente difeso dall’intera comunità educante. I bambini e le bambine possono tranquillamente dissentire apportando dei buoni argomenti; possono -anzi devono- saper sostenere un confronto con chi è a un livello di autorità superiore senza temerne le reazioni e gli abusi. Periodicamente (per motivi che nel mio gioco mentale non trovano una giustificazione logica, ma è un gioco: quindi procedo) vengono messi a punto progetti di illegalità sistemica; un decreto-legge prevede addirittura che ben 33 ore siano dedicate al tema dell’educazione incivile, purché spalmate tra le varie discipline e articolate in un percorso coerente. Il tutto all’interno di un contesto sociale in cui scuole, famiglie, associazioni, centri sociali e parrocchie perseverano in uno sforzo collettivo di formazione di una società giusta e impregnata di bellezza. Quante possibilità ci sarebbero, in questa fantomatica società, che le lezioni di illegalità incidessero profondamente sui comportamenti dei bambini, sovvertendo il bagaglio da loro acquisito e interiorizzato in anni di esempi ricevuti in ogni occasione di vita sociale? Dismettendo il gioco e tornando a quella che è la nostra scuola e la nostra società: che speranza c’è di ottenere un qualsiasi risultato se l’esempio che si dà non è all’altezza di ciò che si chiede? Voglio che tu bambino abbia un bel pensiero “divergente”, ma se mi contraddici sono guai (non accade in ogni classe, ma accade in molte classi. Non accade in ogni famiglia, ma accade in molte famiglie). Voglio che tu cresca col coraggio di “far camminare le loro idee sulle tue gambe”, ma intanto devi obbedire ai miei ordini e, se mi chiedi ragione di uno solo di essi, ti umilio davanti a tutti; se parli di un misfatto accaduto in classe ti espongo alla pubblica gogna riservata agli spioni (“non si accusano i compagni” può avere senso solo quando si sia appurato come stanno le cose e che il misfatto non riguardava un atto vandalico o un’azione di bullismo); ti invito a comunicare in modo mite, non violento, e te lo dico urlando. Ciascuna e ciascuno di noi, nelle varie vesti educative che ricopre, è esente da questi comportamenti? Si assume la responsabilità di una critica costruttiva verso il collega o il dirigente scolastico quando assi ste a qualcuna di queste modalità scorrette? Che si tratti di una classe, di un collegio docenti, di una riunione di condominio o di un incontro pubblico, di quale stile comunicativo (ed educativo) siamo esponenti? 

 La conclusione a cui sono arrivata è che gli adulti, tutti, abbiamo il dovere morale di porci queste domande e di impegnarci per trasformarci, destrutturare le cattive abitudini interiorizzate di cui spesso non siamo nemmeno consapevoli, migliorare. Fare autoformazione, chiedere corsi di formazione che mirino a una riflessione profonda sul ruolo dell’educazione, imparare con fatica e sudore della fronte a essere testimoni dell’esercizio di un pensiero critico. Solo allora le famose 33 ore sarebbero un approfondimento arricchente; solo allora tutti i progetti di contrasto alla mafia sarebbero efficaci: fiorirebbero a partire da un terreno ben coltivato e per questo fertile. E sarebbe l’inizio di una profonda trasformazione culturale che toglierebbe linfa al potere mafioso, a tutte le forme di potere arrogante e di sopraffazione.

           Adriana Saieva

***

QUESTO INTERVENTO COSTITUISCE UN CAPITOLO DEL VOLUME DI AUTORI VARI, A CURA DELA COOPERATIVA ONLUS "SOLADARIA", PERCORSI DIDATTICI DI ANTIMAFIA SOCIALE. UNA PROPOSTA FORMATIVA MULTIDISCIPLINARE TRA PROCESSI EDUCATIVI E IMPEGNO SOCIALE, PALERMO 2024. 

Il volume è scaricabile gratuitamente qui:

https://solidariaweb.org/index.php/blog/2-uncategorised/85-percorsi-didattici-di-antimafia-sociale-idee-e-racconti-tra-scuola-e-territorio

L'ebook è stato realizzato nel nuovo formato a "layout fisso", non leggibile da tutte le app.

Chi avesse difficoltà tecniche può richiedermi il pdf via e-mail: a.cavadi@libero.it



giovedì 20 giugno 2024

EDUCARE ALLA NONVIOLENZA, IN MANIERA NONVIOLENTA: INDICAZIONI DA MARIA D'ASARO

Maria D’Asaro

Scuola e scienza della nonviolenza. Il contributo di questo percorso di studi ed esperienze ad un sistema scolastico socialmente responsabile per un’autentica formazione alla cittadinanza attiva

Negli ultimi vent’anni, il sistema scolastico italiano è stato contrassegnato da precisi orientamenti legislativi: nel 2003 è stata approvata la discussa riforma Moratti che – oltre a introdurre tagli cospicui in quasi tutti gli ordini di scuole, riducendo lo studio di varie discipline – lo aveva caratterizzato con le tre I (Informatica, Impresa, Inglese) a comprova di una virata ‘mercantile’ del sistema istruzione; nel 2015 sono entrate in vigore le norme della cosiddetta ‘Buona Scuola’ (la legge 107/2015), con l’introduzione dei Piani di alternanza Scuola/Lavoro, ri modulati (con nota MIUR del 2019) come Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO). A fine 2022 è addirittura cambiata la denominazione del Ministero deputato al governo della Scuola: da MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) si è trasformato in Ministero dell’Istruzione e del Merito, chiaro segnale di una scuola che tende verso l’individualismo e la competizione, secondo quanto sottolineato dalla psicologa e pedagogista Silvia Vegetti Finzi e dal professore Raffaele Mantegazza, ordinario di Pedagogia all’Università di Milano-Bicocca. In tale contesto legislativo-formativo, non è facile persuadere docenti e dirigenti scolastici della necessità formativa di insegnare e praticare a scuola la nonviolenza. Sì, la nonviolenza scritta come parola unica, senza trattino in mezzo, come suggerito dal filosofo e attivista Aldo Capitini per focalizzare la natura nuova, creativa e pregnante di tale pratica dei rapporti umani che consente una diminuzione della vio lenza complessiva nella società. La nonviolenza dovrebbe perciò per meare le relazioni individuali e via via, allargando il cerchio, quelle di condominio, di quartiere, e le macro-relazioni sociali e politiche. Se, nel rispetto dello spirito e dei valori autentici della Carta costituzionale, si vuole davvero educare cittadini coscienti e responsabili, non si può tenere fuori la nonviolenza dalle aule scolastiche anche se non è facile insegnare la nonviolenza sia perché la scuola italiana è inserita in un contesto sociale in cui spesso predomina la violenza a livello strutturale-istituzionale e simbolico-culturale sia perché gli educatori non hanno una formazione in tal senso e si trovano essi stessi ad equivocare su teoria e pratica nonviolente. Bisognerebbe allora partire dalla formazione dei docenti che, qualsiasi sia la loro disciplina di pertinenza e l’ordine di scuola dove sono inseriti, dovrebbero possedere un’alfabetizzazione di base della teoria e della pratica nonviolenta. Per non confondere la nonviolenza con i pregiudizi di cui spesso è vittima, dovrebbero, innanzitutto, avere chiara la ‘pars destruens’ e sapere che la nonviolenza:

 • Non è assenza di conflitti

 • Non è mancanza di aggressività, se intesa in senso positivo come combattività e assertività

 • Non è equidistanza tra le parti in lotta, in quanto il nonviolento è sempre dalla parte delle vittime e di chi lotta per la giustizia 

 • Non è rispetto assoluto delle leggi, qualora esse siano eticamente ingiuste 

 • Non è una via necessariamente religiosa né una scelta elitaria 

 • Non è un pensiero utopico, ma una risposta praticabile ed efficace alle sfide del presente 

 • Non è mero pacifismo 

 • Non è un comportamento improvvisato legato a paura, debolezza, indifferenza, pigrizia (Nota 1 in calce).

I docenti dovrebbero avere chiaro che la nonviolenza è dunque “l’arte di pensare e condurre un buon conflitto in tutti gli ambiti della vita, per la trasformazione della società e di noi stessi” (Nota 2 in calce). Il conflitto è infatti la logica e ‘naturale’ conseguenza della combattività e dell’assertività umana ed ha, in quanto tale, una dimensione dinamica e sistemica del vivere sociale: “È un processo relazionale e, in quanto processo e dinamismo” è un tutt’uno con la realtà e con la vita.”( Nota 3 in calce). Inoltre, la non violenza evita le opposizioni frontali, rigide ed assolute, ed indirizza invece verso la ricerca di più possibilità: ha insomma un atteggiamento creativo. La nonviolenza postula avversari, non nemici: le forme di lotta nonviolente non vogliono colpire – fisicamente, verbalmente, psicologicamente – l’avversario, ma sono dirette a impedire o criticare la sua azione: la nonviolenza combatte l’azione, ma non l’agente. Gandhi sottolinea poi come la nonviolenza preveda un’omogeneità tra mezzi e fini anche perché, afferma sempre il Mahatma, quando facciamo qualcosa non siamo padroni del fine di un’azione, ma solo dei mezzi. Dunque è proprio ai mezzi che dobbiamo fare attenzione. Se il fine è buono, buoni devono essere anche i mezzi per raggiungerlo… E gli studiosi di nonviolenza sono concordi nell’affermare come la violenza non sia la legge della storia ma che “tutti i comportamenti violenti, sia di attacco che di difesa, considerati istintivi, possono essere considerati abitudini culturali acquisite e consolidate (e perciò ormai inconsapevoli e quasi meccaniche) o per via di una esplicita e chiara azione educativa o all’interno di un modo di pensare trasmessoci implicitamente attraverso un modo di vivere”. (Nota 4 in calce). 

Da queste premesse, dovrebbe essere evidente l’importanza e la centralità di un’educazione nonviolenta nella scuola, a partire proprio dalle pratiche dei docenti. Se infatti, come sottolinea il professore Cozzo “nonviolenza è conflittualità e buona comunicazione” (Nota 5 in calce) , essere cioè in grado di affrontare i conflitti e di gestirli in modo costruttivo, cosa comporta tutto questo nell’educazione scolastica? Innanzitutto, purtroppo, “siamo abituati a impostare il nostro incontro verbale con altri come un gioco a somma zero”. (Nota 6 in calce). Cioè se uno vince, l’altro necessariamente perde; se uno ha ragione, l’altro avrà torto. E i docenti non fanno eccezione in tal senso. L’alternativa che la prospettiva nonviolenta propone (ripresa e riformulata nel testo di Andrea Cozzo da cui sono tratte le citazioni) non è, evidentemente, un venire meno alle proprie responsabilità educative o un mero rovesciamento del rapporto. Vuol dire piuttosto, per riprendere una felice formulazione di Pat Patfoort (Costruire la nonvio lenza. Per una pedagogia dei conflitti, La Meridiana, Molfetta 1995), “trattare gli altri sulla base dell’equivalenza specialmente quando è in gioco una diversità di opinioni, punti di vista, valori, ecc. Se non abbiamo mai adottato o tentato di adottare un simile modo con gli altri, non crederemo che sia possibile”. “In realtà” – continua il professore Cozzo - “questa educazione non è né autoritaria né lassista, ma mira a dare potere a tutte le parti, che non sono da supporre a priori in contrapposizione competitiva bensì semplicemente all’interno di una relazione che può essere strutturale in modo cooperativo: si ottiene l’ascolto del bambino dando a propria volta ascolto - ascolto attivo - al bambino”. I docenti dovrebbero essere quindi consapevoli che “il linguaggio non può essere usato in modo nonviolento se non è accompagnato dalla capacità e dal desiderio dell’ascolto, dalla volontà e dalla sapienza del silenzio, perché l’altro possa sentirsi realmente invitato ad esprimere se stesso”. (Nota 7in calce).   In un’ottica davvero maieutica e nonviolenta, a scuola i docenti dovrebbero considerare quelle che Marshall Rosenberg ha definito le quattro componenti essenziali del ‘linguaggio della compassione’ (l’osservazione delle parole o delle azioni altrui che incidono, in positivo o in negativo, sul nostro benessere; la consapevolezza ed espressione dei sentimenti che proviamo in presenza di quelle azioni o parole; l’identificazione dei bisogni a cui quei sentimenti corrispondono; la richiesta all’altro di atti specifici che contribuiscono al nostro benessere) (Nota 8 in calce). E bisognerebbe essere maestri dell’ascolto attivo, secondo le sette regole indicate da Marianella Sclavi (Nota 9 in calce): 

 • Non avere fretta di arrivare alle conclusioni

 • Quello che vedi dipende dal tuo punto di vista 

 • Se vuoi comprendere quello che sta dicendo l’altro, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose dal suo punto di vista 

 • Le tue emozioni ti informano non su ciò che vedi, ma su come guardi 

 • Un buon ascoltare è un esploratore di mondi possibili (…) 

 • Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi, affrontando i conflitti creativamente 

 • Un buon ascoltatore ha il senso dell’umorismo.

 La formazione nonviolenta dei docenti dovrebbe scongiurare la negatività sotterranea e nascosta, ma ahimè ancora reale e devastante, delle pratiche della cosiddetta ‘pedagogia nera’ che il compianto Paolo Perticari, docente di Pedagogia generale e di Filosofia della formazione presso l’Università degli Studi di Bergamo, ha il merito di aver riscoperto e riportato al centro del dibattito pedagogico, rispolverando il testo Pedagogia nera di Katharina Rutschky, con una sua introduzione in cui collega e confronta il metodo della pedagogia nera con gli studi di Hannah Arendt su La banalità del male, di Stanley Milgram sulla “obbedienza all’autorità” e di Philip Zimbardo sull’“effetto lucifero”. La Rutschky aveva analizzato i vari stili educativi in 250 anni di fonti storiche e pedagogiche, dal Settecento fino ai primi anni del Novecento in Germania, proponendo brani tratti da manuali, testi di teoria pedagogica e strumenti educativi in cui emerge chiaramente una forma di male e di distruzione psicologica, mascherata da educazione severa e rigorosa, che caratterizza i normali processi di civilizzazione e istruzione. Le conseguenze di questo male invisibile sono molto gravi per la vita dell’individuo e in certi casi possono diventare persino incurabili. Facendo riferimento a questo studio, Perticari ha sottolineato che ancora oggi il bambino/alunno può essere a rischio di un’educazione violenta proprio nella rete parentale e scolastica dove in realtà dovrebbe trovare protezione e sostegno: in tali contesti può infatti essere visto come capro espiatorio della frustrazione, della rabbia e dell’insoddisfazione dell’adulto, che sfocia in una forma di violenza costituita da umiliazioni, maltrattamenti fisici e psicologici, derisioni e punizioni. L’obiettivo principale di questo metodo di condizionamento precoce è reprimere la parte più vitale, creativa e attiva del bambino per renderlo dipendente e sottomesso alla volontà adulta. L’individuo che subisce violenza tende a introiettarla dentro di sé e perpetuarla in diversi contesti della sua vita privata, tramandando una catena transgenerazionale del trauma e del male. Sulla base di queste sollecitazioni pedagogiche, dovrebbe risultare evidente che i metodi educativi e pedagogici risultano funzionali all’idea di umanità e al progetto di società che vogliamo costruire. Se desideriamo la scuola delle pari opportunità, che aiuti a costruire una cittadinanza attiva, cooperativa e responsabile, la scuola sognata da Danilo Dolci e da don Milani, l’educazione nonviolenta è la condizione indispensabile per la sua realizzazione. Utile ricordare – anche come contraltare alle tre I di morattiana memoria – John Dewey (1859-1952), filosofo pragmatista e pedagogista che, dopo aver sottolineato l’intrinseco legame che c’è tra democrazia ed educazione, ha affermato che i cittadini devono essere messi in condizione di dare il loro contributo sviluppando precise competenze culturali e sociali riassumibili nella teoria delle tre “c”: Critical thinking (pensiero critico), Creative thinking (pensiero creativo) e Care thinking (pensiero valoriale, capacità di prendersi cura): “In quest’ottica, la scuola (pubblica) assume un ruolo centrale per la formazione e la salvaguardia di una società realmente democratica: per farsi valore condiviso è nei singoli che lo spirito democratico deve incarnarsi come costume, prassi, attitudine psicologica. Se ai più non è dato maturare, sin dalla più tenera età, la predisposizione a condividere emozioni e contenuti simbolici, a prender parte alla vita della comunità, esprimendo e perfezionando abilità personali e assumendosi responsabilità sociali, ebbene, pur in presenza della migliore legislazione possibile, la democrazia rimarrà di fatto lettera morta” (Nota in calce 10).

 In un’ottica educativa autenticamente nonviolenta, infine, è urgente e ineludibile una revisione critica dei manuali di Storia presenti in tutti gli ordini di scuola. Questo il senso della lettera aperta stilata nel luglio 2022 da 30 docenti della Scuola e dell’Università e inviata ai Ministri dell’Istruzione e dell’Università e della Ricerca, lettera di cui si riportano i seguenti passi: “È soprattutto e in primo luogo nella manualistica della Storia che avvertiamo la necessità di modifiche urgenti e sostanziali. La Storia, infatti, concorre forse più di altre discipline a creare la cornice metacognitiva generale di chi studia: facendo vedere gli avvenimenti trascorsi attraverso lenti che focalizzano certi aspetti piuttosto che altri, presentando come fattori di cambiamento alcuni tipi di azione e non altri, essa educa a pensare ben precisi orizzonti di possibilità e ad agire all’interno di questi, e in tal modo si costituisce non solo come analisi del passato ma anche come profezia del futuro. Ora, la narrazione manualistica della Storia (…), continua a essere dominata da un’ottica politico-militare e dal filo rosso delle guerre e del ruolo maschile. Gli orizzonti geografici e temporali si sono allargati ma il racconto – la trama, il contenuto, ciò che risulta in primo piano come motore del processo storico – è ancora fondato su categorie di pensiero proprie del patriarcato e di una mentalità competitiva e violenta. Tale racconto resta talmente affollato di forza militare e di genere maschile che non lascia immaginare altre forme di sviluppo della temporalità che non siano violente e/o maschili, e finisce per far credere che la violenza appartenga addirittura alla natura umana e sia normale, ineluttabile, o contenibile solo attraverso istituzioni, nazionali o internazionali, di carattere giuridico. Noi crediamo che, per cacciare davvero la guerra e il patriarcato fuori dalla storia, sia indispensabile cambiare il paradigma culturale, promuovere un sapere diverso da quello appena presentato e dare spazio al racconto della costruzione della pace con mezzi pacifici, mettere in luce il ruolo delle donne e dei popoli che hanno contribuito alle trasformazioni storiche senza ricorrere alle armi; meglio ancora, di panare per mezzo di queste categorie il filo della Storia intera. (…).  Noi Vi chiediamo pertanto di adoperarvi (…) per l’elaborazione e l’attuazione di organici e strutturati progetti di redazione di manuali, scolastici e universitari, che espressamente valorizzino il ruolo delle dinamiche nonviolente e la parte attiva svolta dalle donne nel corso della storia – manuali che abbiano il coraggio di profetizzare un futuro in netta cesura con quello attualmente all’orizzonte ed esercitino a pensare la pace e a vedere che le concrete possibilità di costruirla attivamente senza fare ricorso alla violenza sono state più numerose di quelle che siamo abituati a credere” (Nota in calce 11). Oggi più che mai l’istituzione scolastica ha bisogno di volare alto e di darsi orizzonti educativi ‘umani’ e formativi: “Trasformare i sudditi in cittadini è un miracolo che solo la scuola può compiere” affermava Piero Calamandrei; mentre il maestro Mario Lodi diceva ai colleghi: “Cari insegnanti, non dimenticate che davanti al docente passa sempre il futuro: non solo quello della scuola, ma quello di un intero Paese”.

  Maria D’Asaro. 

NOTE IN CALCE:

Nota 1: Con riferimento ai seguenti testi del professore Andrea Cozzo: La nonviolenza oltre i pregiudizi, Di Girolamo editore, Trapani, 2022 e Conflittualità nonviolenta, Mimesis Edizioni, Milano, 2004 .

Nota 2: Andrea Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi, cit. p.14 .

Nota 3: Ibidem.

Nota 4: Ibidem, p. 17.

Nota 5: Ibidem, p. 161.

Nota 6: Ibidem, p. 163.

Nota 7: Ibidem, p. 168.

Nota 8:  Ibidem, pp.169-170.

Nota 9:  Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Le Vespe, Milano, 2000.

Nota 10:  Francesco Dipalo (a cura di), Democrazia, Diogene Multimedia, Bologna, 2016.

Nota 11: 11 Andrea Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi, cit. pp.62-64.

**********

QUESTO INTERVENTO COSTITUISCE UN CAPITOLO DEL VOLUME DI AUTORI VARI, A CURA DELA COOPERATIVA ONLUS "SOLADARIA", PERCORSI DIDATTICI DI ANTIMAFIA SOCIALE. UNA PROPOSTA FORMATIVA MULTIDISCIPLINARE TRA PROCESSI EDUCATIVI E IMPEGNO SOCIALE, PALERMO 2024. 

Il volume è scaricabile gratuitamente qui:

https://solidariaweb.org/index.php/blog/2-uncategorised/85-percorsi-didattici-di-antimafia-sociale-idee-e-racconti-tra-scuola-e-territorio

L'ebook è stato realizzato nel nuovo formato a "layout fisso", non leggibile da tutte le app.

Chi avesse difficoltà tecniche può richiedermi il pdf via e-mail: a.cavadi@libero.it



martedì 18 giugno 2024

IL DOCENTE DENTRO E FUORI DALLE AULE SCOLASTICHE, TRA INSEGNAMENTO E IMPEGNO SOCIO-POLITICO

 

LAVORARE IN AULA, FATICA NECESSARIA MA INSUFFICIENTE

Il locus naturalis dell’insegnante è l’aula scolastica. E’ lì che deve mettersi in gioco, sudare, inanellare fallimenti su fallimenti,  imparare a farsi rispettare senza mancare di rispetto, insegnare i principi della democrazia senza adottare modi antidemocratici, testimoniare l’autorevolezza dell’adulto maturo senza scadere nell’autoritarismo del sergente di giornata. Come allo spaccone di Esopo, che si vantava di aver compiuto a Rodi un salto prodigioso, così al docente che si vanta in giro di essere un personaggio brillante, bisogna sussurrare: Hic Rhodus, hic saltus. Quello che affermi di essere, devi dimostrarlo prima di tutto nel tuo ambiente quotidiano.  Il lavoro in aula è così logorante che capisco, per esperienza personale più che quarantennale, la tentazione della fuga: o definitiva (ad esempio diventando Dirigente scolastico o sindacalista a tempo pieno) o temporanea (una volta si accompagna la classe al museo naturalistico, un’altra volta in gita d’istruzione a Berlino, un’altra volta ancora a sorbirsi un convegno noiosissimo sulle avanguardie artistiche del secondo Novecento tedesco…: quasi tutto è preferibile alla faticosa routine della normalità).

 

Non in una campana di vetro

Ciò chiarito senza insopportabili ipocrisie, ci si può legittimamente porre la domanda: essere animali d’aula è necessario, ma è anche sufficiente? Ho conosciuto ottimi professori che si muovevano nel recinto scolastico con la disinvoltura di pesci esotici nell’acquario, ma incapaci di respirare, muoversi, interagire non appena fuori dall’habitat consueto. A Rodi saltavano davvero bene, ma fuori le mura della città erano incapaci di camminare senza impaccio. Negli anni Sessanta del secolo scorso era un punto d’onore non comprare quotidiani; negli anni Settanta non avere il televisore; negli anni Ottanta non frequentare né discoteche (tutte piazze di smercio di sostanze) né centri sociali (tutti covi di terroristi); negli anni Novanta non possedere cellulari; negli anni Duemila non utilizzare computer né tablet; in ciascuna di queste annate non leggere libri differenti dai testi – strettamente attinenti alle proprie competenze disciplinari – ricevuti gratuitamente dai promotori editoriali per eventuali adozioni. So benissimo che le eccezioni si davano e si danno, ma, se devo attenermi all’ esperienza personale, non posso negare che erano di numero esiguo rispetto alla media dei colleghi (che addebitavano l’estraneità alla vita sociale, culturale e politica della città a mancanza o di tempo o di disponibilità economica o di entrambi i fattori).

Gli esempi che mi frullano in mente sono decine: dal collega di greco che mi esternava il suo sconcerto (“Sei arrivato a questo punto: propagandare il terrorismo fra i nostri alunni ?” ) perché, a conclusione di un ciclo di lezioni sulle ideologie politiche del Novecento,  avevo invitato in aula Salvo Vaccaro, mitissimo docente universitario esperto di anarchismo, alla collega di diritto che giustificava la sua totale ignoranza del mondo associativo palermitano perché di antimafia, in famiglia, se ne era sempre occupato - prima di essere assassinato dalla mafia - un congiunto magistrato. Insomma, dopo aver dedicato alla categoria dei Dirigenti scolastici una serie di aneddoti (rigorosamente veri) nel volume Presidi da bocciare (Di Girolamo, Trapani 2010)[1], se avessi tempo, forze e residue pulsioni masochistiche potrei scrivere, senza difficoltà, il sequel Insegnanti da bocciare.

Allora: ci sono i termini per porsi come dilemma se un docente debba limitarsi a essere un (possibilmente preparatissimo) docente all’interno della campana di vetro protettiva dell’aula o se possa (anzi, debba) avere ampie esperienze culturali, sociali, politiche in settori della città, della regione, della nazione in cui vive.

 

Una prima questione: insegnante o educatore?

La questione non è peregrina, è fondata. Ma non irrisolvibile. Bisogna prima di tutto  accordarsi sulla figura professionale del docente: è essenzialmente un insegnante che comunica conoscenze e competenze o un educatore che deve favorire la maturazione complessiva degli alunni (dunque non solo intellettuale, ma anche morale, emotiva, civica)?

Nella prima ipotesi può benissimo essere una persona psicologicamente irrisolta, caratterialmente problematica, socialmente isolata, politicamente indifferente e – nonostante questi limiti – funzionare in maniera tutto sommato accettabile: ovviamente non c’è da stupirsi, però, se di questo genere di insegnanti le nuove generazioni ritengano di poter fare a meno e se, rispetto al lavoro in aula, preferiscano forme di apprendimento al computer con  programmi telematici interattivi, per nulla soggetti a lacune o errori.

Nella seconda ipotesi il docente si deve far carico della formazione (meglio: dell’autoformazione) integrale dei giovani con cui condivide per anni i processi di crescita e, se non vuole ottenere effetti contrari alle proprie intenzioni, deve puntare sulla propria testimonianza di persona equilibrata, saggia, informata di ciò che avviene nel contesto sociale, auto-ironica, pronta ad apprezzare la bellezza e a soffrire per i dolori dei viventi, a lui vicini o da lui lontani. Neanche questa seconda versione del ruolo docente è esente da rischi: la tendenza a dare in aula più spazio alle prediche e ai comizi che alle lezioni curriculari; a favorire la creazione di fazioni vicine o avverse alle posizioni ideologiche dell’insegnante; ad entrare nel privato degli alunni diventandone il confidente abituale, il confessore, lo psicoterapeuta, il consulente sentimentale. “Negli anni di liceo non ho imparato molto rispetto ai coetanei delle classi parallele: nell’ora di italiano stavamo in silenzio per praticare yoga e nell’ora di matematica leggevamo e commentavamo il quotidiano di un piccolo partito politico di estrema sinistra” -  mi raccontava una ragazza anni fa per motivare la sua richiesta di trasferimento nella nostra sezione.

 

Una seconda questione: l’equilibrio fra professione ed esperienze formative

E’ dunque una questione di proporzioni, di tentare (per approssimazioni successive, mai prive di scompensi unilaterali) il difficile equilibrio fra le varie finalità dell’unica figura docente. Il quale può bilanciare con buon senso i vari aspetti della sua mission se, contestualmente, persegue un non meno difficile equilibrio - all’interno della sua esistenza - fra i suoi compiti di insegnante e i suoi compiti di cittadino. Tocco qui una problematica sfuggente, fluida, sulla quale non mi sembra che esista una vasta letteratura (per cui spero che mi si perdoni l’andamento un po’ incerto dell’argomentazione).

Per chi vive con passione, le giornate sono sempre troppo corte e non bastano mai né le ore che si dedicano all’aggiornamento tecnico-professionale né le ore che si investono nella propria formazione umana complessiva[2]. Come gestire, dunque, i propri tempi ? Anche qui bisogna essere, per quanto possibile, chiari (almeno a livello di criteri: poi la vita, nella sua imprevedibile e mutevole concretezza, imporrà compromessi non sempre felici).

La priorità di un insegnante dev’essere l’adempimento dei doveri istituzionali corrispondenti alle ore di lezione per cui è pagato: può optare per il full-time o il part-time, ma quali che siano le ore di servizio concordate con lo Stato (24, 18, 12 o solo 6), a quelle ore deve dedicare il tempo e le energie necessarie nel suo studio di casa per  preparare lezioni (con eventuali sussidi audiovisivi), correggere compiti, aggiornarsi nel proprio campo disciplinare e più in generale nelle strategie pedagogico-didattiche, vedere film o leggere riviste da poter consigliare agli alunni per appassionarsi alla ricerca. In nessun caso si dovrebbe consentire, come di fatto avviene, che un docente (per negligenza o perché impegnato in altri ambiti d’interessi extra-scolastici) si esoneri dal minimo ‘sindacale’ della propria professione, per esempio svolgendo attività (come lezioni private) senza previo consenso scritto del Dirigente scolastico.  Solo se assicura quanto prevede il contratto che decide di firmare, ha il diritto di ampliare i propri spazi operativi. Alcuni saranno finalizzati ad arrotondare lo stipendio, altri a titolo gratuito. Che un insegnante di tecnologia collabori con uno studio di progettazione ingegneristica, o un insegnante di ragioneria collabori con uno studio di consulenza tributaria, non mi scandalizza: purché ciò avvenga alla luce del sole –  dunque evitando che la “seconda” attività professionale diventi la “prima”, anche se ha scelto il tempo pieno a scuola e riceve lo stipendio intero – il docente può portare in aula aria fresca dalla vita reale, autentica, che si respira fuori. Ma, ai fini del proprio ruolo educativo, è più proficuo se il tempo che resta, dopo essersi dedicato alla sfera tecnicamente professionale, viene investito nella frequenza di centri culturali, associazioni professionali, organizzazioni di volontariato, sedi di sindacati o di partito…insomma in attività gratuite che coltivino la dimensione intellettuale ed etico-civile.

 

A che condizioni accompagnare gli alunni fuori dall’aula

Anche in questo caso il docente importa dall’esterno aria fresca dalla vita reale, ma intrisa di  interrogativi critici rispetto alla mentalità produttivistica onnipervasiva. Potrà portare la voce degli sfruttati del sistema capitalistico, dei senza-casa, degli immigrati senza protezione, delle ragazze prostituite, dei tossicodipendenti ghettizzati in angoli bui della città; potrà attestare che il senso della vita non è solo, o principalmente, nel primeggiare a scuola, ma anche, e soprattutto, nel dare una mano ai movimenti pacifisti, nonviolenti, ecologisti, antimafiosi. Potrà testimoniare che leggere, studiare, informarsi, riflettere, pensare avrebbero – come fine ultimo solitamente ignorato – la trasformazione dell’inferno, nel quale ci dibattiamo, in uno spazio storico-sociale vivibile. Se egli viene arricchito come persona dalle sue esperienze extra moenia, ciò, di conseguenza, lo renderà più vivo e più attrattivo come educatore.

Solo chi sperimenta tutto questo nella sua esistenza personale ha il diritto di accompagnare qualche volta gli alunni a conoscere esperienze sociali fuori dai cancelli scolastici: la sua iniziativa non sarà patetica strategia per evadere dalla noia scolastica, bensì significativa indicazione per quei giovani che vorranno giocarsi la vita a un livello più alto della banalità dominante.  La riprova? Quando un docente, nei decenni, non ha provato a fare della propria esistenza un ponte fra la scuola e la vita sociale, le eventuali attività para-scolastiche da lui progettate e realizzate riusciranno deludenti o addirittura fallimentari: i suoi ragazzi percepiranno un che di inautentico, di artificioso. Non sei un appassionato di pittura? Evita di intestarti la visita in pinacoteca. Non ti interessa la tragedia greca? Evita di guidare gli alunni a Siracusa. Se non ti interessano  la questione mafiosa o la violenza di genere, non organizzare la partecipazione delle tue classi a convegni su questi temi solo perché – in un determinato momento – sono di moda, anche se non li ha mai né approfonditi personalmente né tanto meno affrontati in aula. La visita ad un istituto penitenziario o a una comunità di recupero per tossicodipendenti presuppone - già in chi accompagna i giovani -  una postura mentale, psicologica ed etica diversa rispetto alla visita a uno zoo (visita dalla quale, per altro, farebbe bene ad astenersi chi non si sia mai posto interrogativi sulla sensibilità degli animali e sulla loro immensa capacità di soffrire). Insomma, maldestramente ma convintamente, vorrei asserire che solo chi vive da essere umano prima che da insegnante può tentare sia di aprire le porte della scuola alla vita sociale sia di riversare nella società gli interrogativi critici e le intuizioni creative elaborati nella scuola. Infatti si insiste molto (e giustamente) su quanto la scuola abbia necessità di essere recettiva rispetto alla società, ma ogni tanto dovremmo ricordarci che vale anche il reciproco: se la società non vuole affondare nella melma delle ingiustizie sistemiche, del degrado ambientale, del conformismo più stagnante, del tradizionalismo più fondamentalista, della risoluzione bellica di ogni conflitto…ha bisogno, a sua volta,  di accogliere dalla scuola i tesori della saggezza e della scienza, la memoria delle scoperte e degli errori, l’educazione alla bellezza e alla nonviolenza. In attesa di una fase così evoluta che la scuola (ovviamente intesa come sistema complessivo della ricerca e dell’istruzione) sia il cuore pulsante di una società, rendendola tutta intera un’unica grande agenzia educativa.

 

Augusto Cavadi



[1] Mancano in quel testo vari episodi più attinenti al tema di questo mio scritto. Ad esempio non vi riportai la reazione scandalizzata del DS del liceo “Meli” , a metà degli anni Novanta, alla mia proposta di far leggere, all’interno di un progetto di scambi fra studenti dell’Unione Europea, il libro Dietro la droga pubblicato, in tre o quattro lingue, dal Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”: “Ma sei fuori di senno? Che penserebbero al Ministero se venissero a sapere che utilizziamo materiali didattici pubblicati da un centro-studi intestato a un terrorista?” (Peppino Impastato era stato assassinato dai mafiosi quasi vent’anni prima!).

[2] Superfluo precisare che mi esprimo approssimativamente, ben consapevole che anche le ore dedicate a qualificarsi come docente possono comportare ricadute positive sulla propria formazione umana e che anche le ore spese per attività formative extra-professionali possono arricchirci anche come insegnanti.


***
QUESTO INTERVENTO COSTITUISCE UN CAPITOLO DEL VOLUME DI AUTORI VARI, A CURA DELA COOPERATIVA ONLUS "SOLADARIA", PERCORSI DIDATTICI DI ANTIMAFIA SOCIALE. UNA PROPOSTA FORMATIVA MULTIDISCIPLINARE TRA PROCESSI EDUCATIVI E IMPEGNO SOCIALE, PALERMO 2024. 

Il volume è scaricabile gratuitamente qui:

https://solidariaweb.org/index.php/blog/2-uncategorised/85-percorsi-didattici-di-antimafia-sociale-idee-e-racconti-tra-scuola-e-territorio

L'ebook è stato realizzato nel nuovo formato a "layout fisso", non leggibile da tutte le app.

Chi avesse difficoltà tecniche può richiedermi il pdf via e-mail: a.cavadi@libero.it

domenica 16 giugno 2024

LA DEMOCRAZIA E L'ITALIA DI OGGI : UN E-BOOK (GRATUITO) DI ELIO RINDONE

 Elio Rindone ha raccolto in un volume una serie di suoi articoli ospitati, negli ultimi ani,  su varie testate. Il volume, intitolato "La democrazia e l'Italia di oggi" è scaricabile GRATIS in formato elettronico cliccando su questo link: https://app.bookcreator.com/l/-Nis45cap9Lv2WiFznmj?c=R6GF6F2 e seguendo le semplici indicazioni che appariranno sullo schermo (se necessario, vi si chiederà di cliccare su "schermo intero" per entrare nel libro).

In una fase delicatissima per la vita democratica non solo italiana, ma europea e planetaria, è importante ricominciare da alcuni 'fondamentali' sia per capire la malattia sia per intravedere la terapia. L'astensionismo crescente nelle tornate elettorali potrebbe non riuscire allarmante se non fosse - nella stragrande maggioranza dei casi - effetto di qualunquismo irresponsabile e se, invece, fosse per così dire sostituito da un impegno quotidiano di formazione etico-politica (rivolta agli adulti e soprattutto ai giovani).

Buona lettura e...buon lavoro !

Augusto Cavadi



giovedì 13 giugno 2024

LE RAGIONI E I MODI DELL'IMPEGNO SOCIO-POLITICO SECONDO ANNIBALE RAINERI


www.girodivite.it

12.6.2024

CAMBIARE IL MONDO NEL CREPUSCOLO DELLA POLITICA?

Il volume Ancora. Cambiare il mondo nel tramonto della politica (Navarra, Palermo 2022)   di Annibale Raineri ricorda quelle imprese ardite in cui un attore intrattiene da solo per due ore il pubblico attraversando i più diversi generi artistici, dal monologo al canto, dal suono di uno strumento musicale al dialogo improvvisato con gli spettatori. Infatti abbiamo pagine liriche, racconti autobiografici, saggi di politologia, commenti a lunghe citazioni da ‘classici’ e altro ancora: un insolito patchwork che, nonostante i rischi del caso, risulta gradevolmente efficace. A me personalmente ha suscitato   un contrastante sentimento di prossimità e di distanza[1].

Di prossimità, certo.

L’autore è un mio coetaneo: abbiamo dunque vissuto il Sessantotto; abbiamo  creduto sinceramente nella necessità di cambiare il mondo; su tale obiettivo abbiamo investito il meglio delle nostre energie fisiche, morali e intellettuali (sia pure in campi culturali e operativi differenti); entrambi abbiamo rivisto profondamente molti elementi costitutivi delle nostre rispettive visioni-del-mondo; tuttora, nell’ora del tramonto biografico, proviamo a non arrenderci alla rassegnazione dominante. Più precisamente, Raineri ha aderito al marxismo-leninismo dal punto di vista teorico e ha militato, sul versante operativo, nel sindacato (l’area di sinistra della CGIL) prima e nel Partito della Rifondazione Comunista dopo. Varie considerazioni, scaturite dal vivo dell’esperienza biografica, lo hanno indotto a superare questa lunga militanza: “superare” nel senso hegeliano, direi, del passare a nuovi livelli prospettici non avendo azzerato le acquisizioni precedenti, ma solo grazie al doppio movimento di negarle in parte e di conservarne – trasfigurandoli – alcuni elementi rilevanti. E dove è arrivato, almeno adesso, grazie a questo processo dinamico di toglimento/conservazione/trascendimento? Ad un posizionamento che, nel mio vocabolario, definirei di “spiritualità laica”.

Nel suo caso, questo modo di intendere e praticare la spiritualità fuori dai tradizionali alvei religiosi e confessionali ha anche un “luogo” identificato: il movimento dell’Arca

“fondato in Francia nella metà del secolo scorso da Lanza del Vasto, il cui centro è costituito dalle esperienze di vita comunitaria che da allora continuano a vivere. Nell’Arca non ho visto né un modello da proporre né una filosofia da abbracciare, ma uno dei tanti tentativi esistenti di costruzione di forme di vita con le quali attraversare il lungo ma inesorabile declino di una civiltà, declino di cui il tramonto della politica è solo una espressione” (p. 13).  

Alcuni tra i tasselli costitutivi di questa “spiritualità laica” mi risuonano particolarmente convincenti e familiari:

a)    la convinzione che la vita propriamente umana è un percorso non predeterminato, ma da configurare creativamente: “aperto allo spazio-tempo della Terra come intero, ognuno di noi sperimenta così quella che è la caratteristica fondamentale degli esseri umani, che li differenzia da tutte le altre specie animali: in assenza di un ambiente elettivo e di organi specializzati per esso, per gli esseri umani la vita è un compito” (p. 60);

b)    non è in un ambiente vuoto che si progetta la propria esistenza, ma a partire da una epoca determinata e da un’area geografica determinata. Dunque, nel nostro caso, il compito si configura, innanzitutto e radicalmente, come “un rivolgimento di quello che è stato il lungo processo di occidentalizzazione/modernizzazione del mondo” o, in altri termini, come un processo “rivoluzionario nel senso del rivoltamento” o di “conversione” (nel senso di “capovolgere il verso” (p. 176);

c)    tra i primi frutti di questa inversione di rotta culturale ed etico-politica la coscienza ecologica (“la vita, divenuta problematica in se stessa perché minacciata radicalmente, si impone come oggetto di riflessione per l’essere umano”) e l’evidenza della appartenenza alla medesima specie (“il livello di interdipendenza globale e l’estremo moltiplicarsi dei processi migratori pongono sotto gli occhi di qualsiasi essere umano la comune umanità, l’esser comune che fa di ogni essere umano un uomo o una donna”) (pp. 59 – 60);

d)    un’altra caratteristica sociale da capovolgere è il modello maschile dell’ “Io-Noi che si costituisce e si rinforza nell’opposizione all’Altro, l’estraneo, il (potenziale) nemico”: modello da tradurre, sul solco delle “esperienze femminili della maternità e della cura”, come “comunità della differenza” nella quale “l’altro non è contrapposto né assimilato all’Io-Noi, ma è messo dentro la relazione con sé mantenendo la sua differenza irriducibile” (p. 254);

e)    la “consapevolezza” che “la peste che è tra noi attenga a qualcosa di più profondo che non la sfera pubblica della politica, che quindi la salvezza richieda un atto di rinascita, un nuovo inizio più di base, dal quale solo successivamente far rinascere forme politiche di azione collettiva e configurazioni istituzionali corrispondenti” (p. 55);

f)     “la nonviolenza anzitutto come coerenza tra i valori dichiarati e gli stili di vita, orientando questi ultimi verso una sempre maggiore condivisione che prevede, ove possibile e scelta, la vita comunitaria” (pp. 53 – 54);

g)    l’esperienza di “un sentire senza il quale non vi può essere vita umana: il sentire gratitudine. Non verso questa o quello, ma gratitudine come sentimento basico dell’essere al mondo, come sentimento che fonda, in forze del suo rimandare ad una originaria relazione asimmetrica, la fiducia verso l’altro, la possibilità di accedere interiormente ad una postura empatica in direzione dell’altro” (p. 202);

h)    il rispetto del “potere sovrano” e delle “leggi” da esso emanate per “proteggere l’ordine (kòsmos) della terra”  - in una parola il principio legalità – va vissuto come istanza penultima (e in un certo senso provvisoria) perché va costantemente giudicato, come testimonia l’Antigone di Sofocle, sulla base di “quel fondale da cui, da sempre, le donne e gli uomini hanno attinto per nutrire la loro vita e la loro vita (in) comune, fondale che precede ogni ordinamento delle leggi ed ogni sistema dei diritti” (pp. 200 – 201);

i)     il distacco dai propri beni, materiali e immateriali, al punto da non identificare il senso della propria vita con l’accoglimento della propria eredità da parte di figli biologici e/o morali: solo un “tra-dimento”/ “tra-duzione” che “nel passare dall’uno all’altro lascia i soggetti nella loro piena libertà” consente che “ciò che passa possa vivere nell’altro luogo e nell’altro tempo” (p. 237).

Insomma dal deserto avanzante (nel tempo, che è il nostro, della “guerra”, del “capitale” e del “patriarcato e degli Stati”) (pp. 297 – 309) ci si può salvare se davvero convinti – al punto da voler realizzare già subito alcuni esperimenti comunitari – che “altri modi di vivere, di agire, di entrare in relazione sono possibili, a partire da uno stretto legame tra la vita spirituale, l’etica, il lavoro e l’azione sociale e politica” (p. 54).

 

Di distanza, anche.

La sintonia, intellettuale e direi anche affettiva, con il percorso di Annibale Raineri non esclude ovviamente delle forti perplessità – talora decisi disaccordi.

Una prima area distonica potrei qualificarla come “teologica”. Provo a spiegarmi meno confusamente che posso. Tranne rarissime eccezioni, i miei coetanei che, dagli anni universitari in poi, hanno abbandonato la pratica cattolica e le letture teologiche, non hanno idea della rivoluzione copernicana (anzi, delle molteplici rivoluzioni) che in questo mezzo secolo sono avvenute nel mondo da loro abbandonato. Con il risultato che oggi si rapportano – vuoi polemicamente vuoi simpateticamente  - più con un fantasma che con un vivente: fuor di metafora, con un impianto dottrinario ed etico sideralmente lontano dalla proposta cattolica rigettata da giovani. La controprova di questo mutamento di “paradigma” (nell’accezione di Thomas Kuhn trapiantata da Hans Küng dalla storia della scienza alla storia della teologia cristiana) è sotto gli occhi di tutti: appena un prete o una teologa o un papa accennano a condividere sia pur timidamente il nuovo “paradigma”, nella Chiesa si scatenano le reazioni più dure degli ortodossi (siano essi cardinali o suore di clausura o bravi nonni di famiglia). E va sottolineato che, tra un progressista che sostiene di essere in pacifica continuità con la Tradizione e un conservatore che grida scandalizzato all’eresia, è molto più lucido e onesto il conservatore: avrà torto nel non accettare gli sconvolgimenti radicali imposti dalla ricerca biblica, storica, scientifica, filosofica, ma ha ragione nel considerarli sconvolgimenti radicali disorientanti.

Il mio amico Annibale non sembra informato di questi terremoti e, quando parla di teologia, somiglia a quel personaggio televisivo assai divertente che recitava la parte di uno che, ibernato per alcuni decenni, una volta risvegliatosi mostrava di ignorare i cambiamenti storici avvenuti. Mi limito a qualche esempio soltanto.

a)    Più volte Raineri indica Benedetto XVI come “vicario di Cristo” (e sulla rilevanza di questo titolo fa leva per evidenziare la inaudita gravità delle sue dimissioni da papa), senza sospettare che oggi un cattolico istruito sa che il “vescovo di Roma”, se mai è “vicario” di qualcuno, lo è di Pietro (e Benedetto XVI per primo non si è mai qualificato come “vicario di Cristo”).

b)     Il nostro autore, inoltre, per indicare Gesù di Nazareth usa indifferentemente il titolo messianico “Cristo” e il titolo dogmatico “Uomo-Dio”, derivante questo secondo da una cristologia niceno-costantinopolitana che sempre meno viene condivisa dai teologi e che, di conseguenza, sempre più raramente si ritrova nel linguaggio abituale. Non sembra sospettare neppure che si possa dirsi legittimamente cristiani (come la stragrande maggioranza dei cristiani dei primi quattro secoli) ritenendo che Gesù fosse un “Cristo” (un Inviato) di Dio e non un “Uomo-Dio” (un Dio incarnato)

c)    Ancora più assente, se possibile, nel discorso di Raineri il dibattito teologico-filosofico sul “Post-teismo” contemporaneo, con l’effetto (che sarebbe umoristico se non fosse drammatico) che egli si proclama “ateo” per motivi del tutto simili ai motivi esposti dai teologi “post-teisti” a favore delle proprie nuove prospettive: cioè perché non è ragionevole l’ipotesi tradizionale di un Dio-Padre-Padrone che, da una distanza abissalmente lontana, si preoccuperebbe di manovrare come pedine gli esserini microscopici brulicanti su un pianetino microscopico di una microscopica galassia sperduta nell’immenso. Quando egli scrive che per lui “ateismo” ha “anzitutto e primariamente un fondamento etico più che teoretico: a -teismo, privazione del dio, è, per me, la radicale assunzione di responsabilità di chi sente interamente su se stesso il compito/destino della scelta, senza un Altro cui poterne cedere il peso” (p. 53), sembra non sospettare neppure lontanamente quanti “credenti” nel mondo attuale la pensino esattamente come lui[2].

Raineri non è un teologo, ma un filosofo sì. E anche di buona razza: pensa ciò che vive e vive ciò che pensa. Perciò, se non mi stupisce la sua ingenuità teologica, resto invece perplesso su alcune sue posizioni filosofiche. Ad esempio quando accoglie una suggestione letteraria a proposito del principio (di derivazione parmenidea e aristotelica) del “Terzo escluso”:

“C’è un vincolo che unisce in questo punto d’origine l’ordine logico della metafisica occidentale e l’ordine politico dell’impossibilità del terzo oltre la coppia amico/nemico, vincolo mostrato nel capolavoro di Christa Wolf Cassandra: <<Per i greci c’è solo o verità o menzogna, vittoria o sconfitta, amico o nemico, vita o morte. Pensano in modo diverso: quello che non è visibile, annusabile, udibile, tastabile, non esiste, è l’altro che essi schiacciano tra le loro rigide distinzioni, il Terzo, che per loro è sempre escluso, la materia vivente che sorride, che è in grado di riprodursi continuamente da se stessa, l’Indiviso, spirito nella vita, vita nello spirito>>. <<Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere>>” (pp.38 – 39).

A me pare che il brano della Wolf, pur così suggestivo, contenga una catena di semplificazioni eccessive su cui non penso che un filosofo possa chiudere un occhio (né tanto meno entrambi). Intanto una prima macroscopica generalizzazione attribuisce a tutti i “greci” una diffidenza epistemica nei confronti della sfera empirica (“visibile, annusabile, udibile, tastabile”) che può essere attribuita se mai a Parmenide e a Zenone d’Elea. Aristotele, solo per citare il teorico del “principio di non-contraddizione” (da cui deriva il “principio del terzo escluso”), ha lavorato un’intera esistenza in vari campi disciplinari con una metodologia sperimentale-induttiva. Ma ammesso – e non concesso – che davvero tutta la metafisica occidentale imponesse “il logos paterno, basato sulla contrapposizione logica, in sostituzione della ricerca della verità fondata sulla vista, l’udito, il gusto, cioè sulle pure valenze manifestative di ciò che vive secondo il dinamismo metamorfico (altro dal divenire)” (così Domenico Antonino Conci citato a p. 38), che c’entra questo con la radicalità comportamentale, se non addirittura l’intolleranza etica? Il principio (logico) del terzo escluso esclude che Tizio (in uno spesso momento e da un medesimo punto di vista) sia nemico di Caio: non che possa essere in momenti differenti (o nello stesso momento, ma sotto angolazioni diverse) amico e nemico di Caio. Cassandra non potrebbe enunciare la frase ad effetto (retorico)  che tra “uccidere” e “morire” c’è la terza via del “vivere” se non adottasse (irriflessivamente) il principio logico del terzo escluso, in base al quale “uccidere” non è né “morire” né “vivere”; “morire” non è né “uccidere” né “vivere”; “vivere” non è né “morire” né “uccidere”. Da Heidegger ed epigoni sparare sulla metafisica è una moda (molto diffusa fra gli studiosi di filosofia), ma resto convinto che la violenza strabordante nel micro e nel macro del pianeta sia conseguenza di un difetto, non di un eccesso, di riflessione metafisica. Una spiritualità basica, planetaria, potenzialmente condivisibile – come Raineri ed altri la perseguiamo – sarebbe incrinata non dalla molteplicità delle interpretazioni metafisiche quanto dall’esserne portatori inconsapevoli (e dunque incapaci di sottoporle ad auto-critica).

 

Augusto Cavadi

 



[1] Non riprendo in questo ampio dialogo con l’autore alcune considerazioni che, in una prima succinta recensione, ho già avanzato in www.zerozeronews.it/come-cambiare-il-mondo-dopo-il-tramonto-della-politica.