“Repubblica – Palermo” 4.1.04
Augusto Cavadi
VINCENZO SORCE
Ero andato a Caltanissetta per conoscere un manager della solidarietà, interlocutore di ministri e di assessori, la cui holding di servizi sociali dà lavoro a trecento persone. Sulla base di esperienze analoghe, mi aspettavo un prete à la page: valigetta diplomatica rigida, abbigliamento accurato, modi cortesi ma sbrigativi. Mi sono trovato, invece, davanti a un parroco di provincia quasi sessantenne di disarmante semplicità: corporatura appesantita, andatura un po’ oscillante tipica dei contadini adusi a cavalcare muli, nessun accenno di fretta. Forse papa Roncalli – a giudicare da qualche filmato televisivo – suscitava impressioni analoghe. Quando comincia a raccontarsi, conferme e smentite del primo impatto s’intrecciano. In effetti è nato da una famiglia molto modesta dell’entroterra: “Mio padre, socialista anticlericale, aveva organizzato una cooperativa di coltivatori diretti per avere un pezzo delle terre che la riforma agraria post-bellica strappava ai grossi latifondisti. Mia madre, a titolo di volontariato, faceva da magazziniera dei prodotti agricoli e da cassiera”. Il premio per il diploma di quinta elementare furono 40 pecore da allevare: un invito all’iniziativa imprenditoriale. Il piccolo Vincenzo lo raccoglierà da adulto, ma intanto decide di diventare pastore in altro senso ed entra in seminario. Nel ’68 è quasi prete, ma sembra inciampare a pochi passi dalla meta. “Ero una specie di tutor dei più giovani e, quando scoppiò un conflitto fra loro e i superiori per la richiesta di vedere in tv il festival di Sanremo, proposi una mediazione: ascoltatelo alla radio. Mi sembrava un compromesso accettabile: invece fui cacciato per eccesso di permissivismo. Per fortuna gli altri 11 compagni di studio solidarizzarono: o lo richiamate o ce ne andiamo pure noi. La contestazione funzionò: fui riammesso e ricevemmo tutti l’ordinazione presbiteriale. (Anzi, poi, due di loro sono diventati vescovi in Brasile. Uno dei membri del gruppo dei liceisti che volevano vedere il festival in diretta è adesso l’arcivescovo di Monreale: ed è rimasto sin da allora un amico fraterno)”.
Tra le prime sedi assegnategli il villaggio Santa Barbara, un ghetto di zolfatari. Il Comune costruisce delle case popolari, ma avvocati e impiegati se le accaparrano. Don Sorce organizza blocchi stradali, persino l’occupazione del municipio. Anche per evitare altri incidenti, viene richiamato in curia: è laureato in teologia all’università domenicana di Roma e in pedagogia alla statale di Catania. Ha pure conseguito un diploma di qualificazione in pastorale catechetica all’università salesiana della capitale: non ha ancora trent’anni, ma lo si incarica di dirige l’ufficio catechistico. Fuori dal gergo: gestisce le cattedre di religione dell’intera diocesi. “Il mio sogno era allora di perfezionare gli studi e di dedicarmi all’insegnamento. Varie diocesi mi invitavano a parlare con i catechisti ramificati nelle varie parrocchie per rinnovare gli schemi ormai antiquati, anteriori al Concilio Vaticano II. E scrivevo, con piacere, articoli sulla stampa religiosa e ‘laica’. Ma, inaspettato, bussa alla porta un ragazzo affetto da sclerosi multipla. E’ inchiodato su una carrozzella e brucia dalla voglia di rendersi utile a sé e a quelli che soffrono come lui. La mia risposta, tipicamente clericale, è di procurargli un posto nel treno bianco per Lourdes. Speravo di essermi messo a posto con la coscienza. Al ritorno gli chiedo che cosa avesse chiesto alla Madonna e mi risponde: ‘A lei non ho chiesto niente, ma a te chiedo di aiutarmi’. Resto spiazzato e devo impegnarmi a incontrare lui, e i suoi amici in condizioni analoghe, almeno una volta al mese. Poi diventano due, poi quattro. Capii che dovevo aprirmi alla solidarietà sociale. Fu come la guarigione da una cecità: lo studio tradizionale della teologia mi aveva come bendato gli occhi.” Poco dopo a chiedere aiuto è una ragazza con poliartrite. La madre, diabetica, deve andare in ospedale e lei non ha dove rifugiarsi per assistenza. “Chiesi a tutti i conventi femminili, ma ognuno aveva una ragione diversa per rifiutarsi. Quando minacciai di scrivere un articolo di denunzia, un istituto di suore preferì aprirle le porte. Ma non si poteva andare avanti così. Bisognava che io stesso organizzassi dei luoghi di accoglienza e di riabilitazione. Era il 1981: sono nate da qui l’associazione ‘Terra promessa’ e, soprattutto, l’associazione casa-famiglia ‘Rosetta’. Senza che lo abbia voluto, senza che lo abbia preventivato a tavolino, son piovuti indigenti di ogni genere: tossicodipendenti, alcolisti, giocatori d’azzardo, ammalati di aids, minori a rischio, disabili psichici. E ho capito i due capisaldi della nostra opera da allora in poi. Primo: bisogna coniugare lo studio con l’agire. Secondo: bisogna affrontare il disagio non frammentariamente, ma complessivamente”. La necessità di studiare, di importare in Sicilia formatori lo spinge prima a Roma da don Picchi, poi a New York da monsignor O’ Brien conosciuto come “il papa della droga”e , infine, all’università di S. Diego in California. Fonda l’Istituto Mediterraneo per la formazione, la ricerca, la terapia e la piscoterapia che da allora organizza seminari con esperti di tutto il mondo non solo a Caltanissetta. Si fa carico di tre conferenze mondiali sulla prevenzione della droga: l’ultima, nel settembre scorso, a Roma, con 450 rappresentanti provenienti da 85 Paesi. Porta avanti, intanto, su incarico del Dipartimento di Stato USA e dell’ONU, un progetto di formazione di operatori delle tossicodipendenze provenienti da Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Repubblica Slovacca, Slovenia, Russia, Bielorussia, Moldavia. Ancora: la realizzazione di una banca dati finalizzata alla fornitura di servizi telematici e di formazione a distanza per personale in servizio presso i centri di riabilitazione ed i servizi socio-sanitari. Fonda una rivista. Fonda una casa editrice. Fonda la sezione locale della Lumsa (una libera università cattolica): il 28 novembre di quest’anno la consegna dei primi diplomi di laurea.Ma queste occasioni di preparazione professionale non avrebbero senso se non trovassero uno sbocco operativo. Da qui la fondazione, nel tempo, di un vero e proprio network della promozione umana: case- famiglia, centri di riabilitazione, comunità di accoglienza, comunità alloggio, comunità di reinserimento, consultori familiari e di prevenzione genetica, luoghi di spiritualità e biblioteche non solo in molti comuni siciliani, ma anche a Roma, a Montegrosso d’Asti, a Porto Velho in Brasile. Senza contare i progetti in convenzione con università e centri in Libia, Colombia ed Ecuador.In questa vita avventurosa non mancano le minacce, le resistenze, le incomprensioni, gli attacchi. “Autorità civili e religiose hanno sempre cercato di mettere il cappello su queste iniziative, ma le ho difese senza tentennamenti. Per me è essenziale il monito di don Milani: servire i poveri senza servirsi dei poveri. In Italia esperienze simili si sono legate al carro del centro-sinistra o del centro-destra, quando qualche prete non si è ridotto a fare il valletto delle soubrettes televisive: io voglio scommettere sull’indipendenza dai partiti e sulla possibilità di coinvolgere, senza etichette pregiudiziali, tutti quelli di destra o di sinistra che si vogliono lasciare coinvolgere”. L’insidia più micidiale? Don Vincenzo non ha esitazioni: “No, non è la vendetta occasionale di qualche spacciatore, ma la cappa della burocrazia. Se non ricevessimo in ritardo di anni i rimborsi che ci spettano dalla Regione – e che attualmente devono passare dalla Asl - risparmieremmo almeno un miliardo di vecchie lire di soli interessi sui debiti. E potremmo dare risposta alle richieste di intervento che ci vengono dal Madascar, dalla Tunisia, dall’India, dal Ciad, dalla Georgia. Ma sarebbe così difficile non fare passare anni prima di portare a compimento una pratica se corredata da tutti i requisiti previsti dalle norme?”.Durante la lunga conversazione, mi accompagna a visitare alcuni luoghi della sua attività e mi presenta collaboratori ed utenti. Incontriamo un po’ di tutto: dal docente universitario nella stanza riservata al ricevimento degli studenti (“Qui cerchiamo di laureare l’esperienza sul campo. Non sono tanti come nelle università statali: li possiamo seguire uno per uno”) al ragazzo che contrasta - sudando in giardino - una dipendenza da cui è deciso a liberarsi; al volontario che aderisce alla comunità ‘Santa Maria dei poveri’ voluta da don Vincenzo come riserva di spiritualità. Quando ci congediamo, capisco meglio il suo senso di amarezza: “Con i miei amici non ci arrenderemo facilmente. Ma sarebbe tutta un’altra cosa se anche gli altri, soprattutto gli amministratori, capissero che stiamo preparando il futuro di queste terre desolate”. Capisco meglio il ritaglio di un suo articolo giovanile: “Un certo tipo di religiosità, di cristianesimo non soddisfa chi ha buon senso, irrita chi ragiona, scandalizza chi è preso dalla passione per la verità, provoca la rivolta. Anch’io non credo in ciò che non è autentico, in una religione oppio, in un cristianesimo tranquillante, in un Cristo che non scomoda e non mette in crisi. Il Cristo in cui credo preferisce la misericordia alle cerimonie senza vita dei suoi preti, smaschera l’ipocrisia e rifiuta ogni alleanza con i potenti, con i più influenti. Non è un tranquillante per i ricchi e non è sonnifero per i poveri”. E capisco meglio il rimprovero affettuoso che usava rivolgergli la madre ormai anziana: “Ma non potresti deciderti a fare il prete normale?”.
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