Centonove 12.11.04
Augusto Cavadi
AMICI COME PRIMA. ANZI, DI PIU’
Per quanto tecnicamente impossibile da seguire, darei al lettore un consiglio preliminare: evitare di leggere il nome dell’autore prima del libro. O, se proprio è inevitabile, non sciogliere il dubbio se si tratti dell’ex-segretario regionale siciliano (e attuale deputato dell’Ars) di Rifondazione comunista o di padre Pio da Pietralcina. Il principale merito del volume, infatti, è di lasciar parlare gli eventi, mettendo fra parentesi (per quanto è possibile) precomprensioni ideologiche e ottiche di parte. Di quali eventi si tratta? Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe in base al sottotitolo (Storie di mafia e politica nella Seconda Repubblica), l’ambito della trattazione è più circoscritto: sono storie di mafia e politica della “Seconda Regione” (p. 52) dal 22 ottobre 1999 al febbraio del 2004 (proscioglimento del diessino Mirello Crisafulli dalle accuse di complicità con ambienti mafiosi).
Perché proprio quella data di partenza? Perché “quel giorno segna una svolta” (p. 21): l’onorevole Giulio Andreotti viene assolto in primo grado dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. “Una filosofia e una pratica del potere” (p. 22) – sia pure riprodotte in formato ‘bonsai’ e tradotte in dialetto – vengono riabilitate. Dall’andreottismo al cuffarismo: “Evvai!”, commenterebbe l’avvocatessa Bongiorno del collegio di difesa schierato contro la “procura della Repubblica rossa diretta da Giancarlo Caselli” (p. 21).
Da quel momento magistrati inquirenti, giornalisti, opinionisti e magistrati giudicanti non si stancano di registrare episodi incredibili di malcostume (che Forgione ha il merito di inanellare in sequenza cronologica sottraendoli all’oblìo inevitabile del lettore medio): viene arrestato Rosario Lo Bue (“il reggente di decine e decine di ettari di terreno di proprietà di Totò Riina”) e si scopre che il fratello è “campiere e reggente di tutti i terreni e delle proprietà” del presidente della Regione Giuseppe Provenzano “nel territorio di Corleone” (p. 59); a Trapani, invece, la potente famiglia del senatore Tonino d’Alì, “sottosegretario all’Interno con la delega alle prefetture” del governo Berlusconi bis (p. 66) , preferisce scegliere - come “reggente delle terre e delle tenute (…) in contrada Zangara a Castelvetrano” – “uno dei patriarchi della mafia trapanese, Francesco Messina Denaro” (p. 64). Che la mafia si rapporti costitutivamente con i politici, non è una novità: senza questa connessione sarebbe una delle tante associazioni criminali che infettano il pianeta. Nuovo è invece il fenomeno per cui molti mafiosi, non fidandosi abbastanza dei politici, imitino la scelta di alcuni imprenditori del Nord quando non si sono neppure loro fidati dei referenti politici: scendono, personalmente e direttamente, in campo. Così, a Favara, Giuseppe Nobile, “un medico analista con il pallino della politica” (p. 71), occupa contemporaneamente la poltrona di “rappresentante del mandamento di Favara” nella “cupola” agrigentina e di “presidente della Commissione provinciale per lo sviluppo economico e produttivo” (p. 72). Qualcosa di inquietantemente simile a Pantelleria dove il sindaco Alberto Di Marzo viene accusato, e condannato, perché gestiva – contemporaneamente – “il bilancio del Comune” e “il libro mastro del racket delle estorsioni nell’isola” (p. 110).
Impossibile rievocare tutti gli altri episodi pazientemente ricostruiti dall’autore. Chi vorrà, potrà ripercorrerli con agio sfogliando il libro. E magari arrivare alla conclusione bipartisan che politica ed etica non si identificano: nelle questioni politiche si può e si deve essere “elastici”, ma quando si toccano le corde dell’etica non si può non essere rigorosi e intransigenti.
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