venerdì 23 dicembre 2005

FELICITA’: NON INDIVIDUALE MA COME COMUNITA’


“Centonove”, 23.12.05

In occasione del natale
BREVE VIAGGIO ALL’INTERNO DELLA PROPRIA IDENTITA’

Nel chiacchiericcio sulle modalità più corrette per relazionarsi alle identità culturali degli immigrati che – inesorabilmente e non senza vantaggi per l’economia europea – si vanno inserendo nel nostro tessuto sociale, molto raramente ci si pone la domanda sul grado di consapevolezza che abbiamo della nostra stessa identità. Non solo la pensiamo monoliticamente (laddove, noi europei, siamo figli di Atene e di Gerusalemme, di Roma e de La Mecca, di Parigi e di Berlino…); non solo la pensiamo fissisticamente (laddove, noi europei, siamo un impasto dinamicamente aperto alle religioni orientali, alle musiche africane, alle tecnologie americane…); ma – come se non fossero abbastanza gravi tutte  queste deformazioni mentali – ignoriamo persino i tratti costitutivi essenziali di quei filoni (come il cristianesimo) che tendiamo, abusivamente, ad assolutizzare (dimenticando – o sottovalutando – gli altri). Esiste – ad esempio – una ‘magna charta’ del cristianesimo? Gli esegeti più accreditati (in campo cattolico, ortodosso e protestante) non hanno dubbi: essa sarebbe formulata nel celebre “discorso della montagna”, al cui centro vigoreggiano le  celebri ‘beatitudini’. Se è così, dobbiamo attentamente chiederci: questa ‘carta costituzionale’ ce l’hanno presentata correttamente e correttamente l’abbiamo recepita o ce l’hanno presentata in maniera deformata e - non potevamo altrimenti – l’abbiamo equivocata disastrosamente? La questione non è irrilevante. Nella prima ipotesi saremmo in continuità col vangelo, in linea con la proposta di Gesù, profeta saggio e vagabondo; nella seconda (proprio in un punto decisivo!) prigionieri di una truffa e, se ci professiamo cristiani,  truffatori – sia pure in buona fede – noi stessi.
Se realizzassimo un breve sondaggio in via Libertà a Palermo o in via Etnea a Catania, la stragrande maggioranza della gente (senza differenza fra chi si dice credente, ateo o indifferente) non avrebbe dubbi: Gesù, soprattutto con il discorso sulle beatitudini, ha fondato una religione spiritualistica (centrata sul primato dello spirito rispetto al corpo) e ultramondana (centrata sul futuro eterno rispetto al presente temporale).
Prendiamo una ‘beatitudine’ a caso: “Beati voi che ora sentite i morsi della fame, perché sarete saziati” (Luca 6, 20). Tutto appare evidente: Gesù sta dicendo ai poveri del suo giro di sopportare in questa vita la loro fame (e – aggiunge l’evangelista Matteo nel passo parallelo: 5,4 - la loro sete di giustizia)  perché nell’altra, finalmente liberati dai vincoli del corpo, saranno definitivamente soddisfatti. Lo specifico del cristianesimo sarebbe dunque ovvio: accetta con pazienza le sofferenze terrene e sarai premiato in paradiso. Ma è davvero tutto così ovvio? O quando si prova ad aprire qualche commento biblico un po’ critico, di genere specialistico, abbastanza aggiornato, i conti non tornano più e si resta disorientati?
Leggendo, ad esempio, gli studi del p. J. Dupont (cfr. Le beatitudini, Paoline, Ciniselle Balsamo 1992) , si scopre che Gesù non era per nulla un funzionario statale o ecclesiastico incaricato di calmare gli animi, di raffreddare le tensioni e le tentazioni di rivolta: non era né reazionario né conservatore. Anzi neppure moderato. Parlava alla gente concreta della sua terra e del suo tempo: un popolo dove c’erano certo anche ricchi e potenti, o per lo meno borghesucci ben sistemati, ma la cui maggioranza schiacciante era costituita da persone che provavano la fame e la sete in maniera molto fisica, letterale, concreta. Volevano giustizia perché i Romani li trattavano come coloni e alcuni ebrei – alleandosi con le forze di  occupazione – approfittavano del regime per sfruttare i propri fratelli di sangue e di fede. Avevano fame, volevano giustizia: e Gesù li chiama ‘felici’ perché con lui, in quel momento storico e in quel luogo geografico, sarebbero stati sfamati e avrebbero ricevuto il risarcimento per i torti subiti. Nessun dualismo antropologico, dunque, fra una presunta beatitudine dello spirito e l’effettiva miseria corporale. Gesù non sposta neppure la questione dal piano dell’attualità esistenziale verso un al di là dai contorni indefiniti: promette, anzi annunzia come imminente, un Regno di Dio in cui tutti possano avere “pane e carezze” (come usa esprimersi il teologo Armido Rizzi) o, per dirla col titolo di un bel film di Ken Loach, “pane e rose”. Un Regno in cui – come amava ripetere il sindaco di Firenze Giorgio La Pira – “ognuno abbia una casa e anche Dio possa abitare in pace la sua”.
Se è così, quanti si ritengono credenti in Cristo, nel Messia inviato da Dio,  rischiano di fallire due volte.
Una volta, come comunità: in quanto chiesa. Se il manifesto programmatico del cristianesimo è l’avvento di questo “regno” di giustizia, nella libertà e nella fratellanza, non c’è dubbio: stiamo assistendo al fallimento del predicatore di Galilea. Come argomentava Sergio Quinzio in uno splendido testo edito dall’Adelphi, così intitolato, siamo spettatori della “sconfitta di Dio”. Viviamo il tempo della delusione  senza muovere un dito per cambiarla di segno: senza attivarci affinché diventi vero, attuale, palpabile che l’affamato venga saziato, l’assetato abbia la sua acqua, il senza casa ottenga un tetto. E, soprattutto, che – a quanti possono  lavorare per procurarsi pane, acqua e tetto -  venga data la possibilità di lavorare. Ancora il 16 dicembre del 2005 il Direttore generale della Fao, Diouf, rende noto che le persone al di sotto dei livelli minimi di nutrizione sono, nel pianeta, 852 milioni: ma  le gerarchie ecclesiastiche sembrano concentrate sulla vita sessuale dei fedeli (e persino degli altri cittadini) o sulle possibili agevolazioni fiscali per gli istituti cattolici. Su temi, dunque, che Gesù Cristo non ha neppure sfiorato di passaggio nei suoi anni di vita pubblica.
Una seconda volta, quanti si dicono credenti nel vangelo, rischiano di fallire come singole personalità. Perché cercano la felicità – la  ‘beatitudine’ – e non possono non cercarla: ma nella direzione sbagliata.   La cercano adeguandosi alla mentalità dominante in Occidente (e dunque competendo con gli altri, abbassando gli altri, strumentalizzandoli e manovrandoli) senza neppure sospettare che la felicità si nasconde, come frutto prezioso, nelle relazioni cooperative. Ed emerge, lentamente, là dove si tesse la promozione di chi è bistrattato, la valorizzazione di chi è sottovalutato. Essa ci sorprende mentre siamo concentrati altrove: a scrutare ogni spiraglio di bellezza, a decifrare ogni frammento di verità, soprattutto a curare ogni piaga altrui dimenticata. La sperimentiamo come effetto collaterale di un’esistenza orientata a ristrutturare quelle condizioni sistematicamente  e durevolmente violente che provocano sofferenza, frustrazione, violenza occasionale ed emotiva.
Una incursione alla ricerca seria delle nostre radici – di alcune delle nostre tante radici – potrebbe dunque aprire orizzonti di senso oscurati da secoli di conformismo (forse non del tutto innocente) sino a farci addirittura scoprire, come scrive Elio Rindone a conclusione del suo breve ma intenso volumetto Ma è possibile essere felici? Interrogare il passato senza restarne prigionieri (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, pp. 89 – 90), che “il modo migliore per avvicinarci alla felicità è quello di non pensarci troppo! Occuparci un po’ della felicità altrui potrebbe infatti giovare molto anche alla nostra felicità: persino se ciò dovesse sul momento costarci”.

Augusto Cavadi

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