martedì 22 luglio 2008

CONSULENZA FILOSOFICA


“La Rivista Italiana di Cure Palliative”, VIII, Estate 2008

Il tramonto della vita mondana: quale spazio per la consulenza filosofica?

di Augusto Cavadi
(Filosofo consulente, Palermo)

Per tre volte ho avuto il privilegio di essere coinvolto dalla “Società italiana per le cure palliative” (cui aderiscono sia medici sia altri operatori sanitari) come relatore agli ultimi convegni organizzati dalla sezione siciliana dell’Associazione. Con leggere differenze di accentuazione, ogni volta si è comunque intrecciato un confronto sulla terapia del dolore, l’accanimento terapeutico e l’eutanasia: tematiche sulle quali sono stato chiamato ad interloquire, nella qualità di filosofo-consulente, con esperti di medicina, diritto, bioetica e teologia. Dalla triplice esperienza ho tratto alcune considerazioni trasversali, complessive, che, forse, meritano d’essere socializzate. Più precisamente sulla dimensione esperienziale della consulenza filosofica, sulla dimensione politica della medicina e sul ruolo del consulente filosofico come ponte fra la ricerca filosofica accademica e l’opinione pubblica. Approfondendo quest’ultimo argomento proverò a mostrare come il filosofo-consulente possa aiutare operatori sanitari e pazienti a prendere consapevolezza critica di alcune loro idee riguardanti il dolore, il suicidio e il rapporto medico-paziente.

Considerazioni generali sul servizio di un filosofo nei confronti degli operatori sanitari

a) Pensare a partire da una condivisione esperienziale
Una prima riflessione ha riguardato gli aspetti metodologici. In generale il filosofo – e in particolare il filosofo che si predispone al servizio di consulenza – deve, periodicamente, immergersi nel concreto delle problematiche sociali; porsi in ascolto degli interrogativi, ma anche delle intuizioni e degli stessi pregiudizi, di chi è visceralmente implicato in problematiche che nessun testo scritto può rappresentare in misura adeguata. In questo caso - è solo un’esemplificazione particolare di una regola generale – si tratta di registrare opinioni ed umori di uomini e donne che, dalla mattina alla sera, sono a contatto con piaghe fisiche e morali lancinanti verso cui chinarsi per scelta etica o per dovere professionale, ma da cui anche difendersi per salvaguardare un minimo di equilibrio psicologico personale. Solo lasciandosi toccare e attraversare da questi stati d’animo esperienziali, il filosofo-consulente può provare a balbettare qualche indicazione necessariamente (ma non biasimevolmente) ‘astratta’. Pronto non solo a restituire agli operatori sanitari e sociali il frutto delle sue riflessioni sui dati offertigli, ma ad accoglierne nuovamente le reazioni: in un circolo virtuoso fra domande dal quotidiano e attrezzatura filosofica che vede tutti insieme protagonisti della stessa ricerca di senso.

b) Pensare la medicina in prospettiva anche ‘politica’
Una seconda considerazione si è orientata sulla mission del filosofo-consulente: è essa esclusivamente rivolta a chiarire, in colloqui a due o in piccoli gruppi di discussione, opzioni personali (tutti, prima o poi, sperimentiamo modalità di sofferenza particolarmente acute o nella nostra biografia o nella cerchia dei nostri affetti) o non anche opzioni collettive (che riguardano il costume sociale e, almeno in prospettiva, l’assetto legislativo)? Anche da questa angolazione l’esperienza di questi tre incontri di studio mi è risultata istruttiva: il target a cui indirizzare la propria attività filosofica non è sempre circoscrivibile con esattezza. Su alcune questioni, il filosofo può - o forse deve – proporre le sue riflessioni critiche ad un pubblico ‘potenziale’ più ampio rispetto a quanti esplicitamente lo interpellano professionalmente. Per restare in questo caso: il committente è stato un soggetto privato plurale (la Società per le cure palliative), ma esso ha chiesto un apporto di chiarificazione e per se stesso (dunque per agevolare il confronto fra i soci all’interno dell’associazione) e per il resto della popolazione. Ciò che ho colto è stata una sollecitazione – da parte di un’organizzazione privata con intenti pionieristici - a valorizzare la dimensione ‘politica’ (o, se il termine evoca significati equivoci, ‘sociale’) dell’attività filosofica. Che, formulata diversamente, significherebbe assumere con serietà il compito non soltanto di rispondere alle domande che vengono poste dalla società, ma anche di porre alla società le domande che essa - abitualmente – non si pone. Qualcosa del genere è stata raccomandata recentemente in un breve, ma intenso, scritto da Pier Aldo Rovatti (1). Con ragione preoccupato dell’ingenuità con cui non pochi giovani si avvicinano alla professione di consulenti filosofici, egli richiama l’articolata eredità di Michel Foucault per ricordare che “leggere criticamente il presente significa avvicinarsi alla società in cui viviamo e descrivere in modo più circostanziato lo spazio in cui siamo bloccati, il nostro scenario discorsivo” (2). Per aggiungere immediatamente: “Qualsiasi manovra è reale se inizia da qui, da un hic et nunc sociale, politico e culturale”.

c) Il filosofo pratico medium tra il filosofo della pratica e il consultante
Una terza considerazione riguarda un po’ più intrinsecamente il merito delle questioni affrontate nei tre appuntamenti della Società italiana per le cure palliative. Quando ho riflettuto sull’invito ricevuto, mi sono chiesto se (ed, eventualmente, in che cosa) il ruolo del filosofo-consulente si differenziasse dal ruolo del filosofo etico. La presenza fra i partecipanti di illustri esperti in bioetica rendeva la domanda particolarmente pertinente. Questi colleghi avrebbero egregiamente - in ogni caso più competentemente di me – esposto le ragioni a favore di alcune battaglie portate avanti dall’associazione organizzatrice (possibilmente senza tacere le obiezioni rintracciabili nella letteratura sull’argomento e condivise da alcuni dei relatori invitati come da alcuni dei soci presenti). A che, dunque, un filosofo-consulente in quanto tale? La risposta mi è stata, indirettamente, suggerita dalla lettura di un libro molto interessante, tradotto nella nostra lingua qualche anno prima. L’autore, il francese Jacques Pohier, non è un filosofo di mestiere. E’ stato piuttosto un teologo (da frate domenicano è stato anche decano della Facoltà di teologia Le Saulchoir di Parigi) e un esperto di psicanalisi, per poi dedicarsi (dopo i provvedimenti disciplinari del Vaticano nei suoi confronti) all’Admd (un’associazione francese per il diritto ad una morte dignitosa). Ebbene, nel suo testo (3), egli nota più di una volta la “eccessiva medicalizzazione dei problemi legati all’eutanasia volontaria e al suicidio assistito”: “questi non sono problemi di carattere essenzialmente medico, bensì problemi che riguardano la valutazione che ne fa la società e al tempo stesso le scelte del diretto interessato” (4). Tuttavia questa “valutazione” sociale e queste “scelte” individuali non avvengono nel vuoto pneumatico. Da qui la necessità - preliminare ad ogni riflessione teorica e ad ogni battaglia operativa – di facilitare nei cittadini (operatori sanitari, pazienti o elettori) la consapevolezza di essere portatori di idee per così dire inconsce - o, meglio, seguendo il suggerimento di Peter B. Raabe, “irriflesse” (5) - che condizionano tante loro opinioni e tante loro scelte di vita quotidiane. Più precisamente, Pohier suggerisce l’incidenza di almeno tre teorie “implicite”: la “teoria implicita del dolore” (6), la “teoria implicita del suicidio” e “la teoria implicita della relazione medico-paziente” (7). Analizzeremo più sotto alcuni tratti di queste tre teorie “implicite” ma, preliminarmente, non ci interessa stabilire se le concezioni dominanti del dolore, del suicidio e del rapporto terapeutico siano valide, dunque accettabili e meritevoli d’essere perpetuate, o non piuttosto scorrette, dunque bisognose di revisione critica. C’interessa piuttosto notare che lo specifico del filosofo-consulente consiste nell’individuazione e nella messa a fuoco di tali concezioni (sotterraneamente ma resistentemente) operanti nei suoi interlocutori (diretti o indiretti). Una volta, per così dire, scovata questa visione-del-mondo, il filosofo-consulente può affidarla all’esame critico sia del suo ‘pubblico’ (che utilizzerà soprattutto esperienze personali, buon senso, romanzi, film, opere teatrali, canzoni…) sia dei filosofi-speculativi (che utilizzeranno soprattutto i dati della storia del pensiero e gli strumenti della logica). Filosofi-consulenti, filosofi-speculativi e non-filosofi lavoreranno con maggiori probabilità di successo se lo faranno in connessione con la “pratica, nel pieno significato della parola”: intesa come “la fonte e il luogo di un sapere che non può derivare da altro” (8).
Potrei aggiungere - per rendere meno imperfettamente la mia tesi sulla differenza fra una pratica filosofica come la consulenza e una filosofia della pratica come la produzione (articoli, saggi, trattati, lezioni, conferenze, relazioni ai congressi specialistici…) dei bioetici – che il consulente filosofico può facilitare ed arricchire l’esame critico delle opinioni “implicite” da parte del pubblico dei non-filosofi presentando loro delle teorie alternative (per lo più elaborate da filosofi di mestiere, in questo caso presumibilmente dei bioetici) sul significato del dolore, del suicidio e del rapporto terapeutico. Apprendere che esistono prospettive (coerenti e argomentativamente strutturate) altre da cui guardare il mondo in cui siamo immersi è uno degli stimoli più efficaci per prendere consapevolezza del valore, e dei limiti, della nostra stessa angolazione.

Alcune teorie ‘irriflesse’ che condizionano la pratica medica

a) La teoria ‘implicita’ del dolore
Proviamo adesso, a scopo esemplificativo dei criteri generali sopra accennati, ad analizzare la prima delle tre teorie “implicite” segnalate da Pohier. Egli parte dalla constatazione storica che “gli esseri umani hanno cercato, per millenni, di dare un senso al dolore, di trovare una spiegazione, una ragione, una giustificazione; meglio: di attribuirgli un valore”(9). A suo avviso questa operazione culturale si è presentata in due principali modalità: “individuare un colpevole” (“se soffriamo è perché qualcuno vuole il nostro male”: la “colpa” è “degli ebrei, dei massoni, dei crucchi, degli arabi, dei comunisti, dei capitalisti, dei preti, degli atei, dei giovani, dei vecchi, della civiltà moderna, del passato, della pornografia, del puritanesimo, della cultura scientifica, della cultura prescientifica, dell’illuminismo, dell’oscurantismo, e così via”); oppure “attribuirne a se stessi la causa o la responsabilità” (10) (e quindi vedervi una funzione punitrice o addirittura espiatrice).
Una volta ricostruita la doppia faccia della teoria, irriflessa e dominante, del dolore, che può fare il filosofo-consulente? Mi pare che la via maestra sia invitare il portatore inconsapevole di tale ‘teoria’ a riflettervi criticamente o per riconfermarsi in essa (almeno per quei casi in cui, effettivamente, l’origine di un nostro dolore sia ‘obiettivamente’ rintracciabile in un soggetto esterno che ci ha procurato del male o in un nostro comportamento pregresso autolesionistico); o per destrutturarla e liberarsene (almeno per quei casi in cui, effettivamente, l’origine di un nostro dolore non sia ragionevolmente attribuibile né ad altri né a noi stessi). Questo processo di demistificazione del dolore non è per nulla semplice. Lo stesso Pohier accenna al fatto che l’invenzione del “capro espiatorio” (avrebbe potuto citare in proposito gli studi di René Girard) e il “senso di colpa” non sono prodotti dalle religioni (e, in particolare, dal cristianesimo): dunque non “sarebbe sufficiente sradicare i riferimenti religiosi per sbarazzarsi di tutte queste idee” (11). Al contrario, egli suppone che “la maggior parte delle convinzioni religiose in materia non siano altro che un rivestimento, un involucro e, più in profondità, l’affluente impetuoso ma pur sempre secondario, di un fiume di cui esse non sono la sorgente” (12). Per cui uno smontaggio della teoria “implicita” del dolore – tendente a mostrare che esso è “di per sé degradante in quanto disumanizzante” (13) – potrebbe passare attraverso la critica della teoria cristiana del dolore, ma non dovrebbe arrestarsi ad essa: bisognerebbe, se ci si riuscisse, andare risalire ancora più a monte. Per esempio, sino alla radici antropologiche e psicanalitiche alla cui ricerca sono andati - e continuano a procedere - studiosi del calibro di Freud e di Jung (14).
Si potrebbe aggiungere - andando oltre Pohier – che questa critica (necessaria ma non sufficiente) della versione più diffusa della teoria cristiana del dolore non può in nessun caso arrivare dall’alto e dall’esterno della poltrona del consulente, ma deve essere per così dire stimolata nella mente del consultante. O attraverso la prospettazione di teorie alternative (è l’operazione, ad esempio, di Umberto Galimberti nel suo libro più recente dedicato alle pratiche filosofiche) (16) o, forse più efficacemente, attraverso una revisione teologica della visione cristiana tradizionale (che, utilizzando gli strumenti aggiornati dell’esegesi biblica e della storia della teologia, la liberi da superfetazioni e fraintendimenti accumulatisi nei secoli).

b) La teoria ‘implicita’ del suicidio
Una seconda teoria “implicita” che, a parere di Pohier, andrebbe scovata e messa sotto esame riguarda la nozione (comunemente più diffusa) di ‘suicidio’. Infatti, anche se “dal 1791 il suicidio in Francia non è più reato” e la Chiesa cattolica romana “ha ammorbidito (…) la sua disciplina pastorale e liturgica, che da oltre trent’anni consente di celebrare in chiesa il funerale dei suicidi con la liturgia dei defunti e di seppellirli nei cimiteri cattolici” (17) “questi progressi religiosi o civili non hanno modificato granché la tendenza a condannare duramente il suicidio da parte della società”: è “come se l’intransigenza della società civile dell’epoca precedente la Rivoluzione, e quella della Chiesa fino a poco tempo fa, fossero stati sostituiti da un’intransigenza non minore, e forse ancora più efficace perché meno esplicita” (18). Secondo questa teoria, il suicidio è per essenza una patologia: o teologica (ribellione a Dio) o morale (suggello di una vita perversa) o sociale (effetto di emarginazione) o psicologica (conseguenza di squilibri mentali gravi). Che di fatto il suicidio possa essere anche una manifestazione patologica (o, più ampiamente, rottura di un ordine reale o presunto) non c’è dubbio. La questione filosofica (in generale) e di consulenza filosofica (in particolare) è se non ci siano contesti (storico-culturali ed anche socio-esistenziali) in cui il suicidio sia interpretabile sotto altra luce, non lasci intravedere altre dimensioni non meno essenziali, non si riveli - insomma – come “un atto di libertà, un comportamento razionale e ragionevole, degno di lode e di ammirazione, se non addirittura, dal punto di vista morale, nobile e, dal punto di vista religioso, corretto e rispettoso di Dio” (19).
Ancora una volta: non si tratta, per il filosofo-consulente, di denigrare le idee tradizionali (qualora siano operanti nella mente dell’ospite) per soppiantarle, più o meno subdolamente, con le proprie. Più semplicemente, e più onestamente, si tratta di aprire orizzonti più ampi a colui che s’interroga sulle scelte di vita proprie o di persone care o di persone affidate alle sue cure: si tratta insomma non di disintegrare alcune opinioni del visitatore, quanto di relativizzarle. E questa relativizzazione può avvenire, come si è notato sopra a proposito della teoria del dolore, o prospettando punti di vista radicalmente altri (per esempio illustrando alcune convinzioni registrabili nella cultura nipponica) o invitando ad un esame critico della propria cultura. E’ un po’ l’operazione di Jean Baechler in Les Suicides del 1975 (citato dallo stesso Pohier) quando – dopo aver avvertito di non essere interessato a tessere “un’apologia del suicidio” – fa notare in quanto sociologo: “Che il suicidio affermi la libertà, la dignità e il diritto alla felicità mi pare risulti con ogni evidenza dai fatti. E’ interessante notare una contraddizione tipica della moderna civiltà occidentale. Da due secoli a questa parte ha sempre considerato suoi valori primari la libertà, la felicità e la dignità dell’essere umano. Ma per quanto riguarda il suicidio, il comportamento dei più è ben lungi dal conformarsi a tali valori. Il suicidio resta coperto d’infamia, il che significa che i familiari del suicida sono sempre mal visti dal vicinato. L’atteggiamento della Chiesa e dello Stato ha senza dubbio cessato di conferire il marchio esteriore d’ignominia che le istituzioni assegnavano in passato ai suicidi. Ma l’opinione pubblica non si è ancora adeguata (…). In verità, non è la prima volta né l’unico ambito in cui una società contraddice i valori che proclama” (19). In questa direzione di approfondimento si potrebbe andare ancora più a fondo e chiedersi come mai, anche prima del cristianesimo, si rilevi - accanto a teorie che legittimano o addirittura esaltano il suicidio - altre che mostrano contro di esso avversione intellettuale ed etica. Riprendendo e sviluppando uno spunto di Baechler, Pohier osserva che “una società può al limite sopportare che qualcuno ‘non stia alle regole del gioco’ : se il mancato rispetto delle regole del gioco si spiega con la patologia sociale o individuale, constatare e quindi dichiarare che la causa risiede nella patologia consente di considerare questi soggetti come dei ‘bari’ e garantisce l’intangibilità delle regole; ma quando non è possibile chiamare in causa la patologia o recuperare il suicidio all’utilità delle regole del gioco, allora queste sono messe in pericolo” (19).

c) La teoria ‘implicita’ del rapporto medico-paziente
Passiamo, infine, alla visione abituale (e irriflessa) del rapporto ‘giusto’ fra terapeuta e ammalato. Uno stimato presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei medici francese, tale dott. Louis Portes, l’ha saputa sintetizzare con eloquente efficacia: a suo avviso “la relazione medico-paziente” è definibile come “l’incontro fra una fiducia e una coscienza” (20). L’ asimmetria di questa relazione (“la fiducia è il paziente, la coscienza è il medico”) - sorretta a sua volta da “un’altra relazione altrettanto asimmetrica: quella fra un’ignoranza e un sapere, la prima è ovviamente del paziente mentre il secondo è prerogativa del medico” - sembrerebbe indiscutibile: ma lo è davvero?
Mi pare che un filosofo-consulente abbia il compito di problematizzare nei suoi interlocutori (medici, pazienti o responsabili politici che siano) questa lettura così apparentemente evidente e così realmente atavica, possibilmente procedendo in ordine logico e dunque partendo dal dislivello dei saperi su cui si baserebbe la disimmetria dei poteri. La letteratura in proposito (soprattutto dopo Michel Foucault) è ormai sterminata ma non sempre adatta ad uno scambio di opinioni fra professionisti della filosofia e utenti della consulenza filosofica. Perciò può essere di notevole utilità riprendere alcuni passaggi (riportati da Pohier) della prefazione che Édouard Zarifian ha scritto per un volume di Pascal-Henry Keller (21) : “Ogni malato, grazie alla visione personale della propria sofferenza, possiede un sapere della propria malattia diverso dal sapere puramente tecnico del medico. La scoperta di questo ‘sapere del paziente’ richiede impegno da parte del medico. Instaurare una relazione terapeutica è un’impresa complessa che necessita di un’apertura mentale, una disponibilità e un calore umano che a poco a poco permettono al medico di comprendere ciò che il malato esprime realmente”. Se questo è vero (o nella misura in cui è vero) “la concezione del rapporto medico-paziente” può dunque essere ripensata come “relazione fra una coscienza e un’altra coscienza, e anche (…) fra un sapere e un altro sapere, e dunque” - conclude Pohier non senza una sfumatura d’ironia – “fra un’ignoranza e un’altra ignoranza (poiché ciascuno, medico o paziente, ha la propria)” (22).
Demistificato il primato del medico sul paziente dal punto di vista cognitivo, conseguentemente va rivisto il suo potere decisionale dal punto di vista operativo. Va rivisto non nel senso che si possano negare al terapeuta una competenza ed una conseguente responsabilità che l’ammalato ordinariamente non possiede, ma nel senso che tale patrimonio di conoscenze e di esperienze legittima soltanto un’autorità concepita, etimologicamente, non quale sovranità arbitraria a vantaggio di chi la esercita bensì come capacità di ‘accrescere’ il benessere dei soggetti su cui si ha giurisdizione. Nel campo della sanità questo ribaltamento di prospettiva (qualora fosse riconosciuto ragionevole ed accettato dagli interlocutori interessati) significherebbe non “chiedersi ciò che è permesso o vietato alle altre persone (medici, infermieri, familiari, parenti, eccetera) in materia di lotta contro il dolore, di consenso o rifiuto delle cure, di eutanasia volontaria e di suicidio assistito”, bensì, al contrario, “fare della persona interessata (malato, anziano o infermo) il centro di gravità di tutto il sistema” (23). Significherebbe, in altri termini, “chiedersi quali sono i diritti degli esseri umani sulla fine della loro vita, perché i diritti e i doveri delle altre persone si definiscono a partire dai diritti di coloro che, essendo i diretti interessati, si trovano al centro del sistema” (23).
In realtà, come è stato notato autorevolmente, “nell’ambito della medicina, il dialogo non rappresenta una semplice introduzione o una preparazione alla cura. E’ già una forma di assistenza e prosegue nel trattamento successivo che deve portare alla guarigione. Il tutto si esprime anche nel termine tecnico ‘terapia’ che deriva dal greco. Therapeìa significa servizio” (24). Se è così, il consenso informato (”una formula che viene usata soprattutto per garantire il medico e l’istituzione verso proteste o richieste di risarcimenti da parte dei malati”) dovrebbe costituire solo una tappa di un processo più lungo che miri a “valorizzare la piena partecipazione del soggetto: alla conoscenza, alla terapia, alla prevenzione” (25).

Augusto Cavadi
Filosofo consulente
Palermo
www.augustocavadi.eu

Recapito dell’autore:
Via G. Carducci 3 - 90141 Palermo acavadi@alice.it

Sintesi:

Come il filosofo consulente può collaborare con medici e infermieri impegnati nelle cure di fine vita? Tre le condizioni preliminari: porsi in ascolto degli interrogativi di chi è visceralmente implicato in problematiche laceranti; entrare nell’ottica di chi vede, al di là dei problemi esistenziali personali, le opzioni collettive, politiche; porsi come medium tra il filosofo (che si occupa teoreticamente di questioni etiche) e il consultante (portatore di teorie etiche implicite). Per esempio i non-filosofi hanno teorie irriflesse sia sul significato del dolore; sia sulla legittimità del suicidio; sia su quali dovrebbero essere i rapporti fra medico e paziente.
Compito del filosofo da consulenza non è di contestare queste teorie implicite ogni volta che non le condivida né di tentare, più o meno subdolamente, di sostituirle con proprie teorie. Piuttosto egli deve aiutare l’interlocutore a prendere consapevolezza di ciò che pensa, a problematizzare tali idee, a metterle in confronto con altre concezioni. L’obiettivo finale è diffondere non le idee ritenute ‘vere’ dal filosofo, bensì un processo di consapevolezza critica in quanta più gente possibile.

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How can the Consultant philosopher cooperate with physicians and hospital attendants engaged in the terminal treatments? Three are the preliminary conditions: understanding who is viscerally involved in such painful problems; considering who sees, beyond his existential and personal problems, collective options and politics; behaving as a medium between the philosopher (who theoretically cares about ethical questions) and the consultant (who promotes ethical and implicit theories). For example, not-philosophers do have “unreflected” theories about the meaning of pain; about the legitimacy of suicide; about the relationships between the physician and the patient.
The Consultant philosopher’s task is neither challenge these implicit theories whenever he does not agree with them nor try, more or less deviously, to replace them with his theories. He must help his interlocutor in being conscious of his thoughts, thinking over them and comparing them with alternatives, instead. The main goal is not to spread the thoughts the philosopher considers as true, but to make as many people as possible critically conscious.

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Parole chiave: filosofia, dolore, suicidio, medico, paziente.

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Note:

1. ROVATTI P. A. La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Cortina, Milano 2006
2. ROVATTI P.A., La filosofia, cit., p. Ivi, p. 35.
3. POHIER J., La mort opportune. Les droits des vivants sur la fin de leur vie, Edition de Seuil, Paris 1998; trad. it. (da cui sono tratte le citazioni) La morte opportuna. I diritti dei viventi sulla fine della loro vita, Avverbi, Roma 2004.
4. POHIER J., La morte, cit., p. 233.
5. RAABE P.B., Philosophical counseling: theory and practice, Greenwood, London 2001; trad. it. (da cui cito) Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, Milano 2006, p. 202
6. POHIER J., La morte, cit., p.. 59.
7. POHIER J., La morte, cit., p. 152.
8. POHIER J., La morte, cit., p. 212.
9. POHIER J., La morte, cit., p. 72.
10. POHIER J., La morte, cit., pp. 72 – 73.
11. POHIER J., La morte, cit., p. 73.
13. POHIER J., La morte, cit., p. 74.
14. POHIER J., La morte, cit., p. 76.
14. “Quella della colpa è un’esperienza archetipica con la quale ciascun essere umano deve confrontarsi” (CAROTENUTO A., Soggettività e senso di colpa in AA.VV., Al di là del senso di colpa? Gli interrogativi del dopo-Freud, a cura di A. Lambertino, Città Nuova, Roma 1991, p. 29).
16. GALIMBERTI U., La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 22 – 26.
17. POHIER J., La morte, cit., p. 152.
18. POHIER J., La morte, cit., p. 139.
19. POHIER J., La morte, cit., pp. 152 - 153.
20. POHIER J., La morte, cit., p. 153.
21. POHIER J., La morte, cit., pp. 167.
22. KELLER P.H., La Médecine psychosomatique en question: le savoir du malade , Jacob, Parigi 1997.
23. POHIER J. , La morte, cit., p. 168.
24. POHIER J., La morte, cit., p. 164.
25. GADAMER H., Ueber die Verborgenheit der Gesundheit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1993; trad. it. (da cui cito), Dove si nasconde la salute, Cortina, Milano 1994, p. 137.
26. BERLINGUER G., Etica della salute, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 82.

Bibliografia:
MICCIONE D., La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007
POLLASTRI N. , Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007.
CAVADI A., Quando ha problemi chi è sano di mente. Introduzione al philosophical counseling, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003
SESINO L., “Ho bisogno di pensare”. Consulenza filosofica e Cure Palliative in “Rivista italiana di cure palliative”, 2006, 4, pp. 45 – 50.
CAVADI A., Poco filosofi o troppo psicoterapeuta? Le tribolazioni di una nuova professione, “Janus”, 2006, 24, pp. 119 - 124.

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