martedì 13 giugno 2017

FEDE E RIVOLUZIONE SECONDO MARCO GUZZI


“Centonove”
8.6.2017

QUANDO LA FEDE E’ RIVOLUZIONARIA

Fede e rivoluzione. Un manifesto” (Edizioni Paoline, 2017, pp. 192, euro 14,00) è l’ultimo dei diciassette libri della collana “Crocevia” che Marco Guzzi  ha dedicato alla sua proposta teorico-pratica  di intrecciare una “fede rivoluzionaria” e una “rivoluzione spirituale”  (p. 122).
Dico subito che, forse a differenza di ciò che ritiene l’autore, non è un libro per tutti: chi non condivida la prospettiva cristiana, sia pur in maniera critica, può trarne giovamento solo occasionalmente, cogliendo qua e là spunti sparsi. L’asse portante della proposta è infatti dichiarato con onestà intellettuale sin dalle prime pagine: la fede è “il presupposto umano del progressivo rivelarsi storico della verità, e di ogni verità” (p. 11); “questa fede, in cui tutti ci muoviamo, anche se non ci crediamo, in quanto è l’apertura di senso, il linguaggio, in cui oggi si dà il mondo, è la fede del Figlio, la fede che il Figlio di Dio, Gesù Cristo, ci ha rivelato, e cui facciamo tanta fatica a credere” (p. 12).
In nome e in forza di questa fede è possibile, anzi nel XXI secolo necessaria e urgente, una “Grande Riforma” (p. 15) che sia, simultaneamente, “una radicale riforma del cristianesimo” e “una riformulazione ancora più radicale dell’intero pensiero politico occidentale” (p. 124). Tre le tappe di realizzazione di tale progetto. La prima: “comprendere molto meglio la fase storico-collettiva che stiamo vivendo” (p. 135), caratterizzata  dalla crisi dell’ego avaro e bellicoso e dall’emergere di un io meno concentrato sui beni materiali e più aperto alla relazionalità. Dopo la mossa culturale, il “secondo elemento formativo” è di impronta psicologica (o psicoterapeutica in senso alto): “riconoscere con cura e con pazienza tutti i serbatoi di odio, di rabbia, di vergogna, di paura e di disperazione che alimentiamo ancora nelle nostre profondità” . Infatti “le forze distruttive dell’anima non si curano reprimendole o negandole, né tantomeno mascherandole sotto spessi strati di ipocrisia, ma solo lasciandole emergere alla luce di una coscienza benevola e creatrice, capace di utilizzare in modo costruttivo anche i nostri fuochi più furenti” (p. 139). “Questi primi due elementi formativi non potrebbero però funzionare se non sviluppassimo un terzo elemento formativo che in realtà è il primo, anzi è il centro di tutto il lavoro, cioè la pratica della meditazione e della preghiera” (p. 143).
 Questa breve sintesi non è sufficiente a restituire la ricchezza articolata del “manifesto” di Guzzi, il quale – a mio modesto avviso – presta il fianco, però,  ad almeno tre generi di riserve. Il filosofo troverà deludente l’argomento principale con cui l’autore scarta le visioni del mondo alternative alla religione cristiana. In sostanza egli sostiene che conviene credere in Dio perché, se fosse vero l’ateismo, saremmo costretti a sprofondare, disperati, nel nichilismo. Per certi versi (solo per certi versi) il bivio potrebbe essere o Tutto o nulla: ma non può essere l’angoscia davanti al nulla a farci optare per il Tutto. O ci sono dei dati oggettivi a favore di un Senso assoluto o è più onesto intellettualmente accettare, con coraggio, il Non-senso assoluto. Anche il teologo cristiano potrebbe avanzare delle riserve serie su quei passaggi in cui la differenza fra Gesù e gli altri uomini sembra assottigliarsi sino a scomparire: “la verità è l’Io umano-divino che stai diventando ascoltando e dando credito alle parole di Cristo” (p. 42). Filosofo laico e teologo credente convergeranno, infine, nella perplessità più grave sull’antropologia di Guzzi secondo la quale l’uomo – proprio questo misero esserino apparso, da poco, sulla faccia dell’universo e destinato, tra poco, a scomparire– sarebbe “l’autocoscienza dell’universo” (p. 89); il Soggetto di “una vera e propria ri-Creazione o ri-Generazione antropo-cosmica” (p. 97). Un genio della logica e della mistica come Wittgenstein avrebbe forse invitato Guzzi, dopo averne ammirato lo slancio poetico generoso, a scendere dai trampoli per ritornare a un destino terreno dal futuro tremendamente incerto.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
 

1 commento:

Guido Martinoli ha detto...

Caro Augusto, se è vero com'è vero, che un matrimonio può smettere di funzionare e dunque che sia meglio per tutti scioglierlo, allora perché la formula fatidica prevede ancora la promessa e la pretesa di fedeltà a vita tra i due sposi?
Non sarebbe prima il caso di modificare cotanta procedura e testo?
Giusto per un minimo di coerenza direi.
Guido Martinoli