mercoledì 22 gennaio 2020

ALLE RADICI EPOCALI DEL PEGGIO DI OGGI

“Viottoli”
Anno XXII, 2019, n. 2
     
ALLE RADICI EPOCALI DEL PEGGIO DI OGGI

   La globalizzazione interconnette idee e risorse, ma – inevitabilmente – anche sfide storiche e tragedie epocali. Così, ad esempio, il nostro Paese, slanciato come un ponte naturale fra Europa Africa Asia, deve affrontare non solo (all’esterno) i flussi migratori provenienti da tre continenti, ma anche (all’interno) le reazioni a tali flussi da parte dei potentati più egoisti in combutta con le frange popolari più ignoranti. Una sorta di duplice morsa che rischia di schiacciare la nostra relativamente giovane democrazia.
    A magra – magrissima – consolazione, o forse sarebbe meglio dire: a maggior disperazione, questa duplice pressione attanaglia molti altri Stati formalmente democratici (dalla Grecia alla Spagna). Da qui almeno due domande, per altro strettamente intrecciate: perché stiamo scivolando verso questa brutta china e come possiamo risalire verso livelli di civiltà accettabili?
   In un saggio del 1999 (per la prima volta tradotto in italiano in questi mesi) Edgar Morin ha parlato di una malattia planetaria, radicata soprattutto in Occidente: “la malattia da futuro” (Pensare il Mediterraneo, mediterraneizzare il pensiero. Da luogo di conflitti a incrocio di sapienze, Il pozzo Di Giacobbe, p. 18). Egli si riferisce alla condizione intellettuale e morale dell’umanità che, alle soglie del Terzo Millennio, si trova orfana di una visione del futuro: “Noi abbiamo smarrito le Certezze che ci teleguidavano verso il Futuro. Il progresso non è automaticamente assicurato da nessuna Legge della Storia. Il divenire non è necessariamente sviluppo. Il divenire è ormai problematizzato, e lo sarà sempre, dirà Patocka. Il futuro si chiama incertezza” (ivi). Difficile dargli torto dopo che ideali e ideologie (dal cristianesimo all’illuminismo, dal romanticismo al socialismo) sembrano eclissati per sempre. Che cosa sogniamo per il nostro domani? La diagnosi di Morin è amara, realisticamente amara: “La malattia da futuro s’insinua nel presente e provoca un’angoscia psicologica, soprattutto quando il capitale di fiducia d’una civiltà è stato investito nel futuro. La vita giorno dopo giorno può ammortizzare questa crisi di futuro e fare in modo che, nonostante le incertezze, si continui a sperare individualmente, per sé, a mettere al mondo dei bambini, a progettare il loro avvenire. Ma l’incertezza e l’angoscia erodono in profondità. La crisi di futuro suscita la rivincita del passato. Quando il futuro è perduto e il presente è malato, allora non resta che rifugiarsi nel passato, cioè a dire nel ritorno alle radici etniche, nazionali, religiose” (pp. 18 – 19).
 Se queste considerazioni del grande pensatore francese sono fondate, possiamo – con lui, oltre lui – trarre alcune indicazioni operative (ovviamente parziali, da integrare con cento altre piste).
  La prima: inventare nuovi scenari di speranza per l’umanità. E’ il compito dei profeti, dei pensatori, dei poeti, dei sognatori, ma direi che da oggi in poi essi debbano adottare come pista di decollo le acquisizioni più solide delle scienze naturali e umane. Solo se prendiamo sul serio le lezioni dell’astrofisica (che ci dice quanto conti davvero nell’universo il nostro pianetino e quanto sia prevedibilmente breve la sua permanenza) o le lezioni della biologia (che ci dice quanto sia decisiva la cooperazione solidale all’interno di ogni specie animale per assicurarne l’adattamento all’ambiente e la sopravvivenza) possiamo costruire dei progetti ideal-politici per i quali le nuove generazioni possano decidere di impegnare le energie, ben al di là delle polemiche provinciali da cortile fra partitini assetati di poltrone.
   Una seconda indicazione suggerisce di aprire cantieri di lavoro dove possano incontrarsi e scambiarsi le ipotesi di intervento – nel massimo rispetto possibile del pluralismo – quanti si riconoscono in un medesimo scenario di speranza collettivo. Non basta aver abbandonato i dogmatismi teologici/ideologici del passato se, poi, trapiantiamo il medesimo atteggiamento fondamentalista/assolutista sul piano delle proposte pratiche in risposta alle problematiche contingenti. Per fermarci a un solo esempio: come attuare l’accoglienza dei flussi migratori in Europa? E’ chiaro che non si potrà arrivare a decisioni sensate finché al tavolo dei Primi Ministri europei siederanno in stragrande maggioranza esponenti di una visione dell’Europa come fortezza assediata che deve difendere, con tutti i mezzi, i privilegi accumulati proprio sfruttando negli ultimi cinque secoli le risorse naturali e umane del resto del pianeta. Da questo fronte non potranno continuare ad arrivare che risposte sbagliate a preoccupazioni fondate. Ma all’interno di quelle formazioni partitiche e organizzazioni sociali che hanno una diversa consapevolezza della storia - e, conseguentemente, una diversa prospettiva per il futuro -  non è forse lecito il libero dibattito su come realizzare, in concreto, una politica dell’accoglienza? Le questioni complesse non ammettono risposte semplici. E dobbiamo riconoscere che sinora sono state errate le risposte dei governi tendenzialmente conservatori, ma anche dei governi tendenzialmente progressisti. Forse, questi ultimi, in peggio rispetto ai primi – smaccatamente xenofobi e razzisti – si sono dimostrati ipocriti, decidendo di delocalizzare  in territori, come la Turchia e la Libia, retti da regimi  violenti, il lavoro sporco di selezionare, con metodi nazisti, i fuggiaschi da due continenti (senza considerare il sistema mafioso-corruttivo a cui è stata appaltata la gestione dei centri di accoglienza in Italia).  
  Sia la costruzione di grandi scenari di speranza sia l’individuazione di soluzioni settoriali contingenti presuppongono un livello medio di istruzione da cui siamo molto lontani. Non mi riferisco soltanto alla comprensione linguistica di testi elementari (registro sul quale, secondo gli esperti, siamo già carenti), ma anche alla capacità di discernere criticamente in un testo – letto su un quotidiano o su una pagina del web, ascoltato alla radio o alla televisione – ciò che è certo, ciò che è probabile e ciò che è manifestamente falso. Da qui una terza indicazione operativa (che ricavo, ancora, da Edgar Morin):  attivare, dentro e fuori dalle agenzie educative tradizionali (scuola, università, sindacati, partiti, chiese, associazionismo) dei percorsi di paziente, capillare, costante “democratizzazione della conoscenza”. Che guadagno si avrà, in termini di Bene comune, se all’estensione del diritto di voto non corrisponderà una proporzionale estensione del dovere di formazione? Ormai abbiamo le prove oggettive di quanto si possano condizionare le opinioni dei cittadini investendo somme di denaro nei circuiti dei mass-media in generale, di internet in particolare. Dove trovare l’antidoto a queste epidemie di menzogne e di odio se non in una moltiplicazione di oasi in cui le persone di retto volere possano imparare a filtrare le ondate incessanti di notizie, a soppesarle al vaglio della conversazione con esperti fidati e della meditazione silenziosa solitaria, a sostenersi vicendevolmente nel rinnovare le motivazioni etiche all’impegno quotidiano per un mondo più vivibile?  Non so se queste oasi possono essere le comunità di base o, comunque, le migliaia di esperienze di impegno civile diffuse nel territorio, ma concordo con Jürgen Habermas sulla necessità di tener vive e aggregate le “minoranze morali” di ogni generazione. Non voglio sottovalutare le mobilitazioni di massa, i cortei, gli scioperi. Sono però convinto che le manifestazioni plateali possono andare bene una o due volte l’anno, ma hanno senso solo in quanto epifenomeni di una tessitura sotterranea che perduri per gli altri trecento sessantaquattro giorni. La logica delle catacombe va coniugata con le strategie di ampio respiro: non illudiamoci, soprattutto in tempi particolarmente oscuri, che le svolte auspicate possano provenire dall’apparizione provvidenziale di leader carismatici. Come insegna anche l’attuale pontificato di Francesco, è molto più facile trascinare le maggioranze conformiste verso gli abissi che verso le vette. 

Augusto Cavadi
“Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo
www.augustocavadi.com

1 commento:

Ato ha detto...

Siamo ancora troppo occupati a denigrare "l'altro", per cercare di nascondere la nostra personale incapacità di assumerci RESPONSABILITA' ‼️La pagliuzza nell'occhio del vicino...