venerdì 24 settembre 2004

FORMAZIONE E VITA DEI SACERDOTI


“Repubblica – Palermo” 24.9.04

Augusto Cavadi 


I sacerdoti nel dramma dei mali siciliani 

L’abbiamo letto ieri su queste stessse colonne: in questi giorni riaprono non solo scuole e università, ma anche seminari e facoltà teologiche. Anche i futuri preti (ma, si potrebbe aggiungere, le future suore) tornano sui banchi: in che contesto, ecclesiale e sociale? Con quali problematiche, personali e istituzionali? Con che prospettive, soggettive e collettive?  Con la solita acutezza e franchezza, don Vincenzo Noto ha accennato ad alcune delle ‘piaghe’ (avrebbe detto Rosmini) della situazione attuale: gli aspiranti al sacerdozio sone sempre meno numerosi, a quei pochi che perseverano viene chiesto sempre di più (in termini non solo quantitativi ma anche qualitativi) e, come se ciò non bastasse, credenti e laici non si preoccupano minimamente di accompagnare la formazione umana, culturale e spirituale dei futuri presbiteri. Salvo poi, nei momenti ‘ufficiali’ (soprattutto battesimi, matrimoni e funerali), a chiedere il loro servizio, anche nel caso che non si sia cattolici convinti e praticanti.

Anche se don Noto non ha occasione di farvi riferimento, la sua accorata denunzia coincide cronologicamente con una Lettera pastorale dal titolo eloquente (“Diamo un futuro alle nostre parrocchie”) che mons. Cataldo Naro (arcivescovo di Monreale, dunque della stessa diocesi di Noto) ha proprio in questi giorni pubblicato e distribuito (facendone pervenire, con squisita sensibilità, una copia anche a me). Dunque l’invecchiamento dei preti che ci sono e la difficoltà di trovarne di nuovi costituiscono motivi di preoccupazioni non solo fondate, ma condivise. In risposta all’invito  - che viene rivolto anche ai laici – di partecipare alla “discussione”, mi permetterei di proporre tre o quattro notazioni telegrafiche.

La prima riguarda quello che per don Noto (ma non per me) sarebbe “il vero nocciolo del problema”: comunità cristiane e società civile non mostrano alcun “interesse” alle vicende interne dei seminari. Ma ci siamo chiesti che possibilità pratiche, concrete, effettive avrebbero l’artigiano di Bagheria, la professoressa di Termini Imerese o il giovane universitario di Villabate di far sentire la propria voce? Quali canali di partecipazione democratica sono previsti  - sulla carta e soprattutto nella realtà – all’interno della Chiesa cattolica attuale? Come intuizioni, desideri, bisogni, proposte del “popolo di Dio” potrebbero  - se espresse – trovare diritto di ascolto e dunque di accoglienza o, in alternativa, di motivato rifiuto?

Ma – e passo ad una seconda notazione – se questi luoghi del “confronto” ci fossero, e venissero utilizzati, la maggioranza dei cattolici praticanti (non metto in conto psicologi, sociologi, consulenti filosofici e storici perché se no mi rendo il gioco dialettico troppo facile) sarebbe d’accordo nel contribuire alla formazione di sacerdoti che rispondano all’identikit attuale? Cioè: lo vorrebbero rigorosamente maschio (ad esclusione di donne e gay)? Lo vorrebbero impegnato per la vita alla solitudine celibataria (concedendogli soltanto relazioni ufficiose purché clandestine)?  Lo vorrebbero allevato nella campana di vetro di istituzioni claustrali, come i seminari (o non raccomanderebbero, come San Paolo nelle sue lettere, che chi è destinato a guidare una grande famiglia abbia avuto prima il modo di dimostrare di essere in grado di gestirne una piccola)?

Nella sua bella Lettera pastorale, mons. Naro espone le sue strategie per “il superamento dell’autosufficienza” (illusoria, più che effettiva) della parrocchia come si configura attualmente. Egli auspica che essa si apra al territorio offrendo una molteplicità di servizi (dunque diaconi, ministri straordinari della comunione, accoliti, lettori, catechisti etc.). Ma non sarebbe il caso di accennare – dopo aver detto che cosa la parrocchia può dare – a ciò che essa può e deve chiedere? Il territorio è solo campo di missione unidirezionale da parte dei cattolici o non è anche un laboratorio antropologico dove i cattolici possono imparare dagli operatori sociali, dagli amministratori locali, dai medici, dagli insegnanti, dai sindacalisti? La parrocchia  - piccola chiesa – non dovrebbe seguire le indicazioni che l’ultimo Concilio universale dei vescovi ha dato ai cristiani: di mettersi a fianco di tutti “gli uomini di buona volontà” per affrontare insieme, senza primogeniture né paternalismi, le sfide della storia (fame, guerra, ingiustizia strutturale, corruzione politica, mafia)? In Sicilia questo non dovrebbe significare che le chiese cattoliche, oltre a ringraziare il governo regionale per le varie provvigioni finanziarie (più annunziate che elargite), aprano la bocca per dire una loro parola sullo stile amministrativo e le frequentazioni accertate (non parlo di ciò che è ancora sub judice) del presidente e dei suoi assessori?   

La questione più radicale  è comunque un’altra ancora. Al di là degli aspetti pedagogici e organizzativi, tutto sommato secondari per quanto rilevanti, la secolarizzazione come fenomeno mondiale pone degli interrogativi colossali: che posto deve avere il sacro nell’esperienza quotidiana della gente? Dio, se c’è, parla - prima di tutto ed essenzialmente - attraverso i riti dei suoi ‘rappresentanti’ (siano essi rabbini, preti o imam) o nella coscienza delle persone? E la risposta dell’uomo alla parola di Dio che lo interpella passa – prima di tutto ed essenzialmente -  attraverso le labbra dei fedeli che celebrano o attraverso le mani che curano le ferite dei derelitti? E questa eventuale risposta di amore servizievole al fratello che non ha più lacrime per il suo dolore (“Non chi dice ‘Signore Signore’ entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”…), dev’essere una risposta soltanto soggettiva, individuale, o deve farsi progetto politico e azione organizzata che incida durevolmente nella storia dell’umanità? Non credo che si possa provare a rispondere con leggerezza a domande del genere. Credo però che si possa affermare che in esse consista “il vero nocciolo del problema” e che esse soltanto possano stimolare il contributo critico di quanti sono seriamente interessati a capire come va il mondo.

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