“Repubblica – Palermo”, 9.5.04
Augusto Cavadi
Il professore comunista che indaga sull’attualità.
Da quarant’anni partecipa al dibattito culturale e politico europeo, insistendo soprattutto sul paradosso dello Stato che si proclama difensore del cittadino ma, in realtà, lo impoverisce dei legami sociali e lo trita nei propri meccanismi. I titoli di alcuni libri – come L’individualismo proprietario del 1987 – sono diventati formule di uso comune. Conosciutolo in qualche convegno, avevo ricavato l’impressione di una persona autorevole (“più che parlare, pensa a voce alta” aveva commentato una studentessa alla fine di una sua conferenza qualche anno fa), ma un po’ scostante. Adesso, per la prima volta, lo incontro senza l’apparato ufficiale di tavoli e pedane che lo innalzano - e un po’ lo isolano: e mi sembra più piccolo, più accessibile. Direi – con quel sorriso da bambino furbo ma mite - un po’ indifeso.
Gli chiedo se la sua vocazione originaria siano stati i libri o le battaglie politiche. “Tutto è cominciato con una lite. Mio padre mi aveva iscritto dai Salesiani e, in effetti, ho trovato un bravo religioso che insegnava filosofia. Ma, quando gli ho detto che il peccato originale era solo un’invenzione per mantenere la gente in stato di soggezione, abbiamo rotto. Diventai ateo, ma anche autodidatta. Un conoscente mi concesse di spulciare fra gli scaffali dove i libri dell’Einaudi aspettavano di essere distribuiti per la Sicilia orientale: e fu per me la scoperta del mondo. Procedevo nel disordine più totale: folgorato da Kierkegaard, saltavo da Freud alla teologia protestante del XX secolo, senza conoscere Hegel. Avvertii la vera passione della mia vita: indagare con curiosità il mio tempo, fare – per dirla con Foucault - la diagnosi dell’attualità. Mi confrontavo anche con il padre di un mio amico, il professor Giacobbe, indimenticabile figura di ebreo comunista. Dopo la laurea mio padre impose un ultimatum: o diventi insegnante entro pochi anni o vieni a lavorare nel mio studio di avvocato. Mi gettai allora a capofitto nel diritto, vinsi la cattedra universitaria e mi resi autonomo: potevo spaziare intellettualmente, senza rendere conto a nessuno, inseguendo i miei interrogativi più disparati. Da allora sono rimasto un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio. Con serietà, ma solo per diletto”. Uno dei suoi primi scritti tocca l’economia e il grande Federico Caffè lo chiama per dirgli: “Il saggio d’interesse, che è l’argomento del tuo saggio, non l’hai capito bene: ma per il resto hai intuizioni davvero interessanti”. La filosofia, la psicanalisi (soprattutto mediata da Castoriadis, l’esule greco che fonda a Parigi – con Lefort e Morin – la celebre rivista “Socialismo o barbarie”), la politica: questi tre amori ne fanno un meticcio della ricerca.
Ma nel 1973 la svolta della sua vita: l’intreccio intellettuale si complica, e si arricchisce, diventando anche impasto con la pratica. Barcellona organizza a Catania un convegno europeo sull’uso alternativo del diritto. Secondo il suo stile - guardare i saperi andando oltre i saperi – vuole soppesare il diritto per svelarne presupposti impliciti e conseguenze sociali. La risonanza dell’avvenimento (Laterza pubblica gli interventi più significativi) gli attira le ire dei fascisti: dunque anche minacce, anche aggressioni. Il PCI, vedendolo isolato all’interno di una facoltà “che è stata sempre conformista e tradizionalista”, gli propone la tessera: un modo per proteggerlo, ma anche per fruirne la vivacità propositiva. Accetta ed è subito cooptato nel comitato regionale. “Conobbi Ingrao, ne divenni amico, seguii le sue richieste: segretario cittadino del partito, poi membro laico al Csm, poi parlamentare. L’esperienza della prassi mi ha arricchito come uomo e come pensatore. Venivo da una famiglia borghese, non parlavamo neppure il dialetto, avevo una visione astratta della società. Come militante fui costretto ad immergermi nella concretezza del ‘popolo’ effettivo. Ingrao mi aveva raccomandato che, da segretario cittadino, avrei dovuto almeno incendiare il municipio: mi limitai ad occuparlo con i senza-casa delle periferie. In giro per le sezioni, mi facevano mangiare il ‘sangele’, una sorta di budello pieno di sangue bovino: poi, a casa, stavo davvero male. Però questa contaminazione vitale mi liberava dal radicalismo dei teorici. Gradualmente, ma irreversibilmente, capivo che la politica è mediazione nel senso alto della parola: meglio amministrare decentemente una città che morire da eroi all’opposizione. Tutto ciò ha modificato anche il mio modo di vedere il mondo: non da una sola angolazione, ma da molte e differenti”.
Gli chiedo come visse la svolta del Partito Comunista alla Bolognina. “E’ stata una scelta devastante” risponde. Che il marxismo dovesse essere ripensato non c’era dubbio. Ma Occhetto ha inanellato un errore dopo l’altro. Intanto, all’interno, ha travisato la posizione di quanti da anni lavoravamo con Ingrao, al Centro per la riforma dello Stato, per una revisione delle dottrine classiche in chiave critica: ha accusato di ‘conservatorismo’ proprio noi che avevano ideato e realizzato le aperture più coraggiose, coinvolgendo ad esempio gli indipendenti di sinistra come Rodotà. Poi, all’esterno, ha cominciato a chiedere perdono per crimini che il partito comunista italiano non ha mai perpetrato. Si è vergognato di una tradizione gloriosa. Ero e sono convinto, al contrario, che il PCI – come del resto la DC – non sono stati bande di delinquenti, ma i pilastri della democrazia italiana. Il PCI non è stato mai leninista: se mai, ma senza dogmatismi, gramsciani”.
Eppure, “più ingraiano di Ingrao”, Barcellona resta nel partito per altri cinque anni. Non va con Rifondazione (“Credevo nella necessità di non frantumare l’unità. E poi non mi ha mai convinto l’estremismo di Bertinotti: la politica non si fa sperando di non arrivare mai al potere, se no è testimonianza”). Accetta, uscito Ingrao, di presiedere il Centro per la riforma dello Stato: ma – “a riprova del fatto di essere uno sciamano, non un capo” – “combino un po’ di guai e mi sfiduciano”. “Tra l’altro, in quegli anni, sono stato molto critico verso l’inedito matrimonio fra sinistra e giustizialismo. Il PDS ha dimenticato la differenza fra diritto e politica, affidando ai magistrati il compito di abbattere gli avversari. Ha dimenticato che il giudice deve reprimere i reati individuali, non riformare i sistemi. Cancellare il confine fra la giustizia e la politica significa aprire la strada al berlusconismo: farsi le leggi a propria misura, in nome del consenso elettorale, è la perversione opposta, ma simmetrica, di chi ha delegato al protagonismo dei giudici la lotta politica. Urge ristabilire la differenza fra la regola e la forza: altrimenti ci condanniamo definitivamente all’imbarbarimento della vita civile consumato da Bush a livello mondiale e dai suoi mediocri imitatori a livello nazionale”.
Dal 1997 non prende più nessuna tessera: “Capisco rivedere il marxismo, io stesso adesso mi definirei comunista solo in quanto ho una visione umanistica del cosmo. In quanto penso che l’uomo in carne ed ossa debba avere la priorità rispetto alle leggi dell’economia capitalistica. Ma non si può abbandonare anche questa priorità per inseguire le mode americane. Su questo punto aveva ragione Augusto De Noce quando avvertiva, da cattolico molto tradizionalista, che se il comunismo storico avesse perduto ogni fondazione etica si sarebbe ridotto all’alienazione del consumismo. Che hanno fatto i DS ? Stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale…” . Senza più tessere in tasca, da “comunista privato”, si dedica a due progetti che gli stanno molto a cuore.
Il primo lo riguarda come docente dell’università di Catania dove, con altri colleghi, si attiva per la fondazione del Centro Braudel perché “il Mediterraneo è un meraviglioso laboratorio di coesistenza degli opposti. E’ il luogo dove il conflitto non è negato, ma - come nella tragedia – rappresentato. E, per ciò stesso, in qualche misura, controllato”. Mi consegna un dossier con la programmazione del Centro: gruppi di ricerca in varie università europee, colloqui internazionali, corsi di dottorato, masters…Vedo che ricorre insistentemente la questione del rapporto fra globalizzazione e processi locali. “In effetti – aggiunge – il mondo si cambia a partire dalla propria relazione col vicino di casa: troppe persone sono generose con gli abitanti del Chiapas e fetenti col venditore ambulante dell’angolo”.
Del secondo ambito di attività , che lo riguarda nella sfera più privata, parla con un pizzico di pudore ma con la malcelata soddisfazione di chi si appresta a stupire ancora una volta. “Sì, lo confesso con piacere: sono anche un pittore. Ho esposto in varie città, di recente anche a Roma e a Firenze. Sarei contento di far conoscere i miei quadri pure a Palermo. Ma, secondo i luoghi, bisognerebbe operare una selezione. Forse certi nudi risulterebbero troppo audaci…”.
L’accenno alla pittura non è una nota, per così dire, di colore. Forse è l’esplicazione migliore di quello che, nel corso della conversazione, Barcellona mi aveva sottolineato come il filo rosso della sua caleidoscopica riflessione: “La minaccia epocale è oggi lo scientismo che comprime tutto alle sole dimensioni della scienza e della tecnica. Il mito americano ha successo presso i superficiali perché esalta lo strapotere dell’uomo sulla natura. Ma questo è gravemente riduttivo dell’uomo stesso. Non siamo riducibili solo al razionale e al funzionale: siamo anche magma immaginativo, macchina di simboli, eredità mitica”.
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