“Repubblica – Palermo” 27.5.04
Augusto Cavadi
Dietro la nuova protesta per un prete trasferito
La lettera (ospitata sabato) di alcuni parrocchiani di Chiusa Sclafani potrebbe restare l’appello, sinceramente accorato ma tutto sommato di rilevanza circoscritta, dei ‘soliti’ fedeli che chiedono – senza essere accontentati – la revoca del trasferimento in altro Comune di qualche prete che si sia fatto apprezzare per apertura e dinamicità. L’episodio, in sé modesto, suggerisce però considerazioni di più ampio respiro che rientrano in un dibattito per nulla ‘provinciale’. D’altronde non è il primo caso né, probabilmente, resterà l’ultimo: la cronaca nazionale registra vicende simili, magari con qualche nota di colore dovuta a iniziative - per esempio l’occupazione dei locali parrocchiali – più clamorose che non l’invio di una lettera ai quotidiani.
La prima cosa che colpisce è il fervore, apparentemente anacronistico, con cui queste battaglie sono ancora combattute. Nell’era della secolarizzazione, ci sono comunità civili che vedono la chiusura di una parrocchia come un evento seriamente preoccupante. Niente di simile accade, a quanto mi risulta, se si sposta una stazione dei carabinieri o se viene trasferito un dirigente scolastico particolarmente efficiente. Può piacere o dispiacere, ma l’aggregazione religiosa resta - nella crisi dei partiti, dei sindacati, dell’associazionismo laico – una delle ultime riserve di identificazione e di socializzazione. Ci sono quartieri nelle città e interi agglomerati urbani dove, lontano dall’ombra del campanile, si sperimenta il deserto delle proposte culturali e operative. Se la diagnosi è corretta, le gerarchie ecclesiastiche dovrebbero riflettere sulla responsabilità che grava sulle loro spalle e gli esponenti delle istituzioni pubbliche e private sulle ragioni della propria scarsa incidenza nel territorio. La storia insegna che i monopoli non giovano a nessuno: alla distanza, neppure a chi ne è titolare. Una città vive dell’intreccio di vari progetti, della possibilità per ciascuno di giocare contemporaneamente molti ruoli: membro di una comunità religiosa, se vuole, ma anche socio di una cooperativa, militante di un movimento ambientalista e sostenitore di un club artistico. Un eventuale pluralismo delle offerte formative, sociali e ludiche – a Chiusa Sclafani come altrove - potrebbe solo giovare alla dinamicità della convivenza civile, alleggerendo la gravità di eventuali difficoltà in questo o quell’ambito settoriale.Ma – entrando nello specifico dell’ottica teologica – non può non colpire il linguaggio con cui gli interessati hanno formulato il loro disagio e la loro protesta: “la nostra comunità è stata animata sempre da una fede autentica che ci ha abituato al rispetto e all’accettazione rassegnata di tutto quanto proveniente dall’alto, ma questa volta vorremmo capire il perché del trasferimento di un giovane sacerdote e conseguentemente della chiusura di una parrocchia viva e attiva…”. Viene irrefrenabile chiedersi: dove sta scritto che “una fede autentica” comporta “accettazione rassegnata di tutto quanto proveniente dall’alto”? Stiamo parlando della disciplina in un esercito o delle relazioni all’interno di una comunità di fratelli? Non è stato lo stesso Gesù di Nazareth ad asserire che nessuno deve osare farsi chiamare maestro o padre dal momento che “uno solo è il vostro Padre, quello celeste” (cfr. Matteo, 23, 9) ? A me pare francamente riduttivo interpretare le tensioni fra una comunità ed il proprio vescovo in chiave di correttezza personale o di compatibilità caratteriale: “speravamo tanto che il padre benevolo e affabile avrebbe ascoltato le nostre motivazioni e avrebbe cercato di accontentarci. Invece siamo rimasti delusi e amareggiati per come si è espresso nei nostri confronti”. Si stenta a credere che Monsignor Cataldo Naro, uno dei vescovi più illuminati e più saggi dell’intero episcopato meridionale, abbia davvero - “rimproverando” “con tono incalzante e inquisitorio” – intimidito “chiunque cercasse di chiarire e di chiedere”. Comunque, il nodo della questione non è qui. Se si accetta come ovvia e indiscutibile l’attuale organizzazione ecclesiale, un vescovo che fosse umanamente più comunicativo e più affabile, o anche solo più diplomatico, resterebbe l’autorità cui, senza possibilità di appello, spetti decidere sull’allocazione dei sacerdoti diocesani. Ecco perché la teologia progressista – non so quanto minoritaria, nonostante le dure censure vaticane che hanno colpito docenti del calibro di Hans Küng e di Leonard Boff – si interroga da decenni proprio sulla corrispondenza dell’attuale struttura gerarchica della Chiesa cattolica con il modello evangelico originario. Anzi, alcuni anni fa, un movimento internazionale – “Noi siamo chiesa” - che ha raccolto milioni di adesioni in Europa, prima, e nelle Americhe, dopo, ha riproposto – anche qui in Sicilia - la democraticità delle decisioni ecclesiali come uno dei punti qualificanti delle sue riflessioni e delle sue petizioni. Prurito di modernismo? Scimmiottamento degli ordinamenti civili, per giunta neppure tanto esemplari, come le democrazie contemporanee? Anche se non è molto noto, già nell’Ottocento il cattolicissimo Antonio Rosmini indicava, come una delle cinque “piaghe della Chiesa”, il fatto che un papa lontano nominasse, dall’alto, i vescovi locali, a differenza della prassi originaria per cui ogni comunità di fedeli eleggeva, dal basso, il proprio pastore. In questa normativa verticistica, Rosmini vedeva una delle tante sconfessioni dell’antico principio – maturato proprio in ambito cristiano – secondo cui “ciò che interessa tutti, da tutti dev’essere deliberato”.Almeno una terza, ed ultima, considerazione va fatta. Non c’è dubbio che, come insegna la sociologia, ogni assemblea esige una presidenza che coordini, animi e rappresenti l’unità degli intenti. Per molti secoli questa presidenza è stata affidata non a cristiani ‘speciali’, appositamente educati fuori dal contesto quotidiano ‘normale’ per essere consacrati con un’impronta ‘ontologica’ indelebile, bensì a padri di famiglia che dovevano sbarcare il lunario con la fatica del loro mestiere. Il prete era, di volta in volta, il ‘presbitero’ che in greco significa – molto semplicemente – “il più anziano” dei presenti: a lui spettava garantire che la lettura della Bibbia e lo spezzare del pane avvenissero con compostezza, in armonia reciproca. Poi, in seguito a vicende storiche complesse e a polemiche oggi incomprensibili, la Chiesa cattolica ha fatto del sacerdozio una specie di categoria a sé stante rispetto al resto dei fedeli, imponendo una serie di obblighi di cui l’astinenza sessuale perpetua resta il più eclatante. Col risultato che una comunità, come la parrocchia di Chiusa Sclafani, non riesce neppure a concepirsi in regime di autogestione: non riesce neppure a immaginare come potrebbe fiorire se valorizzasse i ‘carismi’ del suo laicato, anche senza la presenza continua di un ‘prete’ ufficialmente ordinato. Ma anche su questo punto nel mondo cattolico fervono, nonostante gravi reprimende del Vaticano, dibattiti e sperimentazioni che, in sostanza, tendono a relativizzare la differenza fra chi guida e chi è guidato; a rivalutare il ruolo dei ‘battezzati’; a riscattare le donne da una secolare e ingiustificabile emarginazione; soprattutto a riscoprire il fondamento comunitario di ogni ministero individuale. Il giorno in cui (grazie ad una autentica libertà di ricerca teologica e ad una diffusione capillare dei risultati di tale ricerca) sarà chiaro per tutti che non è il prete che dà senso e legittimità all’assemblea dei fedeli, ma l’assemblea dei fedeli che dà senso e legittimità al ministero presbiteriale, molte tensioni contingenti all’interno del mondo cattolico si scioglierebbero come neve al sole.
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