martedì 5 settembre 2006

A PROPOSITO DEI RITI PER LA SANTUZZA


”Repubblica – Palermo” 5.9.06

SACRO E PROFANO

Il sacro nella società contemporanea a proposito del pellegrinaggio multietnico alla grotta di santa Rosalia: parliamone - invita sul nostro giornale don Carmelo Torcivia – al di là dei dogmatismi ecclesiastici ma anche dei pregiudizi tardoilluministici. Invito santo, verrebbe da dire: purché si sappia che si entra in territori esplosivi. Cos’è infatti il sacro secondo l’antropologia contemporanea? Se lo usiamo, inoffensivamente, come sinonimo di ‘religioso’, ‘confessionale’, ‘rituale’ possiamo intrecciare pacifiche conversazioni accademiche. Ma se scaviamo un po’ più dentro il significato del termine, ci imbattiamo - già con il fenomenologo Otto - in una definizione inquietante: sacro è tutto ciò che affascina e atterrisce. E che cosa attira e respinge l’essere umano più che il vuoto, il nulla, la morte? Sacro è dunque tutto ciò che ci mette al cospetto della morte, che ci immerge nell’angoscia dell’annullamento e ci fa balenare una qualche forma di restituzione a noi stessi: una qualche forma di ‘salvezza’. Già questa prima, generica concettualizzazione mette in crisi molte affermazioni correnti.

Per esempio che le nostre processioni rumorose e sbadiglianti dietro ad una statua della Santuzza o della Madonna siano manifestazioni ‘sacre’ (sia pur impastate di ‘profano’): forse sono invenzioni collettive ‘profane’ per esorcizzare il ‘sacro’. Un po’ come abbiamo rischiato qualche anno fa a Segesta quando una lungimirante amministrazione locale paventava l’erezione di un parco mistico nella zona archeologica: una sorta di festival idolatrico (in quanto centrato su enormi statue di Redentori e Padri Pii) destinato a vanificare l’aurea di sacralità - di silenzio, di smarrimento, di spiazzamento rispetto alle certezze quotidiane – che il tempio greco emana e custodisce.
Non tutte le manifestazioni cultuali sono dunque ‘sacre’. Ma bisogna aggiungere: per fortuna. Perché l’antropologo cattolico René Girard ha scritto negli ultimi decenni diversi volumi per dimostrare che il sacro, proprio in quanto scaturisce dall’angoscia del nulla, provoca violenza. Non accidentalmente: piuttosto per essenza. Dove c’è sacro c’è ricerca di un capro espiatorio, sacrificio, sangue: ragazze vergini, prigionieri di guerra, primogeniti d’animali, ma anche infedeli da infilzare, eretici da bruciare, omosessuali da ghettizzare.
Se questi cenni sono fondati, non possono essere differite nel tempo le possibili terapie. La prima riguarda i teologi cristiani: a cui spetta il compito - per la verità non lieve – di mostrare che Girard ha ragione di sostenere che l’unica religione non ‘sacra’ (cioè: non violenta) è il vangelo. E, conseguentemente, il compito di vigilare sulle comunità cristiane affinché non riproducano al proprio interno i meccanismi ‘violenti’ (emarginazione, persecuzione, giustizia vendicativa…) tipici di ogni altra religione. La seconda terapia riguarda non solo i teologi, ma ogni intelligenza responsabile: per dirla con Paul Tillich consiste nell’usare il profano per purificare continuamente il sacro. In altri termini: usare le acquisizioni scientifiche (storiche, esegetiche, psicologiche, sociologiche, etnologiche…) per ripensare continuamente la dimensione religiosa, evitandone le derive infantilistiche ed esaltandone le risorse etiche. Solo se chi vive un’esperienza di fede teologica accetta le sfide della laicità più avvertita, provando – come dice un brano neotestamentario - a “rendere ragione della speranza” che è in lui, si può camminare verso la città del futuro: dove si sentano a casa i credenti di ogni orientamento, anche quelli che credono soltanto nella giustizia, nella libertà e nella bellezza in questo mondo.

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